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Interessante intervento di don Nicola Bux sulla "Comunione in mano"

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Intervento alla presentazione del libro di Mons. Laise, 24.10.2015

Conferenza del 26.9.2013

Il continuo martirio dei cristiani in Siria

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Continua la testimonianza di sangue dei martiri cristiani in terra siriana e nel Vicino Oriente per mano del sedicente califfato islamico (v. qui e qui), sostenuto da alcuni governi … (v. qui), dagli errori e malefatte di molti occidentali (v. qui),  e dimenticati, più o meno volutamente, pressoché da tutti (v. quiqui e qui). 
Tutti? Non proprio. Tranne da il vituperato - in Occidente - governo russo, che sta offrendo un aiuto concreto alle popolazioni di quelle terre (v. qui e qui). 
Nella sofferenza, la fede di quei cristiani si rafforza (v. qui).

E questo avviene mentre l’Occidente, imbelle ed impregnato dal pensiero debole e debosciato (v. qui), sta morendo abbandonandosi a scempi, profanazioni e demolizioni anche per far posto .... a moschee (v. quiqui e qui). Giustificate addirittura per legge e dai giudici (v. qui). Nell'Occidente opulento, laico ed ateo, a parte le questioni gender, una delle preoccupazioni è decidere se lo scimpanzé sia o no una persona (v. qui) o "delocalizzare" i presepi (v. qui). Il che la dice lunga come sia messo. 
A differenza di quanto avviene in terra russa (v. qui), dove con lungimiranza, e con maggior senso storico delle origini della religione islamica (v. qui), si è compreso, ad es., pure che il fenomeno immigratorio di questi tempi è orchestrato ed è una vera e propria invasione musulmana, che bisogna contrastare adeguatamente, rinviando indietro i c.d. profughi islamici (v. qui), evitandosi di fare discorsi sull'accoglienza come ha anche ricordato, peraltro, in ambito cattolico il 

patriarca della chiesa cattolica greco-melkita, Gregorio III Laham (v. qui).
Nella vigilia della festa di Ognissanti e nella memoria di S. Alfonso Rodriguez, confessore, rilancio quest’articolo de Il Foglio.


Francisco de Zurbarán, Visione di S. Alfonso Rodríguez, 1630, Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid


Artista sconosciuto posteriore ad Anton Wierix II, S. Alfonso Rodríguez, XVII sec., Philadelphia Museum of Art, Philadelphia

Undici cristiani decapitati e crocifissi in Siria. 
Sulle croci il cartello “infedele”


di Matteo Matzuzzi


I dettagli circa la strage degli undici cristiani nei dintorni di Aleppo sono stati divulgati da Christian Aid Mission

Undici cristiani siriani, appartenenti a un gruppo attivo nell’assistenza delle popolazioni locali, sono stati decapitati e crocifissi lo scorso mese nei dintorni di Aleppo. Ne ha dato notizia l’organizzazione no profitstatunitense Christian Aid Mission, con sede a Charlottesville, in Virginia. Agli undici era stata offerta la possibilità di salvarsi, lasciando la propria casa e rinnegando la fede in Cristo. Dieci di loro hanno rifiutato, mentre il più piccolo del gruppo (un dodicenne) è stato prima torturato e poi ucciso davanti al padre, il capo missione, che si era rifiutato di “tornare all’islam”. Il direttore del gruppo, 41 anni, in cui erano impegnati gli undici (il cui nome non è stato divulgato per ragioni di sicurezza) ha confermato a Christian Aid Mission l’accaduto, spiegando che aveva suggerito loro di abbandonare al più presto la regione, considerata l’avanzata delle milizie del califfo Abu Bakr al Baghdadi. La risposta era stata semplice: “Noi vogliamo stare qui, questo è ciò che Dio ci ha detto di fare e questo è ciò che noi vogliamo fare”.
Stando alle ricostruzioni e le testimonianze delle famiglie dei decapitati, gli undici sono stati catturati lo scorso 7 agosto in un piccolo villaggio non distante dalla periferia di Aleppo. Il 28 dello stesso mese, i miliziani hanno chiesto loro cosa avessero deciso di fare, se rinunciare al Cristianesimo e tornare alla religione islamica. Davanti al rifiuto, i prigionieri sarebbero stati trascinati in mezzo alla folla. Il primo a essere brutalizzato è stato (sempre secondo quanto dichiarato dai testimoni presenti in loco) il figlio dodicenne del campo missione: dopo il taglio delle dita è stato picchiato. Al padre è stato spiegato che la tortura si sarebbe fermata solo se avesse rinnegato Cristo. Dinanzi all’ennesimo rifiuto, tutti i membri del gruppo avrebbero quindi incontrato la morte per decapitazione, prima di essere messi in croce, dove “sono stati lasciati per due giorni e a nessuno era permesso di tirarli giù da lì”, ha aggiunto il capo missione. Sulle croci era stato attaccato il cartello con la scritta “infedele”.

Quando la partecipazione attiva a riti pagani ed idolatrici per la Congregazione della dottrina della fede non è un problema ........

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Alla vigilia della festa dell’Assunta di quest’anno (v. qui), avevamo segnalato la lodevole iniziativa dei giornalisti cattolici Deotto e Gnocchi, volta a segnalare alla Congregazione per la dottrina della fede l’idolatrica partecipazione attiva di ecclesiastici a riti pagani. Nella speranza che questa dicesse una parola chiara ed esprimesse una chiara e ferma condanna di siffatte condotte, contrarie alla fede cattolica ed al primo Comandamento!

Come volevasi dimostrare il Dicastero vaticano non ha risposto alcunché come riferisce Riscossa cristiana (v. qui). Ne eravamo, in fondo, certi. Ma nutrivamo forse l’irrazionale speranza che, in fondo, almeno queste condotte estreme ed apertamente offensive della fede fossero stigmatizzate.
Nella neo “chiesa della tenerezza” o “chiesa della misericordia” o “liquida” son tutti accetti. Meno che i cattolici (v., ad es., qui, qui e qui. Sulla liquefazionedella Chiesa, v. qui). Ce ne faremo una ragione.
Che Dio ci e li perdoni! Che i santi intercedano per noi!



Pieter Paul Rubens, I SS. Francesco, Domenico ed altri proteggono il mondo dai fulmini del Cristo, 1618-19, Musée des Beaux-Arts de Lyon, Lione

Pieter Paul Rubens, S. Francesco e la Vergine proteggono il mondo dai fulmini del Cristo, 1635 circa, Koninklijke Musea voor Schone Kunsten van België, Bruxelles

Dio, misericordia, peccato, Inferno, dannazione in un aforisma di S. Alfonso M. de' Liguori, tratto dal suo "Apparecchio alla morte"

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S. Alfonso M. de’ Liguori, Apparecchio alla morte, Considerazione XXIII, Inganni che ‘l Demonio mette in mente a’ peccatori, punto II



“Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?”: ama la Chiesa! - Editoriale di novembre di “Radicati nella fede”

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Nella festa di Tutti i Santi rilancio quest’editoriale di Radicati nella fede del mese di novembre 2015.










Beato Angelico, Giudizio universale, partic. dei Beati e del Paradiso, 1425-30, Museo di San Marco, Firenze



Albrecht Dürer, Tutti i Santi adorano la Trinità, Altare Landauer, 1511, Kunsthistorisches Museum, Vienna


“CHE COSA MAI POSSIEDI CHE TU NON ABBIA RICEVUTO?”: 
AMA LA CHIESA!



Editoriale “Radicati nella fede”

Anno VIII n. 11 - Novembre 2015


Quanto più la crisi della Chiesa si fa terribile, vasta e profonda, tanto più occorre amare la Chiesa stessa.

Quanto più aumentano gli scandali nella casa di Dio, tanto più bisogna amare la Chiesa.

E questo amore deve essere molto concreto e operativo.

Il dovere della reazione non va mai disgiunto da un amore profondo per la Sposa di Cristo, la Santa Madre Chiesa; e su questo nessuno può scherzare.

D’altronde tu reagisci, domandi il ritorno della Chiesa alla sua Tradizione, riferendoti e utilizzando ciò che tu hai ricevuto dalla Chiesa stessa, la Tradizione appunto. Essere Cattolici tradizionali vuol dire fare proprio questo.

La Tradizione è della Chiesa, non è tua.

Non potresti appellarti alla Tradizione se tu non l’avessi prima ricevuta. Ma da chi l’hai ricevuta, se non dalla Chiesa stessa?

Come non si può seguire Cristo senza la Chiesa, la crisi Protestante insegna, così non si può essere Tradizionali senza la Chiesa.

I Protestanti pretesero di ricongiungersi a Cristo, saltando la Chiesa cattolica e la sua storia, e persero Cristo nelle nebbie di un mitico passato. I Tradizionali, se non continueranno ad avere un amore per la Chiesa potente fino al sangue, resteranno con una Tradizione vuota, fatta di rabbia e recriminazioni più o meno amare; ma una Tradizione senza la Chiesa non ha Cristo dentro.

Si potrebbero applicare ai “tradizionalisti acidi”, non amanti la Chiesa, le parole di S. Paolo ai Corinti:

Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7).

Sì, perché se è vero che sbaglia chi chiede un’obbedienza alla Chiesa, domandando di andare contro le verità della fede e della morale, domandando di andare contro il Vangelo e il dogma, o di dimenticarli; sbaglia ugualmente chi si attacca al dogma e al Vangelo, utilizzandolo contro l’unica Chiesa di Cristo.

Rischiano questo secondo errore tutti quelli che, partiti per la difesa del cattolicesimo tradizionale, incominciano a disquisire se il Papa è o non è tale, su chi sia veramente il vescovo, o dove sussista veramente la Chiesa di Dio. Questi estendono la difesa della Tradizione a un campo che non compete loro, rischiando il pericolo gravissimo di porsi fuori della Chiesa.

Dice il père Calmel “La Chiesa non è un’istituzione di questo mondo: discende dal Cielo, direttamente da Dio (…) La Chiesa è invincibile, anche se con figli soggetti alla sconfitta e spesso vinti e che tuttavia, finché rimangono nel suo seno, non saranno mai vinti irreparabilmente. Quando lo sono è perché si sono separati da lei (…) Essa resta la dispensatrice infallibile della salvezza, il Tempio santo di Dio. Coloro che l’abbandonano si perdono, ma essa non è mai perduta”. (R. T. Calmel,Breve apologia della Chiesa di sempre, pagg. 17 e 18)

Insomma, la Chiesa è una e solo una. Non c’è una chiesa tradizionale e una chiesa modernista, c’è una sola Chiesa cattolica, i cui figli rischieranno di perdersi se la abbandoneranno, anche se con la scusa di difenderla.

Basterebbe per capire questo, lo ripetiamo, il fatto che la Tradizione per cui lottiamo, l’abbiamo ricevuta dalla Chiesa, anzi è la Chiesa stessa.

E la Tradizione, Vangelo – dogma – sacramenti – disciplina, non l’hai ricevuta una volta per tutte, continui a riceverla dalla Chiesa che è il Corpo Mistico di Cristo. E’ chiaro quindi che, in ogni decisione e attitudine, devi salvare questa unità della Chiesa e con la Chiesa, senza mettere in dubbio la sua visibilità. Chi è Papa o vescovo, questo compete direttamente a Dio solo, e non a te. A te che hai capito la crisi della Chiesa, compete solo lo stare fermo nella sua Tradizione, in ciò che la Chiesa ha detto e fatto fuori da questi terribili momenti di apostasia. Dio si è rivelato, ti ha dato la ragione per riconoscere la sua rivelazione e per custodirla; non ti chiede di far politica ecclesiastica.

Occorre evitare due estremi letali per la fede: l’”autoritarismo” o “obbedientismo” da un lato e il “sedevacantismo” dall’altro: entrambi portano a lungo andare all’ateismo, alla perdita della fede.

Il primo fa stare dentro la Chiesa con una falsa obbedienza che non salvaguarda il Vangelo e i sacramenti; il secondo fa cercare una falsa chiesa alternativa: entrambi questi errori partono da una visione troppo umana della Chiesa, mancano entrambi di visione soprannaturale.

Occorre essere autenticamente tradizionali: il tradizionale sta di fronte a Dio, custodendo con amore il tesoro della Chiesa; il sedevacantista, che si inventa un’altra chiesa o non sa più dove essa sia, sta di fronte a se stesso utilizzando le cose ricevute da Dio.

Sempre père Calmel parla, con accenti commossi, dei veri cristiani, dei cristiani secondo la Tradizione, che custodiscono la fede amando immensamente la Chiesa:

Questi cristiani, che custodiscono la Tradizione senza nulla concedere alla rivoluzione, desiderano ardentemente, per essere pienamente figli della Chiesa, che la loro fedeltà sia penetrata di umiltà e di fervore; non amano né il settarismo, né l’ostentazione. Al loro posto, che è modesto e a stento tollerato, cercano di custodire ciò che la Chiesa ha trasmesso loro, ben sicuri che essa non lo ha revocato, e si sforzano, nel custodirlo, di salvaguardare lo spirito di ciò che custodiscono” (R. T. Calmel, op. cit., pag. 101).

Preghiamo carissimi, perché in noi aumenti l’amore alla Chiesa una e visibile, quanto più diventano violente le ondate dell’apostasia.

