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La Santa e giusta Antenata del Signore Anna

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Il 26 luglio la Chiesa celebra la festa di sant'Anna (san Gioacchino ricorre, nel calendario tradizionale, l'indomani della festa dell'Assunzione).
I privilegi e le grazie di cui Dio aveva circondato la concezione immacolata di Maria, sua Madre benedetta, non potevano non riflettersi sui suoi beati genitori ai quali l’apocrifo Protoevangelium Jacobi (Giacomo il minore, parente di Gesù), che, secondo i critici, dev’essere stato composto prima del 150 d. C., dà il nome di Gioacchino e di Anna.
Oltre a questo testo, le maggiori notizie sulle vite dei genitori della Madre di Dio ci giungono dalla letteratura apocrifa del Vangelo della Natività di Maria e dallo pseudo Vangelo di Matteo. Ma senz'altro più autorevole tra tutti è il Protovangelo sopra ricordato, che, in Oriente, addirittura è letto nelle feste mariane dai greci, dai siriaci e da altri.
In Occidente, tutti questi testi apocrifi, in linea generale, sono stati respinti sino a quando Jacopo da Varagine non li trasfuse nella sua Legenda Aurea nel XIII sec. rivalutandoli ed apprezzandoli.
Da allora la vita dei Santi genitori della Vergine si diffuse in Occidente, alimentando il loro culto, ma anche aspetti leggendari e fantasiosi della loro vita. Così è sorta la convinzione che Sant'Anna sarebbe nata, per grazia divina, dopo che i suoi genitori l'avevano attesa per oltre vent'anni di vita matrimoniale; san Gioacchino sarebbe vissuto sino alla presentazione di Maria al Tempio ed Anna, rimasta vedova, si sarebbe risposata con Cleofa, da cui sarebbe nata Maria di Cleofa - sorellastra, dunque, della Vergine - e che sarebbe andata in moglie ad Alfeo, da cui sarebbero nati Giacomo il Minore, Simone, Giuda e Giuseppe il giusto. In seguito, rimasta ancora vedova, Anna si sarebbe risposata, per la terza volta, con un tale Salomas. Da queste nuove nozze sarebbe nata santa Maria Salome, la madre cioè dei due figli di Zebedeo, Giacomo il Maggiore e Giovanni. Si tratta, però, di leggende senza alcuna attendibilità sia storica sia biblica.  
Sappiamo, in ogni caso, che, fin dal VI sec., Giustiniano eresse a Costantinopoli una chiesa in onore di sant’Anna, a cui, con san Gioacchino, il Menologio dedicò come giorno di festa collettiva di entrambi il 9 settembre. Sant'Anna è celebrata singolarmente, invece, il 25 luglio, di cui si ricorda la "dormizione" avvenuta a Gerusalemme (all'età, pare, di 79 anni, prima dell'Annunciazione della Vergine), ma in verità questo giorno sarebbe quello della dedicazione della chiesa giustinianea o l'anniversario della traslazione a Costantinopoli delle sue reliquie unitamente al suo maphorion (velo) nel 710.




Persino il Corano ne tramanda i nomi Imrân (Gioacchino) e Hannah (Anna), dedicandovi una sura, la terza, intitolata Âl ‘Imrân, cioè La Famiglia di Imran.
La venerazione verso gli avi del Divin Redentore si sparse un po’ dovunque in Oriente. I siriani venerano sant’Anna sotto il nome di Dina il 25 luglio; ma generalmente gli altri orientali tendono ad avvicinare la festa dei genitori della Madre di Dio alla solennità della sua nascita o della sua assunzione al cielo. Nel Calendario bizantino, i santi Gioacchino ed Anna sono onorati dei titoli di τν γων καὶ δικαων θεοπατρων ωακεμ καὶ ννηϛ, cioè i santi e giusti antenati di Dio Gioacchino ed Anna. 
Nel mondo latino, una delle prime tracce di culto verso i genitori della santa Vergine si trova nella biografia di Leone III, che fece riprodurre le loro immagini a Santa Maria Maggiore.
Si è d’accordo, in genere, a riconoscere un’altra rappresentazione di sant’Anna in una nicchia della basilica di Santa Maria Antiqua al Foro romano, dove sono dipinte tre sante madri coi loro bambini nelle braccia: sant’Anna con la Vergine Maria, sant’Elisabetta con san Giovanni Battista ed infine Nostra Signora col bambino Gesù. Questa pittura è del VII – VIII sec. ed è stata attribuita al papa Costantino (708 -715).


La festa liturgica di sant’Anna comincia ad apparire qua e là presso i Latini durante il basso Medioevo; non fu introdotta tuttavia definitivamente nel Messale romano che sotto Gregorio XIII nel 1584.
Riguardo alle reliquie della Santa, secondo una tradizione, il suo corpo sarebbe stato portato ad Apt, in Francia, da san Lazzaro, l'amico di Cristo ed il fratello di Marta e Maria. In seguito, sarebbe stato nascosto, alla fine del IV sec., dal santo vescovo Auspicio ed infine ritrovato durante il regno di Carlo Magno (la memoria di questa "invenzione" era celebrata localmente il lunedì dopo l'Ottava di Pasqua). Successivamente, nel 1664, furono traslate in una splendida cappella il 4 maggio, che da allora era celebrato come giorno festivo.
Secondo altre tradizioni, invece, i resti del corpo della Santa sarebbero stati portati dalla Terra Santa a Costantinopoli nel 710, ove ancora nel 1333 erano conservati nella basilica di Santa Sofia. Da lì, vari frammenti ossei si sono diffusi per varie chiese. Ad es., a Douai si venera un piede della Santa e la memoria della traslazione di questa reliquia era celebrata il 16 settembre. 
Roma ha eretto alla memoria della santa Madre della beata Vergine almeno una decina di chiese e cappelle. La Basilica patriarcale di San Paolo era già in possesso della preziosa reliquia del braccio di sant’Anna al tempo di santa Brigida di Svezia, che ne ottenne una briciola. Sant’Anna le apparve allora e le insegnò il modo di custodire e di venerare le sue sante reliquie. Tra il XIX ed il XX sec., Leone XIII e Benedetto XV hanno donato dei frammenti dello stesso braccio di sant’Anna ad alcuni insigni santuari, a lei dedicati, in Canada ed in Bretagna, dove Dio si è compiaciuto anche di illustrarli mediante numerosi miracoli.
Prima degli sconvolgimenti politici del 1870, una delle tradizioni della Roma papalina comportava una cerimonia speciale in occasione della festa di sant’Anna. La confraternita dei palafrenieri pontifici le aveva eretto una chiesa, alle porte stesse del palazzo del Vaticano. Ora, il 26 luglio, questa confraternita organizzava una processione grandiosa che accompagnava la statua della Santa fino alla dimora del Cardinale Protettore. Quando l’immagine di sant’Anna giungeva sul ponte Sant’Angelo, il cannone della Mole di Adriano faceva sentire parecchie salve sparate in suo onore. Sebbene dal 1870 il Papa non uscisse più dal Vaticano, Benedetto XV volle tuttavia, per un’entrata laterale che comunica col palazzo pontificio, visitare quest’antico santuario di sant’Anna dove aveva fatto eseguire dei restauri. Il 30 maggio 1929, con la Costituzione apostolica Ex Lateranensi pacto, Pio XI istituiva questa chiesa quale pontificia parrocchia di Sant’Anna in Vaticano, affidandone la cura agli agostiniani.



Icona russa di S. Anna la giusta, 1893, Monastero di San Pantaleimon, Monte Athos

Icona miracolosa di S. Anna con la Santissima Madre di Dio, Skita di S. Anna, Monte Athos








Daniel Gran, Gloria di S. Anna, XVIII sec., Annakirche, Vienna

Juan de Juanes (Juan Macip Vicente), Annunciazione di S. Anna, XVI sec., Hermitage, San Pietroburgo

Francesco Solimena, La Vergine con i SS. Gioacchino ed Anna, XVII sec., collezione privata


Bartolomé Esteban Murillo, Educazione della Vergine, 1655 circa, Museo del Prado, Madrid

Giovanni Romanelli (attrib.), Educazione della Vergine Maria, 1630 circa, Art Gallery of South Australia, Adelaide

Louis Jean François Lagrenée, Educazione della Vergine, 1772 circa, collezione privata

Juan Carreno de Miranda, Educazione della Vergine con S. Gioacchino, 1676



Bartolomeo Cesi, Concezione della Vergine Maria in S. Anna, 1593-95, Pinacoteca Nazionale, Bologna

Arturo Viligiardi, S. Anna istruisce la Vergine, 1926, partic., Pontificia Parrocchia di S. Anna in Vaticano, Città del Vaticano, Roma

I SS. Gioacchino ed Anna e la Vergine intercedono per le anime purganti

Statua di S. Anna con la Vergine ed il Bambino, Chiesa di S. Anna, Barcellona


Veneratissima statua di S. Anna, Chiesa di S. Anna, Gerusalemme. 
La chiesa di S. Anna sorge sul luogo dove, secondo una tradizione, era la casa gerosolomitana dei genitori della Vergine e dove nacque la stessa Madre di Dio.


Statua di S. Anna, esterno del recinto dei resti della chiesa crociata di S. Anna, Sefforis.
La chiesa crociata sorgeva - secondo la tradizione - sull'abitazione di S. Anna, che sarebbe stata originaria di Sefforis.

San Giovanni XXIII chiede di non battere le mani in Chiesa, perché Templum Dei ...

Preghiera per la giornata del 1° agosto 2014

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Nei giorni scorsi davamo conto di come la fascia di terra, che ha conosciuto la Rivelazione sia del Primo Testamento sia di quello Nuovo e Definitivo, oggi conosca aspre guerre, conflitti armati e persecuzioni verso le inermi popolazioni cristiane.
Dalla stampa si apprende quotidianamente delle atrocità commesse nella c.d. striscia di Gaza a danno di cittadini indifesi, e - ahimé - assai spesso di bambini. Meno rumore, ma altrettanto sdegno, sollevano le esecuzioni e le persecuzioni dei cristiani nei territori dell'Iraq post-Saddam Hussein dove si è insediato un "califfato" islamico, il quale oltre alle violenze contro le popolazioni cristiane - brutalità che arricchiscono, in un'ottica di speranza cristiana, la Gerusalemme Celeste di nuove candide schiere di martiri per Cristo - è autore di distruzioni di antichi monumenti, segni lasciati dagli stessi Patriarchi e Profeti, pur venerati dall'Islam.
Così, nei giorni scorsi, in quei luoghi - i quali un tempo avevano conosciuto fiorenti e prospere comunità cristiane e cattoliche in special modo - sono state distrutte la moschea, che custodiva la tomba del profeta Giona (le cui reliquie sono, secondo un'antica tradizione, tuttavia, a Nocera Inferiore), il mausoleo di San Giorgio, ma pure le tombe del patriarca Seth e del profeta Daniele.

Processione del Corpus Domini a Baghdad nei primi anni '20 del secolo scorso

Per questo, il CNSP ha aderito, per il 1° agosto prossimo, alla giornata di preghiera e digiuno per i cristiani perseguitati in Iraq, Siria e Medio Oriente, promossa dalla Fraternità San Pietro; lodevole iniziativa a cui hanno aderito vari gruppi locali (v. ad es. qui).
Da parte della Scuola non può farsi a meno di invocarsi la misericordia di Dio, per il tramite della Sua Santissima Madre, affinché interceda per tutte le popolazioni di Terra Santa (che comprende, in senso esteso, anche l'Iraq e la Siria, in quanto terre della Prima Rivelazione di Dio!), faccia cessare le violenze e le persecuzioni, consoli gli oppressi e conforti i cristiani afflitti che vi abitano. 
Preghiamola, quindi, quale potente mediatrice presso il trono della Divina Maestà, venerandola sotto il bel titolo di Regina di Palestina (e di Terra Santa), voluto dal Patriarca latino di Gerusalemme Sua Beatitudine Mons. Luigi Barlassina, a cui volle consacrare sin dal 15 luglio 1920, durante il suo ingresso alla Basilica del Santo Sepolcro, la Palestina e quelle terre. 



In suo onore, ricordiamo, il pio patriarca eresse a Deir Rafat, nella Valle di Soreq, vicino a Bet Shemesh, il celebre Santuario a lei dedicato e fissò la sua festa il 15 agosto (che si svolse ininterrottamente in quella data dal 1928 al 1971, allorché fu spostata al 25 ottobre). 
Il titolo fu riconosciuto da Pio XI (i.e. Sacra Congregazione dei Riti) nel 1933.



PREGHIERA A NOSTRA SIGNORA REGINA DELLA PALESTINA

(composta dal Patriarca 
S. Beatitudine Mons. Luigi Barlassina)

O Maria Immacolata, graziosa Regina del cielo e della terra, 
eccoci prostrati al tuo eccelso trono, pieni di fiducia nella tua bontà e nella tua sconfinata potenza.

Noi ti supplichiamo di rivolgere uno sguardo pietoso sulla Palestina, che più di ogni altra regione ti appartiene, imperocché tu l'hai aggraziata con la tua nascita, con le tue virtù, con i tuoi dolori, e da essa hai dato al mondo il Redentore.

Ricorda che qui appunto tu fosti costituita tenera Madre nostra e dispensiera delle grazie; veglia dunque con speciale protezione sulla tua Patria terrena, dissipa da essa le tenebre dell'errore poiché ivi risplendette il Sole dell'eterna Giustizia, e fa' che presto si compia la promessa uscita dal labbro del tuo divino Figlio, di formare un solo ovile sotto un solo Pastore.

Ottieni inoltre a tutti noi di servire il Signore nella santità e nella giustizia tutti i giorni della vita nostra, affinché per i meriti di Gesù e con il tuo materno aiuto, possiamo alfine passare da questa Gerusalemme terrena agli splendori di quella celeste. Così sia.

* * * * * * * * * *

PRAYER TO OUR LADY OF PALESTINE 

O Mary Immaculate, gracious Queen of Heaven and of Earth, behold us prostrate before thy exalted throne.

Full of confidence in thy goodness and in thy boundless power, we beseech thee to turn a pitying glance upon Palestine, which more than any other country belongs to thee, since thou hast graced it with thy birth, thy virtues and thy sorrows, and from there hast given the Redeemer to the world. 

Remember that there especially thou wert constituted our tender Mother, the dispenser of graces. 

Watch, therefore, with special protection over thy native country, scatter from it the shades of error, for it was there the Sun of Eternal Justice shone. 

Bring about the speedy fulfilment of the promise, which issued from the lips of Thy Divine Son, that there should be one fold and one Shepherd. 

Obtain for us all that we may serve the Lord in sanctity and justice during the days of our life, so that, by the merits of Jesus and with thy motherly aid, we may pass at last from this earthly Jerusalem to the splendours of the heavenly one. Amen.

Imprimatur, Jerusalem. Kal. Jan. 1926: 
+ Aloysius Patriarcha

Arcangelo Gabriele, Siria

Il Salterio del card. Bea: un episodio quasi dimenticato delle riforme sotto Pio XII

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Le Psautier de Bea : un épisode presque oublié des réformes sous Pie XII

Abbé Jean-Pierre Herman

L’un des rares constats qui fait l’unanimité sur les différentes réformes de la liturgie des années 50-60 est qu’elles ont largement profité à une catégorie professionnelle : les éditeurs.
Nous en trouvons une illustration caractéristique dans la révision de la traduction sous Pie XII, dont le résultat fut l’édition d’un nouveau bréviaire que tous les clercs ont acheté pour l’abandonner très vite et revenir à l’ancienne version pour cause d’impraticabilité.
C’est la raison pour laquelle il est possible de trouver dans tous les vide-grenier et les librairies de seconde main de splendide bréviaire en reliure plein cuir et à la dorure intacte, mais avec une version latine des psaumes qui fut éphémère[1].

Les différentes versions du psautier

On date généralement du IIème siècle les premières traductions latines des textes bibliques, sur base de la LXX et des textes grecs qui constitueront plus tard le Nouveau Testament. On appelle généralement ces versions la Vetus latina, ou Veteres, selon que l’on considère qu’il y a eu une ou plusieurs traductions. Nous ne nous attarderons pas sur ce sujet ici. On considère que la version « européenne », sur base de textes venus d’Afrique, date du IVème siècle. Ce latin biblique est une langue spécifique, éloignée du latin classique, par souci de littéralisme et de respect des termes d’origine grecque ou hébraïque.
Nous n’en possédons aucune version complète. On trouve çà et là des fragments, par exemple dans les citations de Cyprien de Carthage pour la version primitive. Pour les psaumes, dans la version dite européenne, la liturgie a gardé quelques citations dans les antiennes du missel romain, particulièrement certains introïts où l’on n’a pas remplacé le verset par la version de la Vulgate.
A la fin du IVème siècle, saint Jérôme réalisa une rapide révision du psautier, sans doute à la demande du pape saint Damase. Le résultat fut le psautier que l’on appelle aujourd’hui « romain ». Son usage fut réduit à la ville de Rome, en dehors de laquelle il ne fut jamais adopté. Ce fut la version utilisée à la Basilique Saint-Pierre jusqu’à la réforme liturgique de Vatican II.
Exilé en Orient, Jérôme fit une seconde révision qui donna le psautier dit gallican et une troisième à partir du texte hébreu. Le psautier gallican fut imposé à la chrétienté sous Charlemagne et devint la version utilisée dans la plupart des Offices monastiques ou locaux, pour devenir l’unique version après le Concile de Trente.
Ainsi a langue de saint Jérôme devint-elle le texte familier de l’Eglise romaine dans le chant quotidien de l’Office divin et dans la plupart des textes de la messe.

