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Breve e salutare pensiero in morte di Napoleone Bonaparte sulla morte dei potenti

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Ei fu. Siccome immobile,

dato il mortal sospiro,

stette la spoglia immemore

orba di tanto spiro,

così percossa, attonita

la terra al nunzio sta,

muta pensando all’ultima

ora dell’uom fatale;

né sa quando una simile

orma di piè mortale

la sua cruenta polvere

a calpestar verrà.

Fu vera gloria? Ai posteri

l’ardua sentenza: nui

chiniam la fronte al Massimo

Fattor, che volle in lui

del creator suo spirito

più vasta orma stampar.

(Alessandro Manzoni, ode Il cinque Maggio, vv. 1-10, 31-36)


Il 5 maggio 1821 moriva a Sant’Elena Napoleone Bonaparte, verosimilmente convertitosi a tornato a Dio giusto in tempo (v. Rino Cammilleri, La conversione di Napoleone Bonaparte, in La nuova bussola quotidiana, 26.11.2013).

Valga per lui, come ci ricorda un nostro affezionato e giovane lettore (dal quale attingiamo questa riflessione), il pensiero che S. Alfonso M. de’ Liguori riferiva ad Alessandro Magno.

«Narra S. Antonino che morto che fu Alessandro Magno, un certo filosofo esclamando disse: “Ecco quegli che ieri conculcava la terra, ora dalla terra è oppresso. Ieri tutta la terra non gli bastava, ora gli bastan sette palmi. Ieri conduceva per la terra eserciti, ed ora è condotto da pochi facchini sotto terra”. Ma meglio sentiamo quel che dice Dio: “Quid superbis, terra et cinis?” (Eccli. X,9). Uomo, non vedi che sei polvere e cenere, a che t’insuperbisci? a che spendi i tuoi pensieri e gli anni tuoi per farti grande in questo mondo? Verrà la morte, ed allora finiranno tutte le tue grandezze e tutt’i tuoi disegni: “In illa die peribunt cogitationes eorum” (Ps. LV,6)» (S. Alfonso, Apparecchio alla morte, II, 2).


Jean-Baptiste Mauzaisse, Napoleone sul letto di morte, un'ora prima di essere sepolto, 1843 circa, musée national des châteaux de Malmaison et de Bois-Préau, Rueil-Malmaison

Presentazione del nuovo libro di don Nicola Bux "Con i sacramenti non si scherza" - Foggia, 21 maggio 2016

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“Erat tum Polóniæ rex Bolesláus, quem gráviter offéndit, quod illíus notam libídinem públice arguébat. Quare in solémni regni convéntu Stanisláum per calúmniam in judícium coram se vocári curat, tamquam pagum occupáret, quem ecclésiæ suæ nómine coémerat. Quod cum neque tábulis probáre posset, et testes veritátem dícere timérent, spondet epíscopus, se Petrum pagi venditórem, qui triénnio ante obíerat, intra dies tres in judícium adductúrum. Conditióne cum risu accépta, vir Dei toto tríduo jejúniis et oratióni incúmbit; ipso sponsiónis die, post oblátum Missæ sacrifícium, Petrum e sepúlcro súrgere jubet; qui statim redivívus, epíscopum ad régium tribúnal eúntem séquitur, ibíque, rege et céteris stupóre attónitis, de agro a se véndito et prétio rite sibi ab epíscopo persolúto testimónium dicit, atque íterum in Dómino obdormívit” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI STANISLAI EPISCOPI CRACOVIENSIS ET MARTYRIS

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La morte di questo eroico vescovo, compiuta dal re Boleslao II di Polonia, detto l’Ardito, ai piedi dell’altare, l’8 maggio 1079 (secondo altre fonti l’11 aprile di quell’anno), ha qualche cosa di tragico che ricorda l’assassinio di Zaccaria, figlio di Barachìa, perpetrato nel cortile dei sacerdoti di fronte al Santo dei santi. Quasi un secolo dopo, san Tommaso di Canterbury troverà una morte quasi simile a quella di san Stanislao nella sua propria cattedrale; anche oggi, per mettere meglio in evidenza la somiglianza che esiste tra questi due atleti del ministero pastorale, la colletta dell’uno si applica pure all’altro.

San Stanislao – il quale fu canonizzato in Assisi, nella basilica di San Francesco, da papa Innocenzo IV l'8 settembre 1253 – subì il martirio mentre, nella festa dell’Apparizione di san Michele, celebrava la messa solenne nell’oratorio dedicato al santo Arcangelo nei pressi di Cracovia, per mano dello stesso sovrano, dopo che le guardie si erano dovute ritirare perché impedite da una forza misteriosa. Il re gli assestò un fendente sulla testa con tale violenza da farne schizzare le cervella contro la parete. Non contento, tagliò il naso e le labbra al martire, e quindi diede ordine che il cadavere fosse trascinato fuori della chiesa, fatto a pezzi e disperso per i campi affinché servisse di cibo agli uccelli e alle bestie selvatiche. Il Signore, tuttavia, impedì che il resti del suo invitto atleta fossero offesi dagli animali: per questo fece sì che quattro aquile difendessero per due giorni le reliquie del santo e durante la notte esse rilucevano di uno strano splendore. Alcuni sacerdoti e pii fedeli, fatti audaci da quei prodigi, osarono, malgrado la proibizione del re, raccogliere quelle membra sparse, emananti un soave profumo, e seppellirle alla porta della chiesa di San Michele. Due anni più tardi il corpo di Stanislao fu trasportato a Cracovia e seppellito prima in mezzo alla chiesa della fortezza e poi, sotto il vescovo Lamberto II, nella cattedrale di Wawel di Cracovia (1088).

Il delitto non rimase senza conseguenze. Il santo pontefice Gregorio VII lanciò l’interdetto sul regno di Polonia, scomunicò Boleslao II e lo dichiarò decaduto dalla dignità regale. Il principe, perseguitato esternamente dalla riprovazione dei sudditi, straziato internamente dal rimorso dei crimini commessi, cercò rifugio presso san Ladislao I (+1095), re d’Ungheria, che lo accolse con bontà. Il pentimento non tardò ad impossessarsi del suo animo e allora intraprese un pellegrinaggio a Roma per implorare dal papa l’assoluzione dalle censure. Giunto ad Ossiach, nella Carinzia, la grazia lo spinse ad andare a bussare alla porta del monastero dei benedettini e chiedere di potervi passare il restante della vita come un fratello laico. Vi rimase sconosciuto fino alla morte (+1081 o 1082) dedito alla penitenza ed ai lavori più umili. Ieri l'Europa dei Papi e dei Santi, oggi l'Europa degli apostati e degli usurai.

Il santo vescovo fu trucidato perché, come novello Giovanni Battista o novello Elia contro Acab e la perfida Gezabele, aveva stigmatizzato – e per questo, in seguito, scomunicato – il re per la sua lussuria sfrenata, che l’aveva portato persino a rapire le belle mogli altrui. In uno scontro verbale, allorché il re fu minacciato di scomunica, Boleslao, ingiuriando grossolanamente il coraggioso prelato, gli disse: “Quando uno osa parlare con tanto poco rispetto ad un monarca, converrebbe che facesse il porcaio, non il vescovo”. Il santo, senza lasciarsi intimidire, rispose al sovrano: “Non stabilite nessun paragone tra la dignità regale e quella episcopale perché la prima sta alla seconda come la luna al sole o il piombo all’oro” («Novi, plane, quid Tuæ et Regiæ debeatur venerationi, nec in iis exequendis aliquid a me reor vel diminutum tibi, vel præreptum. Verum Apostolica, qua ego præditus sum potestas, superior multis gradibus Regia censenda, et a te procul dubio æstimanda est. Et, si utriusque ingenue nosse velis efficaciam et virtutem, quanto lunaris splendor erga solare jubar, et plumbi species erga auri fulgorem habetur inferior, tantum Regia dignitas est, si ad Apostolicam justa comparatione illam referas») (cfr. Jan Długosz, Vita et miracula Stanislai episcopi Cracoviensis, lib. I, Res gestæ et martyrium S. Stanislai, cap. V, Ob conjugatam a Rege vi raptam, aliis Episcopis tacentibus, acris admonitio S. Stanislai, § 55, inActa Sanctorum, Maii, vol. II, Dies VII, Parigi-Roma 1866, p. 213).

Il santo è rappresentato solitamente con accanto a sé un morto da lui risuscitato, tale Pietro Miles, che fu ridestato dal sonno della morte dopo tre anni dal decesso perché testimoniasse, dinanzi al tribunale reale, a favore del santo, tra lo stupore dei presenti, di aver venduto un terreno, a Piotrawin, a Stanislao e di averne ricevuto da questi il prezzo (contrariamente a quanto avevano sostenuto i nipoti del defunto, i quali, su istigazione del re, avevano intentato la causa contro il Santo, accusato da loro di non aver pagato il prezzo del suolo) (cfr. ibidem, capp. VI, Ob villam Piotrawin emptam, evocatur e tumulo venditor, a triennio mortuus, e VII, Resuscitatus affirmata venditione ad tumulum reducitur: expenditur ipsius miraculi certitudo et exempli utilitas, §§ 57-83, in Acta Sanctorum, cit., pp. 213-218; Albert J. Herbert (a cura di), I morti risuscitati. Storie vere di 400 miracoli di risurrezione, Tavagnacco, 2010 rist., pp. 140-141). Dopo questa deposizione, il morto tornò alla tomba da cui era uscito affermando che preferiva tornare in Purgatorio – avendo la certezza della salvezza – e nondimeno scongiurando il santo presule di pregare Nostro Signore affinché gli abbreviasse le pene del Purgatorio (ibidem, p. 141).

La celebrazione della festa del santo martire, come rito semidoppio, quando fu introdotta nel calendario universale della Chiesa da papa Clemente VIII, nel 1595, poiché l’8 maggio è dedicato sin dall’Alto Medioevo a san Michele, fu fissata al giorno precedente. La festa fu elevata al rito doppio nel 1736.

Roma cristiana ha dedicato due chiese al nostro Santo. La prima, San Stanislao dei Polacchi, nel rione Sant’Angelo, in via delle Botteghe Oscure, ha origini medievali ed era denominata San Salvatore in pensilis de Sorraca. Questa, concessa dal papa Gregorio XIII al cardinale polacco Stanislao Osio, fu completamente riedificata nel 1582 e dedicata al martire oggi celebrato, patrono della Polonia, e vi fu annesso un ospizio per i poveri della nazione polacca (cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 568-569; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 449-450). La seconda chiesa, moderna, fu dedicata al nostro Santo, nel quartiere don Bosco, nel 1991, dal papa Giovanni Paolo II.

La messa è quella del Comune dei Martiri nel tempo pasquale, Protexisti, come il 24 aprile.

La prima colletta è propria; le altre due sono quelle della messa Sacerdotes, che sarebbe assegnata a questa festa se essa cadesse fuori del tempo pasquale, come abbiamo riportato il 16 dicembre.
Un semplice colpo d’occhio gettato sul Martirologio dimostra che l’immensa maggioranza dei santi che vi sono iscritti sono stati vescovi. La ragione ne è che le funzioni episcopali, ed, in generale, tutti gli incarichi ai quali sono congiunti la cura delle anime, portano con esse delle grazie di stato particolari, e pongono colui che li detiene nella necessità di tendere alla perfezione ed alla santità, sotto pena di non potere, se agisce diversamente, esercitare correttamente il proprio incarico pastorale. Nessuno deve elevarsi mai da sé stesso, né ambire uno stato al quale Dio, forse, non lo chiama: questo sarebbe chinarsi sul bordo di un precipizio. Quando, però, il Signore, tramite i suoi rappresentanti legittimi, chiama un’anima allo stato pastorale, questa, pure diffidando di se stessa, deve mettere in Dio la sua fiducia e mostrarsi umilmente riconoscente di essere così nella necessità di lavorare con zelo alla sua propria santificazione, condizione essenziale di quella del prossimo affidato alle sue cure e di cui deve rendere un conto rigoroso al Pastore e al Vescovo divino.




Jan Długosz, S. Stanislao (Święty Stanisław), Catalogus archiepiscoporum Gnesnensium - Vitae episcoporum Cracoviensium, XV sec., Biblioteka Narodowa, Varsavia 

S. Stanislao, 1515 circa, Muzeum Narodowe, Cracovia

Ambito lombardo, Beato Stanislao vescovo e martire, XVII sec., museo diocesano, Como

Tadeusz Kuntze, detto Taddeo Polacco, San Stanislao resuscita Pietro Milite per la controversia di Piotrowin, 1754-56, Chiesa di S. Stanislao dei Polacchi, Roma

Jan Matejko, Battaglia di Grunwaldem, 1878, Muzeum Narodowe, Varsavia.
La tela rievoca la celebre battaglia, svoltasi il 15 luglio 1410, tra le forze polacche, lituane e rutene alleate (coalizione Lituano-Polacca), guidate da Władysław II Jagiełło (granduca di Lituania e poi re di Polonia), contro i Cavalieri teutonici, guidati dal Gran Maestro Ulrich von Jungingen, e vinta dai primi per intercessione di S. Stanislao


Urna di S. Stanislao, 1670, Cattedrale Wawel, Cracovia

Immagini per meditare: l'annuncio del Vangelo da parte degli Apostoli

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Marc-Charles-Gabriel Gleyre, La partenza degli Apostoli per annunciare il Vangelo, 1845, Musée Girodet, Montargis

Le ragioni della devozione a Maria nel mese di maggio

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Già qualche anno fa, sul noto blog MiL - Messa in latino, il dotto sacerdote don Alfredo Morselli ricostruiva, da un punto di vista storiografico, le origini della devozione mariana nel mese di maggio, il quale rammentava che i primi scritti devozionali su tale mese dell’anno risalissero al XV sec. e che «il primo fondatore del mese di maggio propriamente mariano» fosse S. Filippo Neri (cfr. don Alfredo Morselli, Il mese di maggio, il mese di Maria, in blog MiL, Messa in latino, 3.5.2013).

Oggi abbiamo questo contributo di Cristina Siccardi, che rilanciamo nella festa dell’Apparizione di san Michele Arcangelo sul Monte Gargano e della Madonna del Rosario di Pompei (di cui quest’oggi si celebra la Supplica).
Alla più dolce delle mamme, salga dunque una preghiera per tutte le mamme cristiane della terra e per le anime delle mamme entrate nell'eternità.



Alonso de Zamora, Apparizione di S. Michele sul Monte Gargano, XV sec., Galleria Bernat, Barcellona 

Epigrafe al di sopra dell'ingresso, Santuario di S. Michele, Monte Sant'Angelo

Andrea Sansovino, S. Michele, 1507, Santuario di S. Michele, Monte Sant'Angelo



Prodigiosa icona della Madonna del Rosario, Santuario della Madonna del Rosario, Pompei


Le ragioni della devozione a Maria nel mese di maggio


di Cristina Siccardi


Perché è stato scelto proprio il mese di maggio per esercitare una devozione particolare verso Maria Santissima? «La prima ragione», risponde il Beato Cardinale John Henry Newman (1801- 1890) «è che in questo mese la terra esplode con tutte le sue foglie novelle e il verde delle sue erbe, dopo il crudo gelo e la neve dell’inverno, dopo la rigida atmosfera e il vento selvaggio e le piogge dell’incipiente primavera. Maggio, perché gli alberi sono in boccio e i giardini si vestono di fiori. Maggio, perché le sue giornate si fanno più lunghe, il sole sorge prima e tramonta più tardi. Tutta questa felicità e gaiezza della natura al di fuori di noi accompagna convenientemente la nostra devozione verso colei che è la Rosa mystica e la Domus aurea» (Meditazioni e preghiere, Jaca Book, Milano 2002, p. 129).