Fonte: Radicati nella fede, 30.10.2015

Ai morti ha dato la vita .... Una visita archeologica con P. Manns nella Valle di Giosafat, a Gerusalemme

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Litaniae Sanctorum

Dies irae, dies illa, solvet saeculum in favilla .....

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Ludovico Carracci, Crocifissione con anime purganti (o Patriarchi nel Limbo), 1614, chiesa di S. Francesca Romana, Ferrara

Luca Giordano, Madonna del Carmine ed anime del Purgatorio, XVIII sec. 



Luigi Caputo, Anime del Purgatorio, 1835, Volturino (FG)







 Sequentia


D
ies iræ, dies illa,

Solvet sæclum in favílla:

Teste David cum Sibýlla.


Quantus tremor est futúrus,

Quando judex est ventúrus,

Cuncta stricte discussúrus!


Tuba mirum spargens sonum

Per sepúlcra regiónum,

Coget omnes ante thronum,


Mors stupébit, et natúra,

Cum resúrget creatúra,

Judicánti responsúra.


Liber scriptus proferétur,

In quo totum continétur,

Unde mundus judicétur.


Judex ergo cum sedébit,

Quidquid latet, apparébit:

Nil inúltum remanébit.


Quid sum miser tunc dictúrus?

Quem patrónum rogatúrus,

Cum vix justus sit secúrus?


Rex treméndæ majestátis,

Qui salvándos salvas gratis,

Salva me, fons pietátis,


Recordáre, Jesu pie,

Quod sum causa tuæ viæ:

Ne me perdas illa die.


Quærens me, sedísti lassus:

Redemísti Crucem passus:

Tantus labor non sit cassus.


Juste judex ultiónis,

Donum fac remissiónis

Ante diem ratiónis.


Ingemísco, tamquam reus:

Culpa rubet vultus meus:

Supplicánti parce, Deus.


Qui Maríam absolvísti,

Et latrónem exaudísti,

Mihi quoque spem dedísti.


Preces meæ non sunt dignæ:

Sed tu bonus fac benígne,

Ne perénni cremer igne.


Inter oves locum præsta,

Et ab hædis me sequéstra,

Státuens in parte dextra.


Confutátis maledíctis,

Flammis ácribus addíctis:

Voca me cum benedíctis.


Oro supplex, et acclínis,

Cor contrítum quasi cinis:

Gere curam mei finis.


Lacrimósa dies illa,

Qua resúrget ex favílla,

judicándus homo reus:


Huic ergo parce, Deus:

Pie Jesu Dómine,

Dona eis réquiem. Amen.

"In quei giorni e in quel tempo, quando ristabilirò le sorti di Giuda e Gerusalemme, riunirò tutte le genti e le farò scendere nella valle di Giosafat, e là verrò a giudizio con loro" (Joel 4, 1-2)

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(cliccare sull'immagine per il video)

“Abstinéntia fuit admirábili; jejunábat sæpíssime, pane tantum et aqua, solis quandóque lupínis conténtus. Noctúrnis vigíliis, aspérrimo cilício, assíduis flagéllis corpus domábat. Humilitátis ac mansuetúdinis studiosíssimus fuit. Oratiónem ac verbi Dei prædicatiónem, gravíssimis licet curis occupátus, numquam intermísit. Multas ecclésias, monastéria, collégia ædificávit. Plura scripsit, ad episcopórum præsértim instructiónem utilíssima; cujus étiam ópera parochórum catechísmus pródiit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI CAROLI BORROMÆI, EPISCOPI MEDIOLANENSIS ET CONFESSORIS

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Se Milano guarda san Carlo come il più illustre dei suoi pastori dopo sant’Ambrogio, la Chiesa Madre di Roma lo stringe al suo cuore e lo saluta come uno dei più cari e dei più meritevoli dei suoi figli.

Difatti, l’opera di san Carlo può essere considerata in due periodi e su due campi distinti. Dapprima la sua attività a fianco di suo zio Pio IV, attività che abbracciò non solo Roma ma la Chiesa universale stessa. Viene poi l’azione pastorale compiuta a Milano dal Santo, apostolo e pastore di questa vasta diocesi.

Segretario di Stato di Pio IV, san Carlo si trovò a fianco del Pontefice in una delle epoche più decisive per la storia del papato. Si trattava di sapere se la Santa Sede si sarebbe impegnata infine in maniera risoluta sulla via della riforma ecclesiastica, così lungamente ed universalmente reclamata; o se fosse rinviata ancora questa difficile impresa, accontentandosi, come purtroppo avevano fatto alcuni dei Pontefici di quel secolo, di mezze misure.

Fu sotto l’influenza personale di san Carlo che Pio IV si decise per la riforma; e da quel giorno il Santo, in nome e con l’autorità di suo zio, camminò arditamente nella via aperta, senza curarsi delle considerazioni umane. Si può dire dunque che, di Roma, diresse l’ultimo periodo del Concilio di Trento, e ciò che è ancora più importante, quando il Concilio fu approvato dal Papa, san Carlo si applicò con tutte le proprie energie a realizzarne effettivamente il piano di riforma.

Qui comincia la seconda parte della vita di san Carlo. Essendo morto Pio IV, il nostro Santo si fissò definitivamente nella sua Chiesa di Milano, dove erano da rialzare le rovine accumulate dai lunghi anni di cattivo governo, nell’assenza dei pastori legittimi.

San Carlo, per santificare il suo gregge, cominciò col santificare se stesso. Come Gesù aveva voluto riscattare il mondo meno con la sua predicazione ed i suoi miracoli, quanto più con la sua passione, così san Carlo si offrì egli stesso come vittima a Dio per il suo popolo con una vita molto austera. Le anime, diceva, si guadagnano in ginocchio, facendo così allusione alle sue lunghe preghiere ai piedi del Crocifisso o nella cripta della chiesa del Santo Sepolcro a Milano.

L’attività svolta da san Carlo in ogni tipo di lavoro pastorale è incredibile. Il suo campo di azione, a titolo di metropolita di Milano e di legato della Santa Sede, era immenso. E tuttavia non ci fu villaggio delle Alpi o paese disperso nel quale san Carlo non si recasse per fare la visita pastorale. I suoi biografi ci dicono che in meno di tre settimane gli capitò di consacrare ben quindici chiese.

L’arcivescovo di Milano aveva all’epoca da risolvere importanti e difficili problemi. L’eresia, che aveva infettato i cantoni svizzeri che confinano con la diocesi, minacciava di contaminare anche questa. Occorreva almeno paralizzarne l’influenza e san Carlo lo fece. Bisognava formare inoltre dei vescovi e dei preti ispirati dall’ideale più elevato: il Santo eresse dei collegi e dei seminari, riunì dei concili, promulgò dei canoni, favorì l’apertura di case religiose per l’educazione della gioventù.

L’affievolimento dello spirito ecclesiastico nel clero è favorito quasi sempre dal potere civile che avvilisce difatti il prete per poterlo assoggettare poi più comodamente. San Carlo fu il vendicatore intrepido dell’autorità episcopale: non solo ebbe a lottare pure contro i canonici, le religiose ed i religiosi che si erano scostati della loro strada primitiva – per es., gli Umiliati che tentarono perfino di assassinare il Santo – ma trovò molti avversari più temibili nei governatori spagnoli e dal Senato di Milano, troppo gelosi delle pretese prerogative della corona della Spagna su quella Chiesa. Nell’attuare i decreti tridentini, in effetti, il Borromeo si espose infatti alla reazione di coloro che vedevano lesi i propri privilegi: fu minacciato con i bastoni dai frati minori osservanti, aggredito con le spade dai canonici di Santa Maria della Scala, minacciato dalle monache di Sant’Agostino, vilipeso da quelle di Lecco e colpito con una archibuggiata alla schiena da un sicario dell’ordine degli umiliati. Nella notte del 26 ottobre 1569, infatti, un certo Gerolamo Donato detto il Farina, originario di Astano, frate degli Umiliati, entrò, verso le 22, in Arcivescovado di Milano con un archibugio e un archibugetto, una specie di lunga pistola, sorprendendo san Carlo Borromeo in preghiera in una cappella insieme ai suoi familiari e collaboratori. Si stava, in quel momento, cantando il Nolite timere. Estratto l’archibugio, alle parole Non turbetur cor vestrum, esplose un colpo mirando alla schiena del Santo, senza però uccidere l’Arcivescovo, il quale, rimanendone illeso, fece cenno che nessuno si muovesse e terminasse la preghiera. Eppure san Carlo era alto un metro ed ottanta e nonostante ciò il Farina non riuscì ad ucciderlo, benché sparasse a distanza ravvicinata.

Il medico del Santo, immediatamente accorso, ebbe modo di non riscontrare sul suo corpo alcuna ferita, segno che la palla di piombo rovente miracolosamente s’arrestò di botto e rimbalzò dal corpo, forando solo il rocchetto cardinalizio, che ancora oggi è conservato ed è custodito nella basilica milanese di Sant’Eustorgio, dove viene esposto una volta all’anno. Il Donato, approfittando del generale sbigottimento, riuscì a fuggire dalla porta che dà sul lato destro del Duomo e a far perdere momentaneamente le sue tracce dileguandosi, ma nell’aprile successivo fu catturato e condotto a Milano, rinchiuso nelle carceri vescovili. Venne impiccato in piazza Santo Stefano, sebbene il santo arcivescovo non volesse che l’attentatore ed i suoi tre complici (fra’ Gerolamo Legnano, prevosto di San Cristoforo, e fra’ Lorenzo Campana, prevosto di San Bartolomeo e fra’ Clemente Merisio, prevosto di Caravaggio) fossero uccisi.

A seguito di quell’attentato nonché per la loro sospetta vicinanza all’eresia calvinista, la congregazione degli Umiliati fu soppressa, nel suo ramo maschile, da san Pio V il 7 febbraio 1571.

Così visse, agì e combatté il grande san Carlo Borromeo, il quale si mostrò degno campione della lotta sacra per la quale si immolò. Consumato prima del tempo dalle dure fatiche della sua vita pastorale, morì sulla breccia la sera del 3 novembre 1584, all’età di soli quarantasei anni. Fu canonizzato nel 1610 da papa Paolo V, che iscrisse la sua festa nel calendario nel 1613 come semidoppia ad libitum. Papa Innocenzo X ne fece una semidoppia di precetto nel 1652 con commemorazione dei santi martiri Vitale ed Agricola, ed Alessandro VII, nel 1659, l’elevo al rito doppio.

La messa è dal comune Státuit, eccetto la prima colletta, che è propria.

In essa, la Chiesa riassume il suo elogio in queste brevi ma eloquenti parole: pastoralis sollicitudo gloriosum reddidit.

Roma conserva di lui numerosi ricordi, a San Martino ai Monti, per es., di cui riparò il soffitto (Mariano ArmelliniLe chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 216) ed a Santa Prassede di cui fu titolare e nella quale fece svolgere importanti lavori di restauro (ibidem, pp. 237-238). Il suo cuore è conservato nella grande chiesa che gli è dedicata vicino alla porta Flaminia, chiesa che rappresenta oggi il santuario particolare dei lombardi nella Città eterna. Oltre questa Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, oggi nota anche come chiesa di San Carlo al Corso (ibidem, pp. 337-338. Cfr. anche Ch. HuelsenLe Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 407, il quale ricorda come la chiesa fosse in origine dedicata a san Nicola: San Nicolai de Tofo o De Tofis), due altri santuari dell’Urbe sono dedicata al suo nome. Esse sono: San Carlo a’ Catinari, il cui nome esteso è chiesa dei Santi Biagio e Carlo ai Catinari (originariamente, la Chiesa di San Carlo ai Catinari sorgeva nei pressi della Chiesa di San Biagio ai Catinari. Cfr. Armelliniop. cit., p. 446. Ma quando quella fu profanata e distrutta il nome di san Carlo fu unito a quello della chiesa di san Biagio. Cfr. Ibidem, pp. 445-446), e, nel rione Monti, San Carlo alle Quattro Fontane, detta popolarmente San Carlino ed opera del Borromini (ibidem, p. 187). Nella piazza di Santa Maria della Scala vi era un tempo la piccola chiesa dei Santi Carlo e Teresa (d’Avila) (ibidem, p. 651).

Una chiesa moderna è, poi, stata dedicata, nel 2011, al nostro Santo: si tratta di San Carlo Borromeo alla Fonte Laurentina.

Nel palazzo Altemps, presso la cappella di Sant’Aniceto, si venera ancora la camera abitata dal Santo e nella sacrestia vi si conserva la sua pianeta (ibidem, p. 347). Presso la Chiesa di San Girolamo della Carità, dove abitava san Filippo Neri, san Carlo vi si recava per intrattenersi in santi colloqui col santo dei giovani (ibidem, p. 414). Presso poi la Chiesa di San Giacomo in Settignano, oggi nota pure come San Giacomo alla Lungara, san Carlo vi aveva fatto costruire un monastero, al tempo di Pio IV, per accogliere le penitenti donne di malaffare (ibidem, p. 653).

Quanto al mantello di porpora del grande Cardinale, esso è conservato religiosamente nel Titolo di Santa Cecilia.