Une nouvelle traduction


Le pontificat de Pie XII fut marqué, on le sait, par un regain d’intérêt pour l’étude de l’Ecriture sainte. C’est dans la foulée de ce mouvement que le pape s’inquiéta de la discordance entre le latin du psautier et la langue classique qu’apprenaient les clercs dans leur formation. Il émit alors l’idée d’une nouvelle traduction des psaumes en latin classique, dans le but d’une meilleure compréhension de la prière de l’Office divin par ceux qui y sont astreints.
Il établit ainsi une Commission d’experts, dont le président était le Jésuite et futur Cardinal Augustin Bea, directeur de l’Institut biblique de Rome. C’est la raison pour laquelle on parle généralement du travail de la commission comme du Psautier de Bea.

La nouvelle traduction fut promulguée en 1945 par le Motu proprio In cotidianis precibus[2]. Le pape y explique que l’étude critique moderne de la Bible hébraïque et des différentes traductions ont permis, aujourd’hui, de retrouver à de nombreux endroits le sens original d’expression qui, dans la Vulgate, demeurait obscures. Il a donc demandé cette nouvelle traduction « proche du texte primitif et plus fidèle ». Il la voulait aussi « plus proche des écrits des Pères et des Docteurs. »
Le Psautier de Bea n’était pas une révision des versions antérieures, mais une nouvelle traduction en latin classique à partir du texte hébreu. A titre d’illustration, nous livrons en appendice une excellente analyse comparative du premier verset du psaume I par Gregory di Pippo à partir des version de la Vulgate et de Bea.

Un accueil mitigé

Le but de la nouvelle version était louable : aider les clercs dans la prière de l’Office, par une meilleure compréhension des textes et ainsi favoriser leur intériorisation. Ainsi s’exprime le pape dans sa présentation :
Nous espérons que dorénavant tous puiseront dans la récitation de l’Office divin de plus en plus de lumière, de grâce et de consolation qui les éclaireront et les pousseront, dans ces temps si difficiles que traverse l’Eglise, à imiter ces exemples de sainteté que présentent avec tant d’éclat les psaumes. Nous espérons qu’ils y trouveront de plus en plus de force et qu’ils seront stimulés à entretenir et à réchauffer ces sentiments d’amour de Dieu, de force intrépide, de pieuse pénitence que le Saint-Esprit fait lever dans les âmes à l’occasion de la lecture des psaumes.[3]
La Cardinal Bea publia, deux ans plus tard, une brochure explicative du travail de la commission intitulé : Le nouveau psautier latin. Éclaircissements sur l’origine et l’esprit de la traduction.

C’était compter sans la nature même du travail. Il s’agit en fait d’un travail d’érudition, de techniciens, élaboré en vase clos par des spécialistes. Ce reproche, souvent adressé aux réformes récentes, s’applique tout à fait à notre sujet.
Les critiques ne se firent pas attendre. Les reproches majeurs pointaient du doigt un texte sorti de nulle part et le manque de familiarité avec la langue du nouveau psautier. Chacun s’accordait à y reconnaître un latin que n’aurait pas renié Cicéron, mais qui était très éloigné de la langue des Pères.
Toute personne de formation classique moyenne pouvait désormais comprendre immédiatement le sens des versets, mais il y manquait la poésie et le rythme du beau texte de la Vulgate. On comprenait aussi que l’on troquait un texte séculaire, signe de continuité dans la prière de l’Eglise, pour un texte entièrement neuf.
La conjonction entre la clarté de la langue et le renouvellement de la piété, désir principal du pape, était un échec. Adauget latinitatem, minuit pietatem, tel était, en résumé, l’opinion des commentateurs.
Un autre reproche, à ce qui précède, concerne l’aspect pratique de la nouvelle traduction et les manques de correspondance avec d’autres parties du bréviaire. Des capitules mentionnaient un versait de psaume, mais selon la Vulgate. On avait en outre conservé l’ancienne traduction pour les besoins du chant, notamment dans les antiennes. Or, lorsque l’antienne reprenait un verset du psaume chanté, on lisait deux versions différentes. Voici deux exemples :
Au deuxième nocturne des matines du dimanche, l’antienne du psaume est le premier verset :

Exsurge, Domine Deus, exaltetur manus tua.

Tandis que le psaume commence par :

Exsurge, Domine Deux, extolle manum tuam.

Le second, par contre, illustre mieux cette distorsion. Aux complies du dimanche, pour le psaume 4, l’antienne est le dernier verset du psaume :

In pace in idipsum dormiam et requiescam.

Tandis que le psaume dit :

In pace, simul ac decubui, obdormisco.

Le pape Pie XII fit preuve de sagesse pastorale en encourageant seulement, mais sans l’imposer, la nouvelle traduction. Peu de communautés religieuses ou monastiques l’adoptèrent pour l’Office choral. Par contre, comme nous le disions plus haut, la plupart des clercs achetèrent la nouvelle édition du bréviaire et investirent dans une œuvre éphémère. Certains la gardèrent, d’autre retournèrent vite au texte de la Vulgate. Jean XXIII avait le psautier de Bea en horreur et, dès le début de son pontificat, refusa son utilisation lors des liturgies pontificales. Lorsqu’en 1962, une édition révisée du bréviaire fut publiée, on reprit le texte antique, donnant ainsi un coup de grâce au travail de la Commission.

Que reste-t-il ?

Le travail fourni par les membres de la commission fut énorme. Cela rend d’autant plus triste l’échec de cet épisode, que Grégory di Pippo appelle « l’un des plus insipides du pontificat de Pie XII ».
Qui parle encore aujourd’hui du Psautier de Bea, sinon quelques historiens de la liturgie qui le mentionnent brièvement ? Cette révision n’a même pas été prise en compte par la réforme du Concile.Sacrosanctum Concilium parle d’une révision en cours, et qui doit être menée à bonne fin. Le document fait allusion au travail commencé qui devait mener à la publication de la Néo Vulgate.
La traduction des psaumes de cette dernière est une révision de la traduction de la Vulgate à la lumière du texte hébreu. C’est elle qui a été insérée dans les éditions de 1972 et de 1985 du nouvel Office, Liturgia Horarum.
C’est ainsi qu’un long et minutieux travail est réduit aujourd’hui au rang d’une anecdote. Une question s’impose : malgré les bonnes intentions qui ont présidé à ce projet, ce travail était-il nécessaire ? N’a-ton pas simplement cédé à la mode du moment et, déjà, au mythe du « tout comprendre » ?

Les psaumes sont un trésor de l’Eglise qui a rythmé sa vie de prière au long des siècles. Ils sont connus de ceux qui les récitent chaque jour et du peuple chrétien. Le texte antique de saint Jérôme a accompagné pendant des siècles la Vox Ecclesiae ad Christum et la Vox Christi ad Patrem. Son antiquité et sa poésie n’ont-elles pas aidé, plus que tout autre élément, à la prière et à l’édification dans l’Eglise ? La rapide désuétude dans laquelle est tombé le Psautier de Bea semble le montrent bien. 
On peut formuler la même remarque à propos de la Néo-Vulgate dans Liturgia horarum. Pourquoi, ici aussi, avoir préféré le nouveauté à la continuité ? Même si, dans ce cas, l’édition typique latine était avant tout destinée à la traduction (avec les heurs et les malheurs que l’ont sait) et si peu nombreuses sont les personnes astreintes à l’Office qui utilisent cette version.

Appendice


Psaume I, v. 1

Voici la version de la Vulgate :

Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum et in via peccatorum non stetit et in cathedra pestilentiae non sedit.

Heureux l’homme qui ne suit pas le conseil des impies, qui ne prend pas le chemin des pécheurs et s’assied pas dans le siège de la malice.

Mis à part le mot pestilentiæ, la Vulgate est une traduction littérale du texte de la LXX et du texte hébreu. Les auteurs de la LXX firent preuve d’une certaine liberté dans la traduction du mot hébreu lētsīm (des railleurs) par loimōn (des malsains). La traduction latine originale était encore plus libre, elle traduit loimōn par pestilentiæ. Saint Jérôme n’a pas modifié la version traditionnelle dans sa révision, mais sans sa traduction Iuxta hebræos il parle de cathedra derisorum (le siège des railleurs).

Voici la version du Psautier de Bea:

Beatus vir qui non sequitur consilium impiorum, et in viam peccatorum non ingreditur, et in conventu protervorum non sedet.

Heureux l’homme qui ne suit pas le conseil des impies, qui n’entre pas dans le chemin des pécheurs, ni ne s’assied en compagnie des railleurs.
Sequitur consilium impiorum, et in viam peccatorum non ingreditur exprime le même concept que abiit in consilio et in via peccatorum non stetit, mais d’un style plus classique.
Le passage du parfait au présent n’est pas heureux, car en latin et en hébreu (comme l’aoriste en grec) peut exprimer à la fois une notion récurrente ou une notion générale (l’usage gnomique du temps), ce qui est l’intention du psalmiste. Le mot cathedra, emprunté au grec, a été substitué au latin convenu, en hébreu mōshab (s’asseoir ensemble). Plus parlant encore comme exemple de classicisme, lētsīm est traduit parsuperborum (les orgueilleux). L’adjectif protervus, avec ses dérivés, se retrouve huit fois plus dans les œuvres d’Ovide, et cinq fois plus dans celles d’Horace que dans la traduction de saint Jérôme. En fin de compte, la version finale des LXX, la Vetus latina et l’oeuvre de saint Jérôme sont extrêmement littérales et hébraïsantes, tandis que le Psautier de Bea semble une paraphrase latine.

* * * * * * * * * *

Notes :

1.       BREVIARIUM ROMANUM, ex decreto SS. Concilii Tridentini restitutum. S. Pii V Pontificis Maximi iussu editum aliorumque Pontt. Recognitum cura. Pii Papæ X auctoritate reformatum cum nova versione psalterii Pii Papa XII auctoritate editi.

2.      Pie XII, In cotidianis precibus, 1945.

3.      Ibidem, § 8

I ribaldi di Melk

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Un articolo interessante ed intelligente del giovane Matteo Matzuzzi, autore arguto e graffiante, il quale mostra, con lo stile che gli è proprio, come, in certi ambienti ecclesiastici, un tempo tanto gloriosi, ricchi di storia e testimonianze d'arte e di fede, si siano insediati personaggi assai dubbi. 

È il nuovo corso di una Chiesa "povera". Di spirito. Non di denaro, se fosse accertato che, per gli "esercizi spirituali", di quattro giorni, sia stato riconosciuto un "rimborso spese" di ottomila euro al predicatore, un ex sacerdote, ridotto allo stato laicale, per le sue idee poco ortodosse.

Non diventi la "Chiesa povera" un pretesto per ridurla in "povera Chiesa", ovvero un espediente per spogliare il convento e l'altare e per rivestire i monaci o assecondare certe tendenze degenerative ... .


I ribaldi di Melk


L’abate ultra progressista affida gli esercizi spirituali dei monaci a un teologo sconfessato da Ratzinger e spretato da Wojtyla


Eugen Drewermann, 74 anni, da nove fuori dalla chiesa cattolica. Oracolo vivente per la galassia di riformatori borderline che sognano una chiesa dove tutto è più o meno lecito