Maggio è, fra tutti i mesi dell’anno liturgico della Chiesa, il più festoso e radioso: appartiene al tempo della promessa adempiuta, ossia ai 50 giorni della Santa Pasqua. Il Salvatore ha trionfato sul peccato e la morte e ha aperto il Paradiso a tutti coloro che si convertono nella sua Verità. In maggio cadono non di rado le feste della Santissima Trinità e del Corpus Domini. In maggio si festeggia Sant’Atanasio, l’indomito assertore della Fede nella divinità di Cristo, negata dagli Ariani, che spadroneggiarono nella Chiesa per più di due secoli.

La Madonna stessa, per volere divino, ha scelto maggio per dare inizio alle sue apparizioni a Fatima, i cui messaggi hanno una rilevanza decisiva per le sorti della Chiesa e del mondo. Il 24 maggio è la festa di Maria Ausiliatrice, che trionfa su tutte le eresie.

Il Papa mariano e domenicano San Pio V (1566-1572) affidò a Lei le armate e i destini dell’Occidente e della Cristianità tutta, minacciati dall’Islam. Il Papa istituì, per la gloriosa vittoria di Lepanto (1571) contro le flotte turche dei musulmani, la festa del Santo Rosario. Il grido di gioia del popolo cristiano si perpetuò in questa invocazione: Maria Auxilium Christianorum! Il Senato veneziano fece scrivere sotto il grande quadro commemorativo della battaglia di Lepanto, nel Palazzo Ducale: «Né potenza, né armi, né condottieri ci hanno condotto alla vittoria, ma Maria del Rosario» e così a fianco agli antichi titoli di Consolatrix afflictorum (Consolatrice degli afflitti) e Refugium peccatorum (Rifugio dei peccatori), si aggiunse anche questo. Nel XIX secolo due santi ravvivarono la devozione per la Madonna del Rosario e Maria Ausiliatrice: il Beato Bartolo Longo a Pompei e San Giovanni Bosco a Torino, alla quale si rivolgeva per ogni necessità e quando le cose si complicavano e andavano per le lunghe, le chiedeva familiarmente: «E allora incominciamo a fare qualcosa?». Maria Ausiliatrice mai lo deluse.

Maria Santissima è la figlia prediletta di Dio, la creatura a lui più cara e più vicina. «Era giusto perciò», dice Newman, «che fosse suo questo mese, nel quale glorifichiamo e ci rallegriamo della grande Provvidenza divina verso di noi, della nostra redenzione e santificazione in Dio Padre, in Dio Figlio e in Dio Spirito Santo» (Ivi, p. 131). Ma La Vergine non è soltanto l’Ancella più benvoluta dal Signore, Ella è Madre di Suo Figlio, è Regina di tutti i Santi, è Madre della Chiesa. Ella è, come enunciano le litanie lauretane, Stella matutina e Rosa mystica. Ella appartiene al Cielo, ma è accanto agli uomini, come la rosa sulla terra. Grazia e profumo nella rosa sbocciata; luminosità e in infinitudine nella stella, e quando suo Figlio verrà a giudicare il mondo, Ella sarà ancora pura e perfetta come quando venne concepita.

«Dopo la caduta di Adamo tutti gli uomini, suoi discendenti, sono concepiti e generati nel peccato. “Ecco”, esclama l’autore ispirato del salmo Miserere “ecco malvagio sono nato, peccatore mi ha concepito mia madre” (Sal 51, 7). Quel peccato che appartiene a ognuno di noi, ed è nostro fin dal primo momento dell’esistenza, è il peccato di incredulità e di disobbedienza, con il quale Adamo perse il Paradiso. Noi, come figli di Adamo, siamo suoi eredi nelle conseguenze della sua colpa, e abbiamo perduto quell’ornamento di grazia e di santità, che egli aveva ricevuto dal Creatore. Tutti siamo concepiti in questo stato di perdita e di privazione (…) Colui che fu generato dall’eternità, volle salvare e redimere, nel tempo, il genere umano; e la redenzione di Maria fu determinata in quella speciale maniera che noi chiamiamo “immacolata Concezione”. Fu decretato non che fosse purificata dal peccato, ma che ne fosse preservata fin dal primo istante della sua esistenza, cosicché Satana non avesse parte alcuna in lei» (Ivi, pp. 134-135).

La Misericordia di Dio è proporzionata al Miserere dell’uomo: il pentimento è condizione imprescindibile per ottenere misericordia dall’Onnipotente. Il Salmo 51, dove si evincono i desiderata del Signore e il modo reale e autentico per ottenere da Lui misericordia, dovrebbe essere affisso a tutte le porte delle chiese in questo anno giubilare: «Miserère mei, Deus, secùndum magnam misericòrdiam tuam. Et secùndum multitùdinem miseratiònum tuàrum, dele iniquitàtem meam.  Àmplius lava me ab iniquitàte mea,  et a peccàto meo munda me». L’amabilità della Madonna è pari al suo candore. La sua tenerezza è pari alla sua sublime misura di maternità. Maria è stella del mattino perché annuncia il Sole: non brilla di luce propria, per se stessa, ma in lei splende il riflesso del suo e nostro Redentore, che Lei annuncia e glorifica.

«Quando ella appare nelle tenebre, noi sappiamo che anch’egli è vicino» (Ivi, p. 173). Nelle tenebre del 1917 apparve e rivelò gli accadimenti prossimi e futuri. Papi e uomini non hanno ancora compiuto ciò che Ella domandò, ecco che Cristo, che darà il premio a ciascuno secondo le opere compiute, rimane ancora nascosto nelle beate anime oranti, disposte al sacrificio e che, con l’innocenza che rapisce la sopranatura, chiedono a Sua Madre, con perseveranza, umiltà e filialità: «E allora incominciamo a fare qualcosa?». In questo nostro tempo di lotta feroce fra bene e male, Cristo sta preparando la vittoria della Chiesa sul mondo, accostumatosi al suo principe.

L'amore per l'errore ed il calpestamento della spiritualità e della giustizia in un aforisma di Santa Brigida di Svezia

“Scripsit autem multa, et solúta oratióne et vérsibus, mirábili pietáte et eloquéntia; quibus doctórum hóminum sanctorúmque judício id assecútus est, ut nihil in illis, nisi ex veræ pietátis et cathólicæ religiónis régula, reperiátur, nemo quidquam jure vocáre possit in dúbium. Consubstantialitátis Fílii fuit acérrimus propugnátor. Ut autem vitæ laude nemo ei præpósitus est; sic et oratiónis gravitáte omnes fácile superávit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI GREGORII NAZIANZENI (THEOLOGI) EPISCOPI CONFESSORIS ET ECCLESIAE DOCTORIS

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Gregorio il Teologo (Ο Άγιος Γρηγόριος ο Θεολόγος), come lo chiamano i Greci a causa dell’eccellenza del suo genio, aveva un’anima dolce ed una natura eminentemente poetica; all’umiltà ed all’amore della pace sacrificò la sede stessa di Costantinopoli per ritirarsi in campagna e condurvi una vita da monaco. La sua festa non fu introdotta nel calendario prima del 1505, quando gli studi degli umanisti e la cultura greca del Rinascimento fecero meglio apprezzare i suoi meriti. San Pio V ne fece una festa doppia nel 1568.
La messa è interamente dal Comune dei Dottori, con l’Epistola Justus (come l’11 aprile), che si adatta meglio al carattere mistico del Santo.

Se, in effetti, lottando e soffrendo con un’energica costanza giunse, nel giro di alcuni anni, a riportare la città di Costantinopoli alla fede di Nicea, questo fu interamente l’opera del suo zelo davvero divino, poiché, per natura, Gregorio era l’uomo che aveva il maggior orrore delle posizioni difficili e delle lotte. Egli lo dimostrò bene quando, creato contro la sua volontà vescovo di Sasima da san Basilio, non seppe adattarsi a questo difficile incarico e, dopo qualche tempo, ritornò nella sua patria. La passione di Gregorio era la vita contemplativa e la disciplina monastica, alla quale egli restò fermamente legato sino alla fine dei suoi giorni (+ 389 o 390).

Per far conoscere il genere di genio di san Gregorio di Nazianzio, ecco come egli descrive la sua biografia:

EPITAPHION (Carm. XXX)

CVR • CARNEIS • LAQVEIS • TV • ME • PATER • IMPLICVISTI?

CVR • SVBSVM • VITAE • HVIC • QVAE • MIHI • BELLA • MOVET

DIVINO • PATRE • SVM • GENITVS • SANCTAQVE • PARENTE

HAEC • MIHI • LVX • VITAE • NAMQVE • PRECANTE • DATA • EST

ORAVIT • SVMMOQVE • DEO • ME • VOVIT • ET • ORTVS

EST • MIHI • PER • SOMNVM • VIRGINITATIS • AMOR

ISTA • QVIDEM • CHRISTI • POST • AT • SVBIERE • PROCELLAE

RAPTA • MIHI • BONA • SVNT • FRACTA - DOLORE • CARO

PASTORES • SENSI • QVALES • VIX • CREDERET • VLLVS

ORBATVSQUE • ABII • PROLE • MALISQVE • GRAVIS

GREGORII • HAEC • VITA • EST • AT • CHRISTI • POSTERA • CVRAE

QVI • VITAE - DATOR • EST • EXPRIMAT • ISTA • LAPIS

Perché, o divino Padre, mi trovo avvolto nei laghi della carne?

Perché sono costretto a sopportare questa vita che fa guerra al mio spirito?

Nacqui da un padre che fu tuttavia un santo vescovo, e virtuosa fu anche mia madre, alle preghiere della quale venni al mondo. Questa mi dedicò subito a Dio, e, in una visione notturna, l’amore della verginità mi fu ispirato. Fin qui tutto fu dono del Cristo.

Sopraggiunsero poi le lotte, fui privato dei miei beni, ed il dolore ruppe il mio corpo.

Ebbi a conoscere tali pastori che si non potrebbero immaginarne altri; ma partii [da Costantinopoli], privato dei miei figli, e prostrato dalla pena.

Tale è stata finora la vita di Gregorio.

Dell’avvenire, che il Cristo, che dà la vita, si prenda cura. A questa pietra di esprimere queste cose.

Si dice che un antico oratorio, presso il monastero di santa Maria in Campo Marzio, era consacrato, a Roma, alla memoria di san Gregorio di Nazianzio. Ben più, la tradizione locale delle monache benedettine vorrebbe che alcune basiliane, venendo da Costantinopoli a Roma al tempo del papa Zaccaria, avessero portato con loro e deposto in questo luogo il corpo del santo dottore a cui avrebbero per questa ragione dedicato l’oratorio (Mariano ArmelliniLe chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 334). Quest’asserzione non è tuttavia molto accettabile, poiché, nella biografia di Leone III, il Liber Pontificalis fa menzione di alcuni doni offerti in oratorio sancti Gregorii quod ponitur in Campo Martis (L. DuchesneLe Liber Pontificalis, Coll. Bibliothèque des Ecoles Françaises d’Athènes et de Rome, Paris 1892, tomo 2, p. 25. Cfr. Mariano Armelliniop. cit., p. 335; Ch. HuelsenLe Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 260); noi sappiamo d’altro canto che le reliquie di san Gregorio di Nazianzio furono trasferite dalla Cappadocia alla basilica degli Apostoli a Costantinopoli soltanto verso la metà del X sec., allorché le monache si erano stabilite nell’antico Campo di Marte a Roma già da almeno due secoli.

Dopo il 1870 la chiesa fu sconsacrata e il monastero di Santa Maria in Campo Marzio – annesso alla chiesa ed il cui nome deriva dalla vicina chiesa di Santa Maria della Concezione in Campo Marzio - fu adibito ad archivi; l’intero complesso fu in seguito acquistato dalla Camera dei deputati, la quale fece restaurare la chiesa, tra il 1977 e il 1987, riaprendola al culto, come cappella dei deputati. Durante i restauri fu riportato alla luce un ambiente identificato come l’unica parte superstite del primitivo oratorio.

Il corpo del Santo, l’11 giugno 1580, dall’antico oratorio dove erano state deposte, sarebbe stato traslato in San Pietro, da cui, nel 2004, per volontà di Giovanni Paolo II, furono in gran parte consegnate alla chiesa scismatica orientale di Costantinopoli (alla cui base vi sarebbe la leggenda, tutt’altro che acclarata nelle fonti, che le reliquie del Santo sarebbero giunte da Costantinopoli a seguito del celebre sacco del 1204).


Icona dei Santi Teologi Giovanni evangelista, Gregorio il Teologo e Simeone il Nuovo teologo, XX sec.

S. Gregorio il Teologo, XV sec., chiesa di San Salvatore, Chora

Andrej Rublëv, S. Gregorio il Teologo, 1408 circa, Galleria Tret'jakov, Mosca


Domenichino, S. Gregorio di Nazianzio, 1609-12, Cappella dei Santi Fondatori, Abbazia di Santa Maria, Grottaferrata

Francesco Bartolozzi, S. Gregorio Nazianzeno, XVIII-XIX sec.

Antonio Cifrondi, S. Gregorio di Nazianzio, 1705 circa, chiesa parrocchiale, Sant'Antonio d'Adda - Caprino Bergamasco

Alexey Tarasovich Markov, S. Gregorio il Teologo, 1849, Museo di Stato russo, san Pietroburgo


S. Gregorio di Nazianzio, XVIII sec., Chiesa di San Nicola in Malá Strana, Praga

Altare dov'erano collocate la maggior parte delle reliquie di S. Gregorio di Nazianzio prima del 2004, Basilica di S. Pietro, Città del Vaticano, Roma

Reliquiari dei SS. Giovanni Crisostomo e Gregorio di Nazianzio dal 2004, Chiesa di S. Giorgio, Fanar, Instabul


Reliquia della mano incorrotta di S. Gregorio di Nazianzio

Papa Innocenzo I: una risposta ai novatori di 1600 anni fa

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Nella festa di S. Antonino Pierozzi (da Firenze) rilanciamo quest’interessante contributo.



Lorenzo Lotto, L’elemosina di S. Antonino, 1542, Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, Venezia


Domenico da Passignano, Ricognizione del corpo di S. Antonino,1589, Vestibolo della Cappella Salviati, Convento di S. Marco, Firenze


Domenico da Passignano, Traslazione delle reliquie di S. Antonino,1589, Vestibolo della Cappella Salviati, Convento di S. Marco, Firenze

Jacopo Vignali, S. Antonino Pierozzi, 1664-65, cappella Palatina, Palazzo Pitti, Firenze

Papa Innocenzo I: una risposta ai novatori di 1600 anni fa


di Matteo Carletti



La Chiesa ha sempre avuto a che fare con i “novatori”. Spesso i desideri di rinnovamento sono passati per il cuore della fede, ovvero la liturgia. Altre volte (come oggi) si cerca di agire per lo più in ambito pastorale,

costringendo la Chiesa a virate radicali, con conseguente adeguamento dottrinale. Inutile ribadire come i pontefici più illuminati abbiano tentato di arginare tale deriva (che non raramente è sfociata in vere e proprie eresie).


A rispondere a chi sostiene oggi la necessità «di una messa a punto» della Chiesa con i tempi moderni ci ha pensato, addirittura, un papa del quinto secolo, Innocenzo I. Divenuto papa nel 401, Innocenzo, dovette affrontare la situazione instabile che l’Impero occidentale, devastato dalle incursioni delle popolazioni barbariche, stava attraversando. Era infatti a capo della Chiesa durante l’assedio e la presa di Roma da parte dei Visigoti di Alarico. Il suo è probabilmente uno dei pontificati, insieme a quello di san Leone Magno, più importanti del quinto secolo, in riferimento soprattutto al consolidamento del primato della sede di Roma e del suo vescovo su tutta la Chiesa. Il suo tentativo di tenere unite le diverse realtà ecclesiali sotto la guida di Roma lo aveva portato ad un intenso rapporto epistolare con differenti sedi episcopali, in riferimento soprattutto alla disciplina ecclesiastica. Interessante, in questo ambito, è la decretale che, il 19 marzo 416, inviò come risposta a Decenzio, vescovo di Gubbio. Decenzio aveva chiesto l’intervento del Sommo Pontefice per dirimere alcune questioni in ambito liturgico. Pare infatti che il vescovo ricusasse certe prassi liturgiche che si erano diffuse nella diocesi dettate da criteri di assoluto libertarismo. Anche nel quinto secolo, insomma, c’erano sacerdoti che si erano lasciati andare alla “creatività” liturgica.