Domenico Cresti da Passignano, Michelangelo presenta a papa Paolo IV il modello per il completamento dell’edificio e della cupola di San Pietro, Galleria Buonarroti, Firenze. In primo piano a sinistra uno degli allievi di Michelangelo (Jacopo Duca operò fedelmente nella scia del suo Maestro) guarda devoto e ammirato il grande architetto. Nei due volti ai lati del Papa si riconoscono quelli dei Cardinali nipoti, S. Carlo Borromeo e Giov. Antonio Serbelloni.

Johann Sadeler I, Ritratto di S. Carlo, 1588-94, Rijksmuseum Amsterdam

Giovanni Ambrogio Figino, Ritratto di S. Carlo, 1603-08, Pinacoteca Ambrosiana, Milano

Federico Zuccari, Imposizione del cappello cardinalizio al beato Carlo Borromeo, 1603-04, Collegio Borromeo, Pavia

Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, San Francesco e il beato Carlo Borromeo in preghiera davanti all'Assunta di San Celso a Milano, XVII d.C., Galleria Sabauda, Torino

Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, S. Carlo Borromeo dinanzi al Cristo morto di Varallo, 1610 circa, Museo del Prado, Madrid

Luca Giordano, S. Carlo Borromeo fa la carità, XVII sec., Museo del Prado, Madrid

Agostino Ciampelli, S. Carlo Borromeo, XVII sec., collezione privata

Ambito lombardo, S. Carlo intercede contro la peste, XVII sec., museo diocesano, Milano

Rutilio Manetti, Madonna del Rosario tra i SS. Domenico, Caterina, Pio V, Carlo Borromeo ed altri Santi, XVII sec., parrocchiale di S. Giovanni Battista, Nervesa della Battaglia

Autore anonimo, S. Carlo in preghiera, XVII sec., collezione privata

Orazio Borgianni, S. Carlo Borromeo, 1610-16, Hermitage, San Pietroburgo


Orazio Borgianni, S. Carlo intercede presso la SS. Trinità, 1611-12, Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, Roma


Guercino, S. Carlo in orazione, 1613-14, Collegiata di S. Biagio, Cento

Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, S. Carlo in abiti pontificali, XVII sec., Chiesa di Santa Maria di Canepanova, Pavia

Carlo Saraceni, S. Carlo Borromeo porta in processione il Sacro Chiodo, 1618-19, Chiesa di S. Lorenzo in Lucina, Roma

Carlo Saraceni, S. Carlo Borromeo comunica un appestato, 1618-19, Chiesa sei servi di Maria, Cesena

Morazzone, S. Carlo in gloria, 1618, Santuario di Santa Maria della Noce, Inverigo

Francesco Furini, Volto di S. Carlo, 1604 ss., Rijksmuseum Amsterdam

Jan Thomas, Ritratto di S. Carlo da un'opera del Figino, 1627 ss., Rijksmuseum Amsterdam

Henry Ferguson, Paesaggio fantastico con S. Carlo ed adorazione dei Pastori, 1700-20 circa, Rijksmuseum Amsterdam

Giovanni Battista Pittoni il giovane, Madonna col Bambino tra i SS. Carlo Borromeo, Rosa da Lima, Domenico e Bonaventura, XVIII sec., collezione privata

Ambito di Francesco Trevisani, S. Carlo, XVII sec., collezione privata


Giambattista Tiepolo, S. Carlo Borromeo con il Crocifisso, 1767-69 circa, Art Museum, Cincinnati

Raymond Balze, S. Carlo assiste lo zio morente Pio IV, 1856, chiesa di San Rocco, Parigi





Francesco Maria Richini, Cripta di S. Carlo Borromeo (detta popolarmente Scurolo di san Carlo) con urna del Santo di Giovanni Battista Crespi detto Il Cerano, 1606, Duomo di Milano. La Cripta fu modificata negli anni 1810-20 da Pietro Pestagalli

Adulterio, seconde nozze e penitenza in un aforisma di S. Agostino

Faccia a faccia col Motu Proprio Summorum Pontificum: intervista a Giuseppe Capoccia

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Nella memoria tradizionale dei Santi Elisabetta e Zaccaria, genitori del Precursore, rilancio quest’interessante intervista del dott. Giuseppe Capoccia, Presidente del Coetus Internationalis Summorum Pontificum.



Lorenzo Lotto, Sacra Famiglia con la famiglia del Battista, 1536 circa, musée du Louvre, Parigi

Carlo Ceresa, SS. Zaccaria ed Elisabetta, 1644 circa, chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista, Dossena

Andrea Sacchi, Annunciazione di S. Zaccaria, ciclo della vita del Battista, 1641-49, Pinacoteca Vaticana, Roma

Faccia a faccia col Motu Proprio Summorum Pontificum: intervista a Giuseppe Capoccia


di Gianluca Di Pietro



“[…] Una volta caduta la Messa è finito il Papato”: con questo assioma Martin Luter descriveva  a ragione l’importanza della Liturgia nella vita della Chiesa. Sì, la Sacra Liturgia è davvero la condizione a priori della ecclesialità, ossia dell’essere membra articolate di un Corpo mistico vivo.

Facendo ricorso ad un lessico che riflette l’affascinante ecclesiologia organica paolina, la Sacra Liturgia è la gabbia toracica dell’Eucarestia, il cuore di questo Corpo. Adoperarsi per la distruzione o relativizzazione della Liturgia significa compromettere l’azione del circolo della grazia che dall’Eucarestia raggiunge tutte le membra del Corpo.

Da troppo tempo piangiamo il corpo agonizzante e languente della Nostra Madre, la Chiesa, caduta vittima sotto i colpi della nouvelle theologie, che ha inaugurato anche una nouvelle liturgie, ambiguamente cattolica e teatro dei più ignominiosi abusi.

Restaurare la Vera Messa Cattolica, per tanto tempo  sollecitudine dei Sommi Pontefici, è un dovere cui i semplici fedeli non possono sottrarsi e rappresenta il presupposto per una “restitutio ad integrum” di tutto il corpo ecclesiale.

Alla luce di questa premessa,  una settimana fa, il 25 Novembre, si chiudeva l’annuale Pellegrinaggio, oserei dire, “liturgico-centrico”  “Ad Petri Sedem”  di tutti coloro che riconoscono il potenziale  del Motu Proprio “Summorum Pontificum”.

Da tutto il mondo, la famiglia di Dio si è radunata nella città della Sede dell’Apostolo Pietro per ricordare  a tutta la Chiesa che la Tradizione non è un insieme di “privilegi antichi e transitori”, ma è al pari della Scrittura un acquedotto della Grazia e una delle  forze che rinsaldono  l’unità della Chiesa.

L’immagine più rappresentativa di questo pellegrinaggio è stata la lunghissima processione che estendendosi  dal Sagrato di San Pietro fino a ben oltre l’obelisco  della Piazza è entrata trionfalmente nella Basilica, sotto gli occhi curiosi dei turisti i quali, catturati dalla sacralità armonica di questo “corteo”, hanno anch’essi partecipato al Pontificale all’Altare della Cattedra di Sua Eccellenza Mons. Laise, arcivescovo emerito di San Luis.

Questa è solo una delle evocative immagini di quattro giorni intensi, durante i quali poco meno di 2000 pellegrini si sono radunati attorno agli altari delle tradizionali Basiliche Romane, San Lorenzo in Damaso e Santa Maria in Campitelli, per rendere a Dio il culto doveroso e gradito, nelle forme più care alla tradizione cattolica: Rosario meditato e cantato, Adorazione Eucaristica e meditazione della Via Crucis.

A termine di questa edificante esperienza cui partecipo da ormai 2 anni, ho intervistato Giuseppe Capoccia, noto giudice pugliese e Presidente del Coetus Internationalis Summorum Pontificum, sull’importanza della Messa Antica nella vita della Chiesa,  sullo stato attuale del Motu Proprio di Benedetto XVI e sulle sue  conquiste ad otto anni dalla promulgazione.
“ D. (Gianluca Di Pietro) Procuratore, Radio Spada da tempo si occupa di rendere un servizio alla Verità in questi tempi confusi in cui la luce di Dio è tramontata dall’orizzonte tanto sociale quanto individuale. Come ben sa, la nostra linea editoriale vede nel Cattolicesimo Romano la giusta soluzione ai drammi della modernità nonché la forza capace di ricondurre ad unità questa realtà frammentata: la dottrina cattolica è la sfida che noi proponiamo all’uomo moderno. Proprio in virtù di questo nostro obbiettivo raccogliamo attorno a noi le diverse frange del cosiddetto “tradizionalismo cattolico” che si sono sfilacciate a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Questo ci espone non di rado ai rischi di una difficoltà di convivenza da parte dei nostri lettori.

 Non crede forse che l’evidente frammentazione del mondo tradizionalista sia il punto di debolezza della “battaglia tradizionale”, in contrasto con la compattezza dell’ala progressista?

R. (Giuseppe Capoccia) In realtà, la frammentazione può anche presentare dei vantaggi, per esempio quando si tratta di resistere alla repressione o quando si decide di accelerare su qualche fronte. E poi non sono sicuro che i novatori siano così uniti fra di loro; è vero però che sanno spesso trovare una linea condivisa perché non perdono mai di vista l’obiettivo. Noi, invece, spesso sembra che dimentichiamo il fine della nostre battaglie, così come ci lasciamo prendere dallo zelo amaro, mentre dovremmo sempre coltivare la gioia della Redenzione che Cristo ha guadagnato per noi e per sempre sulla Croce.

D. Molti guardano a noi fedeli del Summorum Pontificum con diffidenza e sospetto, dipingendoci semplicemente come degli esteti del culto, affetti quasi da un fine romanticismo liturgico: fedeli ai quali interessano le forme del Sacrificio della Messa piuttosto che la sostanza teologica del memorialis Domini Nostri. A tutti costoro cosa sente di dire? Noi “motupropristi” siamo davvero disposti a soprassedere al cambiamento della sostanza della Messa per qualche pianeta o suppellettile barocca? È davvero questo lo spirito che muove il Coetus e le migliaia di fedeli (tra cui io stesso): organizzare Sante Messe esteticamente belle e chiudere gli occhi di fronte ai numerosi problemi che la nouvelle theologiepone?
R. Don Claude Barthe, cappellano del pellegrinaggio internazionale del Summorum Pontificum nonché autore di tanti studi liturgici e teologici, dice sempre che la battaglia va condotta per la Santa Messa e per tutto ciò che ne consegue: il catechismo, la morale, la buona dottrina, la cultura, ecc. Noi sappiamo che senza la preghiera che orienta a Dio e a Dio rende il culto dovuto, tutte le opere sono vane. La nostra convinzione è che l’impegno liturgico sia la chiave per riaffermare la fede cattolica: è indubbio che la Messa di sempre non è bastata a fermare l’eresia modernista, ma rimane il più perfetto compendio della nostra fede, plasmato da secoli di tradizione. Un illustre autore contemporaneo (con il gusto per il paradosso) osserva che la crisi finanziaria mondiale deriva dal crollo della liturgia: se non c’è Cristo crocifisso in alto, al centro, il resto è solo disordine e caos. Ed è anche il triste sbandamento di tanti movimenti che pare abbiano smarrito il fulcro del loro agire. Pensiamo, e lo abbiamo spesso provato con le nostre piccole opere di proselitismo, che ormai sia spesso vano affidarsi alla ragione e all’intelligenza dei nostri contemporanei per evangelizzarli: non per loro colpa, ma a motivo del generale abbassamento morale, culturale e filosofico.

D. Nell’ottavo anniversario della liberalizzazione della Messa Antica, possiamo azzardare un bilancio: quali obiettivi abbiamo raggiunto grazie al Motu Proprio? Grazie all’attività del Coetus Internationalis, che compendia l’immenso lavoro dei coetus locali, possiamo affermare che sia cresciuto l’interesse verso la Messa Antica da parte del cattolico medio (e per “cattolico medio” intendo il fedele che non possiede particolari conoscenze linguistiche o teologiche o canonistiche)? E i giovani?

R. Oggi, se qualcuno è interessato alla liturgia cattolica apre Internet e con un paio di click si ritrova immediatamente su una pagina legata alla promozione o al commento della liturgia tradizionale: sia la FIUV, sia i media specializzati come il New Liturgical Movement o Paix liturgique rendono conto con grande regolarità dei progressi delle Messe Summorum Pontificum nel mondo. Sulla pagina FB del pellegrinaggio, le statistiche dicono che il 57% dei nostri fans ha meno di 34 anni: mi pare che già questo sia una risposta eloquente alla sua domanda sui giovani e il Summorum Pontificum; peraltro, proprio il fascino dei giovani per l’antica liturgia è una delle ragioni esposte da Papa Benedetto nella lettera ai vescovi di accompagnamento al Motu Proprio.

D. Contestualmente, la ricezione del Motu Proprio da parte delle Gerarchie in questi otto anni ha avuto un miglioramento significativo? La liberalizzazione di cui il documento papale parla è davvero reale oppure in fin dei conti rimane come qualcosa ancora da perseguire? In quest’ultimo caso, cosa occorrerebbe fare per portare a compimento le istruzioni contenute nel Motu Proprio?