Per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno, nove anni fa, aveva salutato più o meno gentilmente la chiesa cattolica. Per sempre. Addio e a mai più arrivederci, aveva detto Eugen Drewermann, prete spretato, sospeso, cacciato e oracolo vivente per tutta quella galassia di riformatori borderline che sognano una chiesa dove tutto è più o meno lecito e dove – magari – si mette perfino in dubbio la parola di Gesù Cristo, cioè dell’unigenito figlio di Dio nato dal Padre prima di tutti i secoli. Tornato ai suoi studi e alle teorie naïf che negli anni Ottanta fecero strabuzzare gli occhi perfino al Joseph Ratzinger prefetto supremo della congregazione per la Dottrinadella fede, Drewermann ha fatto nuovamente parlare di sé nella fatata cornice dell’abbazia di Sankt Lambrecht, un punto immerso nel verde dei boschi della Stiria, nell’Austria profonda e silenziosa. Lì il prete non più prete ha tenuto dal 29 giugno al 2 luglio scorso gli esercizi spirituali a due comunità di monaci benedettini, quella locale e quella ben più celebre di Melk, resa immortale nella letteratura dall’Adso protagonista-narratore del “Nome della Rosa”. 
E’ stato l’abate in persona, l’inflessibile dom Georg Wilfinger, riconfermato dal Capitolo pochi mesi fa per l’ennesimo mandato, a invitare Drewermann perché guidasse le meditazioni della comunità. E pazienza se il suo profilo non sia proprio in linea con l’ortodossia cattolica, se per lui “la convinzione che Gesù abbia fondato una chiesa è grottesca, visto che Cristo non era né cattolico né protestante”. Perfino qualche monaco, tra una lectio divina e una compieta, ha osato far presente al padre abate che forse era meglio lasciar perdere, che non era il caso di invitare a predicare un tipo con idee siffatte. Suppliche messe a tacere in modo tutt’altro che bonario, raccontano per quanto possono benedettini nostalgici degli antichi fasti della millenaria Melk, che con i suoi stucchi e i suoi ori, con i suoi canti in gregoriano innalzati tra le volute d’incenso suscitava impressione a ogni visitatore ricco o povero, portato a contemplare in tutta la sua grandezza il mistero e la gloria divina. Niente da fare, ha risposto Wilfinger, che qualcuno tra i suoi confratelli reputa un po’ troppo mondano per guidare un’istituzione così importante come l’antica abbazia della Bassa Austria fondata nel 1089 dal margravio Leopoldo II: semel abbas semper abbas, un abate è per sempre. Lo dice la Regola, quella di san Benedetto. La croce dorata – che lui rifiuta, preferendone una in pesante ferro battuto – ce l’ho solo io e qui comando io. E così è stato.
Con dom Wilfinger è meglio non discutere, si accalora subito e fa valere l’autorità. In passato s’è messo contro il vescovo di St. Pölten e perfino contro l’eminentissimo principe Christoph von Schönborn, arcivescovo della Vienna cattolica che vende le chiese ormai vuote agli ortodossi e che non sa come tirare avanti. Colpevoli, tutti, di essere troppo fedeli al Magistero romano, di limitare la libertà individuale dei sacerdoti e di essere incapaci di trovare la propria via. Pericolosi reazionari, dunque, che si permettono di giudicare quel povero monaco di Melk che vivrebbe – dicono i bene informati – con una compagna nelle celle dell’abbazia, con tanto di intima alcova riservata. Non è un caso che il padre abate sia un idolo per tutto quel mondo – confuso ma di dimensioni non irrilevanti – che pressa Roma non solo per aggiornare allo Zeitgeist, lo spirito del tempo, l’insegnamento cattolico in fatto di morale, bensì per ribaltarlo, cambiando la dottrina a seconda delle comprensibili mutate esigenze della contemporaneità.
L’imbarazzo tra la comunità ha però continuato a serpeggiare, tanto che qualcuno ha fatto sapere all’esterno che lì dentro a sermoneggiare c’era proprio Drewermann. E l’abbazia prima negava, poi si trincerava dietro il rituale no comment e alla fine confermava. Con orgoglio, smentendo però che all’ospite dell’abate fosse stata corrisposta la cifra di ottomila euro per le quattro giornate di esercizi spirituali: pagate solo le spese di viaggio, assicurano a Melk. Indignato per le polemiche s’è detto padre Jeremia Eisenbauer, tra le guest star della Pfarrerinitiative, l’appello alla disobbedienza da tempo lanciato da Helmut Schüller e da qualche centinaio di parroci austriaci dissidenti e disobbedienti, desiderosi di musealizzare il celibato sacerdotale come anticaglia superata, al pari dei flabelli, della tiara papale e della sedia gestatoria. Eisenbauer, che con l’abate di Melk condivide una più che originale linea pastorale, ha confermato tutto, dal principio alla fine, dall’alfa all’omega: Drewermann è stato a Melk, ha predicato ai monaci, ha illustrato i suoi pensieri. Qualche fedele s’è detto indignato? Il vescovo è stato allertato e messo sul chi va là? La scure della Roma-nuova-Babilonia è già pronta a tagliare teste? E chi se ne importa: “Non ci fanno paura, non siamo una scuola materna e non prendiamo ordini da nessuno; nessuno ci può dire chi invitare e chi no”, ha chiarito padre Jeremia ai media tedeschi. E poi, ha detto ancora, anche “i monaci più anziani, inizialmente scettici, alla fine erano eccitati” per l’esperienza vissuta con Drewermann.
Qualcuno, chi può dirlo, forse s’è pure convertito all’idea che la verginità di Maria, definita per l’appunto Vergine e Madre di Dio, sia una favola, un mito orientale (forse egizio) da cui avrebbero preso spunto Luca e Matteo per i loro Vangeli. Dopotutto, la psicologia del profondo junghiana – vera ispirazione per l’ospite dell’abate Wilfinger – è sensibile a quanto teorizzavano i teosofi ottocenteschi, e cioè l’unità tra i miti antichi e i racconti cristiani, da cui dipenderebbero. Che il concepimento verginale di Gesù da parte di Maria sia verità di fede, poco importa, a quanto pare. “Nelle tradizioni dei popoli si racconta continuamente di nascite verginali e di figli di Dio che vengono dal Cielo”, osservava Drewermann tempo fa. Insomma, questa Maria immacolata e sempre vergine alla fine è diventata una sorta di mito, idealizzata nei suoi manti dorati.
Se padre Jeremia, rimanda al mittente le critiche, qualche cattolico austriaco ancora non ammorbato dalle iniziative dei preti ribelli pronti alle nozze ha però preso carta e penna e ha scritto una lettera di protesta con un unico destinatario: il Palazzo del Sant’Uffizio, e in particolare l’ufficio dove siede e lavora il cardinale prefetto Gerhard Ludwig Müller, colui che il teologo Hans Küng definì una “disgrazia” non appena dal Vaticano fecero sapere al mondo che Benedetto XVI aveva scelto il vescovo di Ratisbona come successore dell’americano William Levada. Una visita a Melk, forse, sarebbe opportuna, scrivono i fedeli al cardinale prefetto. Anche perché, si lascia scappare qualche monaco, il professor Drewermann avrebbe anche celebrato la messa. Nonostante tutte le reprimende, gli avvertimenti e le condanne che gli pendono sulla testa. Nonostante, soprattutto, lui prete non lo sia più. Nel 1991 fu privato, dall’allora vescovo di Paderborn, della licenza per l’insegnamento di Teologia presso il locale seminario (incarico che deteneva dal 1979). L’anno dopo fu sospeso a divinis, quindi ridotto allo stato laicale. Già nel 1986 le tesi dell’allora padre Drewermann – che è anche psicoterapeuta assai apprezzato nel mondo mitteleuropeo, dove ha pubblicato una settantina di libri – furono portate all’attenzione del cardinale Ratzinger, che dopo aver letto la summa del pensiero del professore psicoterapeuta, scrisse preoccupato al vescovo di Paderborn, il futuro cardinale Johannes Joachim Degenhardt, chiedendogli di indagare.
In effetti, Ratzinger aveva più d’un motivo per interessarsi al caso-Drewermann, visto che già allora il sacerdote psicoterapeuta lanciava strali contro la chiesa cattolica incapace – a suo dire – di entrare in contatto con il disagio spirituale delle persone: “Per me sono centrali anche il mantenimento della pace, la difesa dell’ambiente e degli animali. Il pacifismo, il vegetarianesimo e una relativizzazione dei diritti dell’Homo sapiens rispetto alla sopravvivenza degli animali non sono mai stati presi sul serio dalla chiesa”, avrebbe confermato molti anni dopo quel primo confronto ideale con il futuro Benedetto XVI.
A tagliare irrimediabilmente il legame tra lo psicoterapeuta e Roma fu la sua opera più nota, “Funzionari di Dio: psicogramma di un ideale” seicentosessantaquattro pagine che si ripromettono di far luce sulla formazione e le funzioni sacerdotali alla luce della psicologia del profondo. La tesi è che chi va in Seminario lo fa per fuggire la propria sessualità, cercando rifugio nell’odiato apparato-chiesa, ridotto a una sorta di nido. Pieno d’insidie però, visto che determinerebbe nei sacerdoti novelli una nevrosi dovuta allo studio indefesso matto e disperatissimo degli elementi fondamentali della dottrina cattolica. Tutta roba che sarebbe da eliminare, scrive l’autore.
“E’ grave – diceva qualche anno fa in un’intervista al periodico tedesco Publik-Forum e ripresa a suo tempo dall’agenzia Adista– la schizofrenia che il dogma ecclesiale provoca consapevolmente”, e cioè “che l’interpretazione della Bibbia e dei contenuti della fede cristiana non deve essere fatta a livello simbolico, ma soltanto ideologico, nel senso di dogmi oggettivi o fatti storici”. E poi, spiegava ancora Drewermann, fa ridere e sconcerta che “l’illuminismo filosofico del XVIII secolo” non abbia ancora raggiunto Roma, il Vaticano, la chiesa cattolica. A dire il vero, non l’ha raggiunto neppure l’illuminismo psicologico.
Basti guardare al fenomeno degli esorcismi, ai moniti sulla presenza del male, del Diavolo tentatore, principe di questo mondo e così spesso citato anche dal Papa Francesco. Superstizioni da Medioevo e nulla più: “Solo sotto il pontificato di Givanni Paolo II, in Vaticano hanno avuto luogo trentamila esorcismi. Come si può leggere il messaggio di Gesù in modo terapeutico, se la psicologia delle persone diventa una demonologia della carne? Così non si rende giustizia alla Bibbia e alla fede”. Bibbia che, tra l’altro, in nome della esegesi moderna, sarebbe più o meno un insieme di simboli anziché un racconto storico. Alla fine, osserva Drewermann, “non rimane che una scelta: o credere in modo ingenuo e conforme al sistema, o scivolare in modo illuminato nell’incredulità”. Il fatto è che la chiesa romana altro non vuole che “la superstizione, l’alienazione, l’arrendevolezza, la dipendenza”. Per meglio manipolare i fedeli, gli adepti, naturalmente, visto che “le richieste di Gesù si trovano in un rapporto grottesco rispetto al comportamento della chiesa romana”. E poi, “è un errore totale delegare la soggettività, che appartiene alla fede, a determinate formule e riti della chiesa”.
Una via di salvezza per il cattolicesimo ci sarebbe, però. Basterebbe prendere spunto da Lutero: “Per diventare cristiana, Roma deve imparare ad assimilare le richieste della Riforma”. Concilii, sinodi, assemblee lasciano il tempo che trovano, spiega Drewermann: “C’è stata solo una Riforma, quella del 1517. Tre anni dopo, il riformatore Lutero si recò alla dieta di Worms e dichiarò: ‘Io sto qui come persona, e dico quello che vedo, penso, sento e credo’. Punto! Così iniziano le riforme. Non organizzando maggioranze. Non vi è alcun cristianesimo senza la libertà della vita individuale! Il mio problema è che nessuno può aspettare che un’autorità romana gli consenta o meno di vivere la sua vita”. Di mezzo, ça va sans dire, la questione del celibato sacerdotale: “Che uno si debba separare o no o che sposi un’altra donna non può dipendere dalla capacità di comprensione di Roma. Deve saperlo da sé”. Si comprende bene, allora, perché i primi a scendere in piazza contro la sua sospensione a divinis e conseguente riduzione allo stato laicale siano stati gli aderenti al movimento transnazionale progressista “Noi siamo chiesa”, capeggiato da Martha Heizer, la professoressa in pensione di Innsbruck recentemente scomunicata assieme al marito perché rea d’aver celebrato messa nel proprio salotto, tra credenze e divani, davanti a un pubblico di compaesani commosso dall’evento. Per difendersi dalla scomunica, Heizer ha fatto sapere che alle sue messe partecipava pure il vecchio parroco. Naturalmente, essendo defunto, non può confermarlo.
Follie, direbbe il Drewermann che detesta i dogmi e dice d’avere “comprensione per chi fa la comunione anche se ufficialmente non potrebbe”. Lui però non ha ceduto, non s’è accostato al sacramento dopo le punizioni romane. Non per intima convinzione, sia chiaro, ma solo perché “ero un personaggio pubblico di questa chiesa” e “in qualche modo dovevo prendere sul serio questo sistema chiesa”. E l’addio al cattolicesimo come regalo che s’è fatto per il sessantacinquesimo compleanno? “Quella è stata una notifica di pensionamento. Per ricevere la mia miserabile pensione, ho dovuto sottoscrivere una dichiarazione, in cui affermavo che non avrei mai più esercitato il mio sacerdozio. E così io adesso non dovrò mai più rappresentare ciò in cui non mi sento più rappresentato. Vorrei questa libertà per ciascuno”. Anche la libertà, magari, di valutare l’emigrazione in altri lidi confessionali più consoni alle proprie inclinazioni: “Gli evangelici? Affermano molte cose che per me sono essenziali, a cominciare dal riconoscimento dell’assoluta necessità della grazia per tutte le questioni di morale e giustizia”. Alla fine, però, neanche lì Drewermann ha trovato l’habitat ideale per le sue ricerche e meditazioni: “E’ semplice essere membri di una istituzione, ma diventare cristiani è qualcosa d’altro”.

Il New York Times smonta la ricostruzione del card. Kasper

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Douthat, columnist del Nyt, fa a pezzi la dottrina Kasper sul divorzio

Altro che proposte blande e misericordia: “La posta teologica in palio”, contrasta con il “tradizionale insegnamento”


“Per ragioni teologiche, sociologiche e semplicemente logiche, ammettere i risposati alla comunione ha la potenzialità di trasformare non solo l’insegnamento cattolico e la vita cattolica, ma il modo stesso in cui viene percepita la chiesa. Questa è la vera posta in palio; questi sono i termini sui quali è necessario dibattere”. A parlare non è un tradizionalista della lefebvriana Econe, bensì è il columnist del liberal New York Times, il cattolico Ross Douthat. Lascia da parte, Douthat, le dotte argomentazioni storiche e teologiche – per questo, dice, basta e avanza quanto ha scritto “il gruppo dei domenicani americani” sulla rivista Nova et Vetera (cfr. il Foglio24/7), e si sofferma sulle frasi contenute nell’intervista concessa lo scorso maggio dal cardinale Walter Kasper a Commonweal. In quella circostanza, il porporato tedesco insisteva sulla necessità di trovare una via tra il “rigorismo e il lassismo” che concedesse una seconda possibilità ai divorziati risposati desiderosi di accedere all’eucaristia.
“Se un divorziato risposato è realmente dispiaciuto per il fallimento del proprio matrimonio”, notava Kasper, “possiamo noi rifiutare il sacramento della confessione e della comunione, dopo un periodo di penitenza?”. Di mezzo ci sono i bambini, che non crescerebbero come buoni cristiani se non vedessero i propri genitori andare a messa e comunicarsi come si dovrebbe. Pazienza se Müller e altri eminentissimi teologi hanno ricordato che non sta scritto da nessuna parte che ricevere la comunione è un obbligo. Se a ricevere l’ostia non ci vanno mamma e papà, non ci andranno neppure i figli, è la tesi. Per Douthat, si tratta di considerazioni dove “la posta teologica in palio e il potenziale conflitto con il tradizionale insegnamento della chiesa sono minimizzati e/o spazzati via”. Kasper parte dal presupposto che si sta parlando di una eccezione che in alcun modo minaccerebbe la regola fondata sul Vangelo. Andando a scavare dietro le frasi, però, il quadro che emerge è un altro: “Ciò che Kasper propone differisce dallo scenario in cui un sacerdote, a titolo personale, può decidere di propria iniziativa di dare la comunione a un risposato. Questa possibilità esiste già”, dice Douthat, sottolineando che ben altra cosa è ciò che raccomanda Kasper: non si tratta di concedere “un certo grado di tolleranza per chi ha deviato dalla regola, bensì di dare il permesso formale di abbandonare tale regola”. Il tutto garantito “da un organo ufficiale della chiesa, con un imprimatur papale”, cui (tutti) i sacerdoti sarebbero costretti ad adeguarsi.
Il teologo tedesco assicura che si tratterebbe d’un percorso stretto, riservato a “piccoli settori di divorziati risposati interessati ai sacramenti”. Non di certo alle “grandi masse”, né  si potrebbe parlare di una “soluzione generale”. E chi lo dice che sarà così?, si domanda Douthat; quali strumenti ha, Kasper, per dire che il percorso sarà limitato, a numero chiuso? Semmai, scrive il columnist del New York Times, è più logico aspettarsi che la soluzione sia “estesa alle grandi masse in tempi abbastanza rapidi”, con tutto quello che ne consegue.
Basti ricordare che la chiesa ha già una procedura che regolamenta tali situazioni, il processo di nullità matrimoniale, “limitato alle persone che hanno un forte interesse nel ricevere i sacramenti dopo aver divorziato ed essersi risposati”. Si supponga – prosegue – che accanto a questa procedura se ne istituisca un’altra, più rapida. Senza scartoffie e tribunali di mezzo. La conseguenza, inevitabile, è che molti smetterebbero di seguire la via canonica, preferendo la soluzione più facile: “Con la proposta di Kasper, è vero che i secondi matrimoni non sarebbero benedetti dalla chiesa, ma ci sarebbero molte persone che direbbero ‘bene, ora no, ma forse un giorno, chi lo sa’. Io farei così”, ammette Douthat. E alla fine, la stragrande maggioranza dei divorziati risposati interessati a ricevere i sacramenti, busserebbe alle porte delle chiese per farsi dare la comunione. Certo, “i sacerdoti potrebbero studiare attentamente ogni caso, potrebbero limitare il numero di persone da ammettere a questo percorso”. Ma è più probabile, nota ancora nel suo blog sul New York Times, che si assisterebbe a una “rapida normalizzazione del nuovo approccio. Naturalmente non in ogni parrocchia o diocesi, ma in un numero abbastanza rilevante da stabilire un nuovo modello, una norma diffusa e generalmente accettata”. E il risultato sarebbe solo uno: “Quasi tutti i divorziati risposati potrebbero ragionevolmente aspettarsi di avere la possibilità di risposarsi e riaccostarsi all’eucaristia con la formale benedizione della chiesa”. Questo rafforzerebbe, come dice Kasper, l’attaccamento alla chiesa di molti cattolici. I bambini vedrebbero i loro genitori confessarsi e comunicarsi. Ma – scrive Douthat – “penserebbero che la loro chiesa, alla fine, non ritiene indissolubile il matrimonio, o che le parole di Gesù sulla questione non sono vincolanti, come il cattolicesimo ha fino a oggi creduto e insegnato”.
E poi, per quale motivo si pensa a regolare il secondo matrimonio e non “i matrimoni poligami, dove i bambini sono ugualmente coinvolti?”. Certo, prosegue il columnist, la poligamia non è tra le questioni più impellenti nella Germania di Kasper. Ma lo è in Africa, il principale campo d’azione missionaria della chiesa e dove la definizione stessa di matrimonio “è violentemente contestata, non tra cristianesimo e liberalismo, ma tra cristianesimo e islam”. C’è qualcosa, nella proposta di Kasper, “che implicherebbe la necessità di una soluzione simile nelle unioni poligame? Se la chiesa non chiede l’eroismo dei cattolici risposati nei paesi ricchi, come può prendere una dura posizione contro la poligamia?”. Douthat non si fa illusioni, sa “che nella visione di molti, la chiesa cattolica necessita disperatamente di evolversi lungo la linea della modernità sessuale”. Una cosa, però, è altrettanto certa: “La proposta-Kasper non è una piccola modifica alla disciplina cattolica: è un cambiamento profondo, un’alterazione da cui deriverebbero conseguenze ancora più vaste”.

Un nuovo testo, in edizione francese, di Mons. Schneider, con prefazione del card. Burke

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Su gentile segnalazione, volentieri pubblico la prefazione di S.Em.za il card. Burke ad un testo, in edizione francese, di S. Ecc.za Mons. Schneider, afferente il tema della Comunione sulla mano, quale inizio e culmine dell'odierna crisi della Chiesa.
Del resto, anche noi avevamo segnalato qualche mese fa come i Santi ed i fedeli ricevessero la S. Comunione; modalità ben diversa da quella attuale .... .
Si tratta, dunque, di un testo estremamente attuale e meritevole di attenta lettura e riflessione.