Papa Innocenzo I risponde, una per una, a tutte le questioni sottopostegli da Decenzio. La decretale inizia con un forte monito a «mantenere integre le istituzioni della chiesa come ci sono state tramandate dai beati apostoli […]. Ma dal momento che ciascuno ritiene – prosegue Innocenzo – che debba essere seguito non quello che è stato tramandato ma quello che gli pare, ne consegue che (prassi) diverse sono osservate o celebrate in (altrettanto) differenti luoghi o chiese: e così si verifica uno scandalo per il popolo il quale, non sapendo che le tradizioni antiche sono corrotte dalla umana presunzione, crede che le chiese non siano in accordo tra di loro oppure che il disaccordo sia stato introdotto dagli apostoli e dagli stessi seguaci degli apostoli».


L’attenzione è posta da papa Innocenzo sulla tradizione apostolica della Chiesa di Roma, in quanto essa e solo essa ha ricevuto da Pietro, principe degli apostoli, l’autorità sulle altre chiese particolari. Per Innocenzo «è necessario che [i vescovi e i sacerdoti] rispettino quello che la chiesa di Roma custodisce, dalla quale non c’è dubbio che essi hanno tratto origine, affinché, mentre si dedicano a postulati peregrini, non sembrino abbandonare il principio delle istituzioni». Per Papa Innocenzo è importante che coloro che deviano dalle istituzioni della chiesa romana siano ammoniti e fermati, oppure senza esitazione segnalati affinché egli sia «in grado di conoscere chi sono quelli che introducono novità o che ritengono debba essere osservata la consuetudine di un’altra chiesa anziché quella della chiesa di Roma». L’aspetto giuridico più rilevante delle decretali è che esse, pur riguardando casi particolari, possono essere assunte a criterio generale e di conseguenza avere valore per tutta la Chiesa, tanto da confluire nel Corpus Iuris Canonici, il corpo normativo più antico del diritto canonico. Le parole di Innocenzo I, quindi, dovrebbero valere anche oggi per tutti coloro che, operando in spregio alla Dottrina e alla Tradizione, pensano di aggiornare la Chiesa ai tempi, dimenticando che la sua origine e la sua fondazione non sta nella capacità creativa dell’uomo ma in Gesù Cristo, Verità immutabile.


“Amoris Laetitia”: Mons. Livi parla ai penitenti e ai confessori

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Continuano le analisi, puntuali ed attente, dell’esortazione Amoris laetitia.

Sebbene non manchino voci favorevoli al documento, fondate su accomodanti letture forzate, quanto indimostrate,  circa l'asserito non contrasto col magistero della Chiesa (cfr. Il preside dell’Istituto Giovanni Paolo II: “L’esortazione è un documento positivo, non c’è alcun cambiamento”, in Il Foglio, 11.4.2016; Amoris laetitia? Un sacerdote (domenicano) risponde, in sinodo2015, 6.5.2015, il quale propone una benevola, quanto discutibile, interpretazione “in meliorem partem” di alcune affermazioni dell’esortazione, che va contro i dati intrinseci che emergono dal testo, i quali, obiettivamente, non si possono interpretare richiamando altri testi, peraltro risalenti, pena il tradimento della mens dell'autore dell'esortazione), molto maggiori e fondati sono, invece, i profili seriamente problematici per la fede e la morale che emergono dall’esortazione (cfr. Patrizia Fermani, L’Amoris Laetitia come nuova inculturazione (prima parte), in Riscossa cristiana, 10.5.2016; la seconda parte è ivi, 11.5.2016) e la sua apertura alle eccezioni, elevate a regola generale (cfr. Ausnahmen sind eine Sackgasse. Interview mit Kardinal Brandmüller zum Papstschreiben “Amoris laetitia, in Kath.net, 2.5.2016; in traduzione italiana, Card. Brandmuller: le eccezioni sono un vicolo cieco, in sinodo2015, 10.5.2016).
Non a caso l’autorevole Voice of Family si è spinto a richiedere al vescovo di Roma di ritirare il documento (John-Henry Westen, Voice of the Family calls on Pope Francis to withdraw Amoris Laetitia, in Lifesitenews, 9.5.2016), avendone evidenziato sin da subito gli elementi, gravemente erronei ed inaccettabili (cfr. Catholics cannot accept elements of Apostolic Exhortation that threaten faith and family, in Voice of family, 8.4.2016), le cui chiavi di lettura sono nelle ambiguità ivi presenti (Matthew McCusker, Key doctrinal errors and ambiguities of Amoris Laetitia, ivi, 7.5.2016), le cui radici, in fondo, sono proprio in alcune idee tipiche e ricorrenti del pensiero “incompleto” bergogliano (cfr. Giovanni Scalese, I postulati di Papa Francesco, in blog Senza peli sulla lingua, 10.5.2016), ben lungi dall’evangelico “sì, sì, no, no”.

Rilanciamo quest’oggi un ulteriore contributo di Mons. Livi.


“Amoris Laetitia”: Mons. Livi parla ai penitenti e ai confessori


6 maggio 2016, San Giovanni alla Porta Latina


Padre Pio e Leopoldo Mandic - i santi del Confessionale - esposti nella Basilica di San Pietro nel febbraio 2016

Nello scorso mese di aprile, in onore alla schiettezza e lealtà ecclesiale di Santa Caterina da Siena, Mons. Antonio Livi ha tenuto una conferenza presso la Basilica di San Giovanni alla Porta Latina, organizzata dalla “Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis”. Pubblichiamo la trascrizione dall’orale, approvata dall’autore, nella certezza che il suo contenuto contribuirà a far chiarezza fra tanti laici (ma forse anche fra tanti sacerdoti) che oggi si sentono smarriti.


Dottrina morale e prassi pastorale nella “Amoris laetitia


Cari amici,

mi avete chiesto di spiegare in termini semplici a voi, laici - ma vedo anche nell’uditorio dei confratelli e quindi dei confessori -, perché un sacerdote (e teologo) come me ha pubblicamente criticato, in varie occasioni e in varie sedi, l’esortazione apostolica Amoris laetitia di papa Francesco. Mi accingo dunque a spiegare a voi, con la massima schiettezza, il contenuto e le vere motivazioni ecclesiali di queste critiche, che sono naturalmente prudenti nel merito, rispettose nella forma e responsabili nelle intenzioni. Premetto, per cominciare, quello che dice la Chiesa stessa, in un celebre documento della Congregazione per la Dottrina della fede, pubblicato nel 1990 a firma dell’allora prefetto, cardinale Joseph Ratzinger:

«Il Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all’errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente. La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola. Può tuttavia accadere che il teologo si ponga degli interrogativi concernenti, a seconda dei casi, l’opportunità, la forma o anche il contenuto di un intervento. II che lo spingerà innanzitutto a verificare accuratamente quale è l’autorevolezza di questi interventi, così come essa risulta dalla natura dei documenti, dall’insistenza nel riproporre una dottrina e dal modo stesso di esprimersi […]. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l’insegnamento del Magistero, come si conviene ad ogni credente nel nome dell’obbedienza della fede. Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni ed a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi. Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l’insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato» (Congregazione per la Dottrina della fede, Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990, nn. 24; 29-30).

Io conosco bene questo documento, e l’ho studiato per anni. L’ho utilizzato soprattutto per denunciare l’abuso del titolo di “teologo” da parte di chi si ribella per principio agli insegnamenti definitivi del Magistero e pretende di ri-formulare il dogma cristiano (cfr Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Leonardo da Vinci, Roma 2012). Ma ora devo rifarmi proprio a questo documento per legittimare i miei interventi critici di fronte alle tante ambiguità (nell’indirizzo pastorale) e alla evidente deriva relativistica (nella dottrina morale) che caratterizzano, purtroppo, molti gesti e molti discorsi di questo Papa e in particolare l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia. Sono rilievi critici suggeriti sempre soltanto dalla responsabilità ecclesiale che mi impegna - come sacerdote e come teologo - soprattutto di fronte a quei fedeli che sovente manifestano in pubblico il loro turbamento e in privato mi confidano il disorientamento delle loro coscienze, pensando anche a quei fedeli che posso immaginare che siano addirittura indotti alla perdita del senso del peccato - essendo esso la coscienza di essere tutti peccatori, unitamente alla convinzione che solo la grazia sacramentale, una volta avviata la conversione interiore, può redimerci e garantirci la salvezza eterna.

Parto dal presupposto che la “nota teologica” di questo documento pontificio sia proprio quella indicata nel n. 30 della dichiarazione Donum veritatis, e quindi limito le mie critiche alla “forma” dell’esortazione e alla sua opportunità pastorale, date le premesse storico-ecclesiastiche e le conseguenze nella formazione della coscienza dei fedeli. Le premesse storiche sono molto significative: il Papa ha fatto sua una delle due opinioni formalmente espresse dai padri sinodali (quella dei cardinali Schoenborn, Marx, Baldisseri e Kasper, e dei vescovi Forte e Semeraro, tutti favorevoli a un cambiamento radicale della prassi pastorale e dei suoi presupposti dottrinali), non tenendo minimamente conto dell’opinione di quanti (come i cardinali Müller, Caffarra, Burke, De Paolis, Sarah) avevano insistentemente criticato l’ipotesi della concessione della Comunione ai fedeli in stato di pubblico scandalo per aver divorziato davanti al tribunale civile e per aver istituito una convivenza more uxorio (la quale configura canonicamente il “pubblico concubinato”), dopo aver contratto un invalido e finto nuovo matrimonio, sempre davanti al tribunale civile.

Per queste concrete circostanze, l’esortazione apostolica post-sinodale era un documento molto atteso per conoscere le indicazioni della Chiesa dopo i due Sinodi dei vescovi sulla famiglia e la ridda di interpretazioni da parte dei vescovi favorevoli al mantenimento della disciplina attuale e di quelli che chiedevano un cambiamento radicale. Ma l’attesa di un chiarimento è stata delusa.

Alcune parti del documento papale - quelle che sono dedicate a illustrare i nuovi criteri pastorali - sono caratterizzate dall’ambiguità dell’enunciato, un’ambiguità che genera gravissimi equivoci di interpretazione proprio riguardo a ciò che Francesco vuole che sia fatto in pratica, all’atto di decidere che cosa suggerire o prescrivere ai fedeli che manifestano l’intenzione di accostarsi all’Eucaristia pur trovandosi in una situazione irregolare. I termini «misericordia», «accompagnamento» e «discernimento», pur ripetuti tante volte, non sono mai spiegati in modo da far capire se sono davvero la cifra di una nuovissima prassi (nel qual caso avrebbero ragione quelli che hanno parlato di una «novità rivoluzionaria») oppure sono semplicemente sinonimi di quello che le leggi ecclesiastiche vigenti e i documenti dell’ultimo Concilio chiamano la «carità pastorale», non diverso, sostanzialmente, da ciò che si ritrova nella dottrina teologico-pratica di un dottore della Chiesa come sant’Alfonso Maria de’ Liguori (autore tra l’altro della Praxis confessarii ad bene excipiendas Confessiones), il cui positivo riscontro pastorale è ben visibile nell’esempio dei santi (si pensi al Curato d’Ars nell’Ottocento o a padre Pio e a padre Leopoldo nel Novecento).

Per di più, l’aspra ma generica polemica del Papa contro quelli che a suo avviso sarebbero dei rigoristi dal cuore duro, dei formalisti senza carità, addirittura dei «farisei», lascia intendere che il Papa ha non solo favorito una delle due opinioni emerse nella discussione sinodale – quella dei riformisti – , ma ha anche tolto ogni credibilità a coloro che avevano presentato ponderose e documentate obiezioni alle proposte di riforma (e pensare che tra questi oppositori c’era addirittura il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede!). Per di più, avvalendosi di questa (voluta) ambiguità del documento pontificio, molti vescovi si sono precipitati a dichiarare che il Papa con questa esortazione apostolica veniva a legittimare una prassi «misericordiosa» (cioè permissiva, o meglio lassista, anzi irresponsabile) che essi già avevano consentito nelle rispettive diocesi, in disobbedienza alle leggi canoniche vigenti.

Allo stesso tempo, il cardinale americano Burke e il vescovo kazaco Schneider dichiaravano ai giornalisti che l’esortazione apostolica di papa Francesco non era da prendere come documento del Magistero, tanti erano i riferimenti dottrinali confusi o addirittura erronei che essa conteneva. Insomma, l’opinione pubblica cattolica è stata indotta a ritenere che il Papa abbia voluto abrogare la dottrina cristiana circa l’indissolubilità del matrimonio e la necessità dello stato di grazia per accedere alla Comunione. E, di fronte a questa (presunta) “rivoluzione” dogmatica, molti hanno provato sgomento, ritenendo che papa Francesco sia stato ingannato dai suoi consiglieri e abbia avallato l’eterodossia, mentre altri hanno gioito ritenendo che finalmente la Chiesa aveva messo da parte l’ortodossia dei conservatori per concedere piena libertà alle dottrine teologiche più avanzate, più consone ai nuovi tempi e alla mentalità dell’uomo di oggi.

La Chiesa, nella sua storia bimillenaria, ha vissuto tante vicende drammatiche. La storia ecclesiastica narra di diverse epoche di confusione e di scisma, persino di pontefici che con la loro condotta di vita hanno scandalizzato. Papa Francesco certamente non lo fa con la sua condotta personale, ma la dottrina teologica che egli favorisce, questa sì che scandalizza, nel senso biblico del temine, nel senso che è una “pietra di inciampo” per la fede dei semplici e disorienta le coscienze di tanti.

Questa confusione e questo disorientamento della coscienza dei comuni fedeli è il risultato - forse voluto, forse imprevisto, anche se facilmente prevedibile - dell’ambiguità strutturale del documento pontificio. Ed è il motivo per il quale io ne parlo, evidenziandone gli aspetti critici: non per mancare di rispetto al Magistero, né per prendere le parti dei conservatori contro i progressisti nella disputa ideologica che affligge la Chiesa da tanto tempo, e tanto meno per voler contrapporre alla dottrina del Papa - che dovrebbe esprimere e interpretare con autorità divina il dogma della fede - una mia opinabile dottrina teologica: ma solo per responsabilità pastorale nei confronti dei fedeli che da siffatta situazione non possono non subire danni gravissimi nella loro coscienza di fede, sia riguardo al dovere di obbedire all’autorità ecclesiastica lì dove essa comanda espressamente e lecitamente, sia riguardo al dovere di rispettare la natura divina dei segni sacramentali, evitando ogni rischio di profanazione e di sacrilegio.

A voi che siete qui presenti, laici e quasi tutti regolarmente coniugati, mi rivolgo con un accorato appello: non pensate che il documento pontifico, in materia di Sacramenti (Matrimonio, Penitenza, Eucaristia), vi obblighi a credere qualcosa di diverso da quello che avete sempre creduto, né di farequalcosa di diverso da quello che avete sempre fatto. Anzi, vi dirò di più. L’esortazione apostolica non è una nuova legge ecclesiastica: non comanda alcunché ad alcuno nella Chiesa cattolica; è, appunto, soltanto un’esortazione, un invito, un incoraggiamento, rivolto ai Pastori (vescovi e presbiteri) perché pratichino il loro ministero con attenzione alle situazioni specifiche dei loro fedeli, aiutandoli anche con la direzione spirituale personale (il “foro interno”) e sempre con spirito di misericordia. Dunque sono soprattutto i sacerdoti in cura d’anime a dover applicare al loro quotidiano servizio (catechesi e amministrazione dei sacramenti) i criteri indicati dal Papa. Sono io, e con me tutti i miei confratelli nel sacerdozio, sotto la guida del rispettivo vescovo, a dover recepire e attuare questi consigli pastorali, senza mettere da parte - nessuno me lo può chiedere, e il Papa non me lo ha chiesto - i criteri teologico-morali e le norme canoniche vigenti, ossia i criteri di base, sempre validi, con i quali ho esercitato il ministero della Confessione fino a oggi, nei miei 55 anni di sacerdozio. Questi criteri mi impediscono di fraintendere (o di intendere secondo l’interpretazione dei “riformisti e progressisti”) alcuni passi ambigui dell’esortazione apostolica, che ora leggo con voi, per poi fornirne l’unica interpretazione ammissibile dal punto di vista di una prassi sacramentaria rispettosa del dogma e dei principi morali definitivamente stabiliti dalla Chiesa.