R. Beh, se si guarda alla realtà italiana, la situazione può sembrare grigia: poco è cambiato dal 2010 quando Fede & Cultura pubblicò un opuscolo del giornalista Alberto Carosa proprio sulle opposizioni episcopali al Summorum Pontificum. Tuttavia, la diffusione della liturgia tradizionale in Italia è un dato di fatto. Sempre più sacerdoti hanno imparato a celebrarla e sempre più fedeli si sono accostati alla solenne dignità ed alla profonda sacralità del rito antico. Ogni anno, durante il nostro pellegrinaggio vediamo nuove famiglie partecipare alla processione e alla Messa in San Pietro. Il successo di quest’anno è per parte dovuto al maggior numero di pellegrini italiano venuti a Roma il 24 ottobre. Poi, se lo sguardo si allarga a tutto l’Orbe cattolico, è evidentissimo lo sviluppo del Summorum Pontificum: sapete che c’è la Messa tradizionale anche in Indonesia?

D. La principale attività del Coetusè l’organizzazione del Pellegrinaggio “ad Petri Sedem” nell’ultima domenica di Ottobre, in occasione della Festa Liturgica di Cristo Re dell’Universo. C’è una ragione simbolica dietro la scelta di promuovere un pellegrinaggio proprio alla Sede Apostolica, per di più in occasione di una festa liturgica tanto importante quale la Sovranità Universale di Nostro Signore?

R. La scelta di Roma non è certo casuale: non può esserlo per chi professa la propria fede cattolica, apostolica e romana. Potrei anche ammettere che la festa di Cristo Re è stata casuale, nel senso di non cercata, ma credo proprio che la Provvidenza abbia voluto indicarci la regalità di Cristo perché la nostra fede sia manifestata, affermata, difesa in ogni momento e in ogni luogo di fronte a una società sempre più empia e laicista.

D. Domenica 25 ottobre si è chiuso solennemente questo annuale pellegrinaggio: può ritenersi soddisfatto del suo svolgimento? Cosa l’ha maggiormente colpito di questi quattro intensi giorni?

R. Prima di tutto direi che mi ha colpito il generale sereno clima di normalità cattolica! Spesso nei nostri territori subiamo una sorda ostilità, una perenne condizione di minorità ed emarginazione; entrare in San Pietro dal portone principale cantando “Christus vincit” rincuora e ripaga di tante amarezze. E poi, ammetto di essere stato affascinato da mons. Juan Rodolfo Laise, questo novantenne tenero ma fermo, arcivescovo emerito di San Luis (Argentina) e strenuo difensore della pratica della ricezione della Santa Eucarestia in ginocchio e sulla bocca. Con la sua età, con il suo buon animo, con la sua testimonianza tenace non è stato semplicemente il celebrante del Pontificale in San Pietro, ma ha rafforzato in noi la volontà di proseguire la buona battaglia, nell’ubbidienza alla volontà del Signore e nella fedeltà alla propria coscienza.

D. Ultima domanda: se dovesse convincere a partecipare al Pellegrinaggio Summorum Pontificum coloro che non ci conoscono oppure che senza ragione ci avversano, cosa direbbe?

R. Non abbiate paura: venite e pregate!”.

S. Ecc.za Mons. Athanasius Schneider: "Nella Relazione Finale del Sinodo una ‘porta sul retro’ per l’accesso ad una prassi neo-mosaica"

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Interessante intervento di Mons. Schneider, che evidenzia, tra i rilievi critici già segnalati da altri (Sinodo: errori e pericolose ambiguità Relatio finalis, qui. V. anche i rilievi critici del card. Burke, che abbiamo già segnalato qui, e che sono riportati anche qui), l’impressione che molti hanno percepito riguardo alla Relazione finale sinodale e cioè come essa rappresenti una sorta di ritorno ad una prassi farisaica della decisione “caso per caso” proprio sul divorzio, contro cui si scagliò il Divin Maestro come segnala in un suo contributo Francesco Agnoli su La nuova bussola quotidiana(Sul divorzio erano i farisei a decidere “caso per caso”, qui e qui).

L’intervento critico del vescovo Schneider è riportato, con una diversa traduzione, ma identica nella sostanza, anche dal sito Corrispondenza romana.


Nella Relazione Finale del Sinodo una ‘porta sul retro’ per l’accesso ad una prassi neo-mosaica


Rorate caeli pubblica uno scritto di Sua Eccellenza il Vescovo Athanasius Schneider, uno dei pastori più impegnati nella diffusione della Santa Messa usus Antiquior e delle verità perenni della nostra fede.


Una porta sul retro, per l’accesso ad una prassi neo-mosaica, nella Relazione finale del Sinodo

La reazione del Vescovo Athanasius Schneider al Sinodo: “La porta alla comunione ai divorziati risposati è stata ufficialmente aperta a calci

La XIV Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi (4-25 ottobre 2015), dedicata al tema “La vocazione e la missione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”, ha pubblicato una Relazione Finale con alcune proposte pastorali sottoposte al discernimento del Papa. Si tratta di un documento di natura soltanto consultiva e dunque senza alcun valore magisteriale formale.

Tuttavia, durante il Sinodo, sono apparsi veri e propri neo-discepoli di Mosé e neo-farisei, che ai numeri 84-86 della Relazione Finale hanno aperto una porta di servizio o piazzato bombe ad orologeria in ordine all’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione. Nello stesso tempo, quei Vescovi che hanno coraggiosamente difeso «la fedeltà propria della Chiesa a Cristo ed alla Sua Verità» (Papa Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, 84), sono stato ingiustamente tacciati da alcuni media [e non solo dai media...] come farisei.

Durante le ultime due Assemblee del Sinodo (2014 e 2015), i nuovi discepoli di Mosè ed i nuovi farisei hanno mascherato la loro negazione dell’indissolubilità del matrimonio nella prassi e la sospensione del sesto Comandamento in base al “caso per caso”, sotto le mentite spoglie del concetto di misericordia, usando espressioni come: “cammino di discernimento”, “accompagnamento”, “orientamenti del Vescovo”, “dialogo col sacerdote”, “foro interno”, “una più piena integrazione nella vita della Chiesa”, insinuando una possibile soppressione dell’imputabilità per i casi di coabitazione nelle unioni irregolari (cfr. Relazione Finale, nn. 84-86).

Questa parte della Relazione Finale contiene infatti tracce di una nuova prassi di divorzio di stampo neo-mosaico, benché i redattori abilmente e in maniera scaltra abbiano evitato qualsiasi cambiamento diretto della Dottrina della Chiesa. Pertanto, tutte le parti in causa, tanto i promotori della cosiddetta agenda Kasper quanto i loro oppositori, possono apparentemente affermare con soddisfazione: “È tutto a posto. Il Sinodo non ha cambiato la Dottrina”. Ma questa percezione è del tutto ingenua, poiché ignora la porta sul retro e le incombenti bombe ad orologeria presenti nei testi sopra citati che diventano evidenti ad un esame accurato del testo secondo criteri interpretativi interni.

Anche se, laddove si parla di un “cammino di discernimento”, si menziona ancora il “pentimento” (Relazione Finale, n. 85), rimane comunque un gran numero di ambiguità. Infatti, secondo le reiterate affermazioni del Card. Kasper e di ecclesiastici che la pensano come lui, tale pentimento riguarderebbe i peccati commessi in passato contro il coniuge del primo matrimonio, quello valido, mentre il pentimento del divorziato non può quindi riferirsi all’atto della sua convivenza coniugale col nuovo partner, sposato civilmente.

L’assicurazione del testo di cui ai numeri 85 ed 86 della Relazione Finale secondo cui tale discernimento debba essere fatto in accordo con l’insegnamento della Chiesa e formulato secondo un retto giudizio resta ambigua. Infatti, il Card. Kasper ed i prelati che la pensano come lui, hanno ripetutamente e energicamente assicurato che l’ammissione alla Santa Comunione dei divorziati e risposati civilmente non intaccherebbe il dogma dell’indissolubilità e della sacramentalità del matrimonio, ma hanno anche sostenuto che un giudizio secondo coscienza in tali casi sarebbe da considerarsi corretto quand’anche i divorziati risposati continuassero a convivere come marito e moglie, w che non debba essere loro richiesto di vivere in completa continenza, come fratelli e sorelle.

Nel citare il famoso n. 84 dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio di papa Giovanni Paolo II nel corpo del n. 85 della Relazione Finale, i redattori ne hanno censurato il testo, tagliandone la seguente formula decisiva: L’Eucarestia può essere concessa solo a quanti «assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi»

Tale prassi della Chiesa è fondata sulla Divina Rivelazione della Parola di Dio, scritta e trasmessa attraverso la Tradizione. È espressione di un’ininterrotta Tradizione, che dagli Apostoli rimane immutabile in tutti i tempi. “Chi ripudia una moglie adultera e sposa un’altra donna, fintantoché la sua prima moglie continua a vivere, rimane in perpetuo stato di adulterio, e non può compiere alcun atto di penitenza efficace fintantoché rifiuta di abbandonare la nuova sposa. Se si tratta di un catecumeno, non può essere ammesso al battesimo, perché rimarrà radicato nel peccato. Se si tratta di un penitente (battezzato), non può ricevere l’assoluzione (ecclesiastica) finché non rompe col suo cattivo atteggiamento” (De adulterinis coniugiis, 2, 16). In realtà, il taglio intenzionale dell’insegnamento della Familiaris Consortio nel par. 85 della Relazione Finale rappresenta per ogni sana ermeneutica la vera e propria chiave interpretativa per la comprensione di questa parte del testo sui divorziati risposati (parr. 84-86).

Ai nostri giorni esiste una pressione ideologica permanente e onnipresente da parte dei mass media, inclini al pensiero unico imposto dalle potenze mondiali anticristiane, al fine di abolire la verità dell’indissolubilità del matrimonio – banalizzando il carattere sacro di questa divina istituzione tramite la diffusione di un’anticultura del divorzio e del concubinato. Già cinquant’anni fa, il Concilio Vaticano II affermò che i tempi moderni sono infettati dalla piaga del divorzio (cfr. Gaudium et spes, 47). Lo stesso Concilio avverte che il matrimonio cristiano come sacramento di Cristo non dovrebbe “mai essere profanato dall’adulterio o dal divorzio” (Gaudium et spes, 49).

La profanazione del “grande sacramento” (Ef 5, 32) del matrimonio tramite l’adulterio e il divorzio ha assunto proporzioni massicce, a un ritmo allarmante e crescente, non solo nella società civile in generale ma anche tra i cattolici in particolare. Quando i cattolici, tramite il divorzio e l’adulterio, ripudiano tanto a livello teoretico quanto a livello pratico la volontà di Dio espressa nel Sesto Comandamento, essi si pongono nel serio rischio spirituale di perdere la loro salvezza eterna.

L’atto più misericordioso da parte dei Pastori della Chiesa sarebbe quello di richiamare l’attenzione su questo pericolo per mezzo di una chiara – e nello stesso tempo amorevole – ammonizione sulla necessaria accettazione completa del Sesto Comandamento di Dio. Essi devono chiamare le cose col loro giusto nome ammonendo: “il divorzio è divorzio”, “l’adulterio è adulterio” e “chi commette coscientemente e liberamente peccati gravi contro i Comandamenti di Dio – in questo caso contro il Sesto Comandamento – e muore senza essersi pentito, riceverà la condanna eterna venendo escluso per sempre dal regno di Dio”.

Tale ammonizione ed esortazione è opera dello Spirito Santo, come Cristo ha insegnato: “Egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (Gv 16, 8). Spiegando l’opera dello Spirito Santo nel “convincere riguardo al peccato”, Papa Giovanni Paolo II ha affermato: “Ogni peccato – indipendentemente da quando e da come sia commesso – si riferisce alla Croce di Cristo, e quindi indirettamente anche al peccato di quanti ‘non hanno creduto in Lui’ e hanno condannato Gesù Cristo alla morte sulla Croce” (Enciclica Dominum et Vivificantem, 29). Chi vive una vita coniugale con un partner che non è il suo legittimo sposo – come nel caso dei divorziati risposati civilmente – rinnega la volontà di Dio. Convincere tali persone della gravità di questo peccato è un’opera ispirata dallo Spirito Santo e ordinata da Gesù Cristo, ed è quindi un’opera eminentemente pastorale e misericordiosa.

Sfortunatamente, la Relazione Finale del Sinodo omette di convincere i divorziati e i risposati sulla gravità del loro peccato concreto. Al contrario, col pretesto della misericordia e di una falsa pastoralità, i Padri Sinodali che hanno appoggiato i postulati dei paragrafi 84-86 della Relazione hanno tentato di celare lo stato di pericolo spirituale dei divorziati risposati.

De facto, dicono loro che il loro peccato di adulterio o non è affatto peccato o che perlomeno non è un peccato grave e che non c’è alcun pericolo spirituale nel loro stile di vita. Il comportamento di questi Pastori è direttamente contrario all’opera dello Spirito Santo ed è pertanto un’opera antipastorale e da falsi profeti cui si addicono le seguenti parole della Sacra Scrittura: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Is 5, 20), e: “I tuoi profeti hanno avuto per te visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato le tue iniquità per cambiare la tua sorte; ma ti han vaticinato lusinghe, vanità e illusioni” (Lam 2, 14). A questi vescovi l’Apostolo Paolo rivolgerebbe oggi senz’alcun dubbio queste parole: “Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo” (2 Cor 11, 13).

