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La verità non viene meno e noi non verremo meno

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Su segnalazione ben volentieri si dà rilievo al discorso - in traduzione italiana - di S. Ecc.za Mons. Salvatore Joseph Cordileone, Arcivescovo di San Francisco tenuto lo scorso 19 giugno a Washington in occasione della "March for Marriage", tratto dal sito vanthuanobservatory.org.


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Pubblichiamo una nostra traduzione italiana del discorso dell’Arcivescovo di San Francisco Salvatore Cordileone, alla “March for Marriage” tenutasi a Washington il 19 giugno 2014 (www.marriagemarch.org). L’Arcivescovo Cordileone è anche Presidente della Sottocommissione episcopale per la difesa del matrimonio e della famiglia.
(Traduzione di Benedetta Cortese)
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La verità non viene meno e noi non verremo meno

Nella tradizione della nostra fede, i ragazzi all’età della scuola media o della scuola superiore ricevono il sacramento della Confermazione, amministrato di solito dal Vescovo. Ad una cerimonia per il sacramento della Confermazione che ho celebrato di recente in una grande parrocchia ispanica, due ragazzi hanno condiviso alcune riflessioni su cosa significasse per loro la Confermazione. Essi dissero che la Confermazione dava loro la grazia di “costruire una civiltà di verità e amore”. Io stesso non avrei potuto dire meglio!  Questo, cari amici, è il motivo per cui siamo qui. Ambedue sono necessarie, tutte e due insieme, se desideriamo avere una società viva e sana: verità e amore.
Questo è il lascito che abbiamo ricevuto dai nostri padri nella fede.  Vorrei attirare l’attenzione dei giovani fedeli in Gesù Cristo sulle prime generazioni di cristiani che nella città di Roma erano spesso  presi come capro espiatorio dal potere pagano del governo romano.  Ma quando una pestilenza colpì la città e le classi benestanti scapparono sulle colline per salvarsi, furono i cristiani a curare gli ammalati a rischio della loro stessa vita. E non solo i malati cristiani: tutti i malati, indipendentemente dalla religione, da dove vivevano ed anche da cosa pensassero dei cristiani stessi. Lo storico Eusebio disse dei cristiani del suo tempo: “Ogni giorno, alcuni di essi assistono nella morte e seppelliscono molte persone che non hanno nessuno che si curi di loro. Atri raccolgono da tutte le parti della città le moltitudini stremate dalla carestia e distribuiscono loro del pane”. Allo stesso modo, L’imperatore Giuliano si lamentava con un sacerdote pagano: “[Essi] aiutano non solo i loro poveri, ma anche i nostri”.
E’ questo amore nel servizio della verità, specialmente la verità della persona umana, che ha caratterizzato le vite dei santi della nostra tradizione di fede: ospedali, orfanatrofi, scuole, accoglienza dei poveri e dei bisognosi – dando senza preoccuparsi di ricevere qualcosa in cambio, cercando in ogni essere umano, specialmente nel povero e nel bisognoso, un figlio amato da Dio, che Dio chiama a volgersi dal peccato a Lui stesso, così da poter essere salvo.  Nel 1839 Jeanne Jugan incontrò uno di questi figli amati da Dio, una vecchia donna cieca e storpia di cui nessuno si curava.  Quella notte,  Jeanne prese quella donna, la portò a casa sua e la fece dormire nel suo letto.  Da questo profondo incontro nacquero le Sorelle dei Poveri che anche oggi amano, curano e aiutano nelle loro case centinaia di anziani bisognosi di cura e dignità. Queste stesse Suore oggi rischiano di essere impedite a diffondere l’amore di Gesù ai bisognosi per il loro rifiuto di accettare disposizioni sanitarie che contrastano con le loro convinzioni morali, convinzioni fondate sula verità della dignità umana.
Prendiamo spunto da quanto di meglio hanno ispirato i nostri predecessori nella fede e non dai frequenti fallimenti e peccati dell’umanità. Come loro, sappiamo proclamare e vivere nel nostro tempo la verità con carità e compassione come ci è richiesto oggi: la verità di una famiglia unita basata sull’unione di un papà e di una mamma nel matrimonio e dei loro bambini come il bene fondamentale della società. Ogni bambino viene da un uomo e una donna ed ha il diritto, un diritto naturale, di conoscere e di essere conosciuto, di amare e di essere amato dalla mamma e dal papà. Questo è un grande bene pubblico che il matrimonio produce e protegge. La domanda allora è: la società ha bisogno di una istituzione che affidi i figli alle mamme e ai papà perché li guidino nel mondo o no?  Se sì, questa istituzione è il matrimonio – nient’altro fornisce questo bene fondamentale ai figli.
Sì, questa è una verità fondamentale, che noi dobbiamo testimoniare mediante le nostre vite vissute in conformità ad essa, e che dobbiamo proclamare con amore. Amore per quei milioni di madri e padri single che si battono per raccogliere i pezzi delle loro vite e riuscire a creare case amorevoli per i loro figli – essi hanno bisogno del nostro amore e del nostro sostegno.  Amore per i mariti che lottano con fedeltà, per le donne che si sentono abbandonate e spinte ad abortire, per i giovani che si sforzano di credere in una visione eroica dell’amore che dia senso alla castità, per ogni singola persona che non riesce a trovare un compagno o una compagna con cui vivere, per le coppie senza figli che provano a convivere con l’infertilità, per la moglie che si trova ad assistere il marito ammalato nel letto matrimoniale, per il giovane che prova a navigare tra i problemi della identità sessuale e può sentirsi abbandonato dalla Chiesa, forse anche per un certo trattamento ricevuto da coloro che si professano credenti. A tutti dico: sappiate che siete figli di Dio, che siete chiamati ad un amore eroico e che con l’aiuto di Dio potete farcela, che noi vi amiamo e vogliamo sostenervi nel vivere la vostra chiamata.
Non dimentichiamo: dobbiamo proclamare questa verità con amore, specialmente verso coloro che non sono d’accordo con noi su questi punti e, soprattutto, verso chi ci è ostile. Dobbiamo essere premurosi, tuttavia, senza dipingere i nostri oppositori con grandi pennellate.  Dobbiamo riconoscere che dall’altra parte di questo dibattito ci sono persone di buona volontà e che stanno sinceramente cercando di promuovere quanto essi ritengono giusto ed equo. E’ una buona volontà indirizzata male. Ma anche coloro dai quali abbiamo ricevuto offese – e io so bene che alcuni di voi hanno avuto molte sofferenze per essere stati dalla parte del matrimonio – noi dobbiamo amarli. Questo è quanto hanno fatto i nostri predecessori nella fede e che anche noi dobbiamo fare. Certo, è facile essere risentito quando sei sistematicamente e ingiustamente dipinto come un bigotto e vieni punito per stare pubblicamente dalla parte della verità del matrimonio come un bene per la società; si è tentati di rispondere allo stesso modo.  No.  Per coloro tra noi che sono cattolici, abbiamo appena sentito il comando del nostro Maestro proclamato alla Messa di ieri l’altro: “amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano” (Mt 5:44).  Non dobbiamo permettere alla retorica del risentimento di catturarci dentro una cultura dell’odio.  
Sì, dobbiamo mostrare l’amore attraverso tutto ciò e anche di più. L’amore è la risposta.  Ma l’amore nella verità. La verità è che ogni bambino deriva da un padre e da una madre, e privare deliberatamente un bambino di conoscere e di essere amato da sua madre e da suo padre è una evidente ingiustizia. Questa è la nostra natura e nessuna legge può cambiarla. Chi detiene il potere può scegliere di cambiare la definizione di matrimonio nella legge anche contro tutto quello che abbiamo realizzato mediante la nostra partecipazione al processo democratico, ma la nostra natura non cambia.  Se la legge non corrisponde alla nostra natura, se c’è un conflitto tra legge e natura, quale prevarrà?
Prendiamo coraggio da quanto abbiamo visto accadere nel movimento pro life. Nei primi anni Settanta, ai tempi  della infausta sentenza Roe vs. Wade della Corte, il sostegno pubblico all’aborto è rapidamente cresciuto.  E’ come oggi con la ridefinizione del matrimonio: i dati hanno mostrato un gap generazionale, sicché molti predicevano l’imminente fine dell’opposizione all’aborto.  Invece, talvolta, accade qualcosa di inaspettato.  Un gruppo relativamente piccolo di fedeli mantenne la linea della santità della vita umana nell’utero materno ed oggi, due generazioni dopo, il movimento pro life è fiorente come mai prima.  Oggi abbiamo la maggiore generazione pro life di giovani adulti dai tempi dell’infame sentenza Roe. La gente è riuscita a capire che è una vita umana quella che sta dentro l’utero della mamma e che l’aborto fa male alle donne; ha anche capito che è bene avere cara la vita umana e che attorniando la mamma di amore e aiuto può essere fatta la scelta più felice, la scelta per la vita.  
La gente ha anche capito che un bambino viene da un papà e da una mamma, è che è un bene per il bambino essere collegato con suo padre e sua madre. Queste verità ci possono sembrare ovvie, ma non lo sono per tutti nella foga della controversia.  La gente capirà che la verità del matrimonio è nella nostra natura ed è una chiave dello sviluppo individuale e sociale. Tutti dobbiamo guardarci intorno e vedere che la nostra società è spaccata e ferita in molte maniere; c’è un grande lavoro da fare per portarla a guarigione. Sì, è molto complesso e ci sono tante cose da fare: dobbiamo sistemare la nostra economia; corrispondere un salario vitale per le famiglie della classe lavoratrice; correggere il nostro sistema dell’immigrazione; migliorare le nostre scuole, specialmente quelle con bambini con insuccessi scolastici e provenienti dalle famiglie più povere. Sì, dobbiamo fare tutto questo e anche di più. Ma nessuna di queste soluzioni avrà effetto duraturo se non ricostruiamo una cultura del matrimonio, una cultura che riconosca e sostenga il bene di famiglie integre, fondate sul matrimonio tra un uomo una donna impegnati ad amarsi fedelmente l’un l’altra e con i loro bambini. Niente giustizia, nessuna pace, nessuna fine della povertà senza una forte cultura del matrimonio e della famiglia.  Questa nobile causa è un invito ad amare che non possiamo tralasciare, a cui non possiamo rinunciare e che alla fine sappiamo trionferà.
Rincuoriamoci: la verità espressa con amore ha un potere sul cuore umano.  Siamo qui oggi per la Marcia per il Matrimonio, per prendere la fiaccola e passare ad una nuova generazione la verità sul matrimonio, non solo l’astratta verità, ma la realtà vissuta che fa la differenza nella vita dei bambini. Così, cari amici, non dobbiamo cedere: la verità non viene meno e noi non verremo meno. Prendiamo esempio dall’eredità che abbiamo ricevuto, poniamo la nostra fiducia in Dio e costruiamo una civiltà della verità e dell’amore.


Sulla Santa Comunione e su un possibile scisma. Intervista a Mons. Schneider

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Mons. Athanasius Schneider: sulla Santa Comunione e su un possibile scisma

Intervista integrale rilasciata da S.E. Rev.ma Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Santa Maria di Astana, a Sarah Atkinson, giornalista indipendente ed editore della rivista Mass of Ages (organo ufficiale della Latin Mass Society of England and Wales). Di questa intervista è stata pubblicata una sintesi sul sito Catholic Herald, e il testo integrale sul sito della stessa Latin Mass Society.
Offriamo qui la traduzione del testo integrale inglese, ad opera della Prof. Eva Fabbri Baroncini, di Bologna.

MONS. SCHNEIDER: Per quanto riguarda la mia esperienza e la mia conoscenza, la ferita più grande nella crisi attuale della Chiesa è la ferita Eucaristica; gli abusi del Santissimo Sacramento.
Molta gente riceve la Santa Comunione in un oggettivo stato di peccato mortale… Questo si sta diffondendo nella Chiesa, specialmente nel mondo occidentale in cui la gente raramente si accosta alla Santa Comunione con una preparazione sufficiente.
Certa gente che si accosta alla Santa Comunione vive situazioni di moralità irregolare, che non corrispondono al Vangelo. Senza essere sposati, si accostano alla Santa Comunione. Può darsi il caso che siano divorziati e che vivano in un nuovo matrimonio, un matrimonio civile, e ciononostante si accostano alla Santa Comunione. Penso che questa sia una situazione molto, molto grave.
C’è anche la questione dell’oggettiva irriguardosa accoglienza della Santa Comunione. La cosiddetta nuova, moderna maniera di ricevere la Santa Comunione direttamente in mano è molto grave perché espone Cristo ad essere trattato in un modo enormemente banale.
C’è il doloroso fatto della perdita dei frammenti Eucaristici. Nessuno può negarlo. E i frammenti dell’ostia consacrata sono schiacciati dai piedi. Questo è orribile! Il Nostro Signore, nelle nostre chiese, viene calpestato! Nessuno può negarlo.
E questo accade su larga scala. Questo dev’essere considerato, per una persona che ha fede ed ama Dio, un fenomeno molto grave.
Non possiamo continuare come se Gesù non esistesse come Dio, come se esistesse solo il pane. Questa moderna pratica della Comunione in mano non ha niente a che fare con la pratica della Chiesa antica. La pratica moderna del ricevere la Comunione in mano contribuisce gradualmente alla perdita della fede cattolica nella presenza reale e nella transustanziazione.
Un prete e un vescovo non possono dire che questa pratica va bene. Qui è a rischio ciò che è più sacro, più divino e concreto sulla Terra.

D.  Lei sta portando avanti questa posizione da solo?

MONS. SCHNEIDER: Sono molto dispiaciuto di sentirmi come uno che grida nel deserto. La crisi Eucaristica dovuta all’uso moderno della Comunione in mano è così evidente. Non è un’esagerazione. È ora che i vescovi facciano sentire le loro voci in difesa di Gesù Eucarestia che non ha voce per difendersi. Qui c’è un attacco a ciò che è più Santo, un attacco alla fede Eucaristica.
Certamente ci sono persone che ricevono la Santa Comunione in mano con molta devozione e fede, ma sono una minoranza. La massa delle persone sta perdendo la fede a causa di questa maniera banale di prendere la Santa Comunione come un cibo comune, come una patatina o un pezzo di torta. Tale maniera di ricevere la cosa più Santa qui sulla terra non è sacra e col tempo distrugge la profonda consapevolezza e la fede cattolica nella presenza reale e nella transustanziazione.

D. La Chiesta sta andando nella direzione opposta alla Sua?

MONS. SCHNEIDER: Sembra che la maggioranza del clero e i vescovi siano soddisfatti di quest’uso moderno della Comunione in mano e non realizzano i veri pericoli connessi a tale pratica. Per me questo è incredibile. Com’è possibile, quando Gesù è presente nei piccoli frammenti? Un prete e un vescovo dovrebbero dire: “Devo fare qualcosa, almeno per ridurre gradualmente tutto questo. Devo fare tutto quello che posso.” Sfortunatamente ci sono membri del clero che fanno propaganda all’uso moderno della Comunione in mano e a volte proibiscono il ricevere la Comunione sulla lingua e in ginocchio. Ci sono persino preti che discriminano coloro che si inginocchiano per ricevere la Santa Comunione. Questo è molto, molto triste.
C’è anche un incremento del furto delle ostie a causa della distribuzione della Comunione direttamente in mano. C’è una rete, un commercio del furto delle Sante Ostie e questo è facilitato dalla Comunione in mano.
Perché dovrei io, come prete e vescovo, esporre Nostro Signore a tale pericolo, a tale rischio? Se questi vescovi o preti (che approvano la Comunione in mano) possiedono qualcosa di valore, non la esporrebbero mai al grave pericolo di essere persa o rubata. Proteggono le loro case ma non proteggono Gesù e permettono che venga rubato così facilmente.