Leggo innanzitutto il § 305:

«A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 305).

A questo punto il documento è corredato da una nota:

«In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” […] Ugualmente segnalo che l’Eucaristia ”non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” [Esort. Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, § 44 e 47: AAS 105, 2013, pp. 1038-1039]» (Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 305, nota n. 351).

Il paragrafo e la nota sono inserite nel capitolo VIII dedicato alle «situazioni irregolari», cioè alla convivenze e soprattutto alle nuove unioni civili a seguito di divorzio dove il precedente matrimonio è canonicamente valido. Nel testo si fa riferimento all’ipotesi che ci si trovi di fronte a una situazione oggettivamente disordinata (il divorziato che si è risposato civilmente) ma il cui soggetto (il fedele cattolico divorziato risposato) dia a intendere di non esserne cosciente. Fatta tale ipotesi, il Papa suggerisce, come strumento pastorale per questa condizione particolare, l’amministrazione dei sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucarestia. Il suggerimento ha senso solo se nel caso in questione il divorziato-risposato sia riconosciuto come trovandosi in stato di grazia perché privo di responsabilità soggettiva della sua condizione. Mancando la piena avvertenza sulla materia grave, costui non sarebbe in stato di peccato mortale, ergo il divorziato risposato potrebbe comunicarsi. Che il Papa intenda insinuare una soluzione del genere sembra confermato da un altro passaggio del documento:

«Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” [Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, 22 novembre 1981, § 33: AAS 74, 1982, p. 121]» (Francesco, Esort. Ap. Amoris Laetitia, § 301).

In altri termini, secondo questi suggerimenti papali, il confessore potrebbe giudicare non del tutto responsabile il penitente se fosse in grado di verificare in “foro interno” e caso per caso che il penitente versa in uno stato di errore in merito alla sua condizione. Ma come è possibile effettuare tale verifica se non ricorrendo alla tradizionale “praxis confessariorum”? Si è sempre saputo che la cosiddetta «ignoranza invincibile» deve essere responsabilmente accertata dal ministro della Penitenza; costui, peraltro, tenendo presente che tale ignoranza può anche essere colpevole (la ripetizione di peccati consapevolmente commessi può condurre la persona all’ottundimento della coscienza), può arrivare alla convinzione che il soggetto in questione non può essere considerato dalla Chiesa in grazia di Dio. E poi, anche ammesso che l’ignoranza invincibile di quel dato soggetto sia davvero tale da non renderlo soggettivamente colpevole (ipotesi che io ritengo meramente teorica e non riscontrabile nella vita reale dei fedeli che frequentano i sacramenti), ogni sacerdote sa bene che ciò che egli è chiamato a giudicare (nel tribunale della Penitenza il confessore è il giudice per conto della Chiesa) non è la coscienza del penitente, e tanto meno l’azione della grazia in essa, ma solo le manifestazioni esterne del pentimento e della volontà di rimediare al male commesso, in relazione alla situazione (esterna, talvolta anche pubblica) del penitente. Se tali rilevamenti portano il confessore a concludere che non è possibile assolvere la tale persona, egli avrà cura di spiegare con la massima delicatezza al penitente che spetta a lui impegnarsi a percorrere fino in fondo la strada della conversione, e che nel frattempo non gli è consentito di fare la Comunione. Gli spiegherà anche che ciò che non lo rende ancora “degno” della Comunione eucaristica è la sua condizione esterna, visibile, indice delle sue ancora imperfette condizioni interiori: ricevere sacramentalmente Cristo esige una condizione della vita personale che non sia oggettivamente in contraddizione con la santità di Cristo.

Sicché ogni sacerdote che sia davvero responsabile, se chiamato dal vescovo o dal fedele stesso a dare un suo giudizio in merito, non consiglierà mai ai conviventi e ai divorziati-risposati che non vivono castamente (o che vivono castamente ma che dovrebbero interrompere la loro relazione perché su di loro non gravano particolari obblighi morali) di accostarsi alla Comunione, perché tali condizioni sono oggettivamente contrarie alla volontà di Dio, ossia alla sua misericordia verso noi uomini. Il sacerdote deve illuminare la coscienza del penitente ricordandogli che la nostra vita personale e sociale deve essere conforme all’ordo amoris, un sapientissimo orientamento di ogni cosa alla gloria del Creatore e al bene delle creature. La legge naturale e la rivelazione divina ci fanno sapere, con certezza di ragione e di fede, che vi sono atti che sono di per sé contrastanti con questo ordo, ed è appunto il caso dei rapporti sessuali al di fuori del rapporto di coniugio: tali atti non sono conformi al piano di Dio - non sono cioè santificabili e santificanti - e di conseguenza pongono la persona che li compie volontariamente in una condizione che di fatto è incompatibile con all’ordo amoris, al di là della maggiore o minore consapevolezza della loro gravità. Ciò comporta per il confessore - diretto responsabile del culto divino nella celebrazione della Penitenza - il gravissimo dovere ministeriale di non assolvere il fedele “divorziato-risposato” che non intendesse di fatto cambiare la sua situazione. Per amministrare validamente l’assoluzione mancherebbero infatti le condizioni essenziali, ossia il sincero pentimento e la volontà di riparazione.

Il pentimento non risulta esserci quando il fedele non dichiara al confessore di voler uscire dal proprio stato di “divorziato-risposato” troncando il rapporto con il (o la) convivente e adoperandosi per tornare con il legittimo consorte, oppure quando non si propone di riparare ai danni arrecati al coniuge legittimo, alla eventuale prole, al convivente che ha indotto in peccato e all’intera comunità cristiana a cui ha recato scandalo. Mancando queste condizioni - le quali, dal punto di vista teologico, costituiscono la “materia” del sacramento della Penitenza - il confessore è tenuto a negare, per il momento, l’assoluzione, che non sarebbe un atto di misericordia ma un inganno (perché l’assoluzione sarebbe illecita, e soprattutto invalida).


Sul IV Pellegrinaggio Regionale Pugliese Summorum Pontificum

Comunione ai divorziati risposati in un aforisma di Giovanni Paolo II

I martiri della legge naturale

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Nell’Ottava dell’Ascensione, rilanciamo quest’interessante saggio sui martiri della legge naturale: SS. Angelo da Licata (o da Gerusalemme) e Stanislao di Cracovia. La memoria è stata celebrata pochi giorni fa: del primo il 5 maggio e del secondo il 7.


I martiri della legge naturale


di Cristiana de Magistris


Nella Somma teologica san Tommaso afferma che la «legge naturale» è «la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale». Secondo l’Aquinate, grazie ad una disposizione innata, la «sinderesi», l’uomo possiede la «cognizione abituale» dei principi primi della legge naturale, iscritti da Dio nella sua anima. In quest’ottica la difesa della legge naturale, la quale altro non è che la partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole, equivale in qualche modo alla difesa dei diritti di Dio, e infine di Dio stesso.

Da ciò si comprende la gravità dei peccati contro la legge naturale, e da ciò parimenti si spiega perché la Chiesa annoveri tra i suoi martiri non solo coloro che hanno versato il proprio sangue per la difesa della Fede, ma anche per la legge divina (ad esempio, san Giovanni Battista, san Tommaso Moro, san Giovanni Fisher che hanno difeso l’indissolubilità del matrimonio) e per la legge naturale. Due santi che la Chiesa ha appena commemorato (il 5 e il 7 maggio) portano questa gloriosa aureola: sant’Angelo di Gerusalemme e san Stanislao, vescovo di Cracovia.

Sant’Angelo nacque a Gerusalemme nel 1185 da genitori ebrei convertiti al cristianesimo. All’età di 18 anni entrò fra i Carmelitani e visse nel convento sul monte Carmelo in duro ascetismo, in digiuni, preghiere e penitenze. Ordinato sacerdote all’età di 25 anni, presto cominciò a predicare e ad imitare la potenza taumaturgica dei suoi padri Elia e Eliseo compiendo i primi miracoli. Nel 1214 Alberto di Gerusalemme compose una nuova regola per l’Ordine dei Carmelitani e, 4 anni dopo, nel 1218, Angelo ebbe la missione di recarsi a Roma per sottoporre la nuova regola all’approvazione di papa Onorio III.

A Roma, Angelo incontrò san Domenico Guzman e san Francesco d’Assisi, che gli profetizzò il suo martirio. Dopo una breve permanenza nella Città eterna, Angelo fu inviato in Sicilia, dove predicò in diversi paesi ed infine, giunse a Licata. Qui, nel corso delle sue predicazioni, conobbe Berengario La Pulcella, un signorotto del luogo, di origine normanna che, oltre ad essere un caparbio cataro, da dodici anni, con indicibile scandalo del popolo, viveva una relazione incestuosa con la sorella Margherita dalla quale aveva avuto tre figli. Angelo tentò molte volte di riportare paternamente Berengario sulla retta via, ma invano.

Tuttavia, con le sue prediche sul peccato, convinse almeno la donna a ravvedersi e a fare pubblica penitenza. Margherita gridò il suo pentimento davanti al santo predicatore e alla moltitudine di persone presenti in chiesa. Fu allora che Berengario, irato oltremisura, progettò la sua vendetta. Un giorno, mentre Angelo predicava al popolo, Berengario, passando in mezzo alla folla, salì sul pulpito, e lo pugnalò con cinque colpi mortali sotto lo sguardo impietrito degli astanti. Era il 5 maggio del 1220. Prima di morire, Angelo chiese a Dio e ai fedeli di Licata di perdonare il suo assassino. Berengario pose fine alle sue scelleratezze e ai suoi infelici giorni impiccandosi nella sua stessa casa. L’Ordine Carmelitano venera sant’Angelo almeno dal 1456, e papa Pio II ne approvò il culto. Nell’arte è raffigurato con la palma del martirio in mano, tre corone (verginità, predicazione, martirio) e con una spada che gli trapassa il petto, segno del suo martirio. La sua festa si celebra il 5 maggio.

San Stanislao, nato in Polonia nel 1030 da pii e devoti genitori, si distinse fin dall’infanzia per le sue virtù. Ordinato sacerdote e fatto canonico della cattedrale, fu il modello del capitolo per l’intensità della sua vita ascetica e il lume dei suoi consigli. Dopo la morte del Vescovo Lamberto, Stanislao fu eletto suo successore. In quel tempo regnava in Polonia il re Boleslao II, uomo dai costumi quanto mai dissoluti. Nessuno tuttavia osava redarguirlo. Solo Stanislao tentava di indurlo a cambiar vita e Boleslao II, in principio, parve dar segni di pentimento. Ma le buone risoluzioni del re non durarono a lungo.

Un giorno Boleslao, nella provincia di Siradia, fece rapire a viva forza Cristina, la moglie del signore Miecislao, famosa per la sua bellezza. Quest’atto tirannico e immorale provocò l’indignazione dell’intera Polonia. Il Primate del regno e gli altri vescovi, che avrebbero dovuto intervenire, non volendo dispiacere al sovrano tacquero miseramente. Soltanto Stanislao ebbe la fermezza di affrontare il re, minacciando di colpirlo con le censure ecclesiastiche se non avesse posto fine alla sua vita dissoluta. Alla minaccia di scomunica, Boleslao lo ingiuriò vergognosamente dicendo: «Quando uno osa parlare con tanto poco rispetto ad un monarca, converrebbe che facesse il porcaio, non il vescovo». Il Santo, senza alterarsi, rispose: «Non stabilite nessun paragone tra la dignità regale e quella episcopale perché la prima sta alla seconda come la luna al sole o il piombo all’oro».

Boleslao II risolvette di vendicarsi ricorrendo alla calunnia e, durante un’assemblea generale, accusò il Santo di essere il possessore illegittimo di un terreno, che egli invece aveva legalmente acquistato, senza però poterlo provare con documenti. Poiché i veri testimoni tacevano, temendo di dire la verità, Stanislao promise di far comparire in giudizio, entro 3 giorni, Pietro, il venditore del terreno, morto da tre anni. La proposta fu accolta con risa scroscianti e vile sarcasmo, ma dopo tre giorni, trascorsi in preghiere e digiuni, Stanislao si recò al luogo in cui Pietro era stato seppellito, fece aprire la tomba e, toccandone con il pastorale la salma, gli ordinò di alzarsi «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

Il defunto ubbidì e il Santo lo condusse con sé al tribunale dove l’attendeva il re. «Ecco – disse Stanislao ai giudici entrando con Pietro nella sala – colui che mi ha venduto la terra di Piotrawin; egli è risuscitato per rendervene testimonianza. Domandategli se non è vero che gli ho pagato il prezzo di quella terra. Lo conoscete e la sua tomba è aperta». I presenti rimasero ammutoliti. Il risorto dichiarò senza reticenze che il santo Vescovo gli aveva pagato quella terra davanti ai due testimoni che qualche giorno prima avevano omesso di dire la verità. Quindi tornò nella tomba, non senza aver prima chiesto a san Stanislao di pregare il Signore perché gli abbreviasse le pene del Purgatorio.

Quel miracolo strepitoso sembrò colpire il cuore di Boleslao II che per un certo tempo parve moderare i suoi misfatti. Ma si trattò di una breve tregua seguita da peggior sorte, visto che finì poi coll’abbandonarsi anche alle abominazioni della sodomia. Stanislao, intanto, continuava a supplicare il Cielo per ottenere la conversione del re. Ma tutto fu inutile: il sovrano continuava a ingiuriarlo e minacciarlo di morte qualora avesse continuato a riprendere la sua condotta. Stanislao, allora, dopo avere chiesto il parere di altri vescovi, volendo por rimedio alla gravissima offesa fatta a Dio, scomunicò pubblicamente Boleslao II e gl’interdisse l’ingresso in chiesa.

Il re, a questo punto, decise la vendetta ed ordinò alle sue guardie di uccidere Stanislao. Esse ubbidirono, ma mentre stavano per mettere le mani addosso al Santo che celebrava la Messa, stramazzarono a terra per una forza misteriosa. Il re allora si avvicinò in persona a Stanislao e, con la spada sguainata, gli fracassò la testa con tale violenza da farne schizzare il cervello contro la parete. Era l’11 aprile del 1079. Non ancora soddisfatto, il re tagliò il naso e le labbra al martire, e quindi diede ordine che il cadavere fosse trascinato fuori della chiesa, fatto a pezzi e disperso per i campi affinché servisse di cibo agli uccelli e alle bestie selvagge. Ma alcuni sacerdoti e pii fedeli, raccolsero quelle membra sparse, che rifulgevano di un arcano splendore ed emanavano un soavissimo profumo. San Gregorio VII (+1085) lanciò l’interdetto sul regno di Polonia, scomunicò Boleslao II e lo dichiarò decaduto dalla dignità regale.

Boleslao si pentì dei crimini commessi e terminò la sua vita in un monastero di benedettini ove, come fratello laico, rimase sconosciuto fino alla morte dedito alla penitenza e ai lavori più umili. San Stanislao di Cracovia fu canonizzato da Innocenzo IV nel 1253. Sulla sua tomba avvennero dei prodigi, tra cui la risurrezione di tre morti. La sua festa si celebra il 7 maggio, nel calendario tradizionale.