Il testo della Relazione Finale del Sinodo non solo tralascia di convincere senza ambiguità i divorziati risposati civilmente sulla natura adultera e quindi gravemente peccaminosa del loro stile di vita, ma anzi lo giustifica indirettamente relegando in sostanza questa questione al contesto della coscienza individuale e applicando impropriamente il principio morale dell’imputabilità al caso di convivenza dei divorziati risposati. L’applicazione di tale principio ad uno stato stabile, permanente e pubblico di adulterio è sconveniente e ingannevole.

La diminuzione della responsabilità soggettiva si dà solamente nel caso in cui i partner abbiano la ferma intenzione di vivere in completa continenza e sforzarsi seriamente al riguardo. Finché i partner continuano intenzionalmente a condurre una vita peccaminosa, non ci può essere sospensione d’imputabilità. La Relazione Finale dà l’impressione di insinuare che uno stile di vita di pubblico adulterio – come nel caso dei risposati civilmente – non violi l’indissolubile vincolo sacramentale del matrimonio o che non costituisca un peccato mortale o grave e che questo argomento sia inoltre una mera questione di coscienza privata. Si può dedurre da ciò uno scivolamento verso il principio protestante del giudizio soggettivo su questioni di fede e disciplina e una vicinanza intellettuale alla teoria erronea dell’”opzione fondamentale”, teoria già condannata dal Magistero (cfr. Papa Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor, 65-70).

I Pastori della Chiesa non dovrebbero in alcun modo promuovere una cultura del divorzio tra i fedeli. Si devono evitare anche i più sottili gesti di cedimento alla pratica o alla cultura del divorzio. La totalità della Chiesa deve dare una testimonianza convincente e forte dell’indissolubilità del matrimonio. Papa Giovanni Paolo II ha affermato che il divorzio “è un male che, come gli altri, intacca sempre di più anche i cattolici; il problema dev’essere affrontato con decisione e senza esitazioni” (Familiaris Consortio, 84).

La Chiesa deve aiutare con amore e pazienza i divorziati risposati a riconoscere il loro stato di peccato e aiutarli a convertirsi con tutto il cuore a Dio e all’obbedienza alla Sua santa volontà, espressa nel Sesto Comandamento. Finché i divorziati risposati continueranno a dare una testimonianza pubblica contraria all’indissolubilità del matrimonio e finché contribuiranno a diffondere la cultura del divorzio, essi non potranno esercitare i ministeri liturgici, catechetici e istituzionali all’interno della Chiesa, perché questi ultimi richiedono per la loro stessa natura una vita pubblica conforme ai Comandamenti di Dio.

È ovvio che i violatori pubblici, per esempio, del Quinto e del Settimo comandamento, come i proprietari di cliniche per l’aborto o i collaboratori di una rete di corruzione, non solo non possono ricevere la Santa Comunione ma, evidentemente, non possono essere ammessi ai servizi pubblici liturgici e catechetici. Bisogna distinguere la gravità del male causato dallo stile di vita dei promotori pubblici dell’aborto e della corruzione dalla vita adultera delle persone divorziate. Non le si può mettere sullo stesso piano. Eppure, la richiesta di ammettere i divorziati e i risposati come padrini e catechisti mira in sostanza non al vero bene spirituale dei ragazzi, ma risulta piuttosto essere una strumentalizzazione di un’agenda ideologica ben specifica. Questa è disonestà, è un farsi beffe del ruolo di padrini o di catechisti i quali, con una promessa pubblica, si fanno carico del cómpito di educare alla fede.

La vita dei padrini o dei catechisti divorziati e risposati contraddice continuamente le loro parole, e così essi devono far fronte alle ammonizioni che lo Spirito Santo dà loro per bocca di San Giacomo Apostolo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi” (Gc 1, 22). Sfortunatamente, il par. 84 della Relazione Finale auspica l’ammissione dei divorziati risposati agli uffici liturgici, pastorali ed educativi. Una tale proposta rappresenta un appoggio indiretto alla cultura del divorzio e un rinnegamento pratico della condanna di uno stile di vita oggettivamente peccaminoso. Papa Giovanni Paolo II, al contrario, ha mostrato solo le seguenti due possibilità di partecipare alla vita della Chiesa, che a loro volta mirano a una vera conversione: “Essi devono essere incoraggiati ad ascoltare la parola di Dio, a partecipare al Sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a contribuire in opere di carità e negli sforzi comunitari a favore della giustizia, a educare i loro figli alla fede cristiana, a coltivare lo spirito e la pratica della penitenza e inoltre implorare ogni giorno la Grazia di Dio” (Familiaris Consortio, 84).

Dev’essere mantenuta una salutare area d’esclusione (non ammissione ai Sacramenti e agli uffici pubblici liturgici e catechetici) per ricordare ai divorziati il loro stato di serio pericolo spirituale e per promuovere allo stesso tempo nelle loro anime un atteggiamento di umiltà, obbedienza e desiderio di autentica conversione. Umiltà significa coraggio di fronte alla verità, e solo quanti si sottomettono umilmente a Dio riceveranno le Sue grazie.

I fedeli che non sono ancóra pronti o disposti a interrompere la loro vita adulterina devono essere aiutati spiritualmente. Il loro stato spirituale è simile a una sorta di “catecumenato” applicato al sacramento della Penitenza. Essi possono ricevere il sacramento della Penitenza – che nella Tradizione della Chiesa era chiamato “il secondo battesimo” o “la seconda penitenza” – solo se rompono sinceramente con l’abitudine della convivenza adulterina ed evitano il pubblico scandalo, in modo analogo a quanto fanno i catecumeni, i candidati al Battesimo. La Relazione Finale omette il richiamo dei divorziati risposati all’umile riconoscimento del loro oggettivo stato di peccato, perché tralascia di incoraggiarli ad accettare con lo spirito della fede la non ammissione ai Sacramenti e agli uffici pubblici liturgici e catechetici. Senza questo riconoscimento realistico e umile del loro stato spirituale reale, non ci sarà progresso effettivo verso un’autentica conversione cristiana, che nel caso dei divorziati risposati consiste in una vita di completa continenza e nel cessare di peccare contro la santità del sacramento del matrimonio e di disobbedire pubblicamente al Sesto Comandamento di Dio.

I Pastori della Chiesa e in particolar modo i testi pubblici del Magistero devono parlare in modo estremamente chiaro, poiché è questa la caratteristica essenziale del cómpito dell’insegnamento ufficiale. Cristo ha comandato a tutti i Suoi discepoli di parlare in modo estremamente chiaro: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). Questo è ancor più valido quando i Pastori della Chiesa predicano o quando il Magistero si pronuncia in un documento.

Il testo dei paragrafi 84-86 della Relazione Finale costituisce disgraziatamente un serio allontanamento da questo comandamento divino. Nei passi menzionati il testo non rivendicava apertamente la legittimazione dell’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione: il testo evita persino di utilizzare l’espressione “Santa Comunione” o “Sacramenti”. Piuttosto, per mezzo di tattiche raggiranti, esso utilizza espressioni ambigue come “una più piena partecipazione alla vita della Chiesa” e “discernimento e integrazione”.

Per mezzo di queste tattiche raggiranti la Relazione Finale, di fatto, pone delle bombe ad orologeria e apre una porta sul retro per l’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione, provocando così una profanazione dei due grandi sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia e contribuendo almeno indirettamente alla diffusione della cultura del divorzio e della “piaga del divorzio” (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 47).

Quando si legge attentamente l’ambiguo testo della seconda parte – “Discernimento e integrazione” – della Relazione Finale, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un’ambiguità elaborata in modo estremamente abile. Vengono in mente le parole di Sant’Ireneo nel suo Adversus haereses:

“Chi mantiene immutabile nel suo cuore la regola della verità che ha ricevuto per mezzo del battesimo, riconoscerà senza dubbio i nomi, le espressioni e le parabole prese dalle Scritture, ma giammai riconoscerà l’uso blasfemo che questi uomini fanno di esse. Poiché, pur sapendo distinguere le gemme autentiche, non riconoscerà come re la volpe travestita da sovrano. Ma, dato che manca il tocco finale che può dare credibilità a questa farsa – in modo tale che chiunque la esamini a fondo possa immediatamente opporre un argomento che la rovesci –, abbiamo giudicato conveniente mettere in risalto, prima di tutto, in che cosa gli stessi autori di questa favola differiscono tra di loro, come se fossero stati ispirati da diversi spiriti d’errore. Questo stesso fatto costituisce una prova immediata che la verità della Chiesa è immutabile, e che le teorie di questi uomini non sono altro che un tessuto di falsità” (I, 9, 4-5).

La Relazione Finale sembra lasciare la soluzione della questione dell’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione alle autorità ecclesiastiche locali: “l’accompagnamento dei sacerdoti” e “gli orientamenti dei vescovi”. Ma tale questione è essenzialmente connessa col deposito della fede, vale a dire con la parola rivelata di Dio. La non ammissione dei divorziati che vivono in pubblico stato di adulterio appartiene all’immutabile verità della legge della fede cattolica e di conseguenza anche della legge della prassi liturgica cattolica.

La Relazione Finale sembra inaugurare una cacofonia dottrinale e disciplinare nella Chiesa cattolica, che contraddice la stessa essenza dell’essere cattolici. Occorre ricordare le parole di Sant’Ireneo sulla vera natura della Chiesa cattolica in tutti i tempi e in tutti i luoghi:

“Dopo aver ricevuto questa predicazione e questa fede, la Chiesa, pur essendo sparsa in tutto il mondo, la preserva come se occupasse una sola casa. Essa crede anche ai vari punti della dottrina come se avesse una sola anima e un solo cuore, e li proclama, li insegna e li tramanda in perfetta armonia, come se possedesse una sola bocca. Poiché, anche se le lingue del mondo sono diverse tra di loro, il contenuto della tradizione è uno solo e sempre lo stesso. Poiché le Chiese che sono state fondate in Germania non credono o tramandano nulla di differente rispetto a quelle che sono state fondate in Spagna, o nella Gallia, o in Oriente, o in Egitto, o in Libia, o nelle regioni centrali del mondo (Italia). Bensì, così come il sole – che è una creatura di Dio – è uno e lo stesso in tutto il mondo, anche la predicazione della verità brilla dappertutto e illumina tutti gli uomini che vogliono venire a conoscenza della verità. E nessun capo della Chiesa, per quanto possa essere dotato di eloquenza, insegnerà mai dottrine differenti da queste (poiché nessuno è più grande del Maestro); né, d’altra parte, quanti mancano di potere d’espressione potranno danneggiare la tradizione. Dato che la fede è sempre una e la stessa, né le persone che hanno una grande capacità d’argomentazione su di essa vi aggiungeranno nulla, né quanti sono poco capaci di esprimersi vi toglieranno nulla” (Adversus haereses, I, 10, 2).

La parte della Relazione Finale dedicata ai divorziati risposati evita attentamente di proclamare il principio immutabile dell’intera tradizione cattolica, vale a dire che quanti vivono in un’unione coniugale non valida possono essere ammessi alla Santa Comunione solo sotto la condizione di promettere di vivere in completa continenza e di evitare il pubblico scandalo. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno confermato con forza questo principio cattolico. L’evitare deliberatamente di menzionare e riaffermare questo principio nel testo della Relazione Finale può essere comparato con il sistematico astenersi dall’utilizzare il termine “homoousios” da parte degli avversari del dogma del Concilio di Nicea nel quarto secolo – gli Ariani formali e i cosiddetti semi-Ariani –, che inventavano continuamente espressioni nuove al fine di non confessare apertamente la consustanzialità del Figlio di Dio con Dio Padre.
Tale astensione da un’aperta confessione cattolica da parte della maggioranza dei vescovi nel quarto secolo causò una febbrile attività ecclesiastica con continui incontri sinodali e la proliferazione di una nuova formula dottrinale, che avevano il denominatore comune di evitare la chiarezza terminologica, vale a dire il termine “homoousios”. Analogamente, ai nostri giorni i due ultimi Sinodi sulla Famiglia hanno evitato di nominare e proclamare chiaramente il principio dell’intera tradizione cattolica secondo il quale quanti vivono in un’unione matrimoniale non valida possono essere ammessi alla Santa Comunione solo sotto la condizione di promettere di vivere in completa continenza e di evitare il pubblico scandalo.

Questo fatto è provato anche dall’immediata e inequivoca reazione dei media laici e dalla reazione dei principali sostenitori della nuova pratica anticattolica di ammettere i divorziati risposati alla Santa Comunione anche quando mantengano una vita di pubblico adulterio. Il Cardinal Kasper, il Cardinal Nichols e l’Arcivescovo Forte, per esempio, hanno affermato pubblicamente che in base alla Relazione Finale si può assumere che in un certo qual modo siano state aperte le porte alla Comunione ai divorziati risposati. Vi è anche un considerevole numero di vescovi, sacerdoti e laici che si rallegrano di queste cosiddette “porte aperte” che hanno trovato nella Relazione Finale. Invece di guidare i fedeli con un insegnamento chiaro e assolutamente privo di ambiguità, la Relazione Finale ha provocato una situazione di oscuramento, confusione, soggettività (il giudizio della coscienza dei divorziati e il foro interno) e generato un particolarismo dottrinale e disciplinare non cattolico in questioni che sono essenzialmente connesse col deposito della fede così com’è stata trasmessa dagli Apostoli.

Ai nostri giorni, quanti difendono con forza la santità dei sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia vengono etichettati come Farisei. Eppure, se il principio logico di non contraddizione è ancóra valido e il senso comune funziona ancóra, è vero il contrario.