D. In base al questionario sul tema della famiglia, la gente si aspetta grandi cambiamenti…

MONS. SCHNEIDER: Su questo tema c’è molta propaganda, portata avanti dai mass media. Dobbiamo stare molto attenti. Ci sono i mass media ufficialmente anti cristiani in tutto il mondo. In quasi tutti i paesi trasmettono lo stesso contenuto delle notizie, con forse l’eccezione dei paesi africani, asiatici o nell’Europa dell’Est.
Solo in Internet si possono diffondere le proprie idee. Grazio a Dio che Internet esiste.
L’idea che si faranno cambiamenti nel matrimonio e in legge morale nel prossimo sinodo dei vescovi a Roma viene principalmente dai media anti cristiani. E alcuni membri del clero e dei cattolici collaborano con loro per diffondere le attese del mondo anti cristiano per un cambiamento della legge di Dio riguardo al matrimonio e alla sessualità.
È un attacco dal mondo anti cristiano ed è molto tragico e triste che alcuni membri del clero collaborino con loro. Per sostenere un cambiamento della legge di Dio, essi usano il concetto di misericordia sofisticamente. Ma in realtà questa non è misericordia, questa è crudeltà.
Non è misericordia, per esempio, se qualcuno sta male e lo si lascia in tale penosa condizione. Questa è crudeltà.
Io non darei, per esempio, dello zucchero ad un diabetico, per me sarebbe crudele. Io cercherei di toglierlo da questa situazione e dargli un altro cibo. Forse non lo gradirà all’inizio, ma sarà la cosa migliore per lui.
Quelli del clero che vogliono ammettere i divorziati e i risposati alla Santa Comunione operano con un falso concetto di misericordia. È paragonabile ad un dottore che dà al paziente dello zucchero anche se sa che ciò lo ucciderà. Ma l’anima è più importante del corpo.
Se i vescovi ammettono i divorziati e i risposati alla Santa Comunione, allora li confermano nei loro errori allo sguardo di Dio. Faranno persino tacere la voce della loro coscienza. Li spingeranno ancora di più nella loro situazione irregolare solo per il bene di questa vita temporale, dimenticandosi che dopo questa vita però c’è il giudizio di Dio.
Questo tema verrà discusso nel sinodo. È sull’agenda. Ma spero che la maggioranza dei vescovi abbia ancora abbastanza spirito e fede cattolica da respingere la proposta sopra menzionata e non accettarla.

D.  Qual è la crisi di cui Lei parla?

MONS. SCHNEIDER: Questa è una crisi di più ampia portata rispetto alla ricezione del Sacratissimo Sacramento in sé per sé. Penso che questo problema del ricevere la Santa Comunione da parte dei risposati farà scoppiare e rivelare la vera crisi nella Chiesa. La crisi reale della Chiesa è l’antropocentrismo, dimenticandosi del Cristocentrismo. Infatti questo è il male più grande, quando l’uomo o il clero si mettono al centro quando celebrano la liturgia e quando cambiano la verità rivelata da Dio, per esempio riguardo al sesto comandamento e alla sessualità umana.
La crisi si rivela anche nella maniera con la quale è trattato il Signore Eucaristico. L’Eucarestia è al cuore della Chiesa. Quando il cuore è debole, tutto il corpo è debole. Così quando la pratica che riguarda l’Eucarestia è debole, allora il cuore e la vita della Chiesa è debole. E quando la gente non ha più una visione soprannaturale di Dio nell’Eucaristia allora essi inizieranno ad adorare l’uomo, e poi anche la dottrina cambierà a piacimento dell’uomo.
Questa crisi è quando ci mettiamo, inclusi i preti, al centro e quando Dio è messo in un angolo e questo succede anche fisicamente. A volte il Santissimo Sacramento è posto in un armadietto lontano dal centro e la sedia del prete è al centro. Siamo in questa situazione già da 40 o 50 anni e c’è il reale pericolo che Dio, i suoi Comandamenti e le sue leggi saranno messe da parte e il desiderio umano naturale al centro. C’è una connessione causale tra la crisi Eucaristica e quella dottrinale.
Il nostro primo dovere come esseri umani è adorare Dio, non noi, ma Lui. Sfortunatamente, la pratica liturgica degli ultimi 40 anni è stata molto antropocentrica.
Partecipare alla liturgia è innanzitutto non fare cose ma pregare e adorare, amare Dio con tutta l’anima. Questa è vera partecipazione, essere uniti a Dio nella propria anima. La partecipazione esteriore non è essenziale.
La crisi è veramente questo: non abbiamo messo Cristo o Dio al centro. E Cristo è Dio incarnato. Il nostro problema oggi è che mettiamo da parte l’incarnazione. L’abbiamo eclissata. Se Dio rimane nella mia mente solo come un’idea, questa è Gnosi. Nelle altre religioni come per gli ebrei, musulmani, Dio non è incarnato. Per loro, Dio è nel libro ma Lui non è concreto. Solo nel Cristianesimo, e specialmente nella Chiesa Cattolica, l’incarnazione è pienamente realizzata e questo deve perciò essere sottolineato in ogni punto della liturgia. Dio è qui e veramente presente. Perciò ogni dettaglio ha importanza.
Viviamo in una società non cristiana, in un nuovo paganesimo. Oggi la tentazione per il clero è di adattarsi al nuovo mondo, al nuovo paganesimo, essere collaborazionisti. Siamo in una situazione simile a quella dei primi secoli, quando la maggioranza della società era pagana e il Cristianesimo era discriminato.

D. Pensa di vedere tutto questo a motivo della Sua esperienza in Unione Sovietica?

MONS. SCHNEIDER: Sì, (so cosa significa) essere perseguitati, testimoniare che sei Cristiano.
Siamo una minoranza. Siamo circondati da un mondo pagano molto crudele. La tentazione e la sfida di oggi può essere paragonata a quella dei primi secoli. Ai Cristiani veniva chiesto di accettare il mondo pagano e di mostrare ciò mettendo un grano di incenso nel fuoco di fronte alla statua dell’Imperatore o di un idolo pagano. Ma questa era idolatria e nessun buon Cristiano gettò alcun grano d’incenso. Preferirono dare le proprie vite, persino i bambini, i laici che erano perseguitati diedero le loro vite. Sfortunatamente nei primi secoli c’erano membri del clero e persino vescovi che gettarono grani d’incenso di fronte alla statua dell’Imperatore o di un idolo pagano o che consegnarono i libri della Sacra Scrittura per essere bruciati. Tali Cristiani collaborazionisti e chierici venivano chiamati a quei tempi “thurificati” o “traditores”.
Ora, ai nostri giorni la persecuzione è più sofisticata. Ai cattolici o al clero non è chiesto di mettere incenso di fronte ad un idolo. Sarebbe un gesto solo fisico/materiale. Ora, il mondo neo-pagano vuole che sostituiamo le nostre idee con le loro, come la dissoluzione del Sesto Comandamento di Dio, col pretesto della misericordia. Se alcuni membri del clero e i vescovi iniziano a collaborare con il mondo pagano oggi per la dissoluzione del Sesto Comandamento e nella revisione del modo in cui Dio creò uomo e donna, allora essi sono traditori della fede, stanno partecipando in definitiva ad un sacrificio pagano.

D. Può vedere una futura spaccatura nella Chiesa?

MONS. SCHNEIDER:  Sfortunatamente, per alcuni decenni alcuni membri del clero hanno accettato queste idee del mondo. Ora tuttavia essi le stanno seguendo pubblicamente. Se tali cose continuano, penso, ci sarà una spaccatura all’interno della Chiesa di coloro che sono fedeli alla fede del loro battesimo e all’integrità della fede cattolica. Ci sarà una spaccatura con coloro che stanno prendendo in carico lo spirito di questo mondo e ci sarà una chiara spaccatura, penso. Si può immaginare che i Cattolici, che rimangono fedeli all’immutabile verità cattolica possano, per un periodo, essere perseguitati o discriminati anche a nome di chi ha potere nelle strutture esteriori della Chiesa? Ma le porte dell’inferno, cioè dell’eresia, non prevarranno contro la Chiesa e il Supremo Magistero certamente promulgherà un’inequivocabile sentenza dottrinale che respinge qualsiasi collaborazione con le idee neo pagane di cambiamento per esempio del Sesto Comandamento di Dio, il significato della sessualità e della famiglia. Allora alcuni liberali e molti collaboratori dello spirito di questo mondo, molti moderni “thurificati e traditores” lasceranno la Chiesa. Poiché la verità Divina porterà senza dubbio la chiarificazione, ci libererà e separerà nel mezzo della Chiesa i figli della Divina luce e i figli della pseudo luce di questo mondo pagano e anti cristiano. Posso supporre che tale separazione riguarderà ogni livello dei Cattolici: laici e persino senza escludere l’alto clero. Quei membri del clero che accettano oggi lo spirito del mondo pagano in materia di moralità e di famiglia si dichiarano Cattolici e persino fedeli al Papa. Dichiarano persino estremisti quelli che sono fedeli alla fede cattolica o quelli che promuovono la gloria di Cristo nella liturgia.

D. Pensa di essere stato definito estremista?

MONS. SCHNEIDER: Non sono stato dichiarato tale formalmente. Direi che tali membri del clero non sono in maggioranza ma stanno acquisendo influenza nella Chiesa. Sono riusciti ad occupare delle posizioni chiave in alcuni uffici della Chiesa. Tuttavia questo non è potere agli occhi di Dio. I veri potenti sono i piccoli nella Chiesa, quelli che conservano la fede.
Questi piccoli nella Chiesa sono stati delusi e trascurati. Hanno preservato la purezza della loro fede e rappresentano il vero potere della chiesa agli occhi di Dio e non quelli che hanno cariche di amministrazione. Grazie a Dio, il numero di questi piccoli sta crescendo.
Ho parlato, per esempio, con alcuni giovani studenti di Oxford e sono stato impressionato da questi studenti, ero così felide di vedere la loro purezza di fede, le loro convinzioni e la chiara mente Cattolica. Tali esempi e gruppi sono in crescita nella Chiesa e questo è il lavoro dello Spirito Santo. Questo rinnoverà la Chiesa. Perciò sono fiducioso e speranzoso anche riguardo alla crisi nella Chiesa. Lo Spirito Santo vincerà questa crisi con il suo piccolo esercito.
Non sono preoccupato per il futuro. La Chiesa è la Chiesa di Cristo e Lui è il vero Capo della Chiesa, il Papa è solo il Vicario di Cristo. L’anima della Chiesa è lo Spirito Santo e Lui è potente. Tuttavia ora noi stiamo facendo esperienza di una grave crisi nella Chiesa come è accaduto diverse volte in duemila anni.

D. Peggiorerà prima di migliorare?

MONS. SCHNEIDER:  Ho l’impressione che sarà peggio. A volte le cose devono peggiorare e poi si vedrà il collasso di questo antropocentrismo, sistema clericale, che sta abusando del potere amministrativo della Chiesa, abusando della liturgia, abusando dei concetti di Dio, abusando della fede e della devozione dei piccoli nella Chiesa.
Poi vedremo l’ascesa di una Chiesa rinnovata. Questo si sta già preparando. Poi questo edificio clericale liberale crollerà perché non ha né radici né frutti.

D.  Certa gente direbbe che Lei si preoccupa di cose non importanti, e riguardo i poveri?

MONS. SCHNEIDER: Questo è sbagliato. Il primo comandamento che Cristo ci ha dato era adora Dio solo. La liturgia non è una riunione di amici. È il nostro primo compito adorare e glorificare Dio nella liturgia e anche nel nostro modo di vivere. Da una vera adorazione ed amore di Dio si sviluppa l’amore per il povero e per il nostro vicino. È una conseguenza. I santi in duemila anni di Chiesa, tutti i santi che erano così devoti e pii, erano tutti estremamente misericordiosi con i poveri di cui si prendevano cura.
In questi due comandamenti ci sono tutti gli altri. Ma il primo comandamento è amare e adorare Dio e ciò è realizzato in modo supremo nella sacra liturgia. Quando si trascura il primo comandamento, allora non si sta facendo la volontà di Dio ma si sta accontentando se stessi. La felicità è eseguire la volontà di Dio, non eseguire la nostra volontà.

D. Quanto ci vorrà prima che la Chiesa venga rinnovata?

MONS. SCHNEIDER: Non sono un profeta. Possiamo solo ipotizzare. Ma, se si guarda alla storia della Chiesa, la crisi più grande fu nel quarto secolo con l’Arianesimo. Fu una crisi terribile, tutto l’episcopato, quasi tutto, collaborò all’eresia. Solo alcuni vescovi rimasero fedeli, si potevano contare sulle dita di una mano. Questa crisi durò più o meno 60 anni.
Poi la terribile crisi del cosiddetto secolo buio, il decimo secolo, quando il papato fu occupato da alcune famiglie romane molto malvagie ed immorali. Occuparono la sede papale con i loro figli corrotti e questa fu una crisi terribile.
Il successivo periodo di danni fu il cosiddetto esilio di Avignone e danneggiò molto la Chiesa, causando il grande scisma occidentale. Tutte queste crisi durarono circa 70-80 anni e furono molto gravi per la Chiesa.
Ora siamo, direi, nella quarta grande crisi, in una tremenda confusione riguardo alla dottrina e alla liturgia. Ci siamo già da 50 anni. Forse Dio sarà misericordioso con noi tra 20 o 30 anni? Eppure noi abbiamo tutta la bellezza delle verità divine, del divino amore e della grazia nella Chiesa. Nessuno può portarle vie, nessun sinodo, nessun vescovo, persino neppure un Papa può sottrarre il tesoro di bellezza della fede Cattolica, di Gesù Eucarestia, dei sacramenti. La dottrina immutabile, i principi liturgici immutabili, la sacralità della vita costituiscono il vero potere della Chiesa.

D. Il nostro tempo è visto come il periodo più liberale nella Chiesa…

MONS. SCHNEIDER: Dobbiamo pregare Dio che guidi la Sua Chiesa fuori da questa crisi e che dia alla Sua Chiesa apostoli che siano coraggiosi e santi. Abbiamo bisogno di difensori della verità e difensori di Gesù Eucarestia. Quando un vescovo difende il gregge e difende Gesù nell’Eucaristia, allora questo vescovo sta difendendo i piccoli nella Chiesa, non i potenti.

D. Perciò non le importa essere impopolare?

MONS. SCHNEIDER: È abbastanza insignificante essere popolare o impopolare. Per ogni uomo di chiesa il primo interesse è essere popolare agli occhi di Dio e non agli occhi di oggi o dei potenti. Gesù disse un avvertimento: Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
La popolarità è falsa. Gesù e gli apostoli rifiutarono la popolarità. I grandi santi della Chiesa, come i SS. Tommaso Moro e John Fisher, rifiutarono la popolarità e sono dei grandi eroi. E coloro che oggi sono preoccupati della popolarità attraverso i mass media e l’opinione pubblica, non saranno ricordati nella storia. Saranno ricordati come codardi e non come eroi della Fede.

D. I media hanno grandi aspettative da Papa Francesco…

MONS. SCHNEIDER: Grazie a Dio Papa Francesco non si è espresso in quel modo che i media si aspettano da lui; egli ha proclamato fino ad ora, nei suoi discorsi ufficiali, una dottrina cattolica molto bella; io spero che continui insegnare in modo molto chiaro la dottrina cattolica.

D. E sulla Comunicatio in Sacris con gli anglicani e gli altri?

MONS. SCHNEIDER: Ciò non è possibile, ci sono fedi differenti. La santa comunione non è un mezzo per raggiungere l'unità: è l'ultimo passo, non il primo passo.
Ciò sarebbe una desacralizzazione di ciò che è più santo. Naturalmente dobbiamo essere uno: abbiamo ancora nel credo alcune differenze sostanziali.
L'eucaristia è un segno di profondissima unità. La Comunicatio in Sacris con i non cattolici sarebbe una bugia, sarebbe contraria alla logica.
L’Ecumenismo è necessario per mantenere buone relazioni con i fratelli separati per amarli. In mezzo alla sfida del nuovo paganesimo, noi possiamo e dobbiamo collaborare con seri non cattolici per difendere la verità divina rivelata e la legge naturale creata da Dio
Sarebbe meglio non avere [una relazione strutturata] Stato-Chiesa, quando lo Stato governa la vita della Chiesa, come per esempio, nell’ambito della nomina del clero o dei vescovi. Una tale pratica di una Chiesa di Stato danneggerebbe la chiesa stessa. In Inghilterra per esempio, lo stato governa la Chiesa d'Inghilterra.
Quest'influenza dello Stato può corrompere spiritualmente e teologicamente la Chiesa: così è meglio essere liberi da una Chiesa di Stato così strutturata.