Sant’Angelo di Gerusalemme e san Stanislao non furono uccisi in odium fidei. Il primo fu pugnalato dal signorotto incestuoso al quale il Santo rimproverava l’orribile misfatto e san Stanislao fu trucidato dal re che ammoniva per il suo libertinaggio e la sua sodomia. Si trattava dunque di peccati contro la legge naturale. Anch’essa ha i suoi diritti, che vanno difesi, e perciò ha i suoi martiri in chi muore per difenderli. Difendere la legge morale naturale, iscritta da Dio nel cuore di ogni uomo, equivale a difendere Dio stesso.

Non vi è un secolo che non abbia avuto i suoi martiri, gli uni per la fede, gli altri per l’unità della Chiesa, altri ancora per la sua libertà. Il XXI si è aperto con un macabro attacco alla legge naturale. Ed ha bisogno di testimoni, cioè di martiri. Ma, come scriveva profeticamente dom Guéranger, «qualunque cosa avvenga, siamo pur certi che lo Spirito di forza non mancherà agli atleti della Verità. Il martirio è uno dei caratteri della Chiesa, e non le è mancato in nessuna epoca». Questi atleti, gloria della Chiesa, con la loro vita ˗ e talvolta anche con la morte ˗ proclamano che l’amoris laetitia non consiste nell’evadere la legge, ma nell’amare Colui che dà la legge per la nostra eterna “laetitia”.

Tempi di corruzione, legge di giustizia, amor di Dio in un aforisma di S. Cipriano di Cartagine

La spina aggiunta alla corona imposta sul capo di Cristo. Una conseguenza pregressa della legge Cirinnà sulle coppie di fatto

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Non ho giurato sul Vangelo, ma sulla Costituzione”. Questa è la sbalorditiva dichiarazione di ateismo di Stato … ops… laicità (quasi fosse qualcosa di cui farsi vanto e che certamente non potrà invocare quando si troverà pur egli dinanzi al Signore) del premier Renzi – sedicente “cattolico” – all’indomani dell’approvazione, in via definitiva, dalla Camera dei deputati dello sventurato disegno di legge sulle c.d. unioni civili, noto dal nome della proponente, on.le Monica Cirinnà (QUI il video. Cfr. Claudio Torre, Renzi adesso sfida la Chiesa: “Io non ho giurato sul Vangelo”, in Il Giornale, 12.5.2016; Mario Sechi, Chi è più laico tra Renzi e il Papa?, in Il Foglio, 13.5.2016) e che è stato votato da sedicenti cattolici (cfr. Flabrizio RonconeUnioni civili, l’atea, la cattolica e il musulmano: foto di gruppo in Aula Matteo Orfini: «La scatto io», in Corriere della sera, 11.5.2016).
Per la verità non deve destare meraviglia una tale dichiarazione, visto che anche la Conferenza episcopale italiana non ha ritenuto in alcun modo pronunciarsi, se non sul metodo-Renzi (cioè l’apposizione della fiducia sul provvedimento al fine di evitare qualsiasi discussione), ma non già sul contenuto riprovevole della novella legislativa (cfr. Paolo Deotto, Le “Unioni civili” e le preoccupazioni di Nunzio Galantino, in Riscossa cristiana, 11.5.2016; Marco Tosatti, Passa la legge che, sperano i suoi alfieri, introdurrà il “matrimonio” LGBT. Ma la CEI dov’era?, in Il Timone, 12.5.2016; Redazione, Unioni civili, Galantino e la Cei fuori tempo massimo, in Il Foglio, 10.5.2016). Del resto, “Avvenire” non si limitava ad un titolo vago e sin troppo soft “Una legge ingiusta”??? (cfr. Giuseppe Rusconi, Unioni civili/L’Avvenire di Galantino? Tappetino per Palazzo Chigi, in Rossoporpora, 12.5.2016) Sta di fatto che, col torpore ecclesiastico ed anche con la finta opposizione catto-laicale con a capo improbabili leader “cattolici” (cfr. Massimo Viglione, Per senso di responsabilità, in Riscossa cristiana, 11.5.2016, ripreso da Chiesa e postconcilio, 11.5.2016. Il riferimento è all’articolo di Riccardo Cascioli, Unioni civili. Le contraddizioni di Adinolfi, in La nuova bussola quotidiana, 11.5.2016), ha ripreso vigore l’idra dei nemici della Chiesa ed, in fondo, dell’uomo, proponendo dopo il “traguardo” della Cirinnà, anche la stura per le droghe (… leggere … ovviamente … che pensavate????), l’eutanasia e chi più ne ha più ne metta (cfr. Francesca Paci, Bonino: “Ora avanti con eutanasia, cannabis, cittadinanza e asilo”, in La Stampa, 12.5.2016; Paolo Deotto, Dopo la Cirinnà. L’esultanza e l’appetito dei demoni, in Riscossa cristiana, 12.5.2016).

Che la Santa Vergine di Fatima in quest’anno centenario delle sue Apparizioni vegli sulla Chiesa e sull’Italia, sconfiggendo l’antico Nemico lasciato libero di girare per il mondo.








La spina aggiunta alla corona imposta sul capo di Cristo. Una conseguenza pregressa della legge Cirinnà sulle coppie di fatto


Col varo definitivo della legge Cirinnà il Parlamento italiano ha ripetuto il grido emesso duemila anni fa dalla Sinagoga ribelle, proclamando “non abbiamo altro Re che Cesare!” (Mt. 27, 15), ossia – tradotto in termini moderni – non riconosciamo altro sovrano e legislatore che il “popolo”, o meglio chi lo seduce, inganna e manovra contro Dio.


di Guido Vignelli


Mercoledì 11 maggio 2016, il Parlamento italiano ha definitivamente varato la legge Cirinnà: ossia una legge che, elevando le convivenze (anche omosessuali) alla dignità di “famiglie”, in realtà abbassa la famiglia al livello delle convivenze; una legge che, rovesciando dalla base il diritto di famiglia, “cambierà il volto della società”, come hanno ammesso anche alcuni ministri in carica. Ora molti, con giusta preoccupazione, si chiedono quali ne saranno le conseguenze nel prossimo futuro. Comunque sia, quella legge ha già prodotto una conseguenza nel lontano passato: una conseguenza che ha aggravato la Passione del nostro Signore e Redentore.

Secondo un’antica tradizione, i tipi di sofferenza inflitti a Gesù Cristo corrispondono a relativi tipi di peccati, commessi dall’umanità ribelle ed espiati dal Redentore subendo al suo posto quegli specifici patimenti. Ad esempio, la flagellazione ha espiato i peccati di lussuria, mentre i peccati di superbia sono stati espiati dall’imposizione della corona di spine – corona che cinse non solo le tempie ma anche l’intero capo del Redentore, come conferma il reperto della Sindone (Mc. 15, 17-19; Mt. 27, 29-30).

Poiché oggi il mondo cattolico tende a ridurre tutto all’aspetto strettamente individuale e privato, ci si dimentica che i peccati possono essere commessi anche da una classe, da una istituzione o da una nazione; in tali casi si tratta di peccati collettivi, sociali, pubblici. Ad esempio, un peccato di superbia, che eleva l’uomo ponendolo al di sopra di Dio, può essere commesso da una nazione intera nella persona dei suoi pubblici rappresentanti. Ciò accade soprattutto quando questa nazione si rifiuta di riconoscere che il Creatore, Legislatore e Redentore dell’umanità (e quindi anche della società) ha pieno e assoluto diritto ad essere ufficialmente riconosciuto come Re, o almeno rispettato nelle Sue leggi fondamentali, promulgate innanzitutto dal Decalogo e insegnate dal tradizionale Magistero ecclesiastico. Se poi questa nazione era un tempo cristiana, o addirittura è nata come tale per influenza della Chiesa stessa, allora questa nazione commette un peccato di pubblica apostasia dalla Fede ricevuta.

Orbene, l’11 maggio 2016 è stato commesso appunto un peccato sociale e istituzionale. Nella persona dei suoi rappresentanti parlamentari “democraticamente eletti”, non sotto costrizione di una minaccia esterna ma per libera e sovrana volontà, il popolo italiano ha sancito che il sapiente ordinamento divino, riguardante la famiglia come cellula e modello della società, non deve più valere nel diritto pubblico e nella organizzazione statale. In tal modo, la nazione italiana ha nuovamente violato almeno due dei divini Comandamenti e ha aggiunto una nuova offesa alla divina bontà e provvidenza, dopo quelle costituite dalla passate leggi sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, l’aborto, la fecondazione artificiale, etc. Del resto, il decreto Cirinnà è logica conseguenza della offensiva antifamiliare iniziata appunto con la legge divorzista (1970).

Così facendo, il Parlamento italiano ha ripetuto il grido emesso duemila anni fa dalla Sinagoga ribelle, proclamando “non abbiamo altro Re che Cesare!” (Mt. 27, 15), ossia – tradotto in termini moderni – non riconosciamo altro sovrano e legislatore che il “popolo”, o meglio chi lo seduce, inganna e manovra contro Dio. Il Parlamento ha anche proclamato “non vogliamo che Costui regni su di noi!”, perché il Cristo “si è fatto chiamare Figlio di Dio” (Mt. 27, 7) al posto del Popolo (democraticamente) Eletto, ponendosi quindi sopra la sovranità popolare, pretendendo di reprimere le passioni sociali liberate dopo due millenni di “superstizione e tirannia”. Con una differenza, rispetto a quanto avvenuto durante il processo: mentre allora Pilato cedette per paura ammettendo che in tal modo permetteva un delitto, oggi i parlamentari sedicenti cristiani hanno osato votare liberamente una legge iniqua presentandocela come “parzialmente giusta” o “preventivamente migliore” rispetto a un’altra peggiore che rischiava di passare. Il povero Pilato non avrebbe potuto neanche immaginare simili sofismi per giustificare un tradimento della giustizia!

Con il proclama e con il rinnegamento che ripetono quelli della ribelle Sinagoga di allora, i rappresentanti ufficiali del popolo italiano hanno aggiunto una nuova spina alla derisoria e crudele corona già imposta sul capo del Redentore: una spina che Gli sarà concretamente inflitta dalla pubblica amministrazione quando dovrà applicare la legge Cirinnà. Questa ennesima spina non solo porta al culmine l’offesa osata, ma anche rischia di esaurire la pazienza di un Dio finora propenso a sopportare il ripudio e a rinviare la giusta punizione di un popolo ingrato, ribelle e apostata. E’ infatti certo che una colpa collettiva esige una punizione altrettanto collettiva di quel popolo che l’ha commessa, o che non ha saputo né voluto opporsi a quei suoi rappresentanti che l’hanno commessa.

Di questa nuova spina, anche la Conferenza Episcopale Italiana ne porta la responsabilità oggettiva. Invece d’impedire il varo di una legge iniqua come quella appena approvata, essa ha impegnato tempo, parole e scritti in battaglie secondarie o superflue o addirittura dannose. Non c’è da sperare che ora l’episcopato organizzi pubbliche preghiere e penitenze per riparare all’iniquità anticristiana e alla ignavia cristiana, visto che non ha fatto nulla per impedirla, anzi ha tentato di delegittimare quei movimenti cattolici che hanno almeno provato ad opporvisi. Su una Gerarchia come questa, che reputa la difesa della “biosfera” ben più importante di quella della sanità naturale e soprannaturale della famiglia, rischia di piombare la punizione preannunciata dalla Madonna nel “terzo segreto” di Fatima: una punizione forse poco misericordiosa, ma molto salutare.


Fonte: Riscossa cristiana, 12.5.2016

“Bonifátius, civis Románus, quod cum Aglaë nóbili matróna impudíce versátus esset, tanto illíus intemperántiæ dolóre captus est, ut pœniténtiæ causa se ad conquirénda et sepeliénda Mártyrum córpora contúlerit. Itaque, relíctis peregrinatiónis sóciis, cum Tarsi multos propter christiánæ fídei professiónem váriis torméntis cruciátos vidísset; illórum víncula osculátus, eos veheménter hortabátur, ut constánter supplícia perférrent, quod brevem labórem sempitérna réquies consecutúra sit. Comprehénsus ígitur, férreis úngulis excarnificátus est; cui étiam inter mánuum ungues et carnem acúti cálami sunt infíxi, plumbúmque liquefáctum in os ejus infúsum. Quibus in cruciátibus ea vox tantum Bonifátii audiebátur: Grátias tibi ago, Dómine Jesu Christe, Fili Dei” (Lect. III – Noct.) – SANCTI BONIFATII MARTYRIS TARSI

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Oggi celebriamo uno di quei quattro santi noti, dal folklore contadino dell’Europa centro-settentrionale, come «santi di ghiaccio», cioè San Bonifacio di Tarso (di Cilicia), martire.

La tradizione popolare, infatti, vuole che, durante la stagione primaverile, si verifica un improvviso e brusco calo delle temperature, ultimo guizzo del gelo prima dei calori estivi. Questo fenomeno si verificherebbe sempre nei giorni 12, 13 e 14 maggio, dedicati ai santi Pancrazio, Servazio ed, appunto, Bonifacio di Tarso. Di qui il ricordato appellativo (sul punto, v. Massimo Pautrier, I Santi delle Chiese medievali di Roma (IV-XIV secolo), Lulu.com, Roma, 2013, p. 75).

Questo Santo, menzionato nel Geronimiano – Romæ Isidori, Bonefacii– e che i tardivi e leggendari Attidel suo martirio – scritti in greco e tradotti in latino verso il VII sec. - vorrebbero far passare per un cittadino romano martirizzato a Tarso, all’epoca della persecuzione di Diocleziano (+ 307), ma seppellito sulla via Latina, non appare mai negli antichi documenti liturgici di Roma.

Il suo culto è attestato a quell’epoca, cioè nel VII sec., sull’Aventino dall’itinerario De locis sanctis martyrum dall’Itinerario di Malmesbury.

Ora, affermare se il titolare del monasterium Sancti Bonifaciisull’Aventino sia differente dal martire Bonifatius o Bonifacianus menzionato dagli antichi Itinerari sulla via Salariavetus, è difficile dirlo. Sta di fatto che la chiesa dell’Aventino, già citata come diaconia sotto Leone III, dovette essere costruita probabilmente grazie all’influenza degli orientali residenti nella Città eterna. Difatti, la leggenda di san Bonifacio rivela una mano orientale; di più, questo martire è celebrato nei Menologi dei Greci il 19 dicembre (Άγιος Βονιφάτιος. Ο μέθυσος και πόρνος μάρτυρας του Χριστού). Per la verità, in questo giorno, gli Orientali lo festeggiano assieme alla matrona, figlia del proconsole romano in Acaia, Santa Aglaida o Aglais o Aglaide (Αγία Αγλαΐα), della quale Bonifacio era stato amante dissoluto, convivente ed amministratore. Il calendario di Napoli, invece, fissa la festa del Santo al 14 maggio.

Malgrado l’incertezza dell’identificazione di questo Bonifacio orientale con uno dei numerosi martiri con questo nome, la sua basilica acquistò tuttavia molto rapidamente una grande fama ed, al tempo di Benedetto VII, nel 977, si annesse un monastero che, a causa dei numerosi santi che l’abitarono, fu salutato dal Baronio col titolo di Seminario dei Santi(su questa chiesa, cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 585-587; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 171-172). È certo che lassù, su questo Aventino, che aveva avuto una sì grande importanza nella preistoria di Roma, e sul quale, al tempo di Atanasio e di Girolamo, santa Marcella aveva inaugurato, nella Città regina del mondo, la vita monastica, sotto il patronato di Bonifacio, Ad limina sancti Martyris invicti Bonifatii, si svolsero le più belle pagine della storia del monachesimo romano: l’arcivescovo e futuro martire sant’Adalberto di Praga, infatti, vi si rifugiò a due riprese tra il 989 ed il 996. Qui visse anche il suo discepolo Bonifacio o Bruno di Querfurt (+ 1009). Nell’XI sec., il monastero che raggruppava dei monaci greci e latini, era uno dei principali, se non il principale, della Città  (G. Ferrari, Early roman monasteries, Coll. Studi di Antichità Christiana, 23, Città del Vaticano 1957, pp. 78-87), ed una sorta di «seminario delle missioni nei paesi slavi».