Sono piuttosto gli offuscatori della verità divina nella Relazione Finale a somigliare ai Farisei, giacché per conciliare una vita adulterina con la ricezione della Santa Comunione hanno inventato abilmente nuovi termini, nuove leggi di “discernimento e integrazione”, introducendo nuove tradizioni umane in contraddizione coi cristallini comandamenti di Dio. Ai sostenitori della cosiddetta “Agenda Kasper” sono indirizzate queste parole della Verità Incarnata: “Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7, 13). Oggi anche tutti quelli che, per duemila anni, hanno parlato senza sosta dell’immutabilità della verità divina, spesso anche a costo delle loro vite, sarebbero etichettati come Farisei; anche San Giovanni Battista, San Paolo, Sant’Ireneo, Sant’Atanasio, San Basilio, San Tommaso Moro, San Giovanni Fisher, San Pio X, per menzionare solo gli esempi più rifulgenti.

Il risultato reale del Sinodo è la percezione, da parte sia dei fedeli che della pubblica opinione secolare, che vi sia stata praticamente una sola posizione sulla questione dell’ammissione dei divorziati alla Santa Comunione. Si può affermare che il Sinodo, in un certo senso, è risultato essere agli occhi della pubblica opinione un Sinodo dell’adulterio, non il Sinodo della famiglia. In effetti, tutte le belle affermazioni della Relazione Finale sul matrimonio e sulla famiglia sono eclissate dalle affermazioni ambigue nei paragrafi relativi ai divorziati risposati, un argomento che era già stato confermato e deciso dal Magistero degli ultimi Pontefici Romani in fedele conformità col bimillenario insegnamento e la pratica bimillenaria della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio, e quindi sulla non ammissione ai Sacramenti dei divorziati che vivono in unioni adulterine.

Nella sua lettera a Papa Damaso, San Basilio tracciò una pittura realistica della confusione dottrinale causata dagli uomini di Chiesa che cercavano un compromesso vuoto e un adattamento allo spirito del mondo dei loro tempi: 

“Le Tradizioni sono tenute a nulla; i metodi degli innovatori sono di moda nelle varie Chiese; oggi gli uomini sono più inventori di sistemi raggiranti che teologi; la sapienza di questo mondo vince i premi più alti, ma ha rinnegato la gloria della Croce. Gli anziani si lamentano quando si paragona il presente al passato. I giovani sono da compatire ancóra di più, poiché non sanno nemmeno di cosa sono stati privati” (Ep. 90, 2).

In una lettera a Papa Damaso e ai vescovi occidentali, San Basilio descrive come segue la situazione confusa all’interno della Chiesa:

“Le leggi della Chiesa si trovano nella confusione. L’ambizione di uomini privi di timor di Dio si insinua nelle più alte cariche, e gli uffici più alti sono oggi pubblicamente riconosciuti come il premio dell’empietà. Il risultato è che più un uomo bestemmia, più lo si ritiene adatto ad essere un vescovo. La dignità clericale è una cosa del passato. Non vi è una conoscenza precisa dei canoni. Il peccato gode di completa immunità, poiché quando a qualcuno è stato assegnato un ufficio grazie al favore di uomini, egli è costretto a restituire il favore mostrando continua indulgenza a quanti operano il male. Il giudizio retto è una cosa del passato; ognuno segue solo i desideri del proprio cuore. Quanti si trovano in posizioni di autorità hanno paura di parlare, poiché quanti hanno raggiunto il potere per interesse umano sono schiavi di quelli a cui debbono la loro ascesa. E oggi la stessa difesa dell’ortodossia viene vista in certi ambienti come un’opportunità per l’attacco reciproco; gli uomini nascondono la loro cattiva volontà fingendo che la loro ostilità si debba al loro amore per la verità. I non credenti se la ridono continuamente; gli uomini dalla fede debole sono scossi; la fede è incerta; le anime sono immerse nell’ignoranza, poiché gli adulteratori della parola imitano la verità. I migliori tra i laici evitano le chiese come scuole di empietà e nel deserto, con singhiozzi e lacrime, alzano le mani al loro Signore che è nei Cieli. Noi abbiamo ricevuto la fede dei Padri, quella fede che sappiamo essere stata marcata col sigillo degli Apostoli; a quella fede aderiamo, così come a tutto ciò che in passato è stato canonicamente e legalmente promulgato” (Ep. 92, 2).

Ogni periodo di confusione nella storia della Chiesa costituisce allo stesso tempo una possibilità di ricevere molte grazie di forza e coraggio e di dimostrare il proprio amore per Cristo Verità Incarnata. A Lui ogni battezzato e ogni sacerdote e vescovo ha promesso indefessa fedeltà, ognuno in conformità col proprio stato: tramite i voti battesimali, tramite le promesse sacerdotali, tramite la promessa solenne nell’ordinazione episcopale. Infatti, ogni candidato al vescovato ha promesso: “Manterrò puro ed integro il deposito della fede in conformità con la tradizione che è stata preservata sempre e ovunque nella Chiesa”. L’ambiguità che si trova nei paragrafi sui divorziati e risposati della Relazione Finale contraddice il summenzionato voto solenne episcopale. Nonostante ciò, ognuno nella Chiesa – dal semplice fedele a quanti detengono il Magistero – deve dire:

Non possumus!” Non accetterò un discorso fumoso né una porta sul retro abilmente nascosta verso una profanazione dei Sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia. Analogamente, non accetterò che si irrida al Sesto Comandamento di Dio. Preferisco essere messo in ridicolo e perseguitato io piuttosto che accettare testi ambigui e metodi non sinceri. Preferisco la cristallina “immagine di Cristo Verità, piuttosto che l’immagine della volpe adornata di gemme” (Sant’Ireneo), perché “So in Chi ho creduto”, “Scio, Cui credidi!” (2 Tim 1, 12).

2 novembre 2015
+ Athanasius Schneider, 

Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Santa Maria in Astana


[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

Fonte: Chiesa e postconcilio, 4.11.2015

Come raffigurare i corpi deturpati ed imperfetti di alcuni Santi?

Next: “Sevérus, Severiánus, Carpóphorus et Victorínus fratres, in persecutióne Diocletiáni, deórum cultum líbere detestántes, plumbátis cæsi, in verbéribus vitam pro Christi nómine profudérunt. Quorum córpora, cánibus objécta, cum ab illis intácta diu fuíssent, subláta a Christiánis, via Lavicána tértio ab Urbe lápide, in arenária sepeliúntur, prope sepúlcrum sanctórum Mártyrum Cláudii, Nicóstrati, Symphoriáni, Castórii et Simplícii, qui eódem imperatóre passi erant; quod, cum essent summi sculptóres, nullo modo addúci potúerant ut idolórum státuas fácerent, et, ad solis simulácrum ducti, ut illud veneraréntur, numquam commissúros se dixérunt ut adorárent ópera mánuum hóminum” (Lect. IX – III Noct.) - SANCTORUM QUATTUOR CORONATORUM MARTYRUM
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Il contributo che segue – in lingua inglese – è un brevissimo saggio sull’arte figurativa cristiana, che s’interroga sul modo in cui rappresentare nelle immagini dei Santi le loro imperfezioni fisiche ed handicap. L’autore, a questo riguardo, ricorda, tra gli altri, la beata Margherita di Città di Castello (o della Metola), nata cieca e storpia, abbandonata dai suoi genitori in tenerissima età in una chiesa, eppure molto simile, a questo proposito, al Cristo umiliato, percosso e crocifisso, che «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is. 53, 2).






How Do We Paint Disfigurement and Bodily Imperfections in Saints?

by DAVID CLAYTON

Blessed Margaret of Castello is the patron saint of unwanted and disabled children. Born in 14th century Italy, she was disfigured and neglected from birth by her wealthy parents. She was taken in by Dominican nuns when she was sixteen and became a member of their Third Order. Her story is both harrowing and inspiring: harrowing because of the suffering and cruelty she experienced; and inspiring because of her joy in life, which arose from her faith and transcended that suffering. Here is an account of her life from the website of the Dominican sisters at Nashville. As I read this story, it occurred to me that if she had been conceived in our era, and her parents had had access to a sonogram before her birth, she would might very well have become another abortion statistic.

A friend of mine, Gina Switzer, told me that she had been commissioned to paint and image of her, and we were discussing how artists might represent human disfigurement in Saints so that they retain the dignity of the human person. So this week, I thought I’d write about this. (We’ll come back to the series of architecture videos next week.)

The first point is that it is not immediately clear that human imperfections should be portrayed in holy images. One might assume that these are absent in heaven, and so, to the degree that we show the redeemed person, one might argue that they should not be there at all. I was reminded that Denis McNamara told me recently that when they were designing the stained glass windows for the new John Paul II chapel at Mundelein, they thought about this and deliberately left out St Maximilian Kolbe’s spectacles for just this reason.

The counter to this is that in order to make an image worthy of veneration, according to the theology of holy images established by St Theodore the Studite in the 9th century, two things need to be present. First, the name should be written on the image; and second, it should portray the essential visual characteristics of the saint. This last criterion refers to those aspects of the saint that together give the person his unique identity. This can include a physical likeness, although a rigid application of physical likeness is not appropriate; a holy image is not a portrait. We are thinking here of those things that characterize the person and his story, for example, St Paul’s baldness, or the tongs holding hot coal for Isaiah. With this in mind, to use the example of the JPII chapel again, Denis told me that for Blessed Teresa of Calcutta they did want to show her deformed feet because it symbolized her charity; this disfigurement arose because she always chose the worst shoes for herself from those donated to the order. We thought that for St Margaret, in this age of the culture of death, the portrayal of her as a joyful person, but with her physical imperfections, would be particularly important.

One idea was to look for inspiration to the dwarfs painted by Velazquez from the court of Philip IV of Spain, who have great dignity and bearing. This idea was rejected, firstly because they can also have a haughtiness about them which would be inappropriate and need to be changed. Secondly, to successfully incorporate all of these considerations into a naturalistic style would be very difficult indeed - it might almost require a Velazquez to do it. Even in naturalistic styles, there should always be a degree of symbolism (or idealism), and this is notoriously difficult for contemporary Catholic artists to get right even for easier subjects. (Below is Velazquez’s portrait of Sebastien de Morro.)



In the light of all these considerations, I thought that I would probably paint an image in a Gothic or iconographic style, in which Bl. Margeret’s natural physical characteristics were shown, retained but nevertheless redeemed in some way. The first thing I always do, as I was taught, is to look first at existing images, and if I can find one that is appropriate, just copy it. The aim to change as little as possible. If there is no perfect image to copy, then I look at other images from which I can use the particular characteristics that appear to be missing from my desired image, and patch them together into a single image. Only if I can find nothing that has already been painted do I attempt something original. I create drawings made from observation of nature and onto those I impose the stylistic form of the tradition that I am working in.

I found this picture of a sculpture of St Margaret.



I thought that a painting in egg tempera based upon this would work. One change I would make, however, would be to change make her face more joyful. I like the ones that I see in a series of Aidan Hart’s icons, such as St Winifride, St Hilda of Whitby, or St Melangell, which look to me as though they are based on an ancient icon of St Theodosia at Mt Sinai. You can see images of each below. I would also St Margaret’s her eyes to indicate her blindness.






Fonte: New Liturgical Movement, Nov. 6th 2015

“Sevérus, Severiánus, Carpóphorus et Victorínus fratres, in persecutióne Diocletiáni, deórum cultum líbere detestántes, plumbátis cæsi, in verbéribus vitam pro Christi nómine profudérunt. Quorum córpora, cánibus objécta, cum ab illis intácta diu fuíssent, subláta a Christiánis, via Lavicána tértio ab Urbe lápide, in arenária sepeliúntur, prope sepúlcrum sanctórum Mártyrum Cláudii, Nicóstrati, Symphoriáni, Castórii et Simplícii, qui eódem imperatóre passi erant; quod, cum essent summi sculptóres, nullo modo addúci potúerant ut idolórum státuas fácerent, et, ad solis simulácrum ducti, ut illud veneraréntur, numquam commissúros se dixérunt ut adorárent ópera mánuum hóminum” (Lect. IX – III Noct.) - SANCTORUM QUATTUOR CORONATORUM MARTYRUM

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Dobbiamo anzitutto fare un’osservazione. Tanto il Sacramentario Leoniano che il feriale Filocaliano assegnavano il natale dei Coronati non già oggi, ma al V id. nov., cioè a domani. Ecco il testo del Feriale: V id. nov.: Clementis, Semproniani, Claudi, Nicostrati, in Comitatum, cioè nelle vicinanze del parco imperiale ad duas lauros, sulla via di Labico. Al contrario, il Geronimiano precisa l’8 quale data del loro natale celebrato sul Celio, dov’è oggi la loro basilica.