D. E sulle donne nella Chiesa?

MONS. SCHNEIDER: Le donne sono chiamate il sesso debole dato che sono fisicamente più deboli; comunque esse sono spiritualmente più forti e più coraggiosi degli uomini.
Ci vuole coraggio per dare alla luce un bambino, per questo Dio ha dato alla donna un coraggio che l'uomo non ha.
Naturalmente ci sono stati molti uomini coraggiosi in tempo di persecuzione.
Ancora oggi Dio ama scegliere i deboli per confondere i potenti; per esempio le donne eucaristiche delle quali io ho parlato nel mio libro È il Signore lavoravano nelle loro famiglie e desideravano aiutare i sacerdoti perseguitati in un modo veramente eccezionale.
Esse non avrebbero mai osato toccare le ostie sante con le loro dita. E se si sarebbero persino rifiutati di proclamare le letture durante la Messa
Mia madre per esempio, che ha ottantadue anni e vive in Germania, quando per la prima volta venne in occidente, rimase scioccata e scandalizzata nel vedere donne in presbiterio, durante la Santa Messa.
Il vero potere della donna cristiana e cattolica e il potere di essere il cuore della famiglia, chiesa domestica; di avere il privilegio di essere la prima che nutre il corpo del suo bambino e anche di essere la prima che dà il nutrimento all'anima dello stesso, insegnando le prime preghiere e le prime verità della fede cattolica.
La più prestigiosa tra le professioni che può svolgere una donna, è quella di essere madre e specialmente di essere una madre cattolica.



Il Conciliatore

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Su segnalazione, riportiamo l'articolo, pubblicato su "Il Foglio", del prof. Roberto De Mattei, lo scorso 12 luglio, per utili e stimolanti spunti di riflessione.

Il Conciliatore

Storico tradizionalista riconosce a Papa Francesco il merito di avere riaperto il dibattito sul Vaticano II. Per uscire dal Grande Equivoco

Il Concilio Vaticano II è stato un Concilio “tradito”? E da chi? La domanda è pertinente, all’indomani della pubblicazione dell’Instrumentum Laboris, il documento vaticano che avvia la discussione del prossimo Sinodo sulla famiglia. I testi citati dall‘Instrumentum Laboris sono infatti solo conciliari e postconciliari, come se sul tema, oggi cruciale, della famiglia, ci sia stata una radicale svolta del Magistero della Chiesa dopo gli anni Sessanta.
La scuola di Bologna non ha dubbi: questa svolta teologica e pastorale ci fu, ma Paolo VI ne soffocò la spinta. Tutto l’impianto della Storia del concilio Vaticano II curata da Giuseppe Alberigo si gioca sulla contrapposizione tra il “profeta”, Giovanni XXIII, che inaugurò la “nuova Pentecoste” della Chiesa, e il gelido burocrate Giovanni Battista Montini che la affossò. Dietro questa lettura storica del Vaticano II, oggi riproposta dagli epigoni di Alberigo, come Alberto Melloni, Giuseppe Ruggieri e Massimo Faggioli, sta la teologia novatrice di Dominique-Marie Chenu, Yves Congar e soprattutto Karl Rahner. Fin dal 1965, durante le ultime settimane della sessione finale, il gesuita tedesco, in una conferenza dal titolo “Il concilio: inizio di un inizio”, presentava il Vaticano II come l’inizio di una nuova epoca nella storia della Chiesa, destinata a rinnovare la comunità dei credenti, in maniera analoga a quanto accadde al primo concilio, quello di Gerusalemme. Paolo VI avrebbe tradito il Concilio con la Nota praevia del 1964, con cui volle circoscrivere il significato della collegialità introdotta dalla Lumen gentium, e soprattutto con l’enciclica “repressiva” Humanae Vitae del 1968.
Le controversie seguite alla Humanae Vitae produssero la prima grande frattura ermeneutica tra i protagonisti del Vaticano II. Nel 1972 fu fondata da Joseph Ratzinger, Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac la rivista internazionale “Communio”, che si contrapponeva a “Concilium” su cui scrivevano Karl Rahner, Yves Congar, Eward Schillebeeckx. Fu de Lubac a coniare l’espressione “paraconcilio” per denunciare quell’atmosfera di febbrile agitazione che negli anni successivi al Vaticano II portò molti teologi a forzarne le conclusioni. In una lunga intervista concessa nel 1985 ad Angelo Scola (Viaggio nel Concilio, suppl. al n. 10 (1985) di “30 giorni”, pp. 6-30), de Lubac descrisse il “paraconcilio” come un movimento di pressione mediatica che aveva inteso influenzare il Concilio e il postconcilio su temi quali il primato pontificio e il rapporto della Chiesa con il mondo.
Nello stesso anno, Hans Urs von Balthasar, che nel 1952 aveva invitato, in un suo libro, ad “Abbattere i bastioni” (tr. it. Borla, Torino 2008), in un’intervista allo stesso “30 giorni” (Viaggio nel postconcilio a cura di A. Scola, Edit, Milano 1985), constatava che tutte le aspettative conciliari si erano dissolte “in un ottimismo americano”. Il sito Papalepapale ha recentemente ripubblicato un’intervista rilasciata da Balthasar a Vittorio Messori in cui il teologo tedesco sosteneva che il dialogo si era rivelato “una chimera” e affermava la necessità di ritornare alla retta dottrina e “al modello tridentino” di seminario. 
L’intervista è, come le precedenti, del 1985, l’anno del Rapporto sulla fede in cui il cardinale Ratzinger allora prefetto della Dottrina della Fede proclamava la necessità di “tornare ai testi autentici del Vaticano II autentico”. Divenuto Benedetto XVI, Joseph Ratzinger contrappose più volte l’ermeneutica dei testi a quella dello “spirito”. La sua posizione si è dipanata dal primo celebre discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, all’ultimo, non meno significativo, del 14 febbraio 2013 al Clero romano. Benedetto XVI vi ribadisce la tesi secondo cui un Concilio virtuale, imposto dagli strumenti di comunicazione, avrebbe tradito il Concilio reale, espresso dai documenti conclusivi del Vaticano II. E’ a questi testi, travisati da un’abusiva prassi postconciliare, che si dovrebbe tornare per ritrovare la verità del Concilio. Mons. Agostino Marchetto, definito da Papa Francesco come “il miglior ermeneuta” del Vaticano II si muove su questa linea, che manifesta ogni giorno di più la sua debolezza. Il Concilio dei media non fu infatti meno reale di quello dei Padri, al punto che si potrebbe sostenere la tesi che se Concilio virtuale si ebbe, fu proprio quello dei 16 documenti ufficiali del Concilio, rimasti nella raccolta dei testi della Santa Sede, ma mai calati nella concreta realtà storica.
L’opera di revisione storica e teologica avviata negli ultimi anni del pontificato benedettino ha aperto però una nuova pista storico-ermeneutica. Il Concilio, secondo questa prospettiva, non fu tradito né da Paolo VI, né dal “partito mediatico”, ma da Giovanni XXIII, colui che l’aveva indetto e che lo diresse fino alla morte, avvenuta il 3 giugno 1963, tra la prima e la seconda sessione dei lavori. I fatti sembrano confermarlo. Il 25 gennaio 1959, a soli tre mesi dalla sua elezione al soglio pontificio, Papa Roncalli annunciò l’indizione del Concilio Vaticano II. La sorpresa fu grande, ma la preparazione del Concilio durò ben tre anni, attraverso una fase ante-preparatoria (un anno) e una fase preparatoria (due anni).
Nella primavera del 1960 si raccolsero i consilia et vota, cioè le 2150 risposte ricevute dai vescovi di tutto il mondo, interpellati sui temi della futura assemblea. Poi tutto questo materiale fu rimesso a dieci commissioni nominate dal Papa per redigere gli “schemi” da sottoporre al Concilio. Le commissioni operarono, sotto la supervisione del cardinale Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, fino al giugno del 1962. L’imponente lavoro fu raccolto in 16 volumi contenenti gli schemi di 54 decreti e 15 costituzioni dogmatiche. Il 13 luglio, tre mesi prima dell’apertura dell’assemblea, Giovanni XXIII stabilì che i primi sette schemi di costituzione, da lui approvati, fossero inviati a tutti i Padri conciliari come base della discussione per le congregazioni generali. Essi riguardavano: Le fonti della rivelazione; Mantenere puro il deposito della fede; L’ordine morale cristiano; Castità, Matrimonio, Famiglia e Verginità; La Sacra Liturgia; I mezzi di comunicazione; L’unità della Chiesa con le chiese orientali. Questi documenti, a cui avevano lavorato per tre anni dieci commissioni, raccoglievano quanto di meglio la teologia del Novecento avesse prodotto. Erano testi densi e articolati, che entravano direttamente nel cuore dei problemi del tempo, con un linguaggio chiaro e persuasivo. Giovanni XXIII li studiò con attenzione postillandoli, con commenti autografi: “Su tutti gli schemi – ricorda mons. Vincenzo Fagiolo – a lato ci sono queste espressioni spesso ripetute: “Bene”, “Optime”. Su uno solo, quello sulla liturgia, che nel volume figura al quinto posto alle pp. 157-199, qua e là è scritto sempre di pugno del Papa qualche punto interrogativo in senso di meraviglia e non approvazione”. Quando nel luglio del 1962 mons. Pericle Felici, segretario del Concilio, gli presentò gli schemi conciliari da lui rivisti ed approvati, Papa Roncalli commentò con entusiasmo: “Il Concilio è fatto, a Natale possiamo concludere!”. In realtà, a Natale di quell’anno tutti gli schemi del Concilio erano già stati buttati a mare, tranne il De Liturgia, proprio quello che piaceva meno a Giovanni XXIII, ma l’unico che soddisfaceva i progressisti. E il Concilio Vaticano II non sarebbe durato tre mesi, ma tre anni.
Che cosa era accaduto? Nel mese di giugno 1962 il cardinale Léon-Joseph Suenens nuovo arcivescovo di Malines-Bruxelles, riunì un gruppo di cardinali al Collegio belga di Roma, per discutere un “piano” per il prossimo Concilio. Suenens racconta di aver discusso con loro un documento “confidenziale” in cui criticava gli schemi predisposti dalle commissioni preparatorie e suggeriva al Papa di creare, “a suo uso personale e privato”, una commissione ristretta, “una sorta di brain trust” per rispondere ai grandi problemi di attualità pastorale. Nel mese di agosto giunse al Papa anche una supplica del cardinale canadese Paul-Emile Léger, arcivescovo di Montréal. La lettera era firmata dai cardinali Liénart, Döpfner, Alfrink, König e Suenens. Il documento criticava apertamente i sette primi schemi che avrebbero dovuto essere discussi dall’assemblea, affermando che essi non si accordavano con l’orientamento che Giovanni XXIII avrebbe dovuto dare al Concilio.
Il Vaticano II si aprì l’11 ottobre 1962. Il 13 ottobre fu inaugurata la prima congregazione generale, ma in apertura di seduta avvenne un inaspettato colpo di scena. L’ordine del giorno prevedeva di votare per eleggere i rappresentanti dei Padri conciliari nelle dieci commissioni deputate a esaminare gli schemi redatti dalla commissione preparatoria. Il cardinale Liénart, appoggiato dai cardinali Frings, Doepfner e Koenig, protestò per la mancata consultazione delle conferenze episcopali e chiese la loro convocazione prima di votare per le commissioni. Tutto era stato organizzato dagli esponenti della “nouvelle théologie”, nella notte precedente, al seminario francese di Santa Chiara. Il cardinale Tisserant, presidente dell’assemblea, concesse il rinvio e la consultazione delle conferenze episcopali, chiamate ad indicare le liste dei nuovi nominativi per le commissioni. Il ruolo delle conferenze episcopali, che non era previsto dal regolamento, fu ufficialmente sancito. Venne così alla luce l’esistenza di un partito organizzato, la “Alleanza europea”, che ottenne la nomina di quasi tutti i propri candidati nelle commissioni. Le conferenze episcopali erano guidate, più che dai vescovi che ne facevano parte, dai loro esperti, i teologi, molti dei quali erano stati condannati da Pio XII e si apprestavano ora a svolgere un ruolo decisivo in Concilio. E poiché tra le conferenze episcopali la più organizzata era quella tedesca, decisivo fu il ruolo dei teologi tedeschi. Ma tra i teologi tedeschi uno in particolare si distingueva: il gesuita Karl Rahner, la cui influenza sul Concilio fu determinante. Padre Ralph Wiltgen, nella sua fondamentale opera The Rhine flows into the Tiber (New York 1967) lo riassume efficacemente: “Poiché la posizione dei vescovi di lingua tedesca era regolarmente fatta propria dall’Alleanza europea e dato che la posizione dell’Alleanza era a sua volta generalmente adottata dal concilio, bastava che un solo teologo facesse adottare le proprie idee dai vescovi di lingua tedesca perché il Concilio le facesse sue. Questo teologo esisteva: era il padre Karl Rahner della Compagnia di Gesù”. Da quel momento si scrisse del Concilio una storia diversa.
Per chi vuole approfondire questa pista, oltre al mio Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau, Torino 2011) consiglio la lettura di alcuni recenti libri che offrono preziosi spunti su cui meditare. In un volumetto denso e succoso, Il Concilio parallelo. L’inizio anomalo del Vaticano II (Fede e Cultura, Verona 2014, pp. 125) e in un più vasto studio, Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa cattolica del XXI secolo (Solfanelli, Chieti, 2014, pp. 438). Paolo Pasqualucci solleva esplicitamente la questione del tradimento avvenuto nei primi giorni dei lavori conciliari. Pasqualucci è un eminente professore di Filosofia del Diritto, che ha insegnato in diverse università italiane. Come giurista si sofferma soprattutto sulle numerose illegalità che deviarono il Concilio dal suo corso naturale, facendo naufragare il lavoro preparatorio e aprendo la strada ai propugnatori della Nouvelle Théologie“Raramente – ricorda – un Concilio ecumenico fu preparato con maggior scrupolo, coscienziosità e rispetto dei diritti e delle opinioni di tutti. Si seguì la prassi del Vaticano I, elaborandola e perfezionandola” (p. 13). Il rigetto degli schemi fu un vero e proprio “brigantaggio procedurale”, che Pasqualucci identifica in questi punti: sabotaggio delle elezioni dei sedici membri di spettanza del Concilio; inversione dell’ordine del giorno e rinvio delle votazioni delle commissioni; insabbiamento della discussione in aula dello schema sulle Fonti della Rivelazione con la conseguente creazione di una commissione mista, dominata dal cardinale Bea, per il suo rifacimento. Gli schemi furono rifatti da capo a piedi, con uno spirito e un taglio completamenti diversi.
Un altro importante contributo viene offerto da un giovane ma già affermato teologo, padre Serafino M. Lanzetta, dei Francescani dell’Immacolata, in Il Vaticano II. Un concilio pastorale. Ermeneutica delle dottrine conciliari (Cantagalli, Siena 2014, pp. 490). Padre Lanzetta utilizza fonti inedite, tratte soprattutto dell’Archivio Segreto Vaticano, seguendo attentamente l’iter che portò allo stravolgimento degli schemi preparatori. Lanzetta si sofferma in particolare sul passaggio dalla Aeternus unigeniti alla Lumen Gentium e dalla De Fontibus Revelationis alla Dei verbum, le due costituzioni che costituiscono gli assi portanti del magistero conciliare e che presentano elementi di criticità e ambiguità. Per sciogliere questi problemi, Lanzetta segue il metodo di interrogare il Concilio stesso, volendo scoprire soprattutto la sua mens, ciò che animava i Padri e ciò che determinò le loro scelte e decisioni. L’orizzonte al cui interno si muove il teologo è quello della distinzione classica tra dogmatica, che riguarda la dottrina, e pastorale che da essa dipende e deve essere guidata. Padre Lanzetta mostra come la pastoralità fu preponderante nel Vaticano II, fino a dettarne l’agenda e la direzione dei dibattiti, ma rifiuta di farne un principio teologico. Per il teologo francescano, il dato dottrinale del Vaticano II va letto alla luce della perenne Tradizione della Chiesa e il Concilio non può che iscriversi in questa ininterrotta Tradizione (p. 37). “Ciò che solo può far da guida nella comprensione del Vaticano II è l’intera Tradizione della Chiesa: il Vaticano II non è l’unico né l’ultimo concilio della Chiesa, ma un momento della sua storia” (pp. 74-75). “La perenne Traditio Ecclesiae è, quindi, il primo criterio ermeneutico del Vaticano II” (p. 75).
Ciò che frena il dibattito è il metus reverenziale che ogni cattolico ha giustamente verso le supreme autorità ecclesiastiche. Ma questo reverenziale rispetto e timore non può giungere al punto di deformare la verità storica e teologica. Sotto quest’aspetto il pontificato di Papa Francesco facilita la discussione. Il peso dell’ermeneutica di Benedetto XVI che gravava sul dibattito durante il pontificato, si è improvvisamente alleggerito dopo la sua abdicazione. Dopo la rinuncia al pontificato il Concilio di Benedetto XVI è uscito dalla storia e nella storia è rimasto il Concilio del suo avversario, il cardinale Kasper: il Concilio che si realizza nella prassi pastorale e che, dopo cinquant’anni di prassi pastorale, annuncia l’avvenuta liquidazione della morale cattolica. Il prossimo Sinodo dei vescovi dovrebbe prenderne atto. Il tema portante dell’Instrumentum Laboris, come dell’intervento del cardinale Kasper al Concistoro straordinario del 20 febbraio, è quello della abissale distanza tra la dottrina della Chiesa su matrimonio e famiglia e la prassi cattolica contemporanea. In questo documento il metro di misura della dottrina diviene la sociologia, la prassi capovolge la dottrina, la Chiesa viene ribaltata. E’ questo il titolo di un volume appena uscito di Enrico Maria Radaelli, La Chiesa ribaltata. Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero di Papa Francesco (Gondolin, Milano 2014, pp. 314), con una prefazione di mons. Antonio Livi. Radaelli, discepolo di Romano Amerio, è un attento osservatore del processo di “de-dogmatizzazione” che ha preso l’abbrivio dal Vaticano II e che sembra aver raggiunto l’apice con il magistero di Papa Francesco. Il mutamento di linguaggio della Chiesa ha inciso, negli ultimi cinquant’anni, sui contenuti, alterando lo stesso deposito dottrinale. Analizzando la Lumen Fidei di Papa Francesco, Radaelli osserva che in un’enciclica imperniata sulla virtù della fede, colpisce l’assenza totale di una definizione netta e precisa della virtù della fede (p. 68). Ancor più colpisce l’assenza totale della parola “dogma”, un concetto ormai bandito dalla Chiesa da cinquant’anni. “A cosa mai serve – afferma il filosofo milanese – una enciclica sulla fede che non denunci gli errori e le eresie oggi pullulanti nella Chiesa, che non individui e anatemizzi gli errori? (p. 257). Per Radaelli, che svolge una critica serrata della “teologia dell’Evento”, dell’“Incontro” e dell’“Esperienza”, “il linguaggio impositivo e dogmatico dovrebbe tornare ad essere serenamente riconosciuto linguaggio primo e conduttore di ogni altro linguaggio della Chiesa” (p. 73). Nella prefazione al volume mons. Antonio Livi, pur non condividendo alcune posizioni dell’autore, difende il suo diritto a manifestarle, così come difese gli articoli di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro su “Il Foglio”, perché ogni cattolico è libero di far sentire la propria opinione nel campo di quelle scelte teologiche e pastorali che non riguardano il dogma, ma l’opinabile.
Siamo in una situazione in cui la Chiesa non definisce né anatemizza, ma lascia aperta la libertà di discussione. Nelle librerie, nei seminari, nelle università cattoliche furoreggiano le tesi di autori ultraprogressisti, che negano l’esistenza stessa del concetto di “ortodossia”, come avviene sull’ultimo numero della rivista “Concilium”. Nell’epoca della de-dogmatizzazione, perché dogmatizzare il Vaticano II? La parola oggi è alla prassi, all’esperienza vissuta, da cui dovrebbe promanare la verità. Se così è, perché non ascoltare la voce di chi propone un cristianesimo vissuto, quello della Tradizione, che non nega il primato della dottrina, che non ricrea la verità, ma che alla immutabile Verità si richiama e si uniforma?