POUR LE RETOUR À LA MANIÈRE TRADITIONNELLE DE COMMUNIER

Lors du dernier pèlerinage Summorum Pontificumà Rome, en octobre 2013, Mgr Schneider avait présenté son dernier ouvrage aux pèlerins de langue italienne. Ce livre, sorti aux Éditions Vaticanes et intitulé Corpus Christi, fait suite à Dominus est dont les éditions Tempora publièrent en 2008 la traduction française. Après avoir insisté, dans Corpus Christi, sur la présence réelle de Notre Seigneur Jésus-Christ dans la sainte Eucharistie et le respect qui lui est dû, Mgr Schneider, plaide aujourd’hui, avec encore plus de vigueur et clarté, pour l’abandon de la pratique de la communion dans la main, née comme une tolérance, un indult, mais qui s’est abusivement généralisée et est devenue la « règle » depuis les années 70, selon un processus bien connu de la subversion des normes. 

Renaissance catholique, qui publie la version française de ce petit (116 pages) mais précieux ouvrage de Mgr Schneider aux éditions Contretemps, a tenu à demander au cardinal Burke, Préfet du Tribunal de la Signature apostolique, une préface spécifique pour cette édition française. Mgr Schneider et le cardinal Burke, qui l’appuie ainsi de tout son autorité morale, se placent courageusement dans la ligne de Mgr Juan Rodolfo Laise, alors évêque de San Luis en Argentine, qui avait écrit un livre sur ce sujet, La communion dans la main. Documents et histoire, publié en français par le Centre International d’Études Liturgiques (1999).

C’est le texte de cette préface que nous vous proposons cette semaine en vous invitant chaleureusement à vous procurer le livre de Mgr Schneider et à en faire la promotion dans vos paroisses.

Corpus Christi – La communion dans la main au cœur de la crise de l’Église,
Éditions Contretemps pour Renaissance catholique Publications,
116 pages, 13 euros.
En vente sur le site de Renaissance catholique ou sur demande au 01 47 36 17 36.


Préface du cardinal Raymond Leo Burke

pour l’édition française du livre de

Mgr Athanasius Schneider,
Corpus Christi – La communion 
dans la main au cœur de la crise de l’Église

Rien n’est plus important dans la vie d’un catholique que la sainte Eucharistie. Le décret sur la vie et le ministère des prêtres du IIe concile du Vatican, s’inspirant d’un texte de saint Thomas d’Aquin, déclarait : « La sainte Eucharistie contient tout le trésor spirituel de l’Église, à savoir le Christ Lui-même, notre Pâque, le Pain vivant, Lui dont la chair, vivifiée et vivifiant par l’Esprit Saint, donne la vie aux hommes, les invitant et les conduisant à offrir, en union avec Lui, leur propre vie, leur travail, toute la création. » (1) Ce même texte continue ainsi : « On voit donc alors comment l’Eucharistie est bien la source et le sommet de toute l’évangélisation : tandis que les catéchumènes sont progressivement conduits à y participer, les fidèles, déjà marqués par le baptême et la confirmation, trouvent en recevant l’Eucharistie leur insertion plénière dans le Corps du Christ » (2).

La sainte Eucharistie est le mystère par excellence de la Foi. À travers l’action de la sainte Messe, le Christ, assis en gloire à la droite du Père, descend sur les autels des églises et des chapelles du monde entier pour rendre à nouveau présent son sacrifice sur le Calvaire, sacrifice unique par lequel l’homme est sauvé du péché et parvient à la vie dans le Christ grâce à l’effusion du Saint-Esprit. C’est par la sainte Eucharistie que la vie quotidienne d’un catholique reçoit à la fois inspiration et force. 

Uni de cœur avec le Christ dans le sacrifice eucharistique, le catholique fervent est appelé à n’être qu’un avec Lui à chaque instant de chacune de ses journées, portant la Croix et participant ainsi au travail incessant et sans prix de son Amour pur et généreux pour tous les hommes, au-delà de toute frontière. Recevant du Cœur Eucharistique de Jésus l’aliment céleste de son Corps, de son Sang, de son Âme et de sa Divinité, nous sommes fortifiés pour vivre de façon extraordinaire les circonstances ordinaires de la vie quotidienne. C’est pourquoi, au-delà de l’obligation grave de participer chaque dimanche au Saint Sacrifice de la Messe, les catholiques sont invités à participer à la sainte Messe tous les jours, lorsque cela est possible (3).

À partir du moment où l’on a compris la réalité de la sainte Eucharistie – c’est-à-dire, qu’il s’agit du Corps, du Sang, de l’Âme et de la Divinité du Christ donnés à l’homme comme pain céleste pour le soutenir spirituellement dans son pèlerinage terrestre et comme gage de sa destinée aux noces célestes de l’Agneau (Ap XIX, 9), – l’on commence aussi à comprendre la profonde révérence qu’il faut pour traiter et recevoir la sainte Eucharistie. Ainsi, au long des siècles, les fidèles ont fait la génuflexion en arrivant devant le Saint Sacrement et se sont agenouillés en adoration devant la Présence Réelle de Notre Seigneur dans la sainte Eucharistie. De la même façon, sauf circonstances extraordinaires, seul le prêtre ou le diacre touchait la sainte Hostie ou le calice contenant le Précieux Sang. Une des impressions les plus frappantes de mon enfance est cette grande délicatesse envers le Saint Sacrement que m’ont enseignée mes parents, notre curé et les religieuses de nos écoles catholiques. Je me souviens particulièrement des avertissements minutieux qui m’ont été donnés, avant d’être admis à aider le prêtre comme servant de messe, sur la révérence due à la Présence Réelle.

Les signes de Foi eucharistique se manifestaient également dans la beauté de l’architecture et de l’ameublement des églises et des chapelles, dans la qualité des ornements, vases et linges servant au sacrifice eucharistique, et dans la langue et la musique spéciales – ou plutôt sacrées – employées dans le Culte divin. Dans l’attention réservée au Corps et au Sang du Christ, l’Église s’est toujours souciée d’imiter davantage l’exemple de Marie, sœur de Lazare, qui a oint Jésus avec de l’huile très précieuse juste avant sa Passion et sa Mort. Alors que Judas le traître contestait ce geste de profonde vénération et d’amour, comme un gaspillage de ressources qui auraient pu être utilisées pour s’occuper des pauvres, Notre Seigneur répondit que Marie avait agi d’une manière juste et noble, témoignant de la révérence à son Corps, qu’il devait sacrifier pour accomplir le salut éternel du genre humain (Jn XII, 1-8).

Dans ce sens, j’ai toujours été très inspiré par l’exemple de saint François d’Assise qui a pratiqué les plus grandes austérités dans sa vie religieuse de consacré, tout en insistant pour que le plus grand soin fût apporté à honorer le Saint Sacrement, même de façon somptueuse, et à n’utiliser que les matériaux les plus précieux pour le culte eucharistique. Saint François n’a pas hésité à avertir les prêtres (que leur office oblige d’abord à rendre honneur au Très Saint Sacrement), à propos de leurs manques d’égard envers cette réalité sacrée entre toutes (4).

Parmi tous les riches aspects de la Foi et de la pratique eucharistiques, primordiale est certainement la manière dont les fidèles reçoivent le Corps du Christ dans la sainte Communion. Au moment de la sainte Communion, le fidèle, bien conscient de son indignité et se repentant de tous ses péchés, se présente devant le Seigneur qui, dans son amour sans fin et sans mesure, offre son Corps comme aliment céleste pour que nous le recevions. Je me rappelle bien, dans mon enfance, la diligence dont faisaient preuve mes parents, ainsi que les prêtres et les religieuses de l’école catholique, pour préparer les enfants à recevoir pour la première fois la sainte Communion. Je me souviens aussi des fréquents rappels à la révérence et à l’amour qu’il nous fallait démontrer en recevant la sainte Communion et en faisant notre action de grâces immédiatement après la réception du sacrement.

À l’époque de ma Première Communion, le 13 mai 1956, la sainte Hostie se recevait à la Sainte Table, sur les lèvres et à genoux, les mains recouvertes d’une nappe. Cette manière de recevoir la sainte Communion m’a toujours frappé comme étant l’expression la plus haute de l’enfance spirituelle enseignée par Notre Seigneur (MtXVIII, 1-4), et dont sainte Thérèse de Lisieux est lune des figures les plus remarquables (5). À cette même époque de ma vie, mon père était gravement malade et il devait rester alitéà la maison : il mourut au mois de juillet 1956. Je me rappelle la grande préparation et l’attention qu’il manifestait chaque fois que le prêtre venait lui porter la sainte Communion. L’on dressait une petite table à côté de son lit avec un crucifix, des cierges et une nappe spéciale. L’on accueillait le prêtre en silence à la porte avec un cierge allumé et, même si mon père ne pouvait pas se lever, tous restaient à genoux pendant la cérémonie. 

Des années plus tard, en mai 1969, la pratique de recevoir la Communion dans la main a été autorisée, au jugement des Conférences épiscopales, en parallèle avec la pratique multiséculaire de recevoir la communion directement sur les lèvres (6). L’un des arguments avancés pour introduire cette deuxième option était l’existence d’un usage antique de recevoir la sainte Communion dans la main (7). Dans le même temps, l’instruction de la Congrégation pour le Culte Divin, qui permettait la pratique de la réception de la sainte Communion dans la main, soulignait le fait que la tradition multiséculaire de recevoir la Communion sur la langue devait être préservée en raison du respect des fidèles envers la sainte Eucharistie qu’exprime cette pratique (8). En ce sens, il est intéressant de noter que le Pape Paul VI (durant le pontificat duquel la permission de recevoir la sainte Communion dans la main a été donnée), dans sa lettre encyclique Mysterium Fidei sur la doctrine et le culte du Très Saint Sacrement promulguée quatre années avant la concession de cette permission, se réfère à un usage antique des moines vivant dans la solitude, ainsi que des chrétiens persécutés, selon lequel ils prenaient la sainte Communion avec leurs propres mains. Néanmoins, le Pape ajoute aussitôt que cette référence à un usage d’autrefois ne remet pas en question la discipline qui s’est répandue par la suite concernant la manière de recevoir la sainte Communion (9).

La pratique traditionnelle est mieux comprise à la lumière de l’herméneutique de la réforme dans la continuité, opposée à l’herméneutique de la discontinuité et de la rupture, dont a parlé le Pape Benoît XVI dans son discours de Noël 2005 à la Curie romaine. Dans l’herméneutique de la continuité, l’unique Église « grandit dans le temps et (…) se développe, restant cependant toujours la même. » (10) Ainsi, la pratique traditionnelle de recevoir la sainte Communion manifeste-t-elle une croissance et un développement tant de la Foi eucharistique que de l’expression de révérence envers le Très Saint Sacrement. L’on pourrait dire par rapport à la manière traditionnelle de communier ce que le Pape Benoît XVI disait par rapport à l’Adoration eucharistique dans son Exhortation Apostolique post-synodale Sacramentum Caritatis : « L’Adoration eucharistique n’est rien d’autre que le développement explicite de la célébration eucharistique, qui est en elle-même le plus grand acte d’adoration de l’Église. » (11)

Malheureusement, l’entreprise de rétablissement de l’antique usage survint précisément à un moment où de nombreux abus liturgiques avaient gravement diminué la révérence et la dévotion dues au Saint Sacrement. En outre, l’époque était à une sécularisation et à un relativisme croissants, dont les effets furent dévastateurs dans l’Église. Qui plus est, la “restauration” de cette pratique fut incomplète, puisqu’elle se borna à la réception de la Communion dans la main sans toutefois incorporer les autres détails très riches de l’usage antique. À la suite de cela, la réception de la sainte Communion est devenue l’occasion de négligences – voire même d’irrévérences effectives – et, dans quelques cas particulièrement déplorables, le Saint Sacrement reçu dans la main n’est pas consommé mais au contraire soumis à des formes d’abus, jusqu’au cas extrême où des personnes emportent le Corps du Christ pour Le profaner plus tard au cours d’une « messe noire ». Dans ma propre expérience pastorale, les cas où la sainte Hostie est laissée dans un livre de chants ou en d’autres endroits, ou même emportée à la maison pour la dévotion privée – cela me déplaît de devoir le signaler –, n’ont pas été rares. Il est également attristant d’avoir vu assez fréquemment des communiants arracher littéralement l’Hostie de mes mains plutôt que de recevoir le Corps du Christ de manière convenable. 

Mgr Athanasius Schneider, pasteur d’âmes exemplaire, a fait face avec un amour courageux à la situation actuelle quant à la réception de la sainte Communion dans le rite romain. Puisant en sa propre et riche connaissance de la foi et de la pratique eucharistiques en un temps de persécution dans son pays natal, il a été poussé à étudier en profondeur cet antique usage de recevoir la sainte Communion dans la main, ainsi que son actuelle restauration. De façon claire et soignée, il explique le soin qu’avait la pratique antique d’éviter tout ce qui peut suggérer l’auto-communion – en soulignant l’aspect infantile de la Communion – ; et d’empêcher que même une seule parcelle ne soit perdue, et ainsi sujette à profanation. Il décrit aussi brièvement les étapes de l’introduction de l’usage actuel, qui diffère de manière importante de la vieille pratique de l’Antiquité.

Il présente ensuite soigneusement les conséquences les plus graves de la pratique actuelle de réception de la communion dans la main : 1) la réduction ou la disparition de tout geste de révérence et d’adoration ; 2) l’emploi pour la réception de la sainte Communion d’un geste habituellement utilisé pour la consommation des aliments ordinaires, d’où résulte une perte de Foi en la Présence Réelle, surtout parmi les enfants et les jeunes ; 3) la perte abondante de parcelles de la sainte Hostie et leur profanation consécutive, surtout en l’absence de plateau lors de la distribution de la sainte Communion ; et, 4) un autre phénomène qui se répand de plus en plus : le vol des saintes Espèces. 

Prenant en considération toutes ces conséquences, Mgr Schneider dit à bon droit que la justice, – c’est-à-dire le respect du droit du Christ d’être reçu dans la sainte Communion avec la révérence et l’amour convenables, et de celui des fidèles de recevoir la sainte Communion d’une manière qui exprime au mieux l’adoration révérencielle, – exige que la pratique actuelle concernant la réception de la sainte Communion dans le rite romain soit sérieusement étudiée en vue d’une réforme dont le besoin se fait lourdement sentir.

Un aspect tout à fait impérieux de la présentation de Mgr Schneider regarde le droit du Christ, le ius Christi. En nous rappelant l’humilité totale de l’amour du Christ qui se donne à nous dans la petite Hostie, fragile par nature, Mgr Schneider nous remet à l’esprit la grave obligation de protéger et d’adorer Notre Seigneur. En effet, dans la sainte Communion, il se fait, en raison de son amour incessant et incommensurable pour l’homme, le plus petit, le plus faible, le plus délicat d’entre nous. Les yeux de la Foi reconnaissent la Présence Réelle dans les parcelles, même les plus petites, de la sainte Hostie et nous conduisent ainsi à l’Adoration amoureuse. 

Il ne me reste qu’à remercier Mgr Athanasius Schneider pour sa minutieuse étude de la question de la réception de la sainte Communion, expression prééminente de la foi eucharistique. Son étude est remplie du plus profond amour de Jésus Eucharistie, amour dans lequel il a été formé à une époque où l’Église était sous le coup de la persécution dans son pays. J’espère que l’étude présentée par ce volume inspirera une Foi eucharistique toujours plus profonde et plus ardente chez le lecteur. J’espère aussi que ce livre servira d’occasion pour renouveler le mode de réception de la sainte Communion, discipline qui dispose le communiant à reconnaître pleinement le Corps, le Sang, l’Âme et la Divinité du Christ et, ainsi, à recevoir Jésus Eucharistie avec une révérence et une adoration amoureuses. C’est dans cette réception révérencielle et amoureuse de Notre Seigneur dans la sainte Communion que nous devons puiser la force de transformer et renouveler nos vies personnelles et notre société, avec la force de l’Évangile, comme le faisaient les premiers chrétiens.

Puisse l’étude du livre de Mgr Schneider amener les fidèles, au moment de la sainte Communion, à reconnaître la Présence Réelle du Seigneur ressuscité et à faire leurs les paroles de saint Jean l’Évangéliste à saint Pierre, lorsque le Seigneur ressuscité apparut aux disciples sur les bords du lac de Tibériade au cours de la pêche miraculeuse : « C’est le Seigneur ! » (Jn XXI, 7). 

Raymond Leo Cardinal BURKE

Rome, le 7 juin 2014, Vigile de la Pentecôte

(1) « In Sanctissima enim Eucharistia totum bonum spirituale Ecclesiae continetur, ipse scilicet Christus, Pascha nostrum panisque vivus per Carnem suam Spiritu Sancto vivificatam et vivificantem vitam praestans hominibus, qui ita invitantur et adducuntur ad seipsos, suos labores cunctasque res creatas una cum Ipso offerendos. » Concile œcuménique Vatican II, Décret Presbyterorum Ordinis, « De Presbyterorum ministerio et vita », 7 décembre 1965, Acta Apostolicae Sedis 58 (1966), 997, n. 5. Traduction française : «Concile Vatican II. Les Documents » (Paris, Médiaspaul, 2012), p. 361, n. 5.