Era dunque normale che il culto del suo principale titolare, san Bonifacio, si sviluppasse in Roma. Lo si trova iscritto nel calendario murale dell’abbazia benedettina vicina di Santa Maria de Aventino (oggi Santa Maria del Priorato) e nel martirologio di San Pietro, in cui si legge: Sancti Bonifatii in Aventino, mentre il passionario dei Santi Giovanni e Paolo fornisce la sua passione. Nel XII sec., è celebrato al Laterano ed al Vaticano (cfr. per ragguagli Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, pp. 238-239). Messa semplice, ridotta a mera commemorazione dal 1960. La dissacrazione e desacralizzazione del 1969 portò alla soppressione della festa.
La messa Protexistiè interamente del Comune, come il 24 aprile.

Una delle pagine del Vangelo sulla quale si riflette troppo poco oggigiorno, e che i predicatori propongono troppo raramente al popolo, è quella che riguarda i consigli evangelici di perfezione e che, una volta, popolò i deserti di monasteri. È vero che si tratta di semplici consigli; ma è bene meditare queste parole che scrisse un Romano, Gregorio Magno, all’imperatore Maurizio, mentre questi tentava di opporsi all’ingresso dei soldati nei monasteri: «Un gran numero di anime possono salvarsi anche nel secolo; ma molti non giungono ad ottenere la salvezza eterna che all’ombra del chiostro».

La colletta di azione di grazie è la stessa del 10 dicembre.

Icona di S. Bonifacio

Icona di S. Bonifacio

Icona di S. Aglaide

Francesco Bissolo, S. Bonifacio e Santi (SS. Pietro, Apollonia, Barbara e Giacomo), 1530 circa, museo diocesano, Treviso

Alexandre Cabanel, Aglaide e Bonifacio, 1857, Cleveland Museum of Art (Ohio), Cleveland

Veni Sancte Spiritus

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Luigi Marai, Pentecoste, 1878, museo diocesano, Verona


Veni Creator Spiritus

La vocazione delle donne??? Essere mirrofore. Un brevissimo pensiero di P. Frédéric Manns

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Nella domenica che gli orientali dedicano alle Sante Mirrofore ed al giusto Giuseppe (III domenica di Pasqua), un bel pensiero del biblista francescano P. Frédéric Manns, tratto dalla sua pagina Facebook:

La vocation de la femme est d'être myrrophore

Qui s’indigne aujourd’hui publiquement contre le matérialisme ambiant et ce qu’il appelle carrément « un effondrement de la spiritualité » ? C’est Michel Onfray, auteur d’un traité d’athéologie qui fut un best-seller et dont le propos est de penser de façon cohérente l’absence de Dieu en ce monde. Les extrêmes se rejoignent

(dalla pagina Facebook di P. Manns, del 1.5.2016)

Card. Raymond L. Burke: "Il martirio per la fede nel nostro tempo per “resistere” agli errori"

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Alcuni anni fa il card. Burke aveva già parlato del tema del martirio e della testimonianza di fede nei nostri tempi funesti (v. qui). Ora torna sul tema con una sua relazione di pochi giorni orsono, che volentieri si rilancia nell’odierna festa di San Pasquale Baylon (sebbene quest’anno debba cedere il posto all’Ottava di Pentecoste).



Card. Raymond Leo Burke. Il martirio per la fede nel nostro tempo per “resistere” agli errori


Nei giorni precedenti la Marcia per la Vita, 6-7 maggio scorso, si è svolto a Roma, presso l’Hotel Columbus in Via della Conciliazione, il Rome Life Forum, durante il quale si sono alternati diversi illustri relatori: vedi Locandina (immagine a lato). Il Forum era aperto a tutta la leadership nel movimento della vita e della famiglia a livello sia internazionale che locale, per consentire l’incontro e il confronto dei rispettivi rappresentanti, ritenuto quanto mai necessario in questo momento critico per la Chiesa. allo scopo di difendere e promuovere la dottrina cattolica sulla famiglia.

Di seguito, nella nostra traduzione, l’intervento del Card. Raymond Leo Burke, all’inizio del quale egli esprime esplicitamente la sua posizione, che è quella di assistere i fedeli nella battaglia per “resistere” all’interno della Chiesa al ‘clima’ che cerca di minare le verità della fede cattolica sul’indissolubilità del matrimonio e sulla Presenza Reale di Cristo nell’Eucaristia. Il filo conduttore del discorso è Il martirio per la fede nel nostro tempo [originale inglese qui].

Noto una costante negli interventi del Cardinale Burke: egli coglie dalle personali esperienze della sua vita elementi incandescenti che condivide nella loro valenza universale.

Vedi anche, nella nostra traduzione, le Relazioni:

- Matthew McCusker (Voice of the family): Errori dottrinali di base ed ambiguità dell’Amoris Laetitia alla luce dell’insegnamento cattolico sulla famiglia [qui];

- Mons. Athanasius Schneider, Fede Cattolica e confessione della verità [qui].


Il martirio per la fede nel nostro tempo


Sono lieto di poter parlare al Rome Life Forum e di esprimere la mia solidarietà a voi, che partecipate, nell’impegno di salvaguardare e promuovere la dignità inviolabile della vita umana degli innocenti e indifesi, e l’integrità della sua culla: il matrimonio e la famiglia. Soprattutto, desidero esprimere la mia più profonda gratitudine a voi. La mia speranza è che questo mio tempo e le mie parole siano una fonte di incoraggiamento nella battaglia pro-vita e pro-matrimonio, nella quale siamo tutti chiamati e in cui tutti noi siamo impegnati.
Provo particolare apprensione per la crescita, specialmente nella Chiesa, del punto di vista mondano, della prospettiva antropocentrica e mondo-centrica. Essa si esprime in una conoscenza laica delle realtà divine che sono parte integrante della nostra vita quotidiana. Per esempio, oggi nella Chiesa, c’è chi si riferisce alla realtà oggettiva della grazia del matrimonio come se fosse un semplice ideale a cui più o meno cerchiamo di conformarci. Visione mondana che, in quanto non vera, porta confusione e divisione all’interno del Corpo di Cristo, finisce per negare il principio fondamentale della retta ragione: il principio di non contraddizione, cioè la legge che una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo. Ad esempio, non può essere che la Chiesa professa la fede nella indissolubilità del matrimonio, in accordo con la legge di Dio inscritta in ogni cuore umano e annunciata nella parola di Cristo, mentre nello stesso tempo ammette ai Sacramenti chi vive pubblicamente in violazione della indissolubilità del matrimonio. Se il fatto che una persona che vive pubblicamente in violazione del suo vincolo matrimoniale è ammessa ai Sacramenti, allora il matrimonio non è indissolubile e il sacramento della Santa Eucaristia non è il Corpo di Cristo e l’incontro con Cristo nel sacramento della Penitenza non richiede il fermo proposito di modifica della nostra vita, cioè l’obbedienza alla parola di Cristo, “non peccare più”[1].

Il punto di vista mondano della nostra vita in Cristo comporta una visione politicizzata della Chiesa in cui i suoi membri sono divisi in campi opposti, quando siamo tutti cattolici, per definizione uniti dalla stessa fede, dagli stessi sacramenti e dallo stesso governo[ 2]. Allo stesso tempo, nella vita ecclesiale viene introdotta ogni sorta di falsa opposizione, ad esempio, l’opposizione tra ragione e fede, l’opposizione tra dottrina e pastorale, l’opposizione tra legge e amore, l’opposizione tra la giustizia e la misericordia. Poiché siamo vivi in Cristo nella Chiesa, vediamo tutte le cose in termini di vita eterna “nell’ottica dell’eternità (sub specie aeternitatis)”, secondo l’espressione classica.

Siamo tutti tentati di lasciarci assorbire da tali correnti di pensiero. È mio auspicio assistervi nella battaglia per resistere a questo modo di pensare, per rimanere fedeli a Cristo che è vivo in voi per l’effusione dello Spirito Santo. Vi offro una riflessione sul martirio inerente alla nostra vita in Cristo. Tale riflessione ci aiuterà, spero, a vedere tutte le circostanze della nostra vita in Cristo in vista della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, la Sua vittoria della vita eterna nella nostra natura umana che condivide con noi già ora e condividerà con noi perfettamente nella Sua venuta definitiva.


Una nuova evangelizzazione: Padre John A. Hardon e Papa San Giovanni Paolo II


Vorrei richiamare in particolare l’attenzione sul lavoro del Servo di Dio Padre John Anthony Hardon della Compagnia di Gesù, morto il 30 dicembre del Grande Giubileo del 2000. Padre Hardon espresse eloquentemente, nelle sue parole e nei suoi scritti, la forte convinzione che i cattolici oggi, come i primi cristiani, devono essere pronti a dare una forte testimonianza della loro fede, nella sua integrità, sino allo spargimento di sangue. Penso, per esempio, al Manuale del catechista mariano, l’ultima pubblicazione del Servo di Dio, per il quale ho avuto l’onore di scrivere la prefazione. Nell’indicare la natura e la struttura dell’Apostolato del catechista mariano, uno dei numerosi apostolati che il Servo di Dio ha fondato o di cui ha contribuito alla fondazione, Padre Hardon ha scritto:

Il cattolicesimo è alle prese con la peggiore crisi della sua storia. A meno che i veri e fedeli cattolici non abbiano lo zelo e lo spirito dei primi cristiani, a meno che non siano disposti a fare quello che essi hanno fatto ed a pagare il prezzo che hanno pagato, i giorni dell’America sono contati. [3]
Quello che egli ha scritto sugli Stati Uniti d’America, sua patria, è vero per qualsiasi nazione soggetta alla secolarizzazione virulenta della società, una secolarizzazione penetrata anche nella Chiesa. Sapeva che l’unico modo per trasformare la società, cioè trasformare la società rivolti a Cristo e al suo Corpo Mistico, la santa Chiesa, per i singoli cattolici è vivere la propria fede con piena integrità, anche di fronte alla solitudine, al ridicolo, alla persecuzione e persino alla morte.

In altre parole, se compito della Chiesa ai nostri giorni è svolgere la sua missione di evangelizzazione del mondo, essa deve essere prima evangelizzata, deve essere prima purificata di tutto ciò che non è di Cristo, Che è chiamata a portare al mondo, in ogni momento e in ogni luogo. Nella sua Esortazione post-sinodale Christifideles laici, Papa san Giovanni Paolo II ha affrontato la necessità di una nuova evangelizzazione della società, che deve avere il suo inizio con una nuova evangelizzazione della comunità ecclesiale.

Per porre rimedio alla situazione di una cultura totalmente secolarizzata, il santo Pontefice ha osservato, “Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana”. [4] Si è affrettato ad aggiungere che, se il rimedio è realizzare ciò, la Chiesa stessa deve essere nuovamente evangelizzata. Per comprendere fino in fondo la secolarizzazione radicale della nostra cultura occorre capire anche quanto questa secolarizzazione sia entrata nella vita della Chiesa stessa. Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato:

Ma la condizione [per rifare il tessuto cristiano della società umana] è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni[5]. 
Egli, quindi, ha invitato i fedeli laici alla loro particolare responsabilità, cioè “testimoniare come la fede cristiana costituisca l’unica risposta pienamente valida, più o meno coscientemente da tutti percepita e invocata, dei problemi e delle speranze che la vita pone ad ogni uomo e ad ogni società”.[6] Per rendere più specifica la chiamata, ha chiarito che l’adempimento della responsabilità dei fedeli laici richiede loro di “superare in se stessi la frattura tra il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività in famiglia, sul lavoro e nella società, l’unità d’una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza per realizzarsi in pienezza”. [7]


Catechesi: Fondamento della Nuova Evangelizzazione


In modo particolare, Padre Hardon sapeva che la necessaria forte testimonianza cattolica dipende essenzialmente dalla retta comprensione della fede e ciò esige che risuoni la catechesi. Egli si rendeva conto che decenni di catechesi insufficiente e anche falsa avevano determinato l’analfabatismo in materia di fede di molti cattolici. Ha visto quanti sono stati lasciati nella confusione e nell’errore sui principi fondamentali della fede cattolica e della legge morale scritta nel cuore umano e definitivamente articolati attraverso la parola di Cristo tramandata nella Chiesa. La fede nella Presenza Reale del Signore nostro Gesù nella Santa Eucaristia era drasticamente diminuita, con conseguente perdita pressoché totale della devozione eucaristica. Da un gran numero di cattolici la Messa domenicale non era più vista come un obbligo serio, sotto pena di peccato mortale, e l’accesso regolare al Sacramento della Penitenza era stato abbandonato. La mancanza di formazione nelle virtù, la confusione generale e gli errori sulla legge morale seminavano distruzione e morte nella vita di molte persone e di molte famiglie. I genitori e anche i parroci non vedevano più la catechesi come loro principale responsabilità verso i bambini. Come risultato, molti bambini e giovani cadevano in percorsi di peccato e corruzione morale senza che nessuno li correggesse o mostrasse loro la via di Cristo, la via della verità e dell’amore.

Padre Hardon ci ha ricordato che l’unico mezzo efficace per affrontare la gravità della situazione che minaccia il presente e il futuro della nostra società, è Dio, che “ci ha messi qui in questo momento e luogo consapevoli della gravità dei nostri tempi” e la sua grazia “è disponibile in sovrabbondanza.”[8]

Mi viene in mente la profonda riflessione sulla testimonianza cristiana nel nostro tempo del cardinale Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, nel suo libro di recente pubblicazione, Dieu ou rien [9], uscito nella traduzione inglese con il titolo, God or nothing - Dio o niente. [10]

Come ha osservato padre Hardon, impegnarsi nell’apostolato della catechesi non richiede ad un cattolico di “abbandonare la [sua] professione, lasciare il [suo] lavoro, o assumere una nuova posizione” [11], ma di dedicarsi alla formazione spirituale e dottrinale necessaria per chi è chiamato a testimoniare la fede nel nostro tempo. Egli ha ricordato al lettore come i primi cristiani si nutrissero frequentemente della Santa Comunione e mediante i loro incontri nelle catacombe, che costituivano una sorta di scuola “per acquisire le conoscenze e costruire l’astuzia e lo zelo per vincere anime a Cristo”. [12] Egli ha esortato i cattolici di oggi a partecipare alla Santa Messa e ricevere la Santa Comunione quotidiana, se possibile. Li ha inoltre esortati a rendere le loro case e le loro auto delle scuole “per infondere la conoscenza e la forza di volontà per evangelizzare”[13]. In altre parole, ha insegnato loro a non perdere ogni occasione, anche il tempo trascorso in viaggio da un posto ad un altro, per approfondire la comprensione della fede.


Testimonianza e martirio, e la Nuova Evangelizzazione


La testimonianza della catechesi in casa, in viaggio, al lavoro, nel fare affari, nell’esercitare una professione, in qualsiasi arena dello sforzo umano un cattolico sia coinvolto, è una forma eminente della testimonianza che i cattolici sono chiamati a dare in ogni momento, in particolare nei momenti critici in cui viviamo. La testimonianza costante, di cui la catechesi è la forma più importante, riguarda il martirio, come il Servo di Dio ci ha ricordato spesso.