Omelia nella Festa di S. Benedetto

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Chi scrive, lo scorso 11 luglio, è stato a Norcia, presso la Comunità Benedettina di quella cittadina, che avevamo evocato alcuni giorni fa, dove ha assistito all'Ufficio divino delle Ore Terza e Sesta, nonché alla Santa Messa Conventuale, celebrate tutte secondo la forma straordinaria.
Siamo grati all'intera Comunità ed al Vicepriore del Monastero, il Rev.mo P. Benedetto Nivakoff, O.S.B., il quale, peraltro, ha onorato chi scrive ospitandolo a pranzo secondo le regole dell'accoglienza del Santo di Norcia (Reg. cap. LIII).
Lo stesso Vicepriore, che ha celebrato la Santa Messa alle ore 10,00 nella Basilica, nella ricorrenza della festa liturgica del Santo Padre Benedetto, ha voluto onorarci, infine, trasmettendoci, in segno di amicizia e considerazione, il testo della Sua Omelia dettato per l'occasione. Con sincera gratitudine ne pubblichiamo le parole onde far assaporare, nel rileggerle, pure a chi non era presente alla Celebrazione, l'aria ed i sentimenti da noi vissuti in quella circostanza.
Ricordiamo che, benché la festa onomastica del Santo di Norcia sia ricordata dalle famiglie benedettine il 21 marzo, giorno della sua nascita al Cielo (21 marzo 547), nondimeno l'11 luglio, sin dal VII-VIII sec., era commemorata la traslazione (di parte) delle reliquie del santo all'Abbazia francese di Fleury, a Saint-Benoît-sur-Loire (11 luglio 660). Di qui il significato, anche in ambito tradizionale, della celebrazione di questo giorno soprattutto per i benedettini.

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P. Benedetto Nivakoff, O.S.B.

Omelia

In Festo Sancti P. Benedicti

ET UT MUSICA IN CONVIVIO VINI

Norcia, 11 luglio 2014

La memoria del santo come musica in un banchetto di vino.
Così dice il libro della Sapienza nell’Epistola (Eccli. 49). Come musica, che accompagna il vino, o anche la birra volendo, ma in ogni caso nel contesto di una grande festa, dove si mangia bene e si beve bene, e oltre a ciò si ascolta bella musica.
Specialmente a noi, che viviamo qui a Norcia, questa descrizione poetica di un convivio festivo, in cui si celebra un’occasione particolare, un giorno solenne o una persona importante, risulta familiare.
Pensiamo ad ogni 21 marzo, in cui festeggiamo il transito di San Benedetto, il suo passaggio all’eternità. Ci sono processioni, costumi, pranzi, intervengono le nostre autorità, ci sono i fuochi d’artificio e così via. Ma sebbene la grande festa renda quella ricorrenza solenne e felice, essa comporta anche il rischio di oscurare proprio la realtà che si celebra. Per questo motivo approfittiamo dell’11 luglio per una festa più intima, noi monaci, con i cittadini che venerano il Santo.
La lettura del libro della Sapienza ci aiuta molto a comprendere la realtà di San Benedetto.
Et ut musica in convivio vini (Vulg. Eccli. 49, 2).
Possiamo dire tante cose su San Benedetto, o meglio sono già state dette tante cose, e spesso si ripetono anno dopo anno. Ma quando mai lo abbiamo sentito paragonato alla musica di un banchetto di vini? La musica piace a tutti, che sia rock, jazz, o canto gregoriano, e pochi non riescono ad apprezzarla almeno un poco. Ma per avere una festa, è veramente necessaria la musica? Non si può mangiare anche senza?
Persino del vino, possiamo dire che sia indispensabile? Infine, abbiamo proprio bisogno di una festa per ricordare una persona?
In realtà l’idea di fare festa appartiene profondamente al cattolicesimo; significa fermarsi dal ritmo quotidiano per celebrare, senza che ci sia necessità o utilità. Ma è proprio il fatto che una festa non sia necessaria, indispensabile, o utile da punto di vista produttivo, che le dà carattere di gioia e la rende veramente una festa. La festa non è necessaria e neanche la musica ... e neanche i monaci.
Sì, è questo il punto importante da capire della vita monastica come la vuole San Benedetto, è una vita del tutto inutile. Al mondo piace sempre inquadrare le cose e così sono diventate famose massime spesso ripetute come “Ora et labora” (cfr. Reg. cap. XLVIII), o “Nulla anteporre all’amore di Cristo” (Reg. cap. IV, 21; cap. XLIII, 3), come se San Benedetto avesse avuto in mente di lasciarci un libro di frasi intelligenti ed accattivanti. No, San Benedetto riteneva la sua Regola un’umile guida destinata ai principianti nella vita spirituale (cfr. Reg. cap. LXXIII). Il suo scopo era di creare le condizioni per una vita in cui i monaci non si dedicassero che ad una cosa sola: cercare Dio (cfr. Reg. cap. LVIII, 7).
E cercare Dio, cari fratelli, non ha lo scopo dell’utilità per il mondo.
Che senso ha? Che cosa produce? Che fine ha? Praticamente, si tratta di una vita di far festa e di giocare. Sì, dico far festa e giocare – non come pensa il mondo, ma come pensa Dio. L’allora Cardinal Ratzinger descriveva anche la liturgia attraverso la similitudine del gioco (J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 9 s.).
Ci sono centinaia di regole, ad esempio, su come mangiare (senza carne, Reg. cap. XXXIX, 11; al più un bicchiere di vino, Reg. XL, 3), su come vestirsi (coltello alla cintura) (cfr. Reg. cap. XXII, 5), perfino su come pregare (ricordando che siamo alla presenza degli angeli, Reg. cap. XIX, 5-6) o su come camminare (capo chino, Reg. cap. VII, 63). Anche quanto alla disciplina della preghiera, il Santo prescrive un rito che va decisamente oltre la necessità: non solo tutti i 150 salmi ogni settimana (cfr. Reg. capp. IX-XVIII), ma in più quaranta salmi di ripetizione (cfr. Reg. capp. IX, XII, XIII, XVIII)! Nei giorni festivi, noi monaci non dormiamo per più tempo come molti fanno, ma ci alziamo ancora prima, cioè alle 3:20 anziché alle 3:40 (Reg. cap. XI, 1)! Parliamo di regole che per un mondo che cerca solo l’utilità non potranno mai avere un senso. E queste regole, che a volte sembrano non solo al mondo, ma anche ai monaci stessi, una grande assurdità, non hanno però l’effetto di farci prigionieri del monastero, ma di liberarci dal mondo ossessionato dalla ricerca dell’utile.
È per questo motivo che la liturgia ha e deve avere il ruolo centrale nella vita del monaco; e questo era uno dei motivi per cui la nostra comunità ha adottato anche la forma più antica per il rito della Messa Conventuale, la cosiddetta forma straordinaria, la cosiddetta forma straordinaria: è proprio nei suoi apparenti arcaismi, in certi gesti che non sembrano avere utilità o senso (ad esempio “nessuno” sente il canone detto sottovoce!) che troviamo pienamente lo spirito di culto che un monaco deve avere.
Tutto orientato verso Dio! La vita del monaco è come una vita di festa continua, perché mentre cammina, mentre mangia, mentre dorme, mentre lavora nei campi, mentre produce la birra, o fa qualsiasi altra cosa, egli agisce non per uno scopo immediato ed evidente, ma per onorare ed adorare un Dio che sembra essere sempre nascosto!
Il monaco di Norcia resta quindi sempre un segno di contraddizione.
Tutti si meravigliano della gioia dei monaci, del loro sorriso, del loro modo di vedere le cose diversamente. Per quanto ciò sia vero, la causa sta in questo spirito di gioco, per cui non si cerca l’utilità delle cose, ma la loro bellezza, come nella musica. E quanti di noi hanno visto dei bambini giocare sanno che sono tanto contenti perché nello stesso tempo non hanno niente da perdere e hanno tutto da guadagnare.
Il monaco non ha da perdere perché egli ha già perso, o meglio ha già rinunciato, come dice il Vangelo, a madre, padre, fratelli, sorelle e campi, e anche ad una moglie! Mirabile dictu per il mondo di oggi. Ma, ciò che è più difficile di tutto, il monaco ha rinunciato, e continua a rinunciare ogni giorno, a se stesso. Alzarsi presto risulta facile se paragonato con il rialzarsi spiritualmente giorno dopo giorno, tra battaglie spirituali che non hanno mai fine. E quello che contraddice di più un’ottica solamente umana, è che il monaco vince di più quando perde di più. Dio vuole provare la nostra debolezza, non la nostra forza. Come dice Bernanos, il monastero non è una casa di pace, ma è una casa dove noi, attraverso la guerra della nostra preghiera, speriamo di vincere la pace per darla al mondo, a voi. Non possiamo tenere chiuso in clausura ciò di cui il mondo ha disperatamente bisogno. 
La vita di San Benedetto, che oggi in una atmosfera familiare celebriamo, ci offre grande motivo di far festa, di far musica. Ma la sfida del monaco è di ricordare sempre che la musica è la conseguenza e non la causa della nostra ricerca per Dio. San Benedetto lo sapeva bene, e l’ha condiviso con i suoi discepoli, i suoi monaci. Tocca a noi ricevere il suo insegnamento in maniera sempre più autentica e coerente, e poi offrire al mondo lo stesso messaggio; per questo il monaco centuplum accipiet, et vitam aeternam possidebit … (Matth. 19, 29).

Foto della celebrazione a cura di Elisabetta Nardi (FB): Evangelium, Omelia, Communio




Haydn e l’Inno vincente

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Haydn e l’Inno vincente

di Vito Abbruzzi

Il Mondiale di calcio, tra mille malumori, è finalmente terminato, e con esso – si spera – le relative “tecniche di distrazioni di massa” (così come denunciato qualche giorno fa sul nostro blog). Un Mondialeche ha premiato in finale gli indefessi giocatori tedeschi contro i determinati, ma inconcludenti, giocatori argentini, dopo aver annientato quelli brasiliani, padroni di casa: annichiliti dalla superiorità teutonica.
Chi ha seguito e continua a seguire tutta la vicenda legata alla amaraquanto vergognosa disfatta del Brasile, battuto per sette reti a unodalla impavida e spregiudicata Germania, nella partita della semifinale del mondiale di calcio giocata l’otto luglio scorso, sicuramente sta trovando giustificazioni tutte degne di attenzione. Una cosa, però, non si sta dicendo, o, meglio, la si sta sottacendo: il totale timore riverenziale che i giocatori tedeschi sono stati capaci di incutere in quelli brasiliani dopo il secondo gol segnato contro di questi. E non solo nei giocatori, ma anche negli stessi tifosi verde-oropresenti nello stadio di Belo Horizonte, che, a un certo punto – dopo il quinto gol subito dalla propria Nazionale – hanno incominciato ad applaudire la Nazionale avversaria, dimostrando grande sportività.
Che la Germania da sempre incuta un certo timore riverenziale, è un fatto ormai assai risaputo; timore che è a tutti livelli: non solo calcistico. Quello calcistico è soltanto lo specchio di una superiorità che la nazione germanica è stata ed è capace di dimostrare, non solo in campo politico-finanziario, ma anche culturale: poetico e musicale. I più grandi scrittori e musicisti li vanta proprio la Germania! Il professor Mons. Luigi Gallo (1882-1973), canonico della Cattedrale di Conversano e grande esperto di musica sinfonica, era famoso per prediligere le “tre bi” (BBB): Bach, Beethoven, Brahms, delle cui esecuzioni era molto patito, commuovendosi sino alle lacrime. Ma non va affatto trascurato quello che viene onorato del titolo di “padre della sinfonia”: Franz Joseph Haydn (Rohrau, 31 marzo1732Vienna, 31 maggio1809) – che, o per vezzo o per convenzione, nella firma delle partiture e nelle edizioni a stampa delle sue opere usava spesso la forma italiana “Giuseppe Haydn” – autore dell’inno della Repubblica Federale Tedesca Deutschland, Deutschland über Alles (si veda questa magistrale esecuzione): orgoglio e vanto della popolazione germanica, compresa quella naturalizzatasi tale.
E, in verità, quello tedesco è, per melodia, l’inno più bello al mondo. C’è poco da discutere!
E non solo perché trattasi di “melodia assai orecchiabile” (come si legge sul sito La Puta. Geografia insolita), ma perché nella sua esecuzione musicale il brano risulta essere “maestoso e ben legato” (così come è scritto nella partitura arrangiata dal M° M. Marinai, riportato nel sito Inni nazionali): esattamente come lo sono tutti gli inni sacri composti dallo stesso Haydn, che fu per moltissimi anni maestro di cappella (Kapellmeister). Tra questi certamente il più popolare e ancor oggi cantato in tutte le chiese dell’orbe cattolico è il suo Tantum ergo (si veda l’intensa interpretazione vocale del M° Giovanni Vianini di Milano; per lo spartito si veda qui): secondo solo a quello gregoriano “Modo III”. E questo perché Joseph Haydn fu “fervente e devoto cattolico, usava vergare Laus Deo o espressioni simili alla fine dei manoscritti, e si dedicava alla preghiera quando le idee musicali stentavano a prendere forma sulla carta” (Wikipedia).
Non fa, dunque, meraviglia se poi la stessa melodia dell’inno tedesco sia stata adattata alla esecuzione del Tantum ergo (come si può ben notare in questo video postato su Youtube), perché in vero “sia lode e giubilo, acclamazione, onore, virtù e benedizione (laus et jubilatio, salus, honor, virtus quoque sit et benedictio)” alla Maestà divina.
Concludo con questo pensiero dell’insigne liturgista, l’Abate Caronti, da fissare bene nella mente… e nel cuore:

«Cos’è dunque la Liturgia cattolica? La Liturgia cattolica è la forma autentica con la quale la santa famiglia di Dio, la Chiesa cattolica, rende onore, rende omaggio, rende il suo servizio religioso al Padre che è nei Cieli, in unione a Cristo, in unione con i fratelli in Cristo. Culto esteriore e culto interiore, ma culto interiore ed esteriore armonicamente fusi, perché le lodi, i canti di lode che si levano al Signore sono l’espressione della vita intima di Dio, la Santissima Trinità. Tutta la famiglia di Dio, tutta l’universalità si trasforma in un canto, in un inno, in un’orchestra universale, in una sinfonia che canta il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo».