La storia di questi santi Martiri designati sin dall’antichità col semplice nome di «Coronati», è una delle più intricate. Alcuni archeologi hanno voluto distinguere ben tre gruppi di martiri Coronati. Vengono dapprima i cinque lapicidi (tagliatori di pietra, marmorari, scalpellini) della Pannonia: Simproniano (o Sinforiano), Claudio, Nicostrato, Castorio e Simplicio, i quali, per essersi rifiutati di scolpire una statua del dio Esculapio, furono messi a morte sotto Diocleziano, nel 306, sebbene poco prima avessero condotto a termine un simulacro del Sole in quadriga reggente i cavalli. Questa narrazione sembra quella più antica ed attendibile, essendo coerente con la morale cristiana, la quale sapeva ben distinguere le opere d’arte che erano considerate come ornamentum simplex da quelle che ad idololatriæ causam pertinebant, giusta la distinzione di Tertulliano (Così ricorda MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 497, nonché Giovanni Battista De Rossi, La Roma sotterranea cristiana, t. II, Roma 1867, p. 352. Cfr. Tertulliano, Adversus Marcionem libri quinque, lib. II, cap. 22, in PL 2 (ed. 1844), col. 310A; (ed. 1878), col. 337B).

Seguono poi i quattro militi corniculari Coronati Romani, elencati dal Filocaliano e deposti sulla via Labicana, che non volevano sacrificare ad Esculapio. I nomi di questi militari, rimasti ignoti, furono confusi, nei martirologi, con i nomi di altri martiri sepolti in Albano.

Vengono da ultimo gli altri quattro Santi di Albano, menzionati nello stesso feriale Filocaliano il giorno 8 agosto, «Secundi, Carpofori, Victorini et Severani in Albano».

Come nota l’Armellini, la confusione fra i martiri pannonici ed i corniculari accadde quando quei primi sarebbero stati trasferiti in Roma e sepolti in un cimitero della via Labicana nel luogo detto ad duas lauros, e poi dei ss. Pietro e Marcellino, nel luogo stesso ove furono sepolti i corniculari. Questa confusione si accrebbe quando i due gruppi furono portati alla vetusta chiesa, che sorge ancora sul Celio, a cura del papa Leone IV (847‑855), dei quali già era stata decretata comune la commemorazione dal papa san Milziade (così MarianoArmellini, op. cit., p. 498), che avrebbe provveduto, forse, anche a fondare quella chiesa celimontana dedicandola ai quattro anonimi corniculari, detti coronati per aver ricevuto la corona del martirio (ibidem). Sta di fatto che questa chiesa è assai antica ed i presbyteridi questo Titolo tra i sottoscrittori del sinodo romano del 499 sotto papa san Simmaco e del 595 sotto papa san Gregorio Magno (Così ricorda Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 427-428. Gli atti e le sottoscrizioni del sinodo romano del 499 sono in J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum. Nova et amplissima collectio, vol. VIII, Florentiæ 1763, col. 236 s. (dove la chiesa figura indicata come titulus Æmilianæ); quelli del sinodo del 595 sono ivi, vol. IX, Florentiæ 1765, col. 1229, nonché, per quanto ci interessa, in PL 77, 1339B.).

Sorge quindi la questione: i Quattro Coronati, recensiti oggi nel Feriale e nei Sacramentari, a quale di questi tre distinti gruppi appartengono? I lapicidi di Pannonia furono realmente trasportati in Roma sulla via Labicana sin dal IV sec.? Sembra di no. Siccome però il Feriale e gli antichi Itinerari non ricordano sulla via di Labico che un sol gruppo di quattro, o cinque Martiri Coronati, quelli cioè elencati da Furio Dionisio Filocalo, gli altri due gruppi dei lapicidi Pannoni e dei Santi Albanesi dove vanno a finire?

Sono questi dei problemi assai intricati, che per il momento non si è ancora in grado di risolvere definitivamente. Qualsiasi soluzione si voglia poi dare alla questione, essa verrà, prima di essere esaminata, non già soltanto a tavolino e con l’unica scorta degli Atti, ma discendendo anche nei cimiteri romani ed interrogando i monumenti locali superstiti.

Ora noi troviamo che gli antichi pellegrini nel cimitero dei santi Pietro e Marcellino veneravano, non già due, ma un unico gruppo di martiri sotto il titolo sempre costante di «IV Coronatos». Così infatti si esprime il Salisburgense.

Strano invece è il modo d’esprimersi del De locis SS. Martyrum, il quale, mentre vuole spiegare con maggior precisione chi siano codesti Coronati, fonde insieme la tradizione agiografica dei Quattro Corniculari Romani coi cinque scultori martirizzati nella lontana Pannonia. Ecco il testo: Quatuor Coronati id est: Claudius, Nicostratus, Simpronianus, Castorius, Simplicius. Ne enuncia quattro e poi ne elenca cinque, che sono precisamente i lapicidi di Pannonia!

Come spiegare quest’anomalia? Con l’esame delle due Passioni. A chi mette a confronto quella dei Martiri Romani con l’altra dei lapicidi di Sirmium, appare chiaro che l’una è ricalcata sull’altra. La vicinanza della loro data obituale ha vieppiù aiutato l’agiografo a rafforzare il nesso tra i due gruppi; così che, mentre in un primo tempo la liturgia s’era contentata di unire in un unico culto i due distinti gruppi di Santi, più tardi quelli di Pannonia finirono per sovrapporsi addirittura ai Romani, tanto che nei Sacramentari andò perfino perduta la tradizione primigenia dei nomi dei nostri Martiri Corniculari della via di Labico. Ecco precisamente lo stato della leggenda rappresentata dai Sacramentari e dal de Locis sanctis. Persiste bensì l’uso romano di denominare la festa dai Quattro Coronati della Labicana: però questi Quattro, pur rimanendo tali, sono effettivamente cinque, id est, - strana la forza di questo idest adoperato nel De Locis sanctis! – perché i quattro Romani sono stati identificaticoi cinque lapicidi Pannoni, id est Claudius etc.

Il primitivo sepolcro dei Martyres corniculari romani, è stato ritrovato nel cimitero ad duas lauros negli scavi del 1912. In fondo ad una galleria fu scoperto un grandioso cubicolo, il quale dalle vestigia di decorazioni e dai graffiti mostra d’essere stato in venerazione sino almeno al sec. IX. Una porta, tagliata nella parete sinistra dell’ipogeo, conduce per mezzo d’un altro cubicolo ad una seconda cripta, dove in fondo ad un nicchione si sono trovati i resti d’un grande sarcofago, protetto originariamente da una transenna marmorea che gli era stata innalzata davanti. Sulle pareti annerite dalle terre, era graffito due volte il + Leo Presbyter, il noto frequentatore dei cimiteri romani nell’Alto Medioevo. Finalmente, poco distante, venne letto altresì il proscinema: + SCE CLE(mens). Ecco dunque il Clemens del Filocaliano, il quale riposava in questo santuario insieme ai compagni Coronati, - id est - questa volta è proprio il caso di ripeterlo - Sempronianus, Claudius et Nicostratus.

La messa Intretè come quella del 22 gennaio, mentre invece la prima lettura la si desume dal 20 precedente, festa di san Sebastiano.

Il Vangelo è quello della festa di tutti i Santi. Di proprio non rimangono quindi che le collette, ed in antico, anche il prefazio.

La prima colletta, nel messale tradizionale, è identica a quella del 10 luglio, ma in antico conteneva anche i nomi dei Martiri.

Il brano evangelico assegnato oggi nell’indice di Würzburg non è già quello descritto nel Messale, ma bensì l’altro della festa di san Sebastiano (DIE VIII MES. NOVEM. NT. SCOR. IIII CORONATORUM lec. sci. eu. sec. Luc. k. XLV. Descendens Ihs. de monte stetit in loco campestri usq. copiosa est in caelis).

Oggi tutta la tradizione liturgica romana, a cominciare dal Sacramentario Leoniano, assegna ai «Coronati» un prefazio speciale.
Nella messa stazionale che il Papa, un tempo, celebrava sul Celio nella basilica dei Quattro Coronati, giusta gli Ordini Romani del XIII sec., in onore dei Santi veniva anch’egli coronatocol regnum, o tiara pontificia.
È assai significativo il titolo attribuito sin dall’antichità all’odierno gruppo di Martiri: i coronati. Ora, siccome nessuno può meritare la corona della vittoria se prima non ha combattutoa norma del regolamento «nisi legitime certaverit», come dice l’Apostolo, ne segue che neppure noi possiamo in alcun modo guardare il mondo e la vita presente se non come il campo del combattimento e la durata legale della nostra militia sotto Cristo condottiero - Regnante Domino nostro Jesu Christo.



Niccolò di Pietro Gerini, Flagellazione dei Quattro coronati, 1385-90, Philadelphia Museum of Art‎, Philadelphia



Nanni di Banco, Tabernacolo dell’arte dei Maestri di Pietra e Legname con i SS. Quattro Coronati, 1409-16/17, Orsanmichele, Firenze


Francesco Trevisani, Martirio dei Quattro coronati, XVII sec.


“Dénique, post heróica virtútum exémpla, prophetíæ quoque dono illústris, quo et secréta córdium et abséntia et futúra prospéxit, annis gravis et labóribus fractus, ad aram celebratúrus in verbis illis tértio repetítis: Introíbo ad altáre Dei, repentíno apoplexíæ morbo corréptus est; mox sacraméntis rite munítus, placidíssime inter suos ánimam efflávit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI ANDREÆ AVELLINI, CONFESSORIS

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Questo celebre missionario Napoletano, fulgida gloria della congregazione dei Chierici Regolari istituiti da san Gaetano Thiene, rientra a parte di quel gruppo meraviglioso di Santi i quali, come san Carlo Borromeo, il beato Paolo di Arezzo, lo stesso san Gaetano, promossero il sano movimento di riforma Cattolica, il di cui risultato è appunto rappresentato dal Concilio Tridentino.

Sant’Andrea Avellino, già direttore spirituale del seminario vescovile di Piacenza dove se ne custodisce tuttavia la memoria, viene altresì invocato dai fedeli siccome celeste protettore contro gli attacchi apoplettici e le morti improvvise; egli infatti morì in seguito ad un attacco di apoplessia che lo sorprese all’altare, mentre ripeteva le parole del Salmista: Introibo ad altare Dei (+ 1608). Fu canonizzato nel 1712 ed inserito nel calendario nel 1725, con rito semidoppio e mentre la memoria dei santi martiri Trifone, Respicio e Ninfa, che si celebrava in questo giorno, fu ridotta al rango di mera commemorazione. La festa del Santo fu elevata al rango di doppia a partire dal 1864.

Roma cristiana ha dedicato al nostro santo una chiesa sita in zona Tomba di Nerone, sede parrocchiale istituita nel 1981 e consacrata nel 1996.

La messa è del Comune dei Confessori: Os justi, come il 23 gennaio per san Raimondo. Solo la prima colletta è propria e, secondo l’uso moderno, fa la storia delle virtù del Santo, con un’applicazione morale per i fedeli.

Nella vita presente, la santità non è una forma o un abito già totalmente completo e bello e fatto, che s’indossa una volta e poi non ci si pensa più. La grazia battesimale depone in noi come in germe il Cristo, - quos iterum parturio, donec formetur Christus in vobis(Gal. 4, 19) - che noi dobbiamo misticamente rivivere. Questo Cristo, è seme d’una vita intensa ed esuberante, che cresce e si sviluppa sino a quella «mensura ætatis plenitudinis Christi» (Ef. 4, 13) stabilita da Dio per ciascuno di noi. Raggiunta che si abbia questa misura o conformità, la permanenza nostra quaggiù non ha più scopo, ed al tempo succede allora l’eternità. Cosicché, noi stiamo su questa terra come le statue nello studio d’uno scultore; compiuto che abbia l’artista l’ultimo ritocco, il capolavoro va fuori del laboratorio e viene collocato a quel posto per cui esso venne fatto.


Giovanni Lanfranco, S. Andrea Avellino, 1624, Chiesa di Sant’Andrea della Valle, Roma

Matteo Rosselli, I SS. Gaetano di Thiene, Andrea Avellino, Francesco d’Assisi adoranti la Trinità, con la Madonna, ed i SS. Giovanni Battista e Michele arcangelo, XVII sec., chiesa dei Santi Michele e Gaetano, Firenze

Parmigianino, Morte di S. Andrea Avellino, XVII sec.

Ambito di Giovanni Battista Piazzetta, Morte di S. Andrea Avellino con i SS. Luigi Gonzaga e Francesco Saverio (?), 1712-54, Museum of Art Bath, Holburne

Urna col corpo di S. Andrea Avellino, Basilica di San Paolo Maggiore, Napoli

Don Leonardo Maria Pompei a Capurso

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AVVISO SACRO

Giovedì 19 novembre 2015, ore 20,00

presso la Parrocchia di San Francesco di Paola


in Capurso


Don Leonardo Maria Pompei

parroco della chiesa di San Michele Arcangelo, Latina


terrà una catechesi sul

Sacramento della Confessione

“Romam véniens anno jubilæi, Nicoláo quinto Pontífice, ægrotórum curæ in convéntu Aræ cæli destinátus, eo caritátis afféctu munus hoc exércuit, ut, Urbe annónæ inópia laboránte, ægrótis tamen, quorum aliquándo úlcera étiam lambéndo abstergébat, nihil pénitus necessárii defécerit. Exímia quoque fides et grátia curatiónum in eo elúxit, cum lámpadis, quæ collucébat ante imáginem beatíssimæ Dei Genitrícis, quam summa devotióne colébat, óleo ægros inúngens, signo crucis imprésso, multórum morbos mirabíliter sanáverit” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI DIDACI COMPLUTENSIS, CONFESSORIS

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Quest’umile frate francescano, celebre per i suoi numerosi miracoli, merita un posto d’onore nel calendario della Chiesa Madre, perché Roma cristiana, durante l’anno giubilare del 1450, fu testimone della sua santità.