Il Catechismo della Chiesa cattolica, infatti, tratta in due numeri successivi del dovere dei cristiani di testimoniare la propria fede e quello della suprema testimonianza del martirio. Per quanto riguarda il dovere di testimoniare la fede, il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma:

Il dovere dei cristiani di prendere parte alla vita della Chiesa li spinge ad agire come testimoni del Vangelo e degli obblighi che ne derivano. Tale testimonianza è trasmissione della fede in parole e opere. La testimonianza è un atto di giustizia che comprova o fa conoscere la verità [14]
Per quanto riguarda il martirio, il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma:

Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede; il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto, al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina cristiana. Affronta la morte con un atto di fortezza. [15]
Padre Hardon ha sviluppato il suo insegnamento sul martirio per mostrare la relazione essenziale di tutte le forme di testimonianza cristiana col martirio cristiano. Uno studio dell’insegnamento del Servo di Dio mostrerà come per tutti i testimoni sia necessario un certo morire a se stessi, una certa oblazione di sé a Cristo per la sua opera di salvezza. Nella sua massima espressione, ciò implica l’effusione del proprio sangue, dare la vita nella fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. Il martirio è una manifestazione più convincente della realtà della vita di Cristo in noi, l’unità del nostro cuore con il suo glorioso Cuore trafitto.

Penso a tanti fedeli che mi esprimono le loro preoccupazioni profonde per la Chiesa del nostro tempo, in cui sembra che ci sia tanta confusione sulle verità dogmatiche e morali fondamentali. Nel rispondere alle loro preoccupazioni, li esorto ad approfondire la loro comprensione dell’insegnamento costante e della disciplina della Chiesa e di far sentire la propria voce, in modo che i pastori del gregge possano comprendere l’urgenza di annunciare di nuovo con chiarezza e coraggio le verità della fede ed applicare di nuovo con carità e fermezza la disciplina necessaria per salvaguardare le stesse verità.

Davanti alle sfide di vivere la fede cattolica nel nostro tempo, Papa Giovanni Paolo II ci ha ricordato l’urgenza del mandato di Cristo ai primi discepoli e consegnato ai missionari lungo i secoli cristiani e a noi oggi. Egli ha dichiarato:

Certamente l’imperativo di Gesù: «Andate e predicate il Vangelo» mantiene sempre vivo il suo valore ed è carico di un’urgenza intramontabile. Tuttavia la situazione attuale, non solo del mondo ma anche di tante parti della Chiesa, esige assolutamente che la parola di Cristo riceva un’obbedienza più pronta e generosa. Ogni discepolo è chiamato in prima persona; nessun discepolo può sottrarsi nel dare la sua propria risposta: «Guai a me, se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9, 16). [16]
I cristiani si trovano spesso in una società e in una cultura che non conoscono Dio, sono dimentiche di Lui o addirittura ostili a Lui e alla sua legge scritta nella creazione, inscritta in ogni cuore umano, e insegnata nella sua pienezza da parte della Chiesa. In una tale situazione, la testimonianza chiara e coraggiosa della vita cristiana, dando gloria a Dio mediante l’obbedienza alla sua legge scritta nel cuore dell’uomo, è più importante che mai, non solo per il bene della salvezza dell’anima cristiana, ma anche per la trasformazione della cultura e della società, in modo da promuovere e servire realmente al bene di tutti.

L’obbedienza, fondamentale ed essenziale per la nuova evangelizzazione, è anche una virtù acquisita con grande difficoltà in una cultura che esalta l’individualismo e pone in discussione ogni autorità, tranne la propria. Tuttavia, essa è indispensabile per insegnare e vivere il Vangelo nel nostro tempo. Dobbiamo prendere esempio dai primi discepoli, dai primi missionari nella nostra patria, e dalla schiera di santi e beati che si sono dedicati completamente a Cristo, invocando l’aiuto e la guida dello Spirito Santo per purificarsi di ogni ribellione di fronte alla volontà di Dio e rafforzarsi nel fare la volontà di Dio in ogni cosa.

Padre Hardon ha assunto il lavoro della nuova evangelizzazione fedelmente e senza sosta. Suo unico desiderio era aiutare i suoi fratelli e sorelle nella Chiesa ad insegnare, celebrare e vivere la fede cattolica con l’entusiasmo e l’energia dei primi discepoli, dei grandi santi e dei missionari che per primi hanno portato la fede cattolica nella nostra patria. Egli ha espresso la chiamata alla nuova evangelizzazione più appropriatamente come una chiamata a testimoniare e, infine, al martirio. Così molti fedeli, me compreso, continuano a seguire l’ispirazione e la direzione che il Servo di Dio ci ha dato.


Il martirio secondo il Servo di Dio Padre Hardon


La più grande eredità spirituale che il Servo di Dio ci ha lasciato è la sua vita vissuta in Gesù Cristo, per “la maggior gloria di Dio”. Ed anche come, nella sua vita sacerdotale, ha cercato di conoscere, amare e servire Gesù Cristo solo, così anche ha insegnato ad altri a fare altrettanto, secondo le esigenze della propria vocazione nella vita. Osservando la grande confusione e gli errori del tempo presente, anche all’interno della Chiesa, padre Hardon ha spesso ricordato a tutti i fedeli di prepararsi a soffrire molto, ed anche a subire il martirio, al fine di essere fedeli all’insegnamento di Cristo e della sua Chiesa. Padre Hardon ha conservato la fiducia nella costante presenza di Cristo nella Chiesa e nei suoi singoli membri, attraverso la presenza dello Spirito Santo. Anche se ha visto chiaramente la gravità della situazione e le enormi esigenze della vita cristiana nel nostro tempo, era sicuro che, con la grazia di Cristo, i cattolici sarebbero stati testimoni fedeli di Cristo, che trasforma le singole vite e il mondo.

Il Servo di Dio fornisce una presentazione sistematica del suo insegnamento sul martirio, nel suo libro, Santità nella Chiesa, ristampato nel 2000 da Eternal Life, l’apostolato da lui fondato con il santo laico, William Smith di Bardstown, Kentucky. Prima di tutto, padre Hardon fonda il suo insegnamento circa il martirio sulle parole di Nostro Signore prima di salire alla destra del Padre: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e allora mi sarete testimoni non solo a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra “.[17] Le parole di nostro Signore ci insegnano l’origine, la natura e il fine apostolico del martirio.

“La fonte della forza di soffrire per Cristo viene finalmente dallo Spirito Santo, che si dice ne da’ il potere”. [18] Come il Papa Giovanni Paolo II ci ha ricordato, è la vita dello Spirito Santo, che abita in noi attraverso i sacramenti del Battesimo e della Confermazione, che ispira in noi la santità della vita, la forza di soffrire per Cristo. Lo Spirito Santo, che abita nelle nostre anime, ci permette di testimoniare la verità che Cristo ci insegna nella sua Santa Chiesa. Il martirio è una espressione fondamentale della nostra relazione personale con Cristo. È, infatti, il rapporto personale con Cristo, che dà la gioia al martire nella sua sofferenza. Nelle parole del Servo di Dio, “infatti, uno dei paradossi del martirio è la felicità positiva che un seguace fortemente impegnato prova nella sofferenza per Cristo”. [19] Padre Hardon si riferisce alla narrazione degli Atti degli Apostoli della fustigazione degli Apostoli, dopo che erano stati avvertiti di non parlare più nel nome di Gesù. Lo scrittore sacro ci dice che gli apostoli, “erano felici di aver avuto l’onore di soffrire umiliazioni per amore del nome” [20] di Gesù.

Padre Hardon, osserva che il martirio non è “teoria accademica”, ma “un fatto palpabile di ogni vero seguace di Cristo”[21]. Distingue tre forme di martirio, di essere testimoni di Cristo davanti al mondo intero. Esse sono: il Martirio di Sangue, il Martirio di persecuzione, e il Martirio di testimonianza.

Il martirio di sangue, come il Catechismo della Chiesa Cattolica ci insegna, è la “suprema testimonianza resa alla verità della fede” [22]. Davanti alla scelta di tradire Cristo o morire per Cristo, il martire di sangue rimane fedele e consegna la sua vita per amore di Cristo. Pensiamo ai molti martiri fra i primi cristiani, a cominciare da Santo Stefano e anche ai martiri nel corso dei secoli, ad esempio, San Pietro da Verona, San Tommaso Becket, San Bonifacio, i Santi Tommaso More e Giovanni Fisher, i martiri del Nord America, San Paolo Miki e compagni (martiri del Giappone), Sant’Andrea Kim e i suoi Compagni (Martiri della Corea), Saint Charles Lwanga e dei suoi Compagni (Martiri dell’Uganda), e una miriade di altri. Oggi, pensiamo ai cristiani decapitati o comunque uccisi in Iraq e in altri paesi dai terroristi islamici perché si rifiutano di rinnegare la loro fede in Gesù Cristo e di abbracciare l’Islam.

Padre Hardon ci ricorda i tanti martiri di sangue nel nostro tempo, che “si uniscono a Cristo in espiazione [per l’enormità dei peccati di oggi] e in un appello urgente alla misericordia di Dio”[23]. Padre Hardon ci ricorda anche che il martiri di sangue, che uniscono la loro sofferenza e che muoiono per la sofferenza e la morte di Cristo, applicano “i frutti della redenzione [del mondo] per l’umanità peccatrice”. [24] E conclude: “Una cosa che non abbiamo l’adire di dimenticare è che questi martiri di oggi sono i nostri compagni membra del corpo mistico. Attraverso le loro sofferenze siamo resi tutti più ricchi, come attraverso i loro meriti tutta la Chiesa diventa più santa”. [25]

La seconda forma di martirio è il Martirio di persecuzione o di opposizione. Attraverso il martirio di persecuzione, i fedeli soffrono molto anche se la loro sofferenza non finisce con la morte violenta. Si pensi, ad esempio, alla sofferenza di tanti cristiani sotto i vari regimi comunisti del nostro tempo. A volte questi martiri della persecuzione hanno trascorso anni nelle prigioni in Siberia o in Viet Nam. Il Servo di Dio ci ricorda che molti martiri della persecuzione “sono apparentemente liberi di camminare per le strade e vivere in una casa”, ma “sono privati ​​di ogni libertà umana di praticare la loro religione e di servire Cristo secondo la loro fede”. [ 26] Oggi, in Iraq e in altri paesi, i fedeli che si rifiutano di apostatare e non vengono uccisi preferiscono abbandonare tutti i loro beni, per andare esuli in un paese straniero, a loro sconosciuto, in cui possano vivere secondo la loro fede.

Non si può fare a meno di pensare alla situazione attuale in alcune nazioni. Un governo totalmente secolarizzato rende legali e promuove le violazioni più gravi della legge morale, ad esempio, l’aborto procurato, l’eutanasia, il cosiddetto “matrimonio omosessuale”, la clonazione umana e la distruzione di embrioni umani per la ricerca, e ora sta cercando di forzare cattolici e altre persone di buona volontà a cooperare formalmente al male con atti che violano la loro coscienza. I cattolici sono chiamati oggi, più che mai, ad alzarsi in piedi per la verità che Cristo ci insegna, anche se questo significa la perdita di beni, vessazioni da parte del governo e detenzione. Penso, per esempio, alla minaccia di togliere l’esenzione fiscale, con i suoi effetti disastrosi su molti tipi di apostolato della Chiesa, che può essere il risultato necessario del rimanere fedeli alla nostra fede e alla legge morale. Non possiamo fare nulla di meno che rimanere fedeli a Nostro Signore Gesù Cristo e alla verità, che ci porge nella sua Santa Chiesa, non importa quale sia la sofferenza o la persecuzione che si debba affrontare.

Padre Hardon illustra la natura del martirio di persecuzione o di opposizione attraverso il testo del libro della Sapienza, capitolo 2, versetti da 6 a 19. Il testo ci insegna che ci sono due ragioni “per cui le persone mondane perseguitano coloro che cercano di servire Dio”[27]. Prima di tutto “gli empi (come vengono chiamati) dicono a se stessi con ragionamento fallace che tutto ciò che devono cercare è quello che questo mondo loro offre”.[28] Nel libro della Sapienza si legge:

“Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera. Nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte”.[29]
In secondo luogo, “rivolgono la loro attenzione ai fedeli credenti che sono un rimprovero permanente agli empi”.[30] Nel libro della Sapienza si legge:

Spadroneggiamo sul giusto povero, non risparmiamo le vedove, nessun riguardo per la canizie ricca d’anni del vecchio. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l’educazione da noi ricevuta. [31]
Come il testo chiarisce, il seguace della verità scritta da Dio in ogni cuore umano soffrirà persecuzioni per mano di chi preferisce la comodità immediata e il piacere delle bugie, anche la più grossolana delle bugie. La sofferenza è resa più dura dal tradimento della verità da parte di coloro che affermano di seguire Cristo e di essere membri della sua Chiesa, anche Vescovi, sacerdoti e consacrati.

Il Martirio di persecuzione è una partecipazione alla Passione di nostro Signore Gesù Cristo e, di conseguenza, porta al cristiano la gioia più profonda, nonostante l’intensità della sofferenza in cui è coinvolto. San Paolo che ha sofferto così tanto la persecuzione e infine la morte come martire per amore di Cristo e del suo Corpo mistico, la Chiesa, ci fornisce una profonda meditazione sul significato del martirio di persecuzione. Nella Lettera ai Colossesi, egli scrive:

Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi di realizzare la sua parola, cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria. È Lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza [32]
Le sofferenze di Cristo sono perfette. Quanto resta ancora per noi è unire noi stessi a Cristo nella Sua sofferenza per amore della salvezza del mondo. Cristo ha ottenuto la vittoria sul peccato, la vittoria della vita eterna, ma a noi rimane da vivere quella vittoria nelle circostanze della nostra vita quotidiana, anche di fronte alla persecuzione. In questo modo, la gloria di Cristo è visibile in noi e attira molti alla salvezza eterna.

La terza forma è il Martirio di testimonianza, che è il più comune. Nelle parole di Padre Hardon, “nessun seguace di Cristo vi può sfuggire.” [33] Il martire di testimonianza non può affrontare l’opposizione attiva, ma deve affrontare l’opposizione passiva per mano di “coloro che mancano di una chiara visione del Salvatore o che, dopo averla avuta, hanno abbandonato il loro impegno per Cristo” [34]. Padre Hardon descrive la situazione con queste parole:

A questo punto il fermo credente nel magistero della Chiesa: il servo devoto del papato; il pastore convinto che insiste col suo gregge sulla sana dottrina; il religioso scrupoloso che vuol rimanere fedele ai voti di povertà autentica, castità schietta e obbedienza sincera; i genitori risoluti preoccupati per la formazione religiosa e morale dei figli e disposti a sacrificarsi generosamente per costruire e prendersi cura di una famiglia cristiana - naturale o adottiva - a tali persone non saranno risparmiate anche la critica attiva e l’aperta opposizione. Ma essi devono soprattutto essere pronti a vivere in un clima di freddezza rispetto alle loro convinzioni più profonde. [35]
Qui la sofferenza spesso deriva dalla “studiata indifferenza di persone che [i fedeli devoti] conoscono e amano, di persone della propria famiglia naturale o religiosa, di uomini e donne la cui intelligenza rispettano e il cui rispetto hanno a cuore.” [36]

Nelle parole di Padre Hardon, il martirio “si trova nella privazione del buon esempio per noi da parte dei nostri contemporanei, ed è la pratica della virtù cristiana in solitudine, perché quelli che testimoniano ciò che facciamo sono la maggioranza - numericamente e psicologicamente - e sappiamo che sono a disagio a causa della testimonianza. Testimoniamo loro, è vero, ma essi non sono contenti di assistere a ciò che siamo, a ciò che rappresentiamo, a ciò che diciamo, o a ciò che facciamo» [37]. Tale martirio è la testimonianza giornaliera offerta da tutti i fedeli cattolici nella società totalmente secolarizzata, e nella Chiesa che subisce altrettanto la secolarizzazione.