Così è! Così sia!

Thomas Hardy, Ritratto di Haydn, 1792

Regina decor Carmeli

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Vergine del Carmelo Cuzqueña, 1650 circa

Gaspar Miguel de Berrío, Vergine del Carmelo tra due santi vescovi e gli arcangeli Michele e Raffaele, 1764, Philadelphia Museum of Art, Philadelphia

Nicolas Mignard, La Vergine consegna lo scapolare a S. Simone Stock, alla presenza di S. Giuseppe, 1644, musée Calvet, Avignone

José Campeche, Vergine del Carmelo, XVIII sec.

Juan Rodríguez Juárez, Vergine del Carmelo con il Bambin Gesù tra i SS. Teresa d'Avila e Giovanni della Croce, 1706 circa, Museo Nacional de Arte, Città del Messico

Autore sconosciuto, La Vergine del Carmelo salva le anime del Purgatorio, XVII sec., Brooklyn Museum, Brooklyn

La difesa degli ordini carmelitani, XVII sec.


Patrocinio della vergine del Carmelo sugli ordini carmelitani

Manuel Wessel De Guimbarda, Vergine del Carmelo con le anime purganti, 1894, Cartagena

Icona della Madonna del Carmine detta "la Bruna", Basilica del Carmine Maggiore, Napol.
L'immagine, secondo la tradizione portata nella città direttamente dal Monte Carmelo, in Palestina, da alcuni monaci carmelitani in fuga per sottrarla alle devastazioni saracene, avrebbe un intimo legame con S. Bernadette Soubirous, la quale la riteneva come l'effigie più somigliante alla Bianca Signora di Massabielle, ad Aquerò. 

Card. Brandmüller: "Noi sacerdoti, celibi come Cristo"

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Noi sacerdoti, celibi come Cristo

Ripetizioni di storia ecclesiastica al “bergogliano” Scalfari da parte di un gran cardinale tedesco

di Walter Brandmüller*

Ill.mo dott. Scalfari,
anche se non godo del privilegio di conoscerla di persona, vorrei tornare alle Sue affermazioni riguardo il celibato contenute nel resoconto del Suo colloquio con Papa Francesco, pubblicate il 13 luglio 2014 e immediatamente smentite nella loro autenticità da parte del direttore della sala stampa vaticana. In quanto “vecchio professore” che per trent’anni ha insegnato Storia della chiesa all’università, desidero portare a Sua conoscenza lo stato attuale della ricerca in questo campo.
In particolare, deve essere sottolineato innanzitutto che il celibato non risale per niente a una legge inventata novecento anni dopo la morte di Cristo. Sono piuttosto i Vangeli secondo Matteo, Marco e Luca che riportano le parole di Gesù al riguardo.
Matteo scrive (19,29): “… Chiunque abbia lasciato in mio nome case o fratelli, sorelle, padre, madre, figli o campi, otterrà cento volte di più e la vita eterna”.
Molto simile è anche quanto scrive Marco (10,29): “In verità, vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia che non riceva cento volte tanto…”.
Ancora più preciso è Luca (18,29 ss.): “In verità, io vi dico: chiunque abbia abbandonato per il Regno di Dio casa o moglie, fratelli, genitori o figli, riceverà già ora, in cambio molto di più, e nel mondo futuro la vita eterna”.
Gesù non rivolge queste parole alle grandi masse, bensì a coloro che manda in giro, affinché diffondano il suo Vangelo e annuncino l’avvento del Regno di Dio.
Per adempiere a questa missione è necessario liberarsi da qualsiasi legame terreno e umano. E visto che questa separazione significa la perdita di ciò che è scontato. Gesù promette una “ricompensa” più che appropriata.
A questo punto viene spesso rilevato che il “lasciare tutto” si riferiva solo alla durata del viaggio di annuncio del suo Vangelo, e che una volta terminato il compito, i discepoli sarebbero tornati alle loro famiglie. Ma di questo non c’è traccia. Il testo dei Vangeli, accennando alla vita eterna, parla peraltro di qualcosa di definitivo.
Ora, visto che i Vangeli sono stati scritti tra il 40 e il 70 d. C., i suoi redattori si sarebbero messi in cattiva luce se avessero attribuito a Gesù parole alle quali poi non corrispondeva la loro condotta di vita. Gesù, infatti, pretende che quanti sono resi partecipi della sua missione adottino anche il suo stile di vita.
Ma cosa vuol dire allora Paolo, quando nella prima Lettera ai Corinzi (9,5) scrive: “Non sono libero? Non sono un apostolo? … Non abbiamo il diritto di mangiare e bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, esattamente come gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? Dovremmo essere solo io e Barnaba a dover rinunciare al diritto di non lavorare?”.
Queste domande e affermazioni non danno per scontato che gli apostoli fossero accompagnati dalle rispettive mogli? Qui bisogna procedere con cautela. Le domande retoriche dell’apostolo si riferiscono al diritto che ha colui che annuncia il Vangelo di vivere a spese della comunità, e questo vale anche per chi lo accompagna.
E qui si pone ovviamente la domanda su chi sia questo accompagnatore. L’espressione greca “adelphén gynaìka” necessita di una spiegazione. “Adelphe” significa sorella. E qui per sorella nella fede si intende una cristiana, mentre “Gyne” indica – più genericamente – una donna, vergine, moglie o sposa che sia. Insomma un essere femminile. Ciò rende però impossibile dimostrare che gli apostoli fossero accompagnati dalle mogli. Perché, se invece così fosse, non si capirebbe perché si parli distintamente di una adelphe come sorella, dunque cristiana. Per quel che riguarda la moglie, bisogna sapere che l’apostolo l’ha lasciata nel momento in cui è entrato a far parte della cerchia dei discepoli.
Il capitolo 8 del Vangelo di Luca aiuta a fare più chiarezza. Li si legge: “(Gesù) venne accompagnato dai dodici e da alcune donne che aveva guarito da spiriti maligni e malattie: Maria Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni. Giovanna, la moglie di Cuza, un funzionario di Erode. Susanna, e molte altre. Tutte loro servivano Gesù e i discepoli con quel che possedevano”. Da questa descrizione pare logico dedurre che gli apostoli avrebbero seguito l’esempio di Gesù.
Inoltre va richiamata l’attenzione sull’appello empatico al celibato o all’astinenza coniugale fatto dall’apostolo Paolo (1. Cor. 7,29 ss): “Perché io vi dico, fratelli: il tempo è breve. Per questo, chi ha una moglie deve in futuro comportarsi come se non ne avesse una…”. E ancora: “Il celibe si preoccupa delle questioni del Signore: vuole piacere al Signore. L’ammogliato si preoccupa delle cose del mondo: vuole piacere a sua moglie. Così finisce per essere diviso in due”. È chiaro che Paolo con queste parole si rivolge in primo luogo a vescovi e sacerdoti. E lui stesso si sarebbe attenuto a tale ideale.
Per provare che Paolo o lo Chiesa dei tempi apostolici non avessero conosciuto il celibato vengono tirate in ballo, a volte, le lettere a Timoteo e Tito, le cosiddette lettere pastorali. E in effetti, nella prima lettera di Timoteo (3,2) si parla di un vescovo sposato. E ripetutamente si traduce il testo originale greco nel seguente modo: “Il vescovo sia il marito di una femmina”, il che viene inteso come precetto. E sì, basterebbe una conoscenze rudimentale del greco, per tradurre correttamente: “Per questo il vescovo sia irreprensibile, sia sposato una volta sola (e deve essere marito di una femmina!!), essere sobrio e assennato…”. E anche nel libro a Tito si legge: “Un anziano (cioè un sacerdote, vescovo) deve essere integerrimo e sposato una volta sola…”.
Sono indicazioni che tendono a escludere la possibilità che venga ordinato sacerdote-vescovo chi, dopo la morte della moglie, si è risposato (bigamia successiva). Perché, a parte il fatto che a quei tempi non si vedeva di buon occhio un vedovo che si risposava, per la chiesa si aggiungeva poi la considerazione che un uomo così non poteva dare alcuna garanzia di rispettare l’astinenza, alla quale un vescovo o sacerdote doveva votarsi.

La pratica della Chiesa post-apostolica

La forma originaria del celibato prevedeva dunque che il sacerdote o il vescovo continuassero la vita familiare, ma non quella coniugale. Anche per questo si preferiva ordinare uomini in età più avanzata.
Il fatto che tutto ciò sia riconducibile ad antiche e consacrate tradizioni apostoliche, lo testimoniano le opere di scrittori ecclesiastici come Clemente di Alessandria e il nordafricano Tertulliano, vissuti nel Duecento dopo Cristo. Inoltre, sono testimoni dell’alta considerazione di cui godeva l’astinenza tra i cristiani una serie di edificanti romanzi sugli apostoli: si tratta dei cosiddetti atti degli apostoli apocrifi, composti ancora nel II secolo e molto diffusi.
Nel successivo III secolo si moltiplicano e diventano sempre più espliciti – soprattutto in oriente – i documenti letterari sull’astinenza dei chierici. Ecco per esempio un passaggio tratto dalla cosiddetta didascalia siriaca: “Il vescovo, prima di essere ordinato, deve essere messo alla prova, per stabilire se è casto e se ha educato i suoi figli nel timore di Dio”. Anche il grande teologo Origene di Alessandria (+ 253/’54) conosce un celibato di astinenza vincolante; un celibato che spiega e approfondisce teologicamente in diverse opere. E ci sarebbero ovviamente altri documenti da portare a sostegno, cosa che ovviamente qui non è possibile.

La prima legge sul celibato

Fu il Concilio di Elvira del 305/’06 a dare a questa pratica di origine apostolica una forma di legge. Con il Canone 33, il Concilio vieta ai vescovi, sacerdoti, diaconi e a tutti gli altri chierici rapporti coniugali con la moglie e vieta loro altresì di avere figli. Ai tempi si pensava dunque che astinenza coniugale e vita familiare fossero conciliabili. Così, anche il Santo Padre Leone I, detto Leone Magno, attorno al 450 scriveva che i consacrati non dovevano ripudiare le loro mogli. Dovevano restare insieme alle stesse, ma come se “non le avessero” scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (7,29).
Con il passar del tempo, si tenderà vieppiù ad accordare i sacramenti solo a uomini celibi. La codificazione arriverà nel medioevo, epoca in cui si dava per scontato che il sacerdote e il vescovo fossero celibi. Altra cosa è il fatto che la disciplina canonica non venisse sempre vissuta alla lettera, ma questo non deve stupire. E, com’è nella natura delle cose, anche l’osservanza del celibato ha conosciuto nel corso dei secoli alti e bassi.
Famosa è per esempio la disputa molto accesa che si ebbe nell’XI secolo, ai tempi della cosiddetta riforma gregoriana. In quel frangente si assistette a una spaccatura così netta – soprattutto nella chiesa tedesca e francese – da portare i prelati tedeschi contrari al celibato a cacciare con la forza dalla sua diocesi il vescovo Altmann di Passau. In Francia, gli emissari del Papa incaricati di insistere sulla disciplina del celibato venivano minacciati di morte, e il santo abate Walter di Pontoise venne picchiato, durante un sinodo tenutosi a Parigi, dai vescovi contrari al celibato e sbattuto in prigione. Ciò nonostante, la riforma riuscì a imporsi, e si assistette a una rinnovata primavera religiosa.
È interessante notare che la contestazione del precetto del celibato si è sempre avuta in concomitanza con segnali di decadenza nella Chiesa, mentre in tempi di rinnovata fede e di fioritura culturale si notava una rafforzata osservanza del celibato.
E non è certo difficile trarre da queste osservazioni storiche paralleli con l’attuale crisi.

I problemi della Chiesa d’oriente

Restano aperte ancora due domande che vengono poste frequentemente. C’è quella che riguarda la pratica del celibato da parte della chiesa cattolica del regno bizantino e del rito orientale: questa che non ammette il matrimonio per vescovi e monaci, ma lo accorda ai sacerdoti, a patto che si siano sposati prima di prendere i sacramenti. E prendendo proprio ad esempio questa pratica, c’è chi si chiede se non potrebbe essere adottata anche dall’occidente latino. A questo proposito va innanzitutto sottolineato che proprio a oriente la pratica del celibato astinente è stata ritenuta vincolante. Ed è solo durante il Concilio del 691, il cosiddetto Quinisextum o Trullanum, quando risultava evidente la decadenza religiosa e culturale del regno bizantino, che si giunge alla rottura con l’eredità apostolica. Questo Concilio, influenzato in massima parte dall’imperatore, che con una nuova legislazione voleva rimettere ordine nelle relazioni, non fu però mai riconosciuto dai papi. È proprio ad allora che risale la pratica adottata dalla Chiesa d’oriente. Quando poi, a partire dal XVI e XVII secolo, e successivamente, diverse chiese ortodosse tornarono alla chiesa d’occidente, a Roma si pose il problema su come comportarsi con il clero sposato di quelle chiese. I vari papi che si susseguirono decisero, per il bene e l’unità della Chiesa, di non pretendere dai sacerdoti tornati alla Chiesa madre alcuna modifica del loro modo di vivere.

L’eccezione nel nostro tempo

Su una simile motivazione si fonda anche la dispensa papale dal celibato concessa – a partire da Pio XII – ai pastori protestanti che si convertono alla Chiesa cattolica e che desiderano essere ordinati sacerdoti. Questa regola è stata recentemente applicata anche da Benedetto XVI ai numerosi prelati anglicani che desideravano unirsi, in conformità alla constitutio apostolica Anglicanorum coetibus, alla Chiesa madre cattolica. Con questa straordinaria concessione, la chiesa riconosce a questi uomini di fede il loro lungo e a volte doloroso cammino religioso, giunto con la con-versione alla meta. Una meta che in nome della verità porta i diretti interessati a rinunciare anche al sostentamento economico fino a quel momento percepito. E l’unità della Chiesa, bene di immenso valore, che giustifica queste eccezioni.

Eredità vincolante?