(2) « Quapropter Eucharistia ut fons et culmen totius evangelizationis apparet, dum catechumeni ad participationem Eucharistiae paulatim introducuntur, et fideles, iam sacro baptismate et confirmatione signati, plene per receptionem Eucharistiae Corpori Christi inseruntur. » Ibid., 997, n. 5. Traduction française : Ibid., p. 361, n. 5.

(3) Pie XII, Lettre encyclique Mediator Dei et hominum, « De Sacra Liturgia », 20 novembre 1947, Acta Apostolicae Sedis 39 (1947), pp. 564-565; et Paul VI, Lettre encyclique Mysterium Fidei, «De doctrina et cultu SS. Eucharistiae », 3 septembre 1965, Acta Apostolicae Sedis 57 (1965), 771.

(4) « Epistola ad Clericos », Fontes Franciscani, ed. Stefano Brufani, Enrico Menestò et al. (Assisi: Edizioni Porziuncula, 1995), pp. 59-60 (Recensio prior) et 60-61 (Recensio posterior).

(5) Sainte Thérèse de l’Enfant-Jésus et de la Sainte-Face, Œuvres complètes (Paris, Les Éditions du Cerf et Desclée De Brouwer, 1992), pp. 219-221. 

(6) Sacrée Congrégation pour le culte divin, Instruction Memoriale Domini celebrans, « De modo Sanctam Communionem ministrandi », 29 mai 1969, Acta Apostolicae Sedis 61 (1969), 541-547.

(7) Ibid., 542.

(8) Ibid., 543.

(9) Paul VI, Lettre encyclique Mysterium Fidei, « De doctrina et cultu SS. Eucharistiae », 3 septembre 1965, Acta Apostolicae Sedis 57 (1965), 770.

(10) « … cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, … » Benoît XVI, discours « Ad Romanam Curiam ob omina », 22 décembre 2005, Acta Apostolicae Sedis 98 (2006), 46. 

(11) « … adoratio eucharistica non est aliud quam evidens beneficium eucharisticae Celebrationis, quae in se ipsa est Ecclesiae actio adorationis maxima. » Benoît XVI, Exhortation apostolique post-synodale Sacramentum caritatis, « De Eucharistia vitae missionisque Ecclesiae fonte et culmine », 22 février 2007, Acta Apostolicae Sedis 99 (2007), 155, n. 66.

Non tutti gli islamici perseguitano i cristiani nel "califatto di Mosul" ....

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Abbiamo già suggerito nei giorni scorsi un'invocazione di preghiera alla Vergine Maria, Regina di Palestina, a favore delle popolazioni innocenti e sofferenti di Gaza e, soprattutto, per i cristiani perseguitati dagli islamici del Califatto di Mosul, da recitarsi il 1° agosto, giornata di preghiera, e che ha trovato a livello locale anche alcuni riscontri significativi.
Oggi apprendiamo che non tutti gli islamici hanno aderito alla campagna di odio nei confronti delle inermi popolazioni cristiane di quelle antiche terre, che per prime conobbero la Rivelazione di Dio. Anzi, alcuni di questi sono stati uccisi e frustati. Anche se non cristiani, pur'essi possono definirsi tali in spirito. A questi islamici generosi e sprezzanti del pericolo che corrono va la nostra ammirazione e riconoscenza.

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I sedici ulema uccisi a Mosul per aver difeso i cristiani, l’imam frustato in piazza e altre storie di musulmani perseguitati dallo Stato islamico

Leone Grotti

Come vivono il fanatismo del califfo Al Baghdadi i musulmani di Iraq e Siria? Camille Eid: «Alcuni protestano pagando con la vita, la maggior parte tace»


I fanatici dello Stato islamico, dopo essersi insediati a Mosul proclamando il califfato, hanno dato il via a una sistematica persecuzione dei cristiani, culminata nella cacciata di questi dalle loro case. Le massime cariche istituzionali della Chiesa e degli organismi internazionali hanno condannato questa condotta, ma come hanno reagito i musulmani moderati? «Dipende», dichiara a tempi.it Camille Eid, scrittore e giornalista libanese. «Alcuni hanno protestato, pagando con la propria vita, altri hanno preferito restare in silenzio».
Chi si è opposto?
Innanzitutto 16 ulema sunniti che appartengono a confraternite sufi di Mosul, il ramo più spirituale dell’islam. La notizia della loro uccisione è uscita circa un mese dopo la presa della città da parte dello Stato islamico (e secondo l’Onu sono stati uccisi tra il 12 e il 14 giugno, ndr). Alcuni di loro sono stati uccisi ancora prima che venissero emanati gli editti contro i cristiani perché si erano opposti all’interpretazione radicale dell’islam seguita da questi terroristi. Tra loro ci sono gli imam della Grande moschea della città, Muhammad al-Mansuri, e quello della moschea del Profeta Giona, Abdel-Salam Muhammad.

Ce ne sono altri?
Un docente di legge (che lavora nel dipartimento di Pedagogia dell’università di Mosul, ndr), Mahmoud Al ‘Asali, che si è ribellato alle azioni persecutorie contro i cristiani. È stato davvero coraggioso. Altri, magari, pensavano che questi terroristi non facessero davvero sul serio.
Cioè?
Lo sceicco Muhammad Al Badrani, imam sufi, ha ricevuto 70 frustate come punizione per aver ripetuto dal minareto della moschea Al Kawthar lodi “aggiuntive” al Profeta prima dell’appello alla preghiera. Era già stato avvertito di smettere e forse non li ha presi sul serio. Allora lo hanno trascinato davanti al tribunale e gli hanno dimostrato che non scherzano. Ma non hanno problemi a punire anche uccidendo.
Come si spiega questi gesti di grande coraggio?
Non dico che Mosul abbia alle spalle una storia ideale di convivenza, però quanto meno il suo pluralismo è conosciuto da secoli. È stata una città con una composizione di etnie e religioni molto variegata. C’erano i cristiani siri, caldei, armeni; i musulmani sunniti, sciiti, sunniti sufi, yazidi. Poi i curdi, i turkmeni e anche una comunità ebraica fino agli anni Cinquanta. La convivenza di questi gruppi ha prodotto una tolleranza reciproca e molti si sono opposti alla sua distruzione. Anche i cristiani all’inizio sono stati ingannati, perché i terroristi hanno dato loro l’impressione che se fossero rimasti tranquilli avrebbero potuto continuare a vivere nella città. Non era così.

A Baghdad si è vista una piccola manifestazione di sostegno musulmano ai cristiani.
Non è stata una cosa organizzata. Si tratta di giovani musulmani che hanno voluto esprimere la loro vicinanza ai cristiani scrivendo sulle magliette “Io sono iracheno, sono cristiano” e anche “Siamo tutti cristiani”. Poi si è trasformata in una campagna Twitter. Questa è stata un’idea geniale che risponde alla richiesta del patriarca Sako, che ha invocato dai musulmani gesti di vicinanza concreti, non parole. Ha chiesto: dove siete voi musulmani moderati?
Il gesto di questi musulmani è isolato?
Purtroppo la maggior parte dei musulmani tace. Io capisco quelli che vivono nelle zone dove governa lo Stato islamico e che rischierebbero la vita. Però mi chiedo: il grande imam della moschea di Al Azhar in Egitto perché non parla? Che paura puoi avere se ti trovi al Cairo? Molti non parlano contro le crocifissioni, le lapidazioni e le amputazioni perché sanno già cosa si sentirebbero rispondere: non avete letto il Corano? Quando i terroristi compiono questi atti prima citano il Corano. E questo è un problema.

Nei luoghi in cui si insedia lo Stato islamico cerca di insegnare la versione radicale dell’islam contro cui si sono opposti gli imam sufi?
Certo. A Raqqa, ad esempio, sono molto pignoli con le accuse di politeismo e hanno tappezzato i muri della città (foto a destra) con manifesti che riportano: “Chi appende un amuleto [allo specchietto retrovisore della macchina] commette politeismo”. C’è anche una squadra di donne che pattuglia le strade controllando che nessuna donna violi il rigido codice di abbigliamento. Diciamo che fanno il loro catechismo.


Mai più guerra? La soluzione non è il pacifismo

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Mai più guerra? 
La soluzione non è il pacifismo

di Nicola Bux

I missili di Hamas su Israele, le bombe su Gaza, i combattimenti in Siria, la persecuzione dei cristiani a Mosul, gli incendi e i saccheggi in Libia. La guerra, le violenze e gli eccidi paiono dominare parti sempre più grandi del nostro mondo. E una domanda: perché?

Dinanzi alla realtà delle guerre e allo stupore per il fatto che vi siano, la Sacra Scrittura rivela che la guerra è una conseguenza del peccato originale. Imparai al catechismo che la separazione dell'uomo da Dio e la sua ribellione, avvenuta in origine, è la causa prima delle infermità, dei dolori, delle fatiche e, soprattutto, della morte del corpo; come, pure, causa dell'ignoranza, della malizia, della debolezza e della concupiscenza dell'anima. L'intelligenza rimase offuscata, in modo che con difficoltà riconosce il vero, con facilità cade nell'errore e s'indirizza più alle cose temporali che alle cose eterne. 

La volontà rimase indebolita e inclinata verso il male: con gravissima difficoltà supera il vizio e pratica la virtù; anzi, spesso si sente trascinata verso il peccato, anche quando la ragione comprende chiaramente che è male. In tanto sconvolgimento di tutta la natura umana, che cosa diventò la vita dell'uomo sulla terra? Ignoranza, povertà, malattie, guerre, fame e vizi di ogni genere furono il retaggio della misera umanità attraverso i secoli. Tutte conseguenze del peccato originale, o come lo si voglia chiamare, che, per alcuni teologi, è una favola; eppure, basta aprire il libro dell'Apocalisse, dove la guerra, la morte e la fame sono raffigurate come cavalli che percorrono la storia (cfr 6, 1-8), finché non arriva, sul cavallo bianco, il vincitore, Gesù.

Dinanzi all'agitarsi continuo di ecclesiastici nell'invocare la pace, l'uomo della strada chiede: si può evitare o far cessare la guerra? I cattolici dovrebbero rispondere: solo con la conversione del cuore a Dio e il riconoscimento della redenzione operata da Gesù Cristo. Allora non costruiremo la pace? Sì, ma a partire dall'annuncio di Colui che ne è il principe e la pietra angolare, senza il quale l'edificio non sta in piedi. Altrimenti, s'addice a noi, il monito del profeta Geremia: «dal profeta al sacerdote tutti compiono azioni menzognere. Guariscono la ferita del mio popolo alla leggera, dicendo: “Pace, pace!”. Ma pace non c'è. Avrebbero dovuto vergognarsi di aver fatto cose abominevoli, ma non si vergognano affatto, né sanno arrossire...» (8, 10-12). Infatti, come possiamo pretendere di avere la pace, se, con l'aborto, abbiamo portato la guerra fin nel grembo materno? Gesù non ha degnato di attenzione le tante guerre nell'impero romano, perché non si fermava agli effetti – la guerra è tale – ma additava e rimuoveva la causa: la lontananza da Dio, l'immoralità, il peccato. Per questo non ha mai detto che non vi saranno guerre, né ha istruito i suoi al pacifismo. Cosa ha fatto? Risponde Eliot nei Cori della Rocca: ha fatto il Cristianesimo. Questo è il rimedio. 

Benedetto XVI ha spiegato che Gesù è venuto a riaffermare l’adorazione di Dio: il primo comandamento mosaico «Io sono il Signore Dio tuo” si compie nell’ “Io Sono” del Figlio di Dio. La missione del Vangelo è l’adorazione di Dio, non la soluzione dei problemi sociali, tra cui la guerra: “ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha a portato Dio» (Gesù di Nazaret, I, p 67).

Così Gesù ha cambiato il mondo non solo una volta per tutte, ma lo cambia ogni volta che incontra il mondo intimo dell’uomo. Perciò Egli ha promesso di essere con noi fino alla fine del mondo. Non potrebbero i cattolici evangelizzare questo? L'effetto sarà più lento, ma più duraturo, mettendo la premesse della vera pace: la conversione del cuore. Per conseguire la pace, Gesù non ha chiesto agli Apostoli di costituire una “comunità ecumenica mista”, come faceva il gesuita scomparso in Siria (cosa che i musulmani considerano apostasia dalla loro religione), ma di fare la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. A noi cattolici non è consentito di andare oltre questo mandato, presumeremmo di essere più grandi di Gesù Cristo. Dunque: «Il grande problema, posto davanti al mondo resta immutato – come disse Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Vaticano II – o sono con Cristo e con la Chiesa sua oppure sono senza di Lui, o contro di Lui, e deliberatamente contro la sua Chiesa».

Chi torna al suo passato, non esce dalla Chiesa

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CHI TORNA AL SUO PASSATO, NON ESCE DALLA CHIESA

Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VII n. 8 - Agosto 2014

Nei momenti di confusione pericolosa occorre fare un passo indietro.
Non si fa forse proprio così nella vita? Di fronte a una situazione confusa, difficile da districare, che ci rende preoccupati e perplessi, ci si ferma e poi si fa un passo indietro, astenendosi dall'avanzare nel pericolo.
È anche ciò che abbiamo fatto nella fede. Sì, crediamo che l'immagine rende idea delle nostre scelte.
Amiamo la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo e nostra Madre, amiamo il Papa e il Vescovo, ma di fronte all'evidente confusione della vita cristiana intorno a noi, ci rifiutiamo di avanzare nell'ambiguità e nell'incertezza e domandiamo la grazia di restare nel cristianesimo sicuro.
In fondo la nostra posizione è tutta qui. Per questo riteniamo, e abbiamo sempre ritenuto, di non essere nella disobbedienza.
Saremmo nella disobbedienza se inventassimo un “altro cristianesimo”, se ci inventassimo “una nostra messa”, una “nostra pastorale”, un “nostro catechismo”, se riconoscessimo degli “altri superiori” fuori da quelli che la Chiesa ci ha dato nel Papa e nel Vescovo.
No, noi non facciamo nulla di tutto questo. Semplicemente, giudicando piena di confusione e di pericolo la nuova pastorale, il nuovo rito della messa, la nuova catechesi, ci avvaliamo del diritto che la Chiesa ha sempre riconosciuto alle anime nei momenti di crisi: ci atteniamo alla precedente prassi e dottrina della Chiesa, a quella sicura, a quella prima dello scoppio della crisi.
Infatti, per la Messa, non andiamo a cercare chissà quale rito arcaico, ma ci atteniamo al Messale del 1962, quello promulgato da Papa Giovanni XXIII, perché le lievi modifiche e aggiunte apportate in quella riforma non hanno nella sostanza intaccato la Messa Romana di sempre. Non andiamo a cercare ciò che ci piace, ma obbediamo alle riforme della Chiesa, quelle sicure e solo a quelle sicure. E così facciamo per tutti gli altri aspetti della disciplina sui sacramenti e per tutto l'apostolato.
Così facendo, siamo certi di non andare fuori dalla Chiesa, che è la stessa ieri e oggi. Non ci sono due Chiese, una prima e l'altra dopo il Concilio. No, ce n'è una sola! Ci sono invece, nella stessa Chiesa, riforme accettabili e riforme non accettabili; sono inaccettabili in coscienza le riforme che mettono in pericolo la fede e la vita cristiana. E siccome la Fede è il bene supremo, non è concesso a nessuno nella Chiesa esporla al pericolo.
Sappiamo, ne siamo coscienti, di esprimere un giudizio severo sulle svolte della “chiesa moderna”.
D'altronde, ad uno sguardo spassionato, gli esiti disastrosi dell'“ammodernamento” della Chiesa di questi ultimi decenni sono innegabili. L'ultima riforma del messale e conseguentemente di tutta la vita cattolica sta uccidendo il cattolicesimo nei nostri paesi. Negarlo è pura ideologia.
Chiediamo e viviamo la libertà dei figli di Dio, che amando la Santa Madre Chiesa, dicono ai suoi legittimi Pastori: noi continuiamo su quello che ci avete insegnato un tempo, e continuando nella Tradizione siamo certi di contribuire, nonostante la nostra povertà, alla edificazione della Chiesa stessa.
Uniamo così due atteggiamenti che in coscienza ci sembrano non disgiungibili:
- un grande amore e rispetto per la Chiesa
- una vigilanza per non mischiare mai la grande Tradizione della Chiesa con le ambiguità delle riforme post-conciliari, e questo non soltanto nel rito della messa.
Amore e severità, insieme.
Anche perché amare la Chiesa non in astratto, significa preservare il suo tesoro costituito dalla Rivelazione divina, Tradizione e Scrittura insieme. Ma la Rivelazione si è declinata e trasmessa in ciò che la Chiesa ha sempre creduto e praticato, a partire dalla Messa Cattolica.
Sbaglia chi, avendo capito il terribile pericolo interno al Cattolicesimo attuale, piange in privato ma non interviene per rispetto alla Chiesa. Ama davvero chi la Chiesa la difende.
Ciò che appare disobbedienza non lo è. È invece il più grande servizio che un credente possa fare alla Sua Madre.
Chi parla di disobbedienza parlando dei “Tradizionalisti” (termine non bello, ma lo usiamo per capirci), lo fa per ignoranza: pensa che la Chiesa abbia una autorità assoluta su tutto. No, la Chiesa obbedisce a Gesù Cristo, ne è il suo corpo; deve custodire ciò che il Signore le ha consegnato, Verità e Grazia. Non inventa la Chiesa, ma trasmette.
Per questo non può essere illegittimo decidere di stare nella Tradizione più sicura.
Non esce dalla Chiesa chi sta al suo passato, ne esce chi inventa un cristianesimo nuovo.