Quell’anno santo fu davvero il “Giubileo dei santi”: il 24 maggio, domenica di Pentecoste, fu canonizzato a Roma san Bernardino da Siena. Per la circostanza convennero nell’Urbe moltissimi pellegrini e tra questi ben quattro futuri santi francescani: oltre al nostro Santo, anche Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca e Pietro Regalado. Vi giunsero quell’anno pure Rita da Cascia, Caterina Vegri (o Vigri) da Bologna ed Antonino Pierozzi, arcivescovo di Firenze. Era presente, inoltre, perché vi lavorava, il Beato Angelico (cfr. Serena Ravaglioli, Il Giubileo dei Santi, in 30Giorni, 1998, fasc. 11).

Il fratello Didaco, venuto a Roma per la canonizzazione di Bernardino assieme al confratello Alfonso de Castro, risiedeva all’epoca nel convento d’Ara Cœli (retto da un ramo dei frati minori conventuali, cioè i francescani c.d. osservanti dal 5 giugno 1445: così ricorda MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 545) ed era addetto al servizio di infermeria. Oggi il suo passaggio a Roma è ricordato da una cappella a lui dedicata nella Basilica di Santa Maria d’Aracœli (ibidem).

Tornato in Spagna, morì ad Alcalà de Hénarès il 12 novembre 1463 e fu canonizzato da un papa francescano, Sisto V, il quale, nel 1588, su richiesta del re di Spagna Filippo II, iscrisse il suo nome nel calendario romano, venendo da allora festeggiato, da principio al 12 novembre senza designazione di rito, poi elevato nel 1602 al rango di semidoppio con commemorazione di san Martino papa. In seguito, a partire dal 1671, la sua festa fu fissata al 13 novembre, sempre con rito semidoppio.

La messa Justusè la stessa del 31 gennaio.

La preghiera di colletta è propria.

In essa si esalta il Signore, che, mediante san Diego, ha confuso la tracotanza del secolo. La superbia è la lussuria dell’anima, che si compiace di se medesima. Dio perciò non adopera mai per le sue grandi opere i superbi, perché questi gliene ruberebbero la gloria, né d’altra parte sarebbero strumenti troppo maneggevoli nelle sue mani. Egli anzi confonde i superbi, prostrandoli, come il gigante Golia, con una pietra ed una fionda; con mezzi cioè umili e disadatti, affinché la gloria della vittoria sia tutta del Signore.
Le altre due collette sono dal Comune, come per la festa di san Filippo Benizi, il 23 agosto.


Bartolomé Esteban Murillo, S. Diego di Alcalà dà il cibo ai poveri, 1645-46, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

Nicolò Betti, Miracolo delle rose di S. Diego, 1610 circa, Convento de las Descalzas Reales, Valladolid

Bartolomé Esteban Murillo, La cucina degli angeli (miracolo di S. Diego di Alcalà), 1646, musée du Louvre, Parigi

Scuola bolognese, S. Diego con boccioli di rose, XVII sec., collezione privata



Pietro Dandini, S. Diego appare a S. Maria Maddalena de' Pazzi, 1707 circa, collezione privata

Se non avete ancora capito l’antifona ....

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Nella memoria anche di S. Stanislao Kostka, confessore, rilancio – su segnalazione – questa breve riflessione.




Pierre Le Gros il Giovane, S. Stanislao Kostka sul suo letto di morte, 1705, Chiesa di S. Andrea al Quirinale, Roma

Johann Friedrich Greuter, La Vergine porge il Bambino Gesù a S. Stanislao, 1619 circa, British Museum, Londra


Se non avete ancora capito l’antifona…

del M° Aurelio Porfiri (Chief Editor)


Devo ammettere che mi fa molto rabbia vedere altre nazioni molto più avanti di noi nel portare avanti progetti culturali di cui noi dovremmo essere gli alfieri. Questo perché so che l’Italia è piena di veri talenti, anche nel campo della musica e dell’arte liturgica. Come ho sempre detto, siamo soffocati dal clericalismo, irretiti dall’indolenza di certi uffici liturgici, atterriti dal livello di ignoranza liturgica e musicale che purtroppo attanaglia il nostro paese. Uno dei punti su cui si dovrebbe partire, lo voglio dire ancora, è cantare la Messa, non cantare nella Messa. Il Messale. Come ho detto in precedenza, ci sono vari vantaggi: le antifone di introito e comunione (che fine ha fatto l’offertorio???) sono altre letture bibliche, mettendo in risalto quell’enfasi biblica portata avanti dal Concilio Vaticano II. Le antifone circoscrivono la liturgia, le danno un colore unico, un senso proprio, una densità di senso che le denota. Le antifone, se ben composte, si prestano a vari tipi di esecuzione, dal monodico al polifonico e ogni cosa in mezzo. Le antifone sono brevi e facili da ricordare e via dicendo.
Insomma, se non si riescono a creare aree di eccellenza in alcune parrocchie o programmi liturgico musicali adeguati, non è perché non è possibile, ma perché non si vuole. Negli ultimi anni comincio a pensare, Dio non voglia, che c’è una volontà da parte di qualcuno di fare in modo che le cose vadano così, una volontà di indebolire, effeminare, deprivare la tempra del cattolicesimo italiano, in modo che somigli a quelle religioni da decadenza dell’impero, più simile ai culti di Eliogabalo che alla forza di carattere dei grandi santi e delle grande sante. Forse non ci si fa caso, ma la liturgia per compiere questo progetto, è uno degli snodi più importanti.

Il “Patto delle catacombe” e i “soliti noti” del concilio

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Un convegno sul c.d. patto delle catacombe: un aspetto inedito e curioso del Concilio Vaticano II. Il contributo è anche pubblicato su Chiesa e postconcilio.


Il “Patto delle catacombe” e i “soliti noti” del concilio


di Mauro Faverzani


Con la Bolla Misericordiae Vultus, con cui ha indetto l’imminente Giubileo straordinario, papa Francesco già aveva detto di voler collegare tale evento ai 50 anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II.

Ma di quale volto del Concilio si trattasse appare oggi, in qualche modo, più chiaro col riemergere del “Patto delle catacombe”, per ricordare il quale il prossimo 14 novembre è stato promosso presso l’aula magna della Pontificia Università Urbaniana un seminario, al quale è prevista la partecipazione, tra gli altri, del card. João Braz de Aviz, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica, dello storico Alberto Melloni, leader della cosiddetta “Scuola di Bologna”, ed anche di quel Jon Sobrino, teologo gesuita, le cui opere nel 2007 furono giudicate «errate» su punti essenziali dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Il che non gli impedirà, però, il giorno prima, di incontrarsi in Santa Marta per la S. Messa delle 7 col Sommo Pontefice, come annunciato dal Sir, l’agenzia di stampa ufficiale della Cei, da Radio Vaticana e dal quotidiano Avvenire.

Ma in cosa consiste esattamente il “Patto delle catacombe”? Il nome lo deve al luogo ove fu siglato, proprio 50 anni fa, il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio, ovvero nelle catacombe di Santa Domitilla a Roma, tra le tombe di ben 100 mila cristiani dei primi secoli. Al “Patto” aderirono 42 Vescovi conciliari di 15 Paesi, tra cui i nomi di spicco dell’iperprogressismo ecclesiale, come il brasiliano mons. Hélder Câmara, Arcivescovo di Olinda e Recife, e mons. Luigi Bettazzi, allora Vescovo ausiliare di Bologna, oggi Vescovo emerito di Ivrea: anche lui, il prossimo 14 novembre, prenderà peraltro parte al citato seminario di Roma.

Alle 42 adesioni iniziali al “Patto delle catacombe”, ben presto si aggiunsero altri nomi, tra i quali quello dell’Arcivescovo di San Salvador, mons. Oscar Romero, beatificato dal regnante Pontefice. Il brodo di coltura, cui più o meno tutti facevan riferimento, era comunque quello orbitante attorno al gruppo Église des pauvresfondato dal prete-operaio Paul Gauthier e dalla monaca carmelitana, Madre Marie-Thérèse Lescase, nonché quello della “Teologia della Liberazione”, condannata nel 1984 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con l’Istruzione Libertatis Nuntius, approvata da Giovanni Paolo II.

Ma i firmatari del “Patto”, decisi a proseguire per la propria strada, si impegnarono ad essere una «Chiesa serva e povera», dichiarando di voler rinunciare a lussi, proprietà e conti in banca, potere e privilegi, persino ai titoli: non più Eminenze, Eccellenze e Monsignori, solo generici «Padri». Pronti a chiedere alle Nazioni del mondo di adottare «strutture economiche e culturali» sempre più attente alle esigenze delle «masse povere», per farle «uscire dalla loro miseria».

A far tornare allo scoperto questo “Patto” ed i suoi fautori, è ora la convinzione di una nuova, particolare sintonia con l’attuale Pontificato, convinzione che poggia peraltro su fatti oggettivi: l’udienza privata concessa dal Papa l’11 settembre 2013 al fondatore della Teologia della Liberazione, il peruviano Gustavo Gutiérrez, dei Domenicani; la citata beatificazione di mons. Romero; il preannunciato incontro con Jon Sobrino; e l’elenco potrebbe continuare. Son tutti segnali molto chiari, sintomi indiscutibili quanto meno di un’inedita attenzione, giunta in modo tutt’altro che improvvisato, anzi accuratamente preparata.


Da tempo ferveva nel sottobosco ecclesiastico, infatti, una silenziosa, ma intensa attività di “avvicinamento”. Una copia del “Patto delle catacombe” fu, ad esempio, fatta recapitare a papa Francesco nel giugno 2013 dal Nobel per la Pace, Adolfo Pérez Esquivel, accompagnato dal Vicario episcopale per le popolazioni originarie della Diocesi di Formosa, mons. Francisco Nazar. Ad indirizzargliela fu il Vescovo Pedro Casaldáliga, sempre orbitante nell’ambito della “Teologia della Liberazione”, a sua volta ammonito peraltro dalla Santa Sede per l’aperto sostegno da lui dato al movimento sandinista nicaraguense.


Ora si ritiene, dunque, che tutto sia pronto per tornare sotto i riflettori con un fiorire di celebrazioni speciali, promosse da Ordini religiosi, gruppi e prelati, tra i quali figura l’ormai immancabile card. Walter Kasper: ad esempio, con la kermesse commemorativa del “Patto delle catacombe”, voluta a Roma dall’11 al 17 novembre dall’Istituto tedesco di Teologia e Politica di Monaco, in collaborazione col gruppo Pro Konzil (un nome che non richiede traduzione: rappresenta, in realtà, un cartello di sigle, tra le quali figurano università, movimenti, Congregazioni, ma anche ultras ecclesiali come Wir sind Kirche e poi Ag Feminismus und Kirchen e.V. (“Femminismo e Chiesa”-NdR), Pax Christi tedesca ed austriaca, la Karl Rahner Akademie di Colonia e molte altre ancora, tutte di evidente impronta conciliarista ed iperprogressista).


Ancora: dal 20 al 22 novembre è previsto un altro convegno del Movimento per la riforma della Chiesa, altro nome che è tutto un programma, mentre il 16 novembre si terrà una celebrazione liturgica nelle catacombe ove tutto ebbe origine. Intanto, a Napoli, nello stesso giorno, questa volta presso altre catacombe, quelle di San Gennaro dei Poveri, nel Rione Sanità, verrà sottoscritto un altro “Patto” definito nuovo, benché nella forma e nella sostanza ricalchi il precedente, solo mutuando dal lessico di papa Francesco l’impegno a far propria «l’opzione degli “scarti” della società», ad «aprire le case, le chiese, i conventi» agli immigrati, a riscrivere una gerarchia dei valori a dir poco bizzarra: spazzati via i principi non negoziabili di Benedetto XVI, eccoli rimpiazzati da «lavoro, casa e terra», dalla lotta al «feticismo del denaro», dalla «non-violenza contro le enormi spese militari», dalla «conversione ecologica», dalla «mondialità, dall’inclusione, dal dialogo ecumenico ed interreligioso». Alla firma di questo “Patto” è prevista la partecipazione, tra gli altri, di Padre Alex Zanotelli, del Vescovo Raffaele Nogaro, di don Luigi Ciotti, di don Virginio Colmegna e di altri ancora.


È evidente come tutte queste iniziative, presentate come la nuova “avanguardia” ecclesiastica, in realtà, di nuovo, non abbiano assolutamente alcunché: quelli che vengono presentati sono i temi triti e ritriti del pauperismo, del pacifismo, dell’ecologismo, dell’ecumenismo spinto, già sentiti prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II, ma a lungo eclissatisi, solo per il fatto di non aver trovato terreno fertile ove attecchire, come han dimostrato le numerose condanne, ammonizioni e correzioni disciplinari collezionate nel tempo dalle loro idee (senza che ciò, peraltro, li abbia indotti a mutarle neppure di una virgola). L’arrivo del Papa «venuto dalla fine del mondo» e lo «spirito del Sinodo» hanno convinto i portatori di queste idee ad uscire dall’ombra ed a cercar di riciclarsi, nella convinzione di poter trovare, questa volta, appoggio nella Chiesa di papa Francesco. Pregando che non sia così.

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