Ma a parte queste eccezioni, si pone l’altra domanda fondamentale, e cioè: la Chiesa può essere autorizzata a rinunciare a una evidente eredità apostolica?
È un’opzione che viene continuamente presa in considerazione. Alcuni pensano che questa decisione non possa essere presa solo da una parte della chiesa, ma da un Concilio generale. In questo modo, si pensa che pur non coinvolgendo tutti gli ambiti ecclesiastici, almeno per alcuni si potrebbe allentare l’obbligo del celibato, se non addirittura abolirlo. E ciò che oggi appare ancora inopportuno, potrebbe essere realtà domani. Ma se cosi si volesse fare, si dovrebbe riproporre in primo piano l’elemento vincolante delle tradizioni apostoliche. E ancora ci si potrebbe chiedere se, con una decisione presa in sede di Concilio, sarebbe possibile abolire la festa della domenica che, a voler essere pignoli, ha meno fondamenti biblici del celibato.
Infine, per concludere, mi si permetta di avanzare un considerazione proiettata nel futuro: se continua a essere valida la constatazione che ogni riforma ecclesiastica che merita questa definizione scaturisce da una profonda conoscenza della fede ecclesiastica, allora anche l’attuale disputa sul celibato verrà superata da una approfondita conoscenza di ciò che significa essere sacerdote. E se si comprenderà e insegnerà che il sacerdozio non è una funzione di servizio, esercitata in nome della comunità, ma che il sacerdote – in forza dei sacramenti ricevuti – insegna, guida e santifica in persona Christi, tanto più si comprenderà che proprio per questo egli assume anche la forma di vita di Cristo. E un sacerdozio così compreso e vissuto tornerà di nuovo a esercitare una forza di attrazione sull’élite dei giovani.
Per il resto, bisogna prendere atto che il celibato, così come la verginità in nome del Regno dei Cieli, resteranno per chi ha una concezione secolarizzata della vita, sempre qualcosa di irritante. Ma già Gesù a tal proposito diceva: “Chi può capire, capisca”.

(Traduzione di Andrea Affaticati)

* Cardinale e presidente emerito del Pontificio comitato di Scienze storiche.

Alla Vigilia della Visitazione della B.V.M.

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Il 2 luglio, nel calendario tradizionale, ricorre la festa della Visitazione della Beata Vergine Maria a S. Elisabetta, che, invece, nella riforma liturgica, è stata "anticipata" al 31 maggio.
Questa celebrazione, di origine orientale, commemorava originariamente in questa data, presso i Bizantini, la deposizione del velo o della veste, maphorionμαφόριον, della Madre di Dio nella basilica di Blacherne («Καταθέσεως της Τιμίας Εσθήτας εν Βλαχέρναις»)avvenuta nel 469 (o 473?), al tempo dell'imperatore bizantino Leone I il Trace, qui portata dalla Palestina da due pellegrini, tali Galba o Galvio e Candido, e che la Vergine, similmente ad Elia (cfr. 2 Re 2, 13-15), prima di essere assunta al Cielo, avrebbe lasciato (cfr. PG 139, 42).





La deposizione della c.d. cintura, invece, ricadeva il 31 agosto. 
Non si sa come questa festa mariana si sia diffusa anche tra i Latini, i quali però sotto l'influenza dell'ottava di san Giovanni Battista, ne modificarono il significato e ne fecero la solennità della presenza di Maria nella casa di Zaccaria e di Elisabetta, allorché appunto fu santificato nell'utero e nacque il Precursore.
Si hanno notizie di questa celebrazione presso i Francescani fin dal 1263; Urbano VI, Bonifacio IX e finalmente il Concilio di Basilea la resero festa di precetto, e quindi obbligatoria in tutta la Chiesa latina.
Nel seguire, pertanto, l'antico calendario, non possiamo passare sotto silenzio questa ricorrenza mariana, a cui era molto devoto S. Francesco di Sales. Nel suo significato tradizionale, essa celebra non già l'incontro di Maria con Elisabetta, bensì propriamente la conclusione del soggiorno della Madre di Dio presso la cugina.
Dopo l'annuncio dell'Angelo (25 marzo), infatti, la Vergine, recatasi in fretta dall'anziana parente, vi rimase circa tre mesi, fino cioè alla nascita del Battista (24 giugno), o meglio, sino alla sua circoncisione (a cui verosimilmente partecipò) avvenuta otto giorni dopo (1° luglio) (Lc 1, 59). Dopo, riprese la via del ritorno a Nazaret.
Lo spostamento della celebrazione al 31 maggio, sebbene posta a coronamento del mese dedicato a Maria, ha tuttavia comportato la perdita del suo originario significato e la sua scansione temporale, nel corso dell'anno, in riferimento alla nascita del Battista.
Il 2 luglio, oltre alla Vergine della Visitazione, in diverse parti del mondo si celebra anche la festa della Madonna delle Grazie o della Pace. 




Il 18 ed il 19 luglio: due giganti della Carità

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Il calendario tradizionale celebra uno dietro l'altro, il 18 ed il 19 luglio, due grandi Santi e campioni della Carità - quella vera.
Il 18 san Camillo de Lellis; il 19 san Vincenzo de Paoli.
Il primo, soldato di ventura e giocatore d'azzardo, venuto in una delle valli del Gargano, vicine al Santuario di Monte Sant'Angelo, nel 1575, fu folgorato e si convertì, dedicando tutta la sua vita restante alla cura degli infermi. E proprio per questo assurgerà agli onori degli altari nel 1746. Fu proclamato da Pio XI, nel 1930, patrono universale, insieme a san Giovanni di Dio, degli infermieri.
Il secondo, divenuto sacerdote forse non per vocazione (almeno da principio), si dedicò alla completa assistenza ai poveri nella Francia del XVII sec., tanto da essere proclamato da Leone XIII celeste patrono presso Dio di tutte le Associazioni di Carità esistenti in tutto l'orbe cattolico.
Due giganti, insomma. Anzi, il primo lo doveva essere anche fisicamente, visto che le ricognizioni canoniche del corpo, che si sono susseguite, hanno accertato che egli toccava un'altezza prossima ai due metri. Un vero gigante, dunque.
Riguardo al secondo, cioè San Vincenzo, mi pare significativo segnalare il suo profondo legame con le Apparizioni della Medaglia Miracolosa di Rue du Bac, a Parigi, nel 1830. E questo non tanto perché fu una figlia dell'Ordine fondato dal Santo francese (quello delle Figlie della carità) a beneficiare delle Apparizioni della Vergine Maria ed ad essere prescelta quale sua messaggera, Santa Caterina  Labouré, quanto piuttosto il fatto che le Apparizioni potrebbero ascriversi ad un frutto dell'intercessione di San Vincenzo! Innanzitutto, nel giugno 1830, San Vincenzo manifestò a Santa Caterina il suo cuore. In preghiera nella cappella, Caterina vide, per tre giorni di seguito, il cuore di San Vincenzo di tre colori diversi. Le appare dapprima bianco, colore della pace; poi rosso, colore del fuoco; infine nero, simbolo delle disgrazie che sarebbero cadute sulla Francia e su Parigi in particolare.
Il 18 luglio di quell'anno, vigilia della festa di San Vincenzo, che Caterina amava tanto, la giovane novizia ricorse a colui di cui vide il cuore, traboccante d’amore, perché l’aiutasse ad esaudire il suo grande desiderio di vedere la Santa Vergine. E, per questo, andando a dormire, aveva ingoiato, con grande devozione, un frammento di una reliquia di un indumento del Santo. Alle 23,30 circa, un misterioso bambino di quattro-cinque anni la svegliò, l'invitò a rivestirsi ed a seguirlo nella Cappella della casa religiosa, dove l'attendeva la Santa Vergine! Quella notte, dunque, nella vigilia della festa del Santo, iniziavano le celebri Apparizioni. Ecco perché può sostenersi che fu all'intercessione di San Vincenzo de' Paoli se Dio ha voluto donarci, per mezzo di Sua Madre, la Medaglia Miracolosa.





Pierre Hubert Subleyras, S. Camillo salva i malati dall'inondazione del Tevere del 1598, 1746, Palazzo Braschi, Roma

Ambito romano, S. Camillo de Lellis, XVIII sec., museo diocesano, Pitignano

Cristóbal Lozano, Estasi di S. Camillo, 1762, Museo de Arte de Lima, Lima

Estasi di S. Camillo

Gaetano Gandolfi, S. Camillo de Lellis in adorazione della Croce, XVIII sec.

Ultima Comunione di S. Camillo

Preparazione delle esequie di S. Camillo

Pietro Pacilli, S. Camillo de Lellis, 1753, Basilica di S. Pietro, Città del Vaticano, Roma

Reliquia del cuore di S. Camillo









Antoine Jean Joseph Ansiaux, S. Vincenzo de’ Paoli soccorre gli appestati, 1839, musée des Beaux-Arts, Nantes


Manuel Gómez Moreno, S. Vincenzo e S. Luisa de Marillac prestano la loro assistenza agli orfani, 1907, Residencia San Vicente, Granada


Jean-Léon Gérôme, S. Vincenzo de Paoli, 1847, Musée Georges-Garret, Vesoul


Jean-Jules-Antoine Lecomte du Nouÿ, S. Vincenzo deì Paoli riporta i galeotti alla fede, 1876, chiesa della Sainte-Trinité, Parigi

Jean-Jules-Antoine Lecomte du Nouÿ, S. Vincenzo deì Paoli aiuta gli abitanti della Lorena dopo la guerra, 1879, chiesa della Sainte-Trinité, Parigi




Elia il Tesbita, il profeta ed il difensore del vero ed unico culto di Dio

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Pater mi, pater mi, currus Israel et auriga ejus! (2 Reg. 2, 12)

Dopo aver celebrato due giganti della carità, SS. Camillo de' Lellis e Vincenzo de' Paoli, la Chiesa commemora - secondo il calendario tradizionale - la memoria di S. Girolamo Emiliani, fondatore dell'ordine dei Padri Somaschi.
Il 20 luglio, però, ricorre anche la festa della Vergine e Martire S. Margherita di Antiochia di Pisidia, che costituì, nei secoli, un soggetto assai ricorrente nell'arte, nella sua veste soprattutto di vincitrice del drago infernale, che le sarebbe apparso per sbranarla e che avrebbe sconfitto col segno della Croce. Episodio questo dalla forte valenza simbolica: una debole donna riesce a vincere il drago e le forze del Male con il vessillo trionfante di Cristo, ottenendo, per suo mezzo, anch'ella il trionfo sul paganesimo.
Ma non è di questa santa martire che vogliamo occuparci, quanto piuttosto della figura del profeta Elia il Tesbita, della tribù di Beniamino, il quale, sul Monte Carmelo, in questo giorno, salì al Cielo su un carro di fuoco. Sì, vogliamo commemorare, in questa giornata, a distanza di soli quattro giorni dalla memoria liturgica della Beata Vergine del Monte Carmelo, questo santo profeta, che camminò sempre alla presenza del Signore e che combatté, infiammato di santo zelo, per il vero culto dell'unico Dio, del quale rivendicò i diritti nella sfida con i falsi profeti giusto sul Monte Carmelo; che vide salire dal mare una meravigliosa nuvoletta, simbolo della Vergine Maria; che fu mandato da Dio alla povera vedova di Zarepta; che sulla via dell'Oreb fu ristorato da un angelo che gli offrì un pane misterioso, simbolo dell'Eucaristia, che gli diede forza per molti giorni e che godé sull'Oreb di un'intima esperienza di Dio. Una figura, dunque, estremamente attuale anche nell'odierno contesto sociale, politico ed ecclesiale, in cui davvero pochi uomini lottano, e talora soffrono, per l'affermazione di un giusto culto al Signore, degno ed a Lui accetto, e per il riconoscimento della Legge di Dio pure nella società, come si è avuto modo di ricordare alcuni giorni orsono, parlando del significato cristiano della laicità.
L'esperienza del profeta Elia affascinerà le figure di molti eremiti, che, nel XII sec., avviarono un'esperienza monastica sul Carmelo, in onore di Maria, e guardando a lui come modello ed esempio di vita. 
La misteriosa fine del profeta, che, similmente ad Enoch, non avrebbe conosciuto la morte, alimenterà la credenza che egli sarebbe tornato nei tempi messianici, tanto che molti videro in Giovanni Battista un novello Elia. Ma anche Gesù fu creduto da alcuni come un "Elia redivivo". E nella Trasfigurazione fu chiamato quale testimone di Cristo in rappresentanza dell'antico profetismo di Israele, assieme a Mosé (il quale rappresentava l'antica Legge).
Per tale motivo, non potevamo esimerci dal commemorare quest'importantissima figura, divenuta una sorta di prototipo di profeta, che, però, non ci ha lasciato alcuno scritto, e che è tuttora cara anche all'ebraismo ed all'islam.  









Moretto da Brescia, SS. Enoch ed Elia, Stendardo della Madonna della Misericordia, 1520-22, Tempio Canoviano, Possagno

Jacques Courtois detto il Borgognone, Elia ed il re Acab, 1664 circa, Musée des Beaux-Arts, Tolone

Gaspare Diziani, Elia invoca un fuoco dal Cielo sugli idolatri, XVIII sec.

Frederic Leighton, La perfida regina Jezabele ed Acab incontrano il profeta Elia, 1862 circa, Scarborough Borough Council, North Yorkshire

Albert Joseph Moore, Il sacrificio di Elia, 1863, Bury Art Gallery and Museum, Lancashire

Giovanni Battista Boncori, Il profeta Elia è ristorato dall'Angelo, 1660 circa, collezione privata

Paolo Domenico Finoglia, Elia e l'Angelo, 1615-20

Allston Washington, Elia nel deserto, 1818, Museum of Fine Arts, Boston


Frederick Leighton, Il profeta Elia nel deserto, 1878 circa, Walker Art Gallery, Liverpool

Philippe de Champaigne, Il sogno di Elia, 1660, Musee de Tesse, Le Mans


Guercino, Elia sfamato dai corvi, 1620, National Gallery, Londra

Giovanni Lanfranco, Elia è risvegliato dall'angelo che gli indica il cammino verso l'Oreb, 1624-25, Rijksmuseum, Amsterdam

Giovanni Lanfranco, Elia nutrito dai corvi, 1624-25, Musée des beaux-arts, Marsiglia

Giovanni Lanfranco, Elia incontra la vedova di Zarepta, 1624-25, Musée Sainte-Croix, Poitiers

Giovanni Lanfranco, Il profeta Elia riceve il pane dalla vedova di Zarepta, 1621-24, Getty Museum, Malibù

Ford Madox Brown, Il profeta Elia risuscita il figlio della vedova, 1864 circa, Victoria and Albert Museum, Londra