.... oratio autem fiebat sine intermissione ab Ecclesia ad Deum pro eo (Act 12, 5) - ... Rex mundi defunctos nos pro suis legibus in aeternae vitae resurrectione suscitabit (II Mac. 7, 9)

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Ieri si è celebrata la grande figura di Sant'Ignazio di Loyola, fondatore della Società dei Gesuiti. 
Il grande Santo spagnolo, amico di S. Filippo Neri (v. anche qui) e vari altri Santi dell'epoca della Controriforma, volle il suo ordine religioso, sotto le insegne di Capitan Gesù, quale autentico avamposto "militare" dell'ortodossia cattolica e della predicazione contro le eresie dilaganti dei c.d. riformatori ("... Lui caccia dalla tana la feccia luterana ...", come recita una strofa del canto) e, successivamente, dei modernisti. 
Ed in effetti lo fu un tempo.
Tra le sue fila si santificarono insigni figure di dotti e teologi come san Roberto Bellarmino e san Pietro Canisio, ma pure instancabili predicatori della Lieta Novella come san Francesco Saverio e Matteo Ricci.
In quest'ordine, araldo della devozione del Sacratissimo Cuore di Gesù, e già un tempo tanto glorioso, giunsero alla perfezione cristiana pure molti giovani tanto da essere ancor oggi additati alla gioventù quali fulgidi esempi di purezza, di castità e di altre virtù cristiane. Basti ricordare i santi Luigi Gonzaga, Stanislao Kostka e Giovanni Berchmans, tanto per citare i più noti. 
Come dimenticare poi le innumerevoli schiere di martiri gesuiti nell'Inghilterra apostata e scismatica e nel Giappone pagano, che coraggiosamente affrontarono faticosissime prove e terribili martirii?




Pieter Paul Rubens, Miracolo di S. Ignazio di Loyola,1617, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Albert Chevallier-Tayler, S. Ignazio ed i primi compagni professano i voti solenni (22 aprile 1541, Basilica di S. Paolo Fuori le Mura), 1904, Cappella di S. Ignazio, Chiesa del sacro Cuore, Wimbledon

Luis Fernández García, Apoteosi di S. Ignazio di Loyola, 1675, Chiesa di san Miguel e san Julián, Valladolid

Anonimo dell’ambito di Rubens, Ritratto di S. Ignazio che presenta la regola dell’ordine della Compagnia di Gesù, XVII sec., Museo storico aloisiano, Castiglione delle Stiviere


Juan de Valdés Leal, S. Ignazio riceve il Nome di Gesù, 1676, Museo de Bellas Artes, Siviglia



Ignác František Platzer, S. Ignazio fulmina e sconfigge l'eresia col Nome di Gesù, XVIII sec., Chiesa di San Nicola, quartiere di Malá Strana, Praga




Jean-Baptiste Theodon, La Fede Cattolica trionfa sull'idolatria, 1698-1702, Altare di S. Ignazio, Chiesa del Gesù, Roma



Pierre Le Gros II, La Religione Cattolica rovescia l'eresia e l'odio, Altare di S. Ignazio, 1695-99, Chiesa del Gesù, Roma



Pierre Le Gros II, S. Ignazio, Altare di S. Ignazio, 1695-99, Chiesa del Gesù, Roma

Oggi, invece, ricordiamo sia il martirio dei sette fratelli Maccabei sia la dedicazione della Chiesa romana di San Pietro Apostolo in Vincoli (c.d. Titolo di Eudossia).

Silvestro Pistolesi, S. Pietro liberato dal carcere da un angelo, 1979, Abbazia di Montecassino, Cassino


Mattia Preti, S. Pietro è liberato di prigione dall'Angelo, 1665-1666, Akademie der bildenden Künste, Vienna

Mattia Preti, Liberazione di S. Pietro, XVII sec., Chiesa dei Gesuiti, La Valletta


Bernardo Strozzi, L'Angelo scioglie le catene di Pietro, Ashmolean Museum of Art and Archeology, Oxford

Antonio De Bellis, Liberazione di Pietro, 1640 circa, collezione privata

Giovanni Lanfranco, L'Angelo sveglia Pietro e lo invita ad uscire di prigione, 1614-15 circa, Collezione Cunial, Roma

La prodigiosa liberazione dell'Apostolo san Pietro dové colpire molto le prime comunità cristiane se è vero che ne conservarono il ricordo sia dei luoghi (ancor oggi, infatti, la chiesa gerosolomitana di San Marco, in mano ai cristiani siriaci, è ritenuta la casa di Maria, madre del futuro evangelista Giovanni Marco, dove si recò l'Apostolo una volta liberato dal carcere di Erode) sia anche delle catene, miracolosamente sciolte dall'Angelo mandato da Dio, le quali dovettero essere tenute, un tempo, dalla Cristianità in grande venerazione per essere conservate almeno dal V sec. nella basilica Apostolorum in exquiliis.


Ingresso della chiesa siriaca di S. Marco, Gerusalemme

All'epoca di san Leone Magno si celebrava oggi sull’Esquilino un doppio anniversario, quello della basilica degli Apostoli, dedicata da papa Sisto III (432-440) ai santi Pietro e Paolo e quello del martirio dei sette fratelli giudei messi a morte sotto Antioco Epifane secondo il II libro dei Maccabei (2 Mac 7, 1-41): Duplex enim causa lætitiæ est: in qua et natalem ecclesiæ colimus, et martyrum passione gaudemus, diceva quel santo pontefice all’inizio di una sua omelia, sebbene dedicasse poi tutto il suo discorso a trattare dei Maccabei. Difatti, secondo lui, la festa dei Maccabei era anteriore alla dedicazione della Basilica. Egli invocava, a tal riguardo, il ricordo del suo precedessore, qui hoc die antiquam festivitatem hujus loci consecratione geminavit (SAN LEONE MAGNO, Sermo XIX attrib., In Natali sanctorum septem fratrum martyrum Machabæorum, in PL 54, col. 517C-520A).
La basilica degli Apostoli dovette ricevere il nome di San Pietro in Vincoli meno di un secolo dopo la sua dedicazione. Sebbene nel 595 essa portasse ancora il Titulus Apostolorum, al tempo di papa Simmaco (498-514) nondimeno si parlava di sacerdoti a vincula sancti Petri.
Riguardo al culto delle catene ivi conservate, va posto in luce come nella Suggestio legatorum (sedis apostolicæ) ad Hormisdam (papam), scritta in favore di Giustiniano non ancora imperatore, i legati pontifici dell’Oriente, nel 519, affermavano che il futuro imperatore petit de catenis Sanctorum Apostolorum, si possibile est, et de craticula beati Laurentii martyris (A. THIEL, Epist. Rom. Pontif., I, Brunswick 1868, p. 874. La missiva dei legati a papa Ormisda ci è conservata in PL 63, col. 474-477). Gregorio Magno riportava la notizia che, ai suoi tempi, i fedeli ambivano di ottenere almeno un po’ di limatura delle catene di san Paolo così come anche di quella di san Pietro (SAN GREGORIO MAGNO, Registrum, lib. IV, Ep. 30, in PL 77, col. 704: «De catenis quas ipse sanctus Paulus apostolus in collo et in manibus gestavit»).
La festa della dedicazione della basilica a vinculisè già annotata nel Martirologio Geronimiano: Romæ statio ad sanctum Petrum ad vincula; ovvero: ad vincula Eudoxiæ, apostoli Petri osculant populi catenas
In quanto festa puramente locale, rimase estranea alla prima recensione del Sacramentario di Adriano I: non vi fu inserita che più tardi. Comunque nel XII sec. tale festività era data per affermata da molti secoli.
Riguardo ai Sette fratelli Maccabei, va evidenziato che, quando, nel 1876, furono eseguite, nella basilica ad Vincula, importanti restauri, si scoprì sotto l’altare principale un sarcofago istoriato, diviso internamente in sette loculi al fondo dei quali si ritrovarono delle ceneri e dei frammenti ossei carbonizzati. Un’iscrizione, incisa su una lamina di bronzo, indicava che si trattava, appunto, delle reliquie di quei sette fratelli ebrei, che furono messi a morte sotto Antioco Epifane e furono chiamati comunemente Maccabei, dal nome del libro che racconta il loro eroico martirio, unitamente a quelle della madre e di Eleazaro (che si riteneva erroneamente essere il padre). 
Nel IV sec., Antiochia rivendicava il possesso dei loro sepolcri. In effetti, secondo la tradizione cristiana antiochena, le reliquie della madre e figli sarebbero state sepolte sul luogo di una sinagoga (poi convertita in una chiesa) nel quartiere Kerateion di Antiochia. Per questo e per altri motivi, si è pensato che la scena del martirio sarebbe Antiochia anziché Gerusalemme.
San Girolamo, da parte sua, il quale aveva visto già i loro sepolcri a Modin (antica città levitica della Palestina), non accettava senza riserve questa pretesa antiochiena.
La festa dei martiri Maccabei è antica e quasi universale. Appare in questo giorno nel martirologio siriaco primitivo del IV sec., nel Calendario di Cartagine, nel Martirologio Geronimiano. Un gran numero di Padri aveva pronunciato l’elogio di questi santi; ben più, san Giovanni Crisostomo fece il loro panegirico dinanzi alle loro stesse tombe (Per riferimenti, cfr. L. F. PIZZOLATO – C. SOMENZI, I sette fratelli Maccabei nella Chiesa antica d’Occidente, Milano 2005, passim).



Autore anonimo, Santa Solomone con i figli Maccabei ed Eleazaro, 630-650, Chiesa di santa Maria Antiqua, Roma. A lato della Santa si legge il nome ΑΓΙΑ ΣΟΛΟΜΩΝΗ

Non sappiamo in quale epoca le sante reliquie furono portate a Roma. Un’iscrizione dell’XI o del XII sec. ne attribuisce il merito al papa Pelagio I. Per l'esattezza, la tradizione vorrebbe che le reliquie furono traslate da Costantinopoli a Roma sotto papa Vigilio (537-555) e trasferite in San Pietro in Vincoli da papa Pelagio I (ibidem, p. 23-24). Comunque sia, si volle scegliere il 1° agosto per dedicare la basilica ad Vincula, perché si dovevano deporre sotto il nuovo altare le ossa dei martiri Macccabei di cui, in questo giorno, tutte le Chiese orientali celebravano il natale.
Secondo un’antica tradizione orientale i Martiri oggi celebrati si sarebbero chiamati Abimo (Habim), Antonino, Guria (Guriah), Eleazaro, Eusabonio, Alimo (Hadim o Halim) e Marcello e sarebbero morti insieme alla loro madre Solomonia (o Anna o Myriam) ed al loro maestro, lo scriba Eleazaro, testimoniando, dinanzi al sovrano pagano, la fede nell'unico vero Dio e nella resurrezione finale dei corpi.
Un ultimo appunto: sul nome della madre, vi sono versioni diverse. Varie fonti infatti propongono il nome di questa donna. Mentre nel Talmud babilonese, essa resta anonima, nella Midsrah sulle Lamentazioni, detta anche Lamentazioni Rabbah, un testo rabbinico (un midrashim esegetico) che risale al V sec. d.C., la donna si chiamarebbe Miriam bat Tanhum, cioè figlia di Tanhum. Questa è la notizia più antica, che ci riporta che i suoi sette figli morirono martiri (il più piccolo dei quali aveva, secondo questa tradizione, solo sei anni), mentre la donna si sarebbe suicidata (il testo biblico è vago sul punto, sebbene il contesto farebbe pensare che pur’ella morisse martire: 2 Mac 7, 41: «Ultima dopo i figli, anche la madre incontrò la morte»). Nella tradizione orientale, riportata dai menologi e dai sinassari, la donna si sarebbe chiamata, come abbiamo ricordato, Solomonia, mentre, per la Chiesa Apostolica Armena, Shamuna. Per i siriaci il suo nome sarebbe Shamone e/o Maryam. Ella si sarebbe chiamata Hannah (o Chana) in alcune versione del Yosippon o Josippon o Josephon o Joseppon, cioè un racconto popolare della storia ebraica attribuito a Giuseppe Flavio che andrebbe dal 539 a. C. al 70 d.C. Probabilmente quest’ultimo nome si ricollegherebbe al nome della biblica madre di Samuele, Anna, che il testo sacro afferma che, da sterile, aveva partorito sette volte (1 Sam 2, 5). Tale versione è quella più accreditata, peraltro, dal mondo giudaico, come può evincersi dall'Encyclopedia Judaica.


Sarcofago paleocristiano con le reliquie dei sette fratelli Maccabei, Chiesa di S. Pietro in Vincoli, Roma


Antonio Ciseri, Martirio dei Maccabei, 1860 circa, Chiesa di S. Felicita, Firenze




In questo ricordo tanto della liberazione di San Pietro quanto della testimonianza del martirio dei santi fratelli Maccabei, appare assai opportuna la preghiera per i cristiani, nasara, perseguitati nell'Oriente islamico, come da noi rammentato più volte nei giorni scorsi.
Appare, dunque, calzante l'invocazione a Dio, per tramite della Santa Vergine, dei coraggiosi Fratelli Maccabei e dell'Apostolo Pietro, perché liberi quelle popolazioni - così come liberò l'Apostolo - dalla persecuzione cui sono astretti ed al contempo rafforzi la fede - sul modello dei gloriosi Fratelli - di quelli chiamati al martirio ed alla testimonianza della fede nel Dio Triuno.

"Il tuo gusto e non il mio ...."