Il cardinale Joseph Ratzinger ha affrontato la situazione del martirio di testimonianza nel nostro tempo nella sua omelia durante la Messa per l’elezione del Romano Pontefice, celebrata prima del conclave durante il quale è stato eletto alla Sede di Pietro. Ha parlato di come “il pensiero di molti cristiani” è stato sballottato, nel nostro tempo, da varie “correnti ideologiche”, osservando che siamo testimoni dell’ “inganno degli uomini, dell’astuzia che tende a trarre nell’errore” come san Paolo ha scritto nella sua Lettera agli Efesini [38]. Egli ha osservato che, nel nostro tempo, coloro che vivono secondo “una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa” sono visti come fondamentalisti, come estremisti, mentre il relativismo, cioè “lasciarsi portare ‘qua e là da qualsiasi vento di dottrina’,” viene esaltato[39]. Riguardo alla fonte dei gravi mali morali del nostro tempo, ha concluso: “Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.”[40]. Il clima della dittatura del relativismo rende il martirio di testimonianza sempre più urgente, mentre, allo stesso tempo, soggioga il cristiano che dà testimonianza di una particolare forma di sofferenza.

Padre Hardon conclude ricordando che il martirio della testimonianza non è affatto inutile. Egli ci ricorda che, mentre la nostra testimonianza sicuramente ci costerà molto in termini umani, “la grazia di Dio è sempre attiva nei cuori di tutti coloro il cui percorso si attraversa”. [41] Anche se il sangue dei martiri ha prodotto notevole crescita nella Chiesa in ogni tempo e in ogni luogo, così anche il quotidiano martirio di testimonianza dei nostri fedeli non mancherà di portare grande frutto per la trasformazione della nostra società.

Riferendosi ai primi martiri della Chiesa, Padre Hardon ci insegna:

Ma la loro pazienza e mitezza, è infine prevalsa. Sì, ma solo perché è stata sostenuta dal coraggio senza limiti, nato non dalla propria forza, ma dal potere che Cristo ha promesso di dare a tutti i suoi seguaci per la testimonianza del suo nome in tutto il mondo. Questa promessa è altrettanto vera oggi. Tutto ciò che ci serve è avere fiducia nello Spirito che noi possediamo, e mai stancarci nel dare testimonianza alla grazia che abbiamo ricevuto. [42]
Non dobbiamo mai cessare di implorare il Signore di concederci tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per essere suoi testimoni fedeli nel mondo, in particolare la grazia del coraggio di pagare il prezzo della sofferenza per fare ciò che è giusto e buono.

Nel suo libro, La vita spirituale nel mondo moderno, in cui espone in modo chiaro il senso della nostra comunione con Cristo nella sua sofferenza, passione e morte, il Servo di Dio ha citato Sant’Ignazio di Loyola, suo “padre in Dio” circa la necessità di chiedere a Dio nella preghiera per chi soffre, in modo che l’amore di Dio possa crescere nei nostri cuori. Padre Hardon ha poi commentato:

Il problema con le citazioni di questo genere dei mistici è che siamo portati a pensare che essi siano differenti da noi. Non è così. Si riduce il sacrificio e la croce come piace a noi. Ma qui appunto è il segreto della santità. È possibile, per grazia divina, per l’amore di Dio raggiungere nei nostri cuori un livello in cui sperimentiamo la gioia nella sofferenza. Bene, davvero! Ed è un assaggio di questa gioia che il Salvatore ha promesso a tutti coloro che sinceramente si sforzano di diventare come Lui, abbracciando ciò che Egli ha abbracciato - la croce - Lui, per amore di suo Padre; noi, per amore di Padre, Figlio e Spirito Santo. Il costo di amare Dio è alto ma Dio vi passa attraverso. Il prezzo che paghiamo viene premiato con una esperienza della Sua presenza, il senso della sua intimità, e una gioia che, i santi ci dicono, è così dolce che non cambierebbero le loro sofferenze con tutti i piaceri del mondo. Chiediamo al nostro Salvatore non solo di ascoltare o avvertire ciò che coloro che hanno imparato ad amare Dio, ci dicono, ma di insegnarci con l’esperienza che questa grande saggezza è vera[43].
Il Servo di Dio era realista circa l’alto prezzo da pagare per rimanere fedeli a Cristo, ma nello stesso tempo si diceva fiducioso nell’aiuto della grazia di Dio per renderci saggi e forti nel pagare il prezzo, non importa quanto alto, mentre ci viene data anche la consolazione di una comunione sempre più profonda con Cristo nella sua sofferenza e morte, che porta alla sua resurrezione dai morti.


Conclusione


Nel contesto del Rome Life Forum, concludo esprimendo il mio profondo apprezzamento per il martirio che tanti di voi abbracciano per il bene della difesa della vita umana e della sua culla nella unione coniugale tra marito e moglie. La mia speranza è che queste poche riflessioni sul martirio cristiano nel pensiero del Servo di Dio Padre John A. Hardon, SJ, vi siano di qualche aiuto per giungere a una più profonda conoscenza di Cristo e della nostra vita in Lui nella Sua santa Chiesa. In modo particolare, spero che vi spingerà ad attingere sempre più la forte grazia dei sacramenti della Penitenza e della Santa Eucaristia, e dalla grazia del vostro stato di vita, soprattutto per i consacrati nei sacramenti del matrimonio e dell’Ordine, al fine di modellare la vostra vita in modo più pieno a Cristo, per consacrare più totalmente il vostro cuore, unito al Cuore Immacolato di Maria, al Sacro Cuore di Gesù.

Possa Maria Immacolata, Madre di Dio, alla quale il Servo di Dio si rivolse così spesso nelle sue preghiere, intercedere per noi ogni giorno, in modo che possiamo essere veri martiri per amore di Cristo e del suo Corpo mistico, la Chiesa. Quando i tempi sono difficili, il che può accadere spesso, trovo utile ricordare a me stesso la ragione della nostra testimonianza: l’amore di Cristo e del suo Corpo mistico che è la Chiesa. Amo Cristo, e amo il suo Corpo mistico che è la Chiesa, e così anche voi. Abbracciamo l’indifferenza, il ridicolo, il rifiuto, e altre forme di persecuzione perché amiamo il Signore e tutti i nostri fratelli e sorelle in Lui, nella Sua santa Chiesa.

Grazie. Dio vi benedica.


Cardinale Raymond Leo BURKE

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[1] Gv 8, 11.

[2] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 815. [CCC].

[3] John A. Hardon, SJ, Marian Catechist Manual (Bardstown: la vita eterna, 2000), p. xv. [MCM].

[4] “... consorzio humanum spiritu Christiano ubique Denuo imbuendum est.” Ioannes Paulus PP. II, Adhortatio Apostolica Christifideles laici, “De vocatione et Missione Laicorum in Ecclesia et in Mundo,” 30 Decembris 1988 Acta Apostolicae Sedis 81 (1989), p. 455, n. 34. [CL]. Traduzione italiana: Papa Giovanni Paolo II, post-sinodale Christifideles laici, il 30 dicembre 1988 “sulla vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo” (Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1988) , p. 96, no. 34. [CLEng].

[5] “Id [consorzio humanum spiritu Christiano imbuendum] tamen POSSIBILE erit, si christianus communitatum ipsarum ecclesialium contextus , quae sua in regionibus et nationibus degunt, renovetur .” CL, 455, n. 34. traduzione in inglese: CLEng, p. 96, no. 34.

[6] “... testari quomodo christiana fides responsum constituat UNICE plene validum, ab omnibus più minusve conscie Agnitum et invocatum, ad Quaestiones et exspectationes, Quas vita ipsa homini et societatibus imponit singulis.” CL, 455, n. 34. traduzione in inglese: CLEng, p. 96, no. 34.

[7] “... hiatum tra l’Evangelium et vitam in seipsis Superare Valeant, in quotidianis familiae navitatibus, in labore et in societate Componentes vitae Unitatem, quae in Evangelio lucem et vim pro SUA plena Invenit adimpletione.” CL, 455, n. 34. traduzione in inglese: CLEng, p. 96, no. 34.

[8] MCM, pp. Xv-xvi.

[9] Cfr Robert Sarah e Nicolas Diat, Dieu ou rien (Paris: Fayard, 2015).

[10] Cf. Robert Sarah e Nicolas Diat, God or nothing, tr. Michael J. Miller (San Francisco: Ignatius Press, 2015).

[11] MCM, p. xvii.

[12] MCM, p. xvi.

[13] MCM, p. xvi.

[14] CCC, n. 2472.

[15] CCC, n. 2473.

[16] “Equidem mandatum Iesu:« Euntes praedicate Evangelium »SUA vi perpetuo Viget ac inoccidue urget: verumtamen Praesens conditio rerum , non solummodo in mundo sed in pluribus quoque Ecclesiae partibus, omnino requirit ut Chrisi verbo promptius ac magis dilatato corde obtemperetur ; quivis discipulus ita in SUA ipsius persona interpellatur, ut Nullus se nel proprio responso eliciendo retrahere possit: «Vae mihi est enim, si non evangelizavero!» ( 1 Cor 9, 16). CL, 454, n. 33. traduzione in inglese: CLEng, p. 94, no. 33.

[17] Atti 1, 18.

[18] John A. Hardon, SJ, Santità nella Chiesa (Bardstown, KY: la vita eterna, 2000), p. 29. [santità].

[19] Santità, pag. 30.

[20] Atti 5, 40-41.

[21] Santità, pag. 31.

[22] CCC, n. 2473.

[23] Santità, pag. 32.

[24] Santità, pag. 33.

[25] Santità, pag. 33.

[26] Santità, pag. 33.

[27] Santità, pag. 35.

[28] Santità, pag. 35 .

[29] Sap 2, 6.

[30] Santità, pag. 35.

[31] Sap 2, 10-12.

[32] Col 1, 24-29.

[33] Santità, pag. 36.

[34] Santità, pag. 36.

[35] Santità, pag. 38.

[36] Santità, pag. 38.

[37] Santità, pag. 38.

[38] “... Correnti ideologiche ... pensiero di MOLTI Cristiani ... sull’inganno degli Uomini, sull’astuzia Che tende a trarre nell’errore.” “Initium Conclavis,” 18 Aprilis 2005, Acta Apostolicae Sedis 97 (2005), 687. [CIRCUITO INTEGRATO]. Traduzione italiana: Il cardinale Joseph Ratzinger, “Messa per l’elezione del Romano Pontefice: Lunedi, 18 aprile: Omelia del cardinale che divenne Papa,” L’Osservatore Romano edizione settimanale in lingua inglese, il 20 aprile 2005 pag. 3. [ICEng]. Cf. Ef 4, 14.

[39] “... una fede chiara, Secondo il Credo della Chiesa ... Il lasciarsi Portare« qua e là da Qualsiasi vento di Dottrina ».” IC, 687. traduzione in inglese: ICEng, p. 3.

[40] “Si va Costituendo Una dittatura del relativismo Che non riconosce nulla venire definitivo e il Che Lascia come ultima Misura solista il proprio io e le sue voglie”. IC, 687. traduzione in inglese: ICEng, p. 3.

[41] Santità, pag. 38.

[42] Santità, pag. 39.

[43] John A. Hardon, SJ, Spiritual Life in the Modern World (Boston: Figlie di St. Paul, 1982), p. 99.


[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

17 maggio. Giornata mondiale "contro l’omofobia". Il nostro contributo cattolico.

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Il 17 maggio ricorre la giornata mondiale contro la c.d. omofobia. Ebbene, anche noi non possiamo esimerci di dare il nostro contributo, facendo nostro quello di Riscossa cristiana, invocando il patrocinio, tra i Santi, in special modo di S. Pier Damiani.


17 maggio. Giornata mondiale contro l’omofobia. Il contributo di Riscossa Cristiana


di Paolo Deotto– direttore di Riscossa Cristiana


Vivamente partecipi di questa giornata mondiale contro l’omofobia, vogliamo anche noi dare il nostro contributo a questa importante iniziativa, con la pubblicazione di due interessanti documenti, scelti tra i molti in cui la Chiesa, un tempo, parlava di peccato. Ne parlava perché, essendo misericordiosa sul serio, voleva salvare le anime.


John Martin, La distruzione di Sodoma, 1852, Laing Art Gallery, Newcastle upon Tyne

Il Concilio Ecumenico Lateranense III, tenutosi nel 1179, al canone 11 stabilì che: “chiunque venga sorpreso a commettere quel peccato che è contro natura e a causa del quale “la collera di Dio piombò sui figli della disobbedienza (Ef. 5,6), se è chierico, venga decaduto dal suo stato e venga rinchiuso in un monastero a far penitenza; se è laico, venga scomunicato e rigorosamente tenuto lontano dalla comunità dei fedeli (Conciliorum oecumenicorum collectio, vol. XXII, coll. 224 ss.).


San Pio V, il grande Papa domenicano, in due Costituzioni condannò solennemente e proibì severamente il peccato contro natura ovvero l’omosessualità. “Avendo noi rivolto il nostro animo a rimuovere tutto quanto può offendere in qualche modo la divina maestà, abbiamo stabilito di punire innanzitutto e senza indugi quelle cose che, sia con l’autorità delle Sacre Scritture che con gravissimi esempi, risultano essere spiacenti a Dio più di ogni altro e che lo spingono all’ira: ossia la trascuratezza del culto divino, la rovinosa simonia, il crimine della bestemmia e l’esecrabile vizio libidinoso contro natura; colpe per le quali i popoli e le nazioni vengono flagellati da Dio, a giusta condanna, con sciagure, guerre, fame e pestilenze. (…) Sappiano i magistrati che, se anche dopo questa nostra Costituzione saranno negligenti nel punire questi delitti, ne saranno colpevoli al cospetto del giudizio divino, e incorreranno anche nella nostra indignazione. (…) Se qualcuno compirà quel nefando crimine contro natura, per colpa del quale l’ira divina piombò sui figli dell’iniquità, verrà consegnato per punizione al braccio secolare, e se chierico, verrà sottoposto ad analoga pena dopo essere stato privato di ogni grado”. (San Pio V, Costituzione Cum primum, del 1° aprile 1566, in Bullarium Romanum, t. IV, c. II, pp. 284-286).

E ancora: “Quell’orrendo crimine, per colpa del quale le città corrotte e oscene [di Sodoma e Gomorra] vennero bruciate dalla divina condanna, marchia di acerbissimo dolore e scuote fortemente il nostro animo, spingendoci a reprimere tale crimine col massimo zelo possibile. A buon diritto il Concilio Lateranense V (1512-1517) stabilisce che qualunque membro del clero, che sia stato sorpreso in quel vizio contro natura per via del quale l’ira divina cadde sui figli dell’empietà venga allontanato dall’ordine clericale, oppure venga costretto a far penitenza in un monastero (c. 4, X, V, 31). Affinché il contagio di un così grave flagello non progredisca con maggior audacia approfittandosi di quell’impunità che è il massimo incitamento al peccato e, per castigare più severamente i chierici colpevoli di questo nefasto crimine che non sono atterriti dallamorte dell’anima, abbiamo deciso che vengano atterriti dall’autorità secolare, vindice della legge civile. Pertanto, volendo proseguire con maggior vigore quanto abbiamo decretato fin dal principio del Nostro Pontificato (Costituzione Cum primum, cit.) stabiliamo che qualunque sacerdote o membro del clero sia secolare che regolare, di qualunque grado e dignità, che pratichi un così orribile crimine, in forza della presente legge venga privato di ogni privilegio clericale, di ogni incarico, dignità e beneficio ecclesiastico, e poi, una volta degradato dal Giudice ecclesiastico, venga subito consegnato all’autorità secolare, affinché lo destini a quel supplizio, previsto dalla legge come opportuna punizione, che colpisce i laici scivolati in questo abisso (San Pio V, Costituzione Horrendum illud scelus, del 30 agosto 1568, in Bullarium Romanum, t. IV, c. III, p. 33).


Ciò detto, auguriamo agli omosessuali di liberarsi al più presto dal laccio del loro orrendo vizio.

Come utile pro-memoria, riportiamo questa frase di Tuco (il “brutto” nel film “Il buono, il brutto e il cattivo” di Sergio Leone). Si parla, appunto, di lacci. E quale laccio è più stretto di quello del vizio?

Quando si mette a stringere, tu senti già il diavolo che ti morde le chiappe”.

Memento mori. Poi è troppo tardi per ripensarci.


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