Il Carmelo, il monte del profeta Elia

La festa di sant'Elia ad Haifa

Respirare a pieni polmoni

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Respirare a pieni polmoni

di Vito Abbruzzi

Qualche giorno fa un amico mi ha scritto:“Si è pensato, per la Tradizione, di immaginare qualcosa di simile al pellegrinaggio annuale Parigi-Chartres, che si svolge a Pentecoste, e che possa coinvolgere i giovani in un percorso, magari in qualche data significativa tra luglio-agosto. Già un gruppo di scout lo fa ogni 11 luglio per ricordare il Santo di Norcia, ma questa data non sarebbe gradita ad alcuni tradizionalisti (visto che per essi S. Benedetto è solo il 21 marzo). Per cui, bisognerebbe scegliere una data opportuna, che non susciti risentimenti né tra i moderni né tra i ridetti tradizionalisti puristi. Tu che ne pensi?”. Bella domanda!
All’amico ho subito risposto con pochissime battute – secondo lo stile delle E-mail– in questi termini: “Per quanto riguarda i suddetti tradizionalisti: io credo che proprio il SummorumPontificum abbia il merito di aver riconciliato tutti e dato un’ampia libertà di culto: è bene non stracciarsi le vesti ed approfittarne. D’altronde, lo stesso accade per il festeggiamento degli onomastici”: chi li festeggia col vecchio calendario liturgico e chi con quello nuovo. Prova ne sono le feste in onore dei Santi Patroni, moltissime delle quali – non so se per timore o per rispetto della popolazione – sono rimaste fedeli alla data originale. Un esempio tra tutti: la festa dei Santi Medici ad Alberobello, che cade puntualmente ogni anno il 27 settembre, quando, invece, in altri santuari a loro dedicati – come quello più antico di Conversano, dedicato anche a S. Rita da Cascia – la ricorrenza liturgica la si fa cadere il giorno prima: come stabilito dal calendario  attualmente in vigore.
Quando dico che il Motu Proprio a favore della “Liturgia romana anteriore alla riforma del 1970” ha il merito di aver riconciliato tutti e dato un’ampia libertà di culto, apro una polemica con chi si ostina ad alzare barricate, dividendo il mondo cattolico in moderni, o modernisti, da una parte e tradizionalisti– per di più puristi– dall’altra: inconciliabilmente distinti e distanti gli uni dagli altri.
Noi – grazie a Dio – ci sentiamo e siamo realmente cattolici! Nel senso più genuino del termine: non chiusi monoliticamente in questo o quello schieramento, bensì aperti alla multiversalità delle espressioni di culto che caratterizzano da sempre proprio il Cattolicesimo; e soltanto esso. E ciò in ossequio a quanto già felicemente esprimeva il santo papa Giovanni XXIII, a proposito dell'allora celebrando Concilio Vaticano II: “Il Concilio è convocato, anzitutto, perché, la Chiesa cattolica, nella fulgida varietà dei riti, nella multiforme azione, nella infrangibile unità, si propone di attingere novello vigore per la sua divina missione. Perennemente fedele ai sacri principii su cui poggia e all’immutabile dottrina affidatele dal Divin Fondatore, la Chiesa, seguendo sempre le orme della tradizione antica, intende, con fervido slancio, rinsaldare la propria vita e coesione, anche di fronte alle tante contingenze e situazioni odierne”.
L’errore che tanto il fronte modernistaquanto quello tradizionalista commette è quello “di respirare, per così dire, come un tisico, che con un solo polmone”, secondo la celebre frase del poeta, filosofo e filologo russo Vjaceslav Ivanov (Mosca, 28 febbraio1866Roma, 16 luglio1949), ripresa da Giovanni Paolo II nel Discorso ai partecipanti al simposio internazionale su “Ivanov e la cultura del suo tempo”; ma se per l’ortodosso Ivanov si tratta di “un sentimento di malessere, divenuto a poco a poco sofferenza, per essere staccato dall’altra metà di questo tesoro vivo di santità e di grazia”, costituito, appunto, dalla Chiesa di Roma con la ricchezzadella sua Liturgia, a molti cattolici, ahimè!, sfugge tutto questo. E pensare che “la Lettera Apostolica, Summorum Pontificum Motu Proprio data, del Sommo Pontefice Benedetto XVIdel 7 luglio 2007, entrata in vigore il 14 settembre 2007, ha reso più accessibile alla Chiesa universale la ricchezza della Liturgia Romana”! (Istruzione Universae Ecclesiae, n. 1).
Ho abbondantemente trattato questo argomento, nell’articolo “La ‘ricchezza’ della Liturgia Romana”, e non voglio, perciò, ripetermi; ma mi preme che coloro i quali si considerano come “i buoni cattolici, i bravi figli della Chiesa” (Paolo VI), non si lascino irretire ed etichettare, con argomenti faziosi e capziosi, da chi fomenta lo scandalo della divisione: ad extra, ma soprattutto ad intra della Chiesa di Roma.
Noi, vivaddio!, siamo a pieno titolo buoni cattolici e bravi figli della Chiesa: liberi, veramente liberi, “di rendere culto a Dio secondo le disposizioni del proprio rito approvato dai legittimi Pastori della Chiesa e di seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia però conforme alla dottrina della Chiesa” (CIC, can. 214).
Riflettano, adunque, gli altri e convengano sul fatto che “non si può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone” (Giovanni Paolo II); e che si deve, necessariamente, respirare – come noi facciamo – a pieni polmoni!

Su una previsione di un giovane teologo Ratzinger ....

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Un articolo di straordinaria attualità a distanza di più di un anno ....

La profezia dimenticata di Ratzinger
sul futuro della chiesa

MARCO BARDAZZI

Una Chiesa ridimensionata, con molti meno seguaci, costretta ad abbandonare anche buona parte dei luoghi di culto costruiti nei secoli. Una Chiesa cattolica di minoranza, poco influente nella scelte politiche, socialmente irrilevante, umiliata e costretta a “ripartire dalle origini”.
Ma anche una Chiesa che, attraverso questo “enorme sconvolgimento”, ritroverà se stessa e rinascerà “semplificata e più spirituale”. E’ la profezia sul futuro del cristianesimo pronunciata oltre 40 anni fa da un giovane teologo bavarese, Joseph Ratzinger. Riscoprirla oggi aiuta forse a offrire un’ulteriore chiave di lettura per decifrare la rinuncia di Benedetto XVI, perché riconduce il gesto sorprendente di Ratzinger nell’alveo della sua lettura della storia.
La profezia concluse un ciclo di lezioni radiofoniche che l’allora professore di teologia svolse nel 1969, in un momento decisivo della sua vita e della vita della Chiesa. Sono gli anni turbolenti della contestazione studentesca, dello sbarco sulla Luna, ma anche delle dispute sul Concilio Vaticano II da poco concluso. Ratzinger, uno dei protagonisti del Concilio, aveva lasciato la turbolenta università di Tubinga e si era rifugiato nella più serena Ratisbona.
Come teologo si era trovato isolato, dopo aver rotto con gli amici “progressisti” Küng, Schillebeeckx e Rahner sull’interpretazione del Concilio. E’ in quel periodo che si consolidano per lui nuove amicizie con i teologi Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac, con i quali darà vita a una rivista, “Communio”, che diventa presto la palestra per alcuni giovani sacerdoti “ratzingeriani” oggi cardinali, tutti indicati come possibili successori di Benedetto XVI: Angelo Scola, Christoph Schönborn e Marc Ouellet.


In cinque discorsi radiofonici poco conosciuti – ripubblicati tempo fa dalla Ignatius Press nel volume “Faith and the Future” – il futuro Papa in quel complesso 1969 tracciava la propria visione sul futuro dell’uomo e della Chiesa. E’ soprattutto l’ultima lezione, letta il giorno di Natale ai microfoni della “Hessian Rundfunk”, ad assumere i toni della profezia.
Ratzinger si diceva convinto che la Chiesa stesse vivendo un’epoca analoga a quella successiva all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese. “Siamo a un enorme punto di svolta – spiegava – nell’evoluzione del genere umano. Un momento rispetto al quale il passaggio dal Medioevo ai tempi moderni sembra quasi insignificante”. Il professor Ratzinger paragonava l’era attuale con quella di Papa Pio VI, rapito dalle truppe della Repubblica francese e morto in prigionia nel 1799. La Chiesa si era trovata allora alle prese con una forza che intendeva estinguerla per sempre, aveva visto i propri beni confiscati e gli ordini religiosi dissolti. 
Una condizione non molto diversa, spiegava, potrebbe attendere la Chiesa odierna, minata secondo Ratzinger dalla tentazione di ridurre i preti ad “assistenti sociali” e la propria opera a mera presenza politica. “Dalla crisi odierna – affermava – emergerà una Chiesa che avrà perso molto.
Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali”. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede al centro dell’esperienza. “Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti”. 
Quello che Ratzinger delineava era “un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata”. A quel punto gli uomini scopriranno di abitare un mondo di “indescrivibile solitudine” e avendo perso di vista Dio, “avvertiranno l’orrore della loro povertà”. 
Allora, e solo allora, concludeva Ratzinger, vedranno “quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.

Ancora sul tema sinodale dei "divorziati risposati" .....

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DIVORZIATI E «TEOREMA KASPER»: QUANDO IL GIOCO SI FA DURO I DOMENICANI INIZIANO A GIOCARE...

Dicevamo giorni fa che aumentano le voci autorevoli o autorevolissime che denunciano l’inaccettabilità del “teorema Kasper”, ossia la possibilità per i divorziati risposati di accedere al sacramento dell’Eucaristia, proposta illustrata dal cardinale Walter Kasper all’ultimo concistoro e che sarà uno dei punti chiave del prossimo Sinodo sulla famiglia. Finora la lista (sommaria) comprendeva:
il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller; l’ex presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, il cardinale Walter Brandmüller; uno dei teologi più impegnati e apprezzati da Giovanni Paolo II negli studi su matrimonio e famiglia, il cardinale Carlo Caffarra; uno dei più stimati canonisti della Curia romana, il cardinale Velasio De Paolis; un astro nascente del collegio cardinalizio, come l’ha definito Sandro Magister, ossia il cardinale Thomas Collins; una delle voci più significative dell’attuale teologia australiana, Adam G. Cooper, membro dell’Associazione internazionale di studi patristici.
A questi nomi va aggiunto un gruppo di otto teologi statunitensi di punta: sette domenicani, di cui sei docenti in quello che oggi è il migliore centro teologico dell’Ordine dei Predicatori negli Usa, la Pontificia Facoltà dell’Immacolata Concezione di Washington (si tratta dei padri John Corbett,  Andrew HoferDominic LangevinDominic LeggeThomas PetriThomas Joseph White) uno, il padre Paul J. Keller, docente all’Ateneo Cattolico dell’Ohio (promosso dalla diocesi di Cincinnati); oltre a loro un laico, Kurt Martens, docente di diritto canonico alla Catholic University of America, sempre di Washington.
Insieme hanno steso un importante testo che verrà pubblicato in agosto su Nova et Vetera, storica rivista teologica fondata nel 1926 e vicina al mondo domenicano. Il documento sarà diffuso in più lingue, versioni che sono però già filtrate su internet. Qui si può scaricare quella in italiano. Una confutazione sintetica e magistrale, dal punto di vista dottrinale e storico, della tesi kasperiana.


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Nova et Vetera Publishes Multilingual Response to Cardinal Kasper
- And an explosive revelation on the upcoming Synod


A reliable source has informed us that a certain bishop in Germany is worried about the direction preparations for the upcoming Extraordinary Synod of Bishops on the Family are taking. The bishop is said to have claimed that supporters of Cardinal Kasper's proposals have taken steps (apparently successfully) to limit the involvement of the Cardinal Prefect of the Congregation for the Doctrine of the Faith. To understand why some have pushed Cardinal Müller aside, remember this.

Meanwhile, the Journal Nova et Vetera has published a response to Cardinal Kasper's proposals by eight American theologians, seven of them Dominicans, and most of them professors at Pontifical faculties of theology. The response, simultaneously published in EnglishGermanSpanishFrench, and Italian, comprehensively refutes the innovations proposed by Cardinal Kasper, showing point for point how they contradict the perennial Tradition of the Church.
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La requisitoria di Spaemann sul matrimonio fra Chiesa e mondo

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La requisitoria di Spaemann
sul matrimonio fra chiesa e mondo

Il filosofo tedesco Robert Spaemann, sul mensile americano First Things ha scritto una potente requisitoria delle aperture alla concezione mondana del matrimonio che si stanno facendo largo anche all’interno della chiesa.

di Mattia Ferraresi

“Il matrimonio non è più visto come una realtà indipendente, nuova, che trascende l’individualità degli sposi, una realtà che, come minimo, non può essere sciolta dalla volontà di un solo partner. Ma può essere dissolta dal consenso di entrambe le parti, o dalla volontà di un sinodo o di un Papa? La risposta deve essere no”. Il filosofo tedesco Robert Spaemann, autorità nel mondo cattolico tenuta in altissima considerazione, fra gli altri, dal conterraneo Benedetto XVI, sul mensile americano First Things ha scritto una potente requisitoria delle aperture alla concezione mondana del matrimonio che si stanno facendo largo – e non da oggi – anche all’interno della chiesa, specialmente in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia indetto da Francesco. Seconde nozze, nullità, accesso ai sacramenti per i risposati sono le appendici legali, le incarnazioni storiche del problema matrimoniale in un mondo dove i cattolici divorziano poco meno dei non cattolici, dicono le statistiche.
Il dilemma è se la chiesa debba curvarsi sul paradigma della contemporaneità in fatto di unioni affettive, fino al punto di vidimare religiosamente gli umori prevalenti, magari nel nome della misericordia. Spaemann legge in questo conflitto il riproporsi dell’eterna tensione fra la chiesa e il mondo, iniziata quando gli apostoli rimangono scioccati dalle parole del Maestro: “Non sarebbe meglio, allora, non sposarsi affatto? Il loro stupore sottolinea il contrasto fra il modo di vita cristiano e il modo di vita dominante nel mondo. Che lo voglia o no, la chiesa in occidente sta diventando una controcultura, e il suo futuro dipende eminentemente dalla sua capacità di mantenere il suo ‘sapore’ o di essere sottomessa dagli uomini”.
Si tratta della scelta fra rimanere il sale della terra o trasformarsi in uno zuccheroso stipulatore di compromessi con la logica mondana. Se la chiesa si trova di fronte a questo dilemma e tentata da più parti dall’opzione dell’annacquamento del suo insegnamento è anche colpa della chiesa stessa, dice Spaemann: “Invece di rinforzare la naturale, intuitiva attrattiva della stabilità matrimoniale, molti uomini di chiesa, inclusi vescovi e cardinali, preferiscono raccomandare, o almeno considerare, un’altra opzione, alternativa agli insegnamenti di Gesù, in pratica una capitolazione al mainstream secolarizzato. Il rimedio all’adulterio implicito nel ri-matrimonio, ci dicono, non è più la contrizione, la rinuncia, e il perdono, ma il passare del tempo e l’abitudine, come se l’accettazione sociale e il nostro personale senso di appagatezza con le nostre decisioni avesse un potere soprannaturale. Questa alchimia dovrebbe trasformare un concubinaggio adultero, il secondo matrimonio, in un’unione accettabile da benedire nel nome di Dio. Secondo questa logica, chiaramente, è come minimo giusto da parte della chiesa benedire le unioni omosessuali”.
Questa concezione discende da un errore nella concezione del tempo, scrive Spaemann, che “non è creativo”. Il tempo non aggiusta le cose, “il suo passaggio non restaura uno stato d’innocenza. La tendenza è sempre quella opposta, di accrescere l’entropia. Non dobbiamo confondere la graduale perdita del senso del peccato con la sua scomparsa e dunque sollevarci dalle nostre responsabilità”. Per Spaemann il secondo matrimonio è un tradimento dell’insegnamento cattolico, senza appello, accettato o considerato come ipoteticamente legittimo in nome del cambiamento delle abitudini che ha permeato il mondo e ora bussa con decisione alla porta della chiesa. Il matrimonio indissolubile è ormai percepito come “meta impossibile”, si legge nell’“Instrumentum Laboris” del Sinodo. Secondo Spaemann la chiesa ora è chiamata a decidere se vuole accarezzare o combattere questa percezione.