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Sono le parole di una celebre canzoncina (che può ascoltarsi qui) scritta e musicata dal grande Dottore della Chiesa e Celeste Patrono dei teologi moralisti Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, la cui memoria, nel calendario tradizionale, cade il 2 agosto.
Fu uno degli ultimi Santi del lungo periodo della Controriforma, essendo morto alla viglia della Rivoluzione francese, nel 1787, sebbene nei suoi scritti affronti i mali e le ideologie, tipiche dell’epoca del secolo dei Lumi, ed intraveda quelli che verranno.
Un attento biografo, il Padre Agostino Berthe, ce dà il seguente ritratto spirituale: «Passava il suo tempo libero ai piedi di Dio, in pie letture ed in sante orazioni. Dopo una preparazione, spesso assai lunga, celebrava la Messa con la pietà di un Angelo: il suo ringraziamento durava ore intere. Le sue visite al SS. Sacramento, che erano assai frequenti, lo infiammavano di amore divino e lo univano sì strettamente all’Ospite del tabernacolo, che non lo lasciava mai senza rammarico. Affine di rassomigliare a Gesù Crocifisso, non indietreggiava dinanzi a nessuna mortificazione. Il cibo malissimo preparato... pareva a lui troppo delicato: quindi trovava il mezzo di amareggiarlo, mescolando a tutte le pietanze aloè e mirra. Spesso il suo pasto consisteva in una minestra ordinaria, e di più mangiata in ginocchio o seduto per terra, con una pietra sospesa al collo, come un colpevole. Il sabato, per onorare la sua Madre Maria, digiunava a pane ed acqua. Portava cilizio, catenelle di ferro... Due volte la settimana si dava la disciplina a sangue. Più avido egli di sofferenze, che i mondani di piaceri, seguiva con ardore la sola via che mena dalla terra al cielo: la via della croce» (A. Berthe, S. Alfonso de’ Liguori, Pagani 1933, pp. 83-84).
Per comprendere, però, tutta la grandezza di questa bella figura bisogna porla nella sua cornice storica.
Mentre i moralistici lassisti e giansenisti, per le loro esagerazioni in favore del probabilismo o contro di esso, avevano contribuito a far perdere perfino il senso morale nella classe più colta e più agiata, gli Ordini religiosi, nel regno di Napoli, si erano come ripiegati su se stessi, attenti a conservare il loro patrimonio ed a difendere contro lo Stato, i vescovi ed i baroni, le loro immunità e le loro esenzioni. Quanto alla Corte, essa guardava la Chiesa come se avesse confiscato a suo vantaggio i diritti della corona; e, tramite il primo Bernardo Tanucci, preparava già un sistema di leggi eversive, per sostituire al potere pontificio il potere reale fino nei più intimi ritiri del santuario. Il clero del regno di Napoli era numeroso, ma la vocazione ecclesiastica era considerata assai spesso una semplice carriera, che assicurava ai candidati il ritorno di un beneficio. Non bisogna dunque stupirsi se in un tal stato di cose, il popolo delle campagne fosse abbandonato a se stesso, immerso nell’ignoranza e nel vizio.
A così grandi mali, sant’Alfonso venne a portare rimedio, rivestito della triplice missione di dottore, di vescovo e di fondatore di una nuova famiglia religiosa. Come dottore, tracciò la via mediana tra gli eccessi dei lassisti e quelli dei rigoristi; divulgò nei suoi libri ascetici la pietà cattolica; la devozione a Maria a tal punto che, per lui, un vero cristiano non poteva non essere, per sua natura, “mariano”; a Gesù nel Santissimo Sacramento; alla Passione; e difese contro i discepoli del Tanucci i diritti supremi della Chiesa e del Papa. Per la verità, nonostante i discepoli del Tanucci giudicassero il Liguori come «vile opportunista» e «vecchio decatizzato», il Tanucci venerava Alfonso come un santo, e come tutti i santi sapeva che era “dannoso”, soprattutto se influente com’era il vescovo di Sant’Agata dei Goti. Bernardo Tanucci, infatti, pur avendo una fede sincera e viva, apparteneva ad una famiglia di regalisti e di anticurialisti vivacemente anticlericali ed antigesuitici. Egli non era per la secolarizzazione della società, ma certamente reagiva a quello che era visto come l’imperialismo temporale della Chiesa, che sovente abusava ed aveva abusato delle proprie prerogative. Era convinto, per questo, che il potere regio avesse una missione divina su di essa. Anche Alfonso aveva respirato quest’ambiente, pur non condividendo l’assolutismo e gli oltraggi alla Chiesa e volendo che fosse più rispettata la sua indipendenza spirituale (Così ricorda, Théodule Rey-Mermet,Le saint du siècle des Lumières – Alfonso de Liguori, Paris, 1982, trad. it. di Nella Filippi – Sabatino Majorano, Il santo del secolo dei lumi: Alfonso de’ Liguori (1696-1787)2, Roma 1990, pp. 718-719).
Per tale diffidenza verso di lui, il Santo fu obbligato talvolta a far stampare di nascosto le sue opere e fuori dal territorio napoletano.
Fondatore di una nuova famiglia religiosa, Alfonso ebbe il merito di aver adattato gli scopi ai bisogni del tempo, e di aver condotto a buon fine il suo edificio spirituale attraverso mille contraddizioni. In luogo di fondare dei nuovi ordini regolari, il potere reale voleva sopprimere all’epoca gli antichi, ed andò fino al punto di esigere da Clemente XIV la soppressione della Compagnia di Gesù, il cui fondatore abbiamo ricordato ieri. Il Tanucci, dunque, espulse i Gesuiti dal Regno nel 1767, in sintonia con quanto aveva fatto Carlo III a Madrid e gli altri ministri illuministi alle corti dei Borbone: Pombal in Portogallo, Aranda in Spagna, Choiseul in Francia.
Descriveva il clima del Regno di Napoli uno storico a noi contemporaneo in questi termini: «Nel 1775 i napoletani si videro proibire il viaggio a Roma per lucrare le indulgenze dell’anno santo, perché Ferdinando IV aveva semplicemente sostituito la visita delle basiliche romane con quella delle chiese napoletane. Il nuovo arcivescovo Serafino Filangieri, la cui nomina non diceva niente di buono al Liguori, si mostrò subito basso cortigiano e regalista, sopprimendo nel suo titolo che era arcivescovo “per grazia della Sede Apostolica”. Quando il papa si rifiutò di crearlo cardinale, Tanucci rispose che il re non avrebbe escluso il conferimento della porpora a qualche alto dignitario del Regno. Si andava insomma verso una chiesa nazionale, i cui vescovi sarebbero stati nominati dal potere per avere solo servili strumenti; una chiesa soprattutto staccata da Roma, di cui si aborrivano - e con ragione - le pretese di sovranità» (così ricorda Théodule Rey-Mermet,op. cit., 791). Ed ancora: «In questo clima sopraggiunse nel 1776 l’incidente della chinea. Ogni anno da secoli il giorno della festa degli apostoli Pietro e Paolo, l’ambasciatore di Napoli presso la Santa Sede versava al papa in segno di vassallaggio 7.000 scudi d’oro, portandoli solennemente in S. Pietro su un cavallo bianco (la chinea). I napoletani provavano, è comprensibile, una crescente avversione per questo tributo, anche se pagato - ironia! - al vicario di chi aveva detto: “Il mio regno non è di questo mondo”. Il 29 giugno 1776 dunque, mentre il principe Colonna, ambasciatore di Ferdinando IV, si recava in pompa magna in Vaticano per la presentazione della chinea, sorse una disputa di precedenza nel corteo tra i suoi paggi e quelli del governatore di Roma. Tanucci trasformò la lite tra valletti in affare di Stato, facendo scrivere al papa in nome del re che, avendo l’esperienza dimostrato che un atto di pura devozione, quale la presentazione della chinea, poteva diventare fonte di scandalo e occasione di disordini, aveva ritenuto di sopprimere per l’avvenire tale cerimonia, con una decisione dettata dalla ragione, dalla riflessione, dall’umanità, dalla giustizia e da una saggia accortezza, dipendendo la forma di questo omaggio unicamente dalla sua sovrana volontà, dall’ispirazione della sua pietà e dalla religiosa sua condiscendenza. “L’ispirazione della sua pietà” fece sì che Ferdinando IV offrisse ancora la chinea nel 1777, ma solo come testimonianza di venerazione per il principe degli apostoli; fu l’ultima volta, malgrado le proteste che di anno in anno Pio VI non mancò di elevare. Tra Roma e Napoli si ebbe quindi per dieci anni un clima di guerra» (ibidem, p. 791-792).
Come la congregazione fondata da Alfonso sia potuta esistere e permanere durante uno sì gran numero di anni, fluttuando in pieno mare tempestoso, fu un vero miracolo (ibidem, p. 721). Il re di Napoli rifiutò fino alla fine di accordare l’exequaturregio al decreto pontificio (di Benedetto XIV) di approvazione, anche per il clima politico esistente tra Roma e Napoli. Questo stato, di fatto illegale, non poteva non scoraggiare i discepoli stessi del Santo; perciò parecchi di essi disertarono; le case della Congregazione del Santissimo Redentore aperte nello Stato Pontificio finirono per proclamare uno scisma, ed esclusero dall’istituto il Fondatore stesso, con le case del regno di Napoli.
Il motivo di scisma nacque per il fatto che il governo di Napoli pretendeva, per il riconoscimento legale, che si escludessero dalle Regole alfonsiane della Congregazione quelle norme che rendevano l’opera fondata da sant’Alfonso una Congregazione religiosa, quali, ad es., quelle concernenti i voti religiosi degli aderenti. Alcuni membri della Congregazione, che avevano carpito la buona fede del Fondatore, avevano elaborato delle nuove Regole (un Regolamento), edulcorate da ogni elemento religioso, che le rendevano accette al governo napoletano. Se si rifiutava il Regolamento, la Congregazione avrebbe perso la case del napoletano; se lo si accettava, si rischiava la frattura con quelle dello Stato pontificio (Per la ricostruzione dell’intera vicenda, ibidem, pp. 792-810). Alla fine la Congregazione si scisse in due tronchi «e non facevano più parte della congregazione del SS. Redentore i confratelli viventi nel Regno di Napoli, tra i quali lo stesso fondatore. Lo stesso Pio VI dichiarò agli inviati di Mons. de Liguori che motivi politici impedivano un’altra soluzione, perché Roma non poteva lasciarsi sfuggire quest’occasione per assestare un colpo al re e alla regina di Napoli. Il colpo però finì su Alfonso, che ebbe solo queste parole: “Questa è stata la mia preghiera sono sei mesi: Signore voglio quello che vuoi tu”» (ibidem, pp. 809-810).
Alfonso sopportò tutto con serenità; egli accettò questa lacerazione interiore, rimanendo fiducioso in Dio, comprendendo quando morì, il 1° agosto 1787, che il suo sacrificio, come egli stesso aveva predetto, avrebbe posto fine alla prova (ibidem, pp. 815-816). Dopo la morte di sant’Alfonso la scena mutò: il Fondatore espulso fu elevato sugli altari, e la sua congregazione, tre anni dopo la morte del Santo, poté riunificarsi (ibidem, pp. 823-824) ed estese le sue frontiere al di là dell’Italia e dell’Europa. Alfonso, del resto, aveva profetizzato: «Non dubitate, la Congregazione si manterrà sino al giorno del giudizio, perché essa non è opera mia, ma opera di Dio. Finché io vivrò, essa vegeterà nell’oscurità e nell’umiliazione, ma dopo la mia morte spiegherà le sue ali, e si estenderà specialmente nei paesi settentrionali» (ibidem, p. 824).
Dopo aver tracciato questo breve profilo della vita del Santo morto a Pagani può essere utile rievocare il suo pio transito, alla Vigilia della festa del Perdono della Porziuncola, nella descrizione fornita da un’autorevole recensione:
«Verso le undici ore della mattina di questo primo agosto, ci si accorse che l’ultimo momento avvicinava. Ad un segnale dato, i Padri ed i Fratelli vennero a disporsi intorno al letto. “O mio Dio, - aveva scritto S. Alfonso in uno delle sue opere - vi ringrazio fin da ora della grazia che mi farete di morire circondato dai miei cari confratelli che non avranno altra preoccupazione se non la mia salvezza eterna”.
Dio gli accordò questa grazia. Mentre nella mano del santo Fondatore veniva messo il cero benedetto, i membri della Comunità recitavano piangendo le preghiere degli agonizzanti e le litanie della Madonna. Poi, tenendo sul suo cuore il crocifisso e l’immagine di Maria, la Madonna della speranza, senza convulsioni, senza sospiri dolorosi, S. Alfonso si addormentò dolcemente nelle braccia del Signore, nel momento in cui la campana del convento suonava l’angelus. “Et Verbum caro factum est … Ave Maria …”, si pregava intorno al cadavere, e già l’anima del santo adorava in cielo il Verbo incarnato e ripeteva con gli angeli: Ave Maria.
La santità del nostro santo Fondatore fu proclamata l’indomani dalla bocca di un bambino che stava morendo. Guarito al contatto con una immagine del defunto all’indomani gli venne presentato il ritratto del santo vecchio. E il bambino, mostrando col dito il ritratto, alzò verso il cielo le mani e gli occhi, esclamando: “Alfonso al cielo! Il santo in cielo!” Fino a quel momento non aveva ancora pronunciato alcuna parola ed il nome di Alfonso gli era perfettamente sconosciuto. … In questo stesso giorno S. Clemente [san Clemente Maria Hofbauer, ndr.] ed il suo confratello P. Hübl furono testimoni di un fatto straordinario. Essi si trovavano a Varsavia presi dalle gravi difficoltà che dovevano superare adempiere la loro missione. Una mano invisibile colpì improvvisamente a colpi ripetuti su un tavolo che si trovava vicino ad essi. Dopo un momento di sbalordimento, S. Clemente disse al Padre Hübl: “Notate la data e l’ora di questo fatto strano; è probabilmente l’annuncio di un grande avvenimento”. Ben presto appresero che in questa data ed a questa precisa ora S. Alfonso aveva lasciato questo mondo. Era lui che veniva ad avvertirli della sua partenza, e sembrava dir loro: “Non temete, siete i miei figli, ed io vado in cielo pregare per voi”» (A. BERTHE, Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Firenze 1903, II, pp. 609 e 629).





S. Alfonso lievita dinanzi all'immagine della Madonna dei Sette Veli di Foggia nel 1731

Incisione tratta  dal testo "Theologia Moralis Illustrissimi Ac Reverendissimi D. Alphonsi De Ligorio ...", collezione privata

Giuseppe Barni, Sant'Alfonso Maria de' Liguori, Milano, XIX sec., collezione privata





"La Vergine degli Angeli" di Giuseppe Verdi

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Come noto, ieri, oltre la memoria di S. Alfonso Maria de' Liguori, abbiamo celebrato la festa del c.d. Perdono della Porziuncola, detta anche festa di Santa Maria degli Angeli, dal nome della Basilica in Assisi nella quale è posta appunto la Porziuncola, con la celebre indulgenza.
Mi sembra quindi doveroso, sebbene con un giorno di ritardo, ricordare questa festa francescana e .... mariana con il famoso inno de "La Vergine degli Angeli".
Si tratta, come noto, di un inno religioso in sol maggiore, posto a chiusura del II atto de "La forza del destino" di Giuseppe Verdi. Esso è ambientato nella chiesa della Madonna degli Angeli a Hornachuelos, in Andalusia.
Secondo una pia tradizione, il Maestro fu ispirato, nella composizione di quest'inno, da una tela del 1846 di Francesco Scaramuzza, raffigurante "L'Assunzione di Maria", in cui la Vergine appare portata in cielo dagli angeli (per questo è anche nota come Vergine degli angeli); tela posta nella basilica di Santa Maria delle Grazie a Cortemaggiore, dove Verdi si recava spesso a pregare.








Luca Signorelli, Madonna col Bambino in trono tra angeli e Santi, 1517 circa, National Gallery of Art, Washington

Scipione Bulzone, Madonna degli Angeli con i SS. Francesco e Chiara d'Assisi, 1588, Parrocchia di S. Francesco, Mistretta

Jan Brueghel, Vergine circondata da una ghirlanda di fiori e dagli angeli, 1615-20, Gallery of Johnny van Haeften, Londra

Melchor Perez De Holquin, Nostra Signora di Lidun o Regina degli Angeli, 1716


William-Adolphe Bouguereau, Regina Angelorum, 1900, Musée d'Orsay, Parigi

William-Adolphe Bouguereau, Nostra Signora degli Angeli, 1889-1893, collezione privata

William-Adolphe Bouguereau, Notre Dame des Anges, 1889, collezione privata

La Liturgia: sintesi tra fede e ragione

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Transcending Oppositions: Liturgy as the Synthesis of Faith and Reason

BY PETER KWASNIEWSKI


Philipp Rosemann argues that the very incompleteness of the Summa theologiae, which Saint Thomas could not bring himself to complete at the end of his life, should be taken as a sign, a gesture on the part of the Dominican preacher about the inadequacy of human language to capture the ultimate reality of the divine mysteries. (I have strong disagreements with how he fleshes out this thesis, but am sympathetic to something of the general idea.) Augustin Del Noce argues that rationalism and Christian philosophy differ not because the former is self-grounding and the latter demands a foundational act of faith, but rather, because the one expressly and honestly acknowledges its reliance on faith while the other naively or mendaciously fails to do so. Catherine Pickstock argues that the ancient Roman rite “purposefully” stumbles and struggles, wrestling with the angel of incomprehensible worship and unbloody sacrifice.

To put these together in reference to the liturgy, one might say that the ancient Roman Rite, in its swift simplicity and textured complexity alike, recognizes that all earthly worship must be, in some innocent and unintended way, imperfect and thus repeated (both within itself, built of blocks of repetition, and from day to day as the same sacrifice is represented ever anew until the end of the ages), at the same time recognizing that the sacrifice of Christ is perfect and all-sufficient, once for all, youthful as spring and abundant as summer. Like the Summa, the human act of liturgy is internally, that is to say, of its essence, incomplete, since it falls short of the heavenly Jerusalem’s eternal worship—but, again like the Summa, it is genuine knowledge, a triumphant ascent into the wisdom of the Cross.

In common with fideism, the liturgy prays “in order that there might be prayer”; it throws many prayers and chants into the air that the air might be filled with words as it is filled with clouds of incense, sweet-smelling and obscuring, luring while impeding. It stretches forth into the abyss, depth calling to depth in the dark night of faith. In common with rationalism, the liturgy knows that its prayer is rational through and through, an utterance of the Logos, heard for its righteousness; it knows that there is a fundamental soundness in the universe, which the liturgy expresses in its very dignity, stateliness, order, and beauty. In company with Christian philosophy, the liturgy transcends both fideism and rationalism; it is reason suffused with the utter abandonment of faith, faith anchored in truth and lifting the soul to truth.