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DIVORCE AND

REMARRIAGE

by Robert Spaemann


August 2014

The divorce statistics for modern Western societies are catastrophic. They show that marriage is no longer regarded as a new, independent reality transcending the individuality of the spouses, a reality that, at the very least, cannot be dissolved by the will of one partner alone. But can it be dissolved by the consent of both parties, or by the will of a synod or a pope? The answer must be no, for as Jesus himself explicitly declares, man cannot put asunder what God himself has joined together. Such is the teaching of the Catholic Church.
The Christian understanding of the good life claims to be valid for all human beings. Yet even Jesus’s disciples were shocked by their Master’s words: Wouldn’t it be better, then, they replied, not to marry at all? The astonishment of the disciples underscores the contrast between the Christian way of life and the way of life dominant in the world. Whe­ther it wants to or not, the Church in the West is on its way to becoming a counterculture, and its future now depends chiefly on whether it is able, as the salt of the earth, to keep its savor and not be trampled underfoot by men.
The beauty of the Church’s teaching can shine forth only when it’s not watered down. The temptation to dilute doctrine is reinforced nowadays by an unsettling fact: Catholics are divorcing almost as frequently as their secular counterparts. Something has clearly gone wrong. It’s against all reason to think that all civilly divorced and remarried Catholics began their first marriages firmly convinced of its indissolubility and then fundamentally reversed themselves along the way. It’s more reasonable to assume that they entered into matrimony without clearly realizing what they were doing in the first place: burning their bridges behind them for all time (which is to say until death), so that the very idea of a second marriage simply did not exist for them.
Sadly, the Catholic Church is not without blame. Christian marriage preparation very often fails to give engaged couples a clear picture of the implications of a Catholic wedding. Were that so, many couples would very likely decide against being married in the Church. For others, of course, good marriage preparation would provide a helpful impetus to conversion. There is an immense appeal in the idea that the union of a man and a woman is “written in the stars,” that it endures on high, and that nothing can destroy it, both “in good times and in bad.” This conviction is a wonderful and exhilarating source of strength and joy for spouses working through marital crises and seeking to breathe new life into their old love.
Instead of reinforcing the natural, intuitive appeal of marital permanence, many churchmen, including bishops and cardinals, prefer to recommend, or at least to consider, another option, one that is an alternative to Jesus’s teaching and basically a capitulation to the secular mainstream. The remedy for the adultery entailed by remarriage of the divorced, we are told, is no longer to be contrition, renunciation, and forgiveness but the passage of time and habit, as if general social acceptance and our personal comfort with our decisions and lives have an almost supernatural power. This alchemy supposedly transforms an adulterous concubinage that we call a “second marriage” into an acceptable union to be blessed by the Church in God’s name. Given this logic, of course, it is only fair for the Church to bless homosexual partnerships as well.
But this way of thinking is based on a profound error. Time is not creative. Its passage does not restore lost innocence. In fact, its tendency is always just the opposite—namely, to increase entropy. Every instance of order in nature is wrested from the grip of entropy and over time eventually falls under its dominion once again. As Anaximander puts it, “From whence things arise, to that they eventually return, according to the appointed time.” It would be wrong to repackage the principle of decay and death as something good. We should not confuse the gradual deadening of the sense of sin with its disappearance and release from our ongoing responsibility for it.
Aristotle taught that there is a greater evil in habitual sin than in a single lapse accompanied by the sting of remorse. Adultery is a case in point, especially when it leads to new, legally sanctioned arrangements—“remarriage”—that are almost impossible to undo without great pain and effort. Thomas Aquinas uses the term perplexitas to characterize cases like these. They are situations from which there is no escape that does not incur guilt of one sort or another. Even a single act of infidelity entangles the adulterer in perplexity: Should he confess his deed to his spouse or not? If he confesses, he might just save the marriage and, in any case, he avoids a lie that would eventually destroy mutual trust. On the other hand, a confession could pose an even greater threat to the marriage than the sin itself (which is why priests often counsel penitents against revealing infidelity to their spouses). Note, by the way, that St. Thomas teaches that we never stumble into perplexitaswithout some measure of personal guilt and that God allows this as a punishment for the sin that initially set us down the wrong path.
To stand by our fellow Christians in the midst of the perplexitas of remarriage, to show them empathy and assure them of the solidarity of the community, is a work of mercy. But to admit them to communion without contrition and to regularize their situation would be an offense against the Blessed Sacrament—one more among the many that are committed today. Paul’s instruction on the Eucharist in First Corinthians culminates in a warning against unworthy reception of Christ’s body: He who eats and drinks unworthily eats and drinks judgment to himself. Why did the liturgical reformers strike these decisive verses from the second reading for Mass on Holy Thursday and Corpus Christi, of all feasts? When the entire congregation stands up to receive communion Sunday after Sunday, one has to wonder: Do Catholic parishes now consist exclusively of saints?
But there is still one last point, which by all rights ought to be the first. The Church admits that it handled the sexual abuse of minors without sufficient regard for the victims. The same pattern is repeating itself here. Has anyone even mentioned the victims? Is anyone talking about the woman whose husband has abandoned her and their four children? She might be willing to take him back, if only to ensure that the children are provided for, but he has a new family and has no intention of returning.
Meanwhile, time passes. The adulterer would like to receive communion again. He is ready to confess his guilt, but he is not willing to pay the price—namely, a life of continence. The abandoned woman is forced to watch while the Church accepts and blesses the new union. As if to add insult to injury, her abandonment receives an ecclesiastical stamp of approval. It would be more honest to replace “until death do you part” with “until the love of one of you grows cold”—a formula that is already being seriously recommended. To speak here of a “liturgy of blessing” rather than of a remarriage before the altar is a deceptive sleight of hand that merely throws dust in the eyes of the people.

Robert Spaemann is emeritus professor of philosophy at the University of Munich.

La leggenda di Santiago Matamoros

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Nella Vigilia della festa di San Giacomo il Maggiore, Apostolo, nel commemorare le innumerevoli vittime cristiane delle persecuzioni islamiche del neo-califfato iracheno, è bello e significativo ricordare che l'autentico spirito del Cristianesimo non si nutra di un vacuo pacifismo. 
Al contrario, la fede cristiana, nei secoli passati, a differenza dell'odierno corso impresso ad essa per ragioni alla medesima estranee, era intesa sì come pacifica, amante della Vera Pace (quella cioè che viene dal Divin Redentore, Pax Christi in Regno Christi, e che nell'inno del Christus vincit si implora: Témpora bona véniant, pax Christi véniat, regnum Christi véniat!). Non è pacifista (o "pacifinta"), che è il risvolto ipocrita della neutralità. I cristiani sapevano, in effetti, ad un tempo, anche combattere a difesa dei loro inermi fratelli di fede contro la soverchiante dominazione islamica, senza trincerarsi in vuoti ed estenuanti dialogogismi ad oltranza (anche quando c'è ben poco su cui "dialogare"), che si traducono quasi sempre in cedimenti ed umiliazioni per la fede cristiana e/o la morale.
Simbolo di questa lotta, ma al contempo della Vera Pace, è San Giacomo, che gli iberici chiamavano emblematicamente "matamoros", "uccisore di Mori", elevato ad emblema della Reconquista, che ebbe il suo culmine il 2 gennaio 1492, allorché Ferdinando II d'Aragona ed Isabella di Castiglia, Los Reyes Católicos, con la conquista di Granada, espulsero dalla Penisola iberica l'ultimo dei governanti musulmani, Boabdil di Granada, unendo gran parte di quella che è la Spagna odierna sotto un unico Regno (la Navarra verrà incorporata solo nel 1512).


Francisco Pradilla, La resa di Granada, 1882, Palacio del Senado, Madrid

Secondo la leggenda, San Giacomo sarebbe apparve in sogno al re Ramiro I delle Asturie, assicurandogli il suo aiuto e la vittoria sui musulmani, condotti dall'emiro Abū l-Muṭarraf ʿAbd al-Raḥmān ibn al-Ḥakam, o più semplicementeʿAbd al-Raḥmān II, nella celebre battaglia di Clavijo, che sarebbe stata combattuta l'indomani, il 23 maggio 844. 
Il giorno della battaglia, il Santo Apostolo, in sella al suo bianco destriero, combatté contro le forze nemiche, riuscendole a sconfiggere, assicurando così alle truppe cristiane il trionfo e risparmiando alle famiglie cristiane il pagamento del pesante tributo delle cento giovinette (o "donzelle"), che era stato imposto dall'emirato di Cordova al discusso sovrano Mauregato delle Asturie circa settant'anni prima per garantirgli la corona.



Santiago matamoros, XVIII sec., Basilica di San Giacomo, Santiago de Compostela

Scuola spagnola, Santiago Matamoros, XVII sec., collezione privata

Giovanni Battista Tiepolo, S. Giacomo il Maggiore conquista i Mori, 1749-50, Szépművészeti Múzeum, Budapest

Paolo di San Leocadio, Santiago Matamoros, 1513-19, Chiesa di San Giacomo, Villa Real

Juan Carreño De Miranda, S. Giacomo Maggiore (“matamoros”, cioè “uccisore di mori”) nella battaglia contro i Mori a Clavijo, 1660, Szépművészeti Múzeum, Budapest

Francisco Ribalta, S. Giacomo Maggiore nella battaglia contro i Mori a Clavijo, 1603, Chiesa di San Jaime Apóstol, Algemesí 


José Casado del Alisal, S. Giacomo Maggiore nella battaglia contro i Mori a Clavijo, 1889, Chiesa di San Francisco el Grande, Madrid

"Potéstis bíbere cálicem, quem ego bibitúrus sum? ... Cálicem quidem meum bibétis ..." (Matth. 20, 22-23): San Giacomo il Maggiore: colui che bevve, primo tra gli Apostoli, il Calice del Signore

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Il primo dei figli del tuono (come il Salvatore chiamò i due fratelli Giacomo e Giovanni) fu anche il protomartire del collegio apostolico, poiché fu decapitato da Erode Agrippa verso l’anno 43 d.C. (At 12, 2-3). La festa di Pasqua era prossima e per questo i Copti celebrano il suo martirio il 12 aprile ed i bizantini il 30 di quel mese, mentre la Chiesa siriana d’Antiochia il 7 maggio.
Non è un azzardo ritenere che, presso i Latini ugualmente, la festa del 1° maggio (dal 1955 l’11 maggio) riguardasse originariamente san Giacomo, figlio di Zebedeo, e quella del 25 luglio il fratello di Giuda, cugino del Salvatore. Alcune ricerche svolte il secolo scorso nei Calendari Cassinensi medievali supporterebbero questa tesi, che sarebbe peraltro data come verosimile anche dal beato card. Schuster.
Ad ogni buon conto, va ricordato che la festa di questo figlio di Zebedeo apparve dapprima al 27 dicembre, data nella quale, fin dalla seconda metà del IV sec., era ricordato congiuntamente al fratello Giovanni nel martirologio di Nicomedia. Nella Chiesa gerosolomitana del V sec. i due fratelli erano, invece, commemorati il 29 dicembre. Essi si trovano ancora abbinati al 27 dicembre nei testi liturgici gallicani del VII sec. In quegli stessi giorni essa continua ad essere celebrata dalla Chiesa armena, assieme ad altri apostoli vedendo quasi riuniti idealmente intorno alla mangiatoia del Salvatore tutto il collegio apostolico.
La data del 25 luglio, in ogni caso, attestata in Occidente fin dall’VIII sec. è senz’altro anteriore all’instaurazione del culto dell’Apostolo a Santiago de Compostela.
Nel VI sec. si conoscevano e veneravano ancora, a Gerusalemme, le tombe dei due apostoli di nome Giacomo. Si sa tuttavia che, nel IX sec., le reliquie di san Giacomo il Maggiore erano già in grande venerazione a Compostela (sarebbero state ivi rinvenute non oltre l’830 d.C.): senza dubbio vi sarebbero state trasportate dopo che gli Arabi si furono impossessati della Città Santa, così com’è successo per altre numerose reliquie.
Durante tutto il Medioevo, il pellegrinaggio in Galizia, alla tomba di san Giacomo, fu uno dei più popolari, venendo lì festeggiato, oltre al 25 luglio, anche al 23 maggio – che commemora la sua leggendaria apparizione alla battaglia di Clavijo– ed al 30 dicembre.
Tale meta fu resa celebre anche dal posto di predilezione occupato da Giacomo, assieme a Pietro e Giovanni, presso il Divin Salvatore. Ad es., fu testimone privilegiato con essi tanto della Trasfigurazione del Signore (Mt. 17, 1; Mc 9, 1; Lc 9, 28) quanto della sua Agonia nell’orto del Getsemani (Mt 26, 37; Mc 14, 33)! Ma anche della resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5, 37; Lc 8, 51).

Simone Cantarini, Gloria di S. Giacomo, 1640 circa, Museo civico, Rimini


Giovanni Andrea Sirani, con l'aiuto di Elisabetta Sirani, Gesù Cristo è pregato da S. Maria Salome per i figli Giacomo e Giovanni, 1640-54, Pinacoteca Nazionale, Bologna

Guido Reni, S. Giacomo il maggiore, 1618-23, Museo del Prado, Madrid

Francesco De Mura, Madonna col Bambino tra i SS. Nicola e Giacomo, XVIII sec.

Camillo Rusconi, S. Giacomo il Maggiore, 1715-18, Basilica di San Giovanni in Laterano, Roma


Noël Coypel, San Giacomo condotto al supplizio, guarisce un paralitico ed abbraccia il suo accusatore, 1661, Musée du Louvre, Parigi

Johann Boeckhorst detto Jan Lange, Martirio di S. Giacomo, XVII sec., musée des Beaux-Arts, Valenciennes


Francisco de Zurbarán, Martirio de Santiago, 1639-40, Museo del Prado, Madrid

Juan Fernández Navarrete el Mudo, La decollazione di S. Giacomo, 1571, Monastero di San Lorenzo de El Escorial, Madrid

Vicente Requena “il giovane”, S. Giacomo il Maggiore, 1597, Valencia


Cima da Conegliano, SS. Giacomo, Raffaele arcangelo con Tobiolo e Nicola, 1513 circa, Gallerie dell'Accademia, Venezia


Bartolomeo della Gatta, Madonna col Bambino tra i SS. Giacomo e Cristoforo, 1486 circa, Chiesa dei SS. Andrea e Stefano, Marciano della Chiana



Statua di S. Giacomo posta sull'altare della Basilica, al di sopra del sepolcro dell'Apostolo, e che i fedeli sono soliti abbracciare dal retro, Cattedrale, Santiago de Compostela. Sul cartiglio che regge può leggersi: "HIC EST CORPVS DIVI IACOBI APOSTOLI ET ISPANIARV(M) PATRONI".



Lapide posta all'ingresso della Cripta del Sepolcro di S. Giacomo, Cattedrale, Santiago de Compostela



Urna d'argento con le reliquie di S. Giacomo, sec. XIX, Cripta della Cattedrale, Santiago de Compostela.

Le reliquie furono poste in questo reliquiario dopo la loro riscoperta nel 1879. 
Nel 1589, infatti, su iniziativa dell'arcivescovo Juan de San Clemente, esse furono nascoste per sottrarle al pirata Francis Drake, che aveva devastato A Coruña, poiché si temeva potesse giungere sino a qui e rubarle per portarle dalla sua regina, l'empia Elisabetta I. 
Nel XIX sec., l'allora cardinale de Compostela, Payà y Rico, si propose di individuare le reliquie dell'Apostolo organizzando una ricerca sistematica, durata diversi mesi. Nel gennaio 1879, grazie al paziente lavoro dell'archeologo Antonio López Ferreiro (che era anche canonico della Cattedrale e che fu autore di un'importante Historia de la santa A. M. Iglesia de Santiago de Compostela), si trovarono dietro l’altare nella cattedrale, presso il coro, le spoglie di San Giacomo con i suoi due discepoli, Atanasio e Teodoro. Dopo una serie di indagini storiche, archeologiche e di archivio, con decreto arcivescovile fu dichiarata l'autenticità dei resti come appartenenti all'Apostolo ed ai suoi due discepoli. I risultati furono inviati a Roma, chiedendo conferma da Papa Leone XIII. Dopo attento esame, condotto dalla Congregazione dei Riti, il 19 luglio 1884 fu emanato il decreto, approvato dal Papa, che dichiarava la sua vera identità di quei resti. Mesi dopo, lo stesso Leone XIII certificò il ritrovamento (bolla Deus Omnipotentis, 1° novembre 1884).
Nel 1891 le sante reliquie furono poste in un'urna d'argento, all'interno del primitivo sepolcro in una zona particolarmente adatta. Da quel momento s’apriva la nuova cripta della Cattedrale come un nuovo luogo di culto e venerazione delle spoglie dell'apostolo e dei suoi discepoli, così come la si vede oggi.

1° agosto: giornata di preghiera e supplica in favore dei perseguitati cristiani nel Vicino Oriente

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Il CNSP con la Fraternità San Pietro per i cristiani in Iraq

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Il Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum aderisce alla giornata mondiale di pubblica adorazione e di supplica promossa dalla Fraternità Sacerdotale San Pietro venerdì 1 agosto in favore dei nostri fratelli e sorelle nella fede perseguitati in Iraq, in Siria e in Medio Oriente; pertanto invita vivamente tutti i fedeli a partecipare alla fervida preghiera che si eleverà al Signore perché voglia confortare e sostenere questi Suoi nuovi martiri.

Sull’esempio delle molteplici iniziative già lodevolmente promosse da numerosi Coetus Fidelium, il CNSP esorta tutti i Gruppi Stabili a ricordare con particolare intenzione nelle Sante Messe che verranno celebrate nelle prossime settimane, i nostri fratelli perseguitati, affidandoli alla particolare materna protezione della Santissima Vergine Maria, Auxilium Christianorum.

Avviso sacro

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Il Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum aderisce alla giornata mondiale di pubblica adorazione e di supplica promossa per venerdì 1° agosto in favore dei nostri fratelli e sorelle nella fede perseguitati in Iraq, in Siria e in Medio Oriente; pertanto la parrocchia S. Maria Amalfitana in Monopoli (BA) dispone:

- Venerdì 1° Agosto nella chiesa di S. Francesco d'Assisi in Monopoli (BA) alle ore 19,00 la celebrazione della S. Messa nella forma ordinaria (in lingua italiana) votiva del Sacratissimo Cuore di Gesù ed a seguire l'Adorazione dell'Eucarestia solennemente esposta fino alle ore 21;

- Domenica 3 Agosto alle ore 19,00 sempre in S. Francesco d'Assisi, la celebrazione della S. Messa nella forma straordinaria (Rito antico) con questa specifica intenzione.


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