The ancient Roman liturgy expressly (honestly) acknowledges its act of faith in the transcendent mystery of God. The new ordo risks turning worship into a communal act of gathering, a communal rationalism whereby man affirms what he already is and knows, instead of forcing upon him the weight of glory that demands the ascetical denial of the God’s-eye view, of adequacy, of any proportion between man and God, even while it paradoxically establishes the inner knowledge, the true proportion, which is none other than the one mediator between God and man, Christ Jesus, true God and true man, who not only knows all but, as the uncreated Word, is the infinite act of infinite knowledge. The liturgy brings man to God and to man himself—as yet unknown, destined to be broken and remade in the furnace of charity. The liturgy brings man to the edge of the abyss, where it is but one step, past the threshold of this life, to the beatific vision. For it is of the union of the soul with God by sanctifying grace that Pope Leo XIII wrote: “This wonderful union, which is properly called ‘indwelling,’ differ[s] only in degree or state from that with which God beatifies the saints in heaven” (Divinum Illud Munus 9).

The traditional liturgy establishes the link between God and man by focusing entirely on the God-man, reminding us of our nothingness, our incoherence apart from Him—the nihilism and fragmentation of fallen nature—and of our divine fullness and integrity in union with Him. In Christ Jesus we have access to the one and only knowledge that enlightens; as sinners, we are cut off from this light. That is why the ancient liturgy quavers between confession of sin and praise of God’s glory, between abasement and exaltation. Blessed Elizabeth of the Trinity begs of Jesus:

O Eternal Word, Word of my God, would that I might spend my life listening to you, would that I might be fully receptive to learn all from you; in all darkness, all loneliness, all weakness, may I ever keep my eyes fixed on you and abide under your great light; O my Beloved Star, fascinate me so that I may never be able to leave your radiance.

Is this not our experience, too, when we have plunged into the mysterious depths of the liturgy, tasted its otherworldly sweetness, become fascinated with its strange beauty, and then come face to face with our own darkness, loneliness, and weakness, our acedia, indolence, vanity, distraction, taste for things of the world... We say, with Elizabeth: “Keep my eyes fixed on you... make me abide under your great light... fascinate me so that I may never be able to leave your radiance.”

"... Et transfiguratus est ante eos; et resplenduit facies eius sicut sol ..." (Matth. 17, 2)

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Dopo aver celebrato ieri la festa della dedicazione della Basilica romana di Santa Maria Maggiore, oggi contempliamo il mistero svoltosi sul Tabor: la Trasfigurazione del Signore.



Un riferimento speciale a questa grande teofania, che i Padri annoverano, a buon diritto, tra i più grandi miracoli operati da Dio per dimostrare il carattere messianico e divino del suo Cristo, lo si trova, nell’antica liturgia romana, nella solenne veglia del sabato delle Quattro Tempora di Quaresima. In occasione di questa veglia notturna, san Leone Magno tenne molte splendide omelie sul racconto evangelico della Trasfigurazione; omelie che ricevevano un’efficacia speciale dalla sinassi notturna celebrata sulla tomba stessa di san Pietro, uno dei tre testimoni privilegiati del miracolo verificatosi sul Tabor.
Quando, però, l’incomprensione della liturgia, da parte dei fedeli, portò a penetrare meno profondamente nel tesoro tradizionale del Messale romano, si sentì il bisogno di colmare, per così dire, una lacuna, istituendo una nuova festa in onore della Trasfigurazione, allo scopo di divulgarne il mistero. Queste furono le ragioni pastorali che portarono all’istituzione della festa.
D’altronde, da molti secoli gli Orientali celebravano con una solennità tutta speciale ἁγίαΜεταμόρφοσιςτοῦΚυρίου il 6 agosto come una delle feste maggiori dell’anno. Essa qui risaliva sin dal V sec. ed era nota sin da circa l’anno 500 d.C. dalla Chiesa nestoriana; dal VII sec. dalla Chiesa siriaca d’Antiochia. È attestata inoltre a Gerusalemme nel VII sec. dal Lezionario georgiano di Gerusalemme (così M. Tarchnischvili, Legrand Lectionnaire de l’Église de Jérusalem, V-VIII siècle, Coll. Corpus scriptorum christianorum orientalium, vol. 189, tomo 2, Louvain 1960, p. 25).
Alcuni la mettono in relazione con la dedicazione delle basiliche del Tabor. Sembra che la sua data fosse stata scelta in funzione dell’Esaltazione della Santa Croce: il 6 agosto, infatti, precede di quaranta giorni il 14 settembre. Ora, secondo gli apocrifi, la Trasfigurazione ebbe luogo 40 giorni prima della Crocifissione (così ricorda J. Van Goudoever, Fêtes et calendriers bibliques, Coll. Théologie historique, 7, Paris 1967, p. 277).
Riguardo al mistero della Trasfigurazione, per comprenderne la spiritualità nell’Oriente cristiano, può essere utile ricordare che, in pieno XIV sec., a Costantinopoli nacque un’accesa controversia tra il partito monastico – rappresentato da san Gregorio Palamas – ed una certa sensibilità umanistica – rappresentata dal monaco greco basiliano di Calabria Barlaam di Seminara. Oggetto del contendere fu proprio la luce taborica. Per i monaci tale luce era un’esperienza di grazia divina, essendo la manifestazione delle energie increate di Dio nell’uomo; essa poteva essere vista e contemplata mediante la pratica dell’esicasmo. Per Barlaam, non era altro che un fenomeno naturale o un’illusione diabolica, in quanto gli occhi del corpo non possono contemplare l’Essenza divina. L’epilogo di tale controversia, che conobbe diversi momenti, è risaputo: Barlaam fu condannato da due concili ortodossi convocati dall’imperatore Andronico III nel 1341 ed accusato di una visione agnostica e neoplatonica. Sconfitto, uscì dalla scena costantinopolitana rifugiandosi in Occidente dove fu elevato, l’anno successivo, all’episcopato di Gerace dal papa di allora (Clemente VI). Per breve tempo fu l’insegnante di greco del Petrarca e del Boccaccio. A Costantinopoli, invece, dopo altre controversie, la sensibilità “palamita”, che dava particolare risalto alla Trasfigurazione, si rafforzò e questo influenzò notevolmente pure lo stile iconografico dell’ultimo periodo bizantino. Le icone d’epoca paleologa sono caratterizzate da un’estrema raffinatezza rappresentativa e da una luminosità ultramondana che brilla sul corpo dei santi rappresentati, sugli oggetti e sul mondo naturale che li circonda (Cfr., per approfondimenti, A. Fyrigos, Dalla controversia palamitica alla polemica esicastica, Roma 2005, passim).


Icona della Trasfigurazione, XII sec., Monastero di Santa Caterina, Sinai

Icona musiva della Trasfigurazione, XII sec.


Teofane il Greco, Trasfigurazione, XV sec., Galleria Tret'jakov, Государственная Третьяковская Галерея?, Mosca

Tornando alla festa della Trasfigurazione, essa comparve in Occidente a metà del IX sec., diffusasi nei secoli successivi, va ricordato che, all’inizio del XII sec., Pietro il Venerabile, abate di Cluny, si fece propagatore fervente di questa festività. Non contento dell’iscrizione nel calendario cluniacense nel 1132, egli compone un Ufficio della Trasfigurazione (J. Leclercq, Pierre le Vénérable, Paris 1946, pp. 382-390). La sua lettera ai monaci latini del Monte Tabor ed il sermone che egli ha lasciato su questo mistero rivelano la considerazione che il Cristo raggiante di gloria aveva nella sua contemplazione (Epistola XLIV, Lettera ai monaci del Monte Tabor, in PL 189, col. 266-268; Sermones, Sermo I, De Transfiguratione Domini, ivi, col. 953-972). Cluny dovette essere, durante tutto il XII sec., un efficace propagatore della festa del 6 agosto. Se questa festa, comunque, tocca poco i Paesi germanici (Fulda, Reichenau e San Gallo l’ignorano), essa conobbe una solida radicazione in Italia fin dall’XI sec., da Bologna a Monte Cassino.
In questa data del 6 agosto è l’armata cristiana riportò una celebre vittoria sui Turchi. Papa Callisto III, nel 1457, pertanto istituì e fissò per lo stesso giorno la festa della Trasfigurazione del Signore, come una solennità di annuale azione di grazie al Signore per il beneficio ricevuto. L’antica solennità romana di san Sisto II e dei suoi sei eroici diaconi, i famosi Comites Xysti portant qui ex hoste tropæa, fu dunque quasi sepolta, essendo stata ridotta al rango del semplice commemorazione.



Carl Heinrich Bloch, Trasfigurazione, XIX sec.

Significativamente in questo giorno dell’anno 1221 avvenne il pio transito di san Domenico di Guzman, la cui memoria è stata celebrata lo scorso 4 agosto. Il grande Santo fondatore dell’Ordine dei Predicatori fu davvero un uomo trasfigurato interamente dalla luce del Tabor. Infatti, l’iconografia lo rappresenterà con una stella luminosa sulla fronte, ricordandosi la visione della madre o della sua madrina al momento del battesimo di una stella sulla fronte del piccolo Domenico a significare che sarebbe stato luce del mondo, come ci riferisce il Beato Giordano di Sassonia nel Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum (n. 9). Il Beato Umberto de Romans, quarto successore di san Domenico, scriveva che “con la visione della stella si annunciava che sarebbe venuto alla luce sulla terra un uomo che avrebbe illuminato gli uomini che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte. Egli infatti rifulse nel mondo come stella del mattino, e con lui si vide spuntare nel secolo una nuova luce, il cui splendore si è ormai diffuso in tutto il mondo”.

Juan Bernabé Palomino, S. Domenico, XVII sec.

Adams Schelte a Bolswert, S. Domenico, XVII sec., musée des beaux-arts, Rennes

Gaspar de Crayer, S. Domenico, 1655 circa, Museo del Prado, Madrid


VIGILIA DI SAN LORENZO ARCIDIACONO E MARTIRE

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La festa di san Lorenzo, essendo la seconda grande festa della Chiesa di Roma, dopo quella dei Principi degli Apostoli, ben si comprende come la devozione l’avesse voluta anticipare con una Vigilia; del resto, questa festa aveva anche la sua Ottava sino al 1955.
Conosciamo l’esistenza di questa veglia almeno dal IV sec. 
Leggiamo, in effetti, nella Vita di santa Melania la Giovane (o Juniore), scritta dal presbitero Geronzio poco dopo la morte della santa nel 439 a Gerusalemme, che i suoi genitori rifiutarono di condurla, nella sua giovinezza, al Martyrium del Santo Arcidiacono, visto il suo stato di gravidanza, essendo in attesa del suo secondo figlio, per assistere all'ufficio notturno precedente la festa. Era l’anno 403. Allora Melania si ritirò nell’oratorio domestico e fece, meglio che poté, la veglia in onore di san Lorenzo (GERONZIO, Vita sanctæ Melaniæ, c. 5. Cfr. TOMÁS SPIDLÍK, Melania La Giovane: La Benefattrice (383-440), Milano 1996, pp. 36-37. Il testo in italiano della vita della santa è reperibile qui). 
Lorenzo, «arcidiacono simile agli apostoli», pare fosse considerato speciale patrono dell’aristocrazia romana e, secondo la notizia di Prudenzio, era celebrato quale «padre del popolo romano», tanto che la basilica insigne dedicata al martire ci viene descritta nella sua maestosità e nella preziosità dei doni ricevuti dai fedeli (PRUDENZIO, Peristephanon, 2, in PL 60, col. 294 ss.).
Per la sua importanza, ricorda il beato card. Schuster, quando nel tardo Medioevo le vigilie delle grandi feste vennero anticipate fin dal pomeriggio del giorno precedente, san Lorenzo ebbe la sua messa in vigilia, e poi un’altra prima missa in nocte (cfr. A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano – VII. I Santi nel mistero della Redenzione [le Feste dei Santi dall’Ottava dei Principi degli Apostoli alla Dedicazione di san Michele], Torino-Roma, Marietti, 1932, pp. 157-158).
La riforma del calendario di Giovanni XXIII ridonò alla ridetta vigilia la sua importanza, anticipando all’8 agosto la festa di san Giovanni Maria Vianney, più recente, che, invece, sino al 1960, era celebrata il 9 agosto.
L'odierna vigilia dedicata al grande martire Lorenzo ci insegna che la testimonianza della buona coscienza e della fede nel giusto giudizio di Dio ispirano una grande pace ai Martiri in mezzo alla tempesta di odio che li ha travolti e continua a travolgere, ieri come oggi. 
Il Santo arcidiacono sapeva bene come fosse dolce addormentarsi al mondo, di fronte ad un tiranno furioso, al boia, ad un popolo sacrilego, che, nell’anfiteatro, esclamava: Christianos ad leones, ed al medesimo istante, svegliarsi tra le braccia degli angeli in Cielo, in presenza del Cristo, per ricevere da Lui l’eterna corona!
Questo spiega il motivo dell'amabile rimprovero, tramandatoci dagli Acta sancti Sixti papae et martyris rivolto da Lorenzo al suo vescovo, il papa Sisto II, che è stato ricordato, nel calendario tradizionale, il 6 agosto scorso, allorché era condotto al martirio:
Dove vai, o padre, senza del figlio? Dove, o sacerdote senza del diacono? Dove o celebrante senza l’accolito? Che cosa ti è spiaciuta in me? Ho io negato di versar teco il sangue, io che m’ebbi attribuzione di distribuire il sangue di Dio? Bada, ché la umiliazione del discepolo torna a disdoro del maestro. Abramo offerse il figlio; Pietro mandò innanzi Stefano; e tu o padre, rendi palese nel figlio la tua propria virtù; io ne conseguirò la corona, e tu ti sicurerai di non esserti ingannato nella scelta del tuo diacono”.
Sisto: “Non io ti abbandono, o Figlio, sibben ti lascio a combattimenti maggiori: a me annoso si addicono le pugne lievi; a te giovine sono serbati i trionfi gloriosi. Cessa dal piangere: soli tre giorni ti separeranno da me; un qualche intervallo sta bene che separi il vescovo dal diacono, e tu sei tale da non aver uopo di me sostenitore: il tuo martirio sarà più illustre del mio, perché non avrai compagni in subirlo: a che volermi presente? Elia rapito non trasmise ad Eliseo il proprio mantello? E tu profitta della dilazione per dividere tra’ poveri, secondo il tuo giudizio, il tesoro della nostra chiesa”.

S. Sisto II incontra S. Lorenzo, vetrata, Basilica di S. Patrizio, Ottawa

Dopo la grazia della predestinazione, il martirio era considerato il dono più grande che l’anima potesse ricevere da Dio, e la via più breve per salire al Cielo. È per questo che, quando si pronunciava contro i Martiri la sentenza di morte, gli antichi testimoni della Fede davanti ai tribunali pagani esclamavano, con una pace ed una costanza pieni di dignità, presentandosi dinanzi alle fiere o al fuoco o la loro testa alla spada: Deo gratias. In effetti diversi Atti di martiri riportano che le vittime, ascoltata la sentenza di condanna capitale, rispondevano sovente «rendiamo grazie a Dio» (cfr. ad es. SAN GIUSTINO DI NABLUS, Seconda Apologia, 2, 19, ora in GIUSTINO, Le due apologie, Roma 2001, pp. 101-102; Acta Martyrum Scilitanorum, 15, oggi in A.A.R. BASTIAESEN; A. HILHORST; G.A.A. KORTEKAAS; A.P. ORBÁN; M. M VAN ASSENDELF, Atti e Passioni dei martiri, Rocca San Casciano 2007, p. 105; nonché in GIULIANA CALDARELLI (a cura di), Atti dei martiri, Milano 1985, rist. 1996, p. 153; SANT’AGOSTINO, Sermo I, In Natali Cypriani martyris, Sermo CCCIX, 4, 6, in PL 38, col. 1412, il quale ricorda che così rispose anche san Cipriano di Cartagine allorché fu condannato a morte).
Anche Tertulliano, concludendo il suo Apologeticum, scriveva: «Mentre voi ci condannate a morte, Dio ci assolse; per questo, alla lettura della vostra sentenza, noi rispondiamo gioiosi Deo gratias», «Inde est, quod ibidem sententiis vestris gratias agimus ; ut est æmulatio divinæ rei et humanæ, cum damnamur a vobis, a Deo absolvimur» (TERTULLIANO, Apologeticus adversus gentes pro christianis, 50, in PL 1, col. 604. Cfr. anche ibidem, 1 e 46, ivi, col. 317 e 577, il quale ricorda come i cristiani, «si denotatur, gloriatur; accusatur, non defendit; interrogatus vel ultro confitetur; damatus gratias agit … Christianus etiam damnatus gratias agit»).

In festo Sancti Laurentii diaconi et martyris

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Come già ricordato ieri, dopo quella dei Principi degli Apostoli, questa festa è la più grande dell’antica liturgia romana, appartenendo sin dalle origini al santorale romano. Il terribile martirio, sofferto dal celebre Arcidiacono di papa Sisto II quattro giorni dopo quello del suo vescovo, il 10 agosto 258, sotto l’imperatore Valeriano, e consumato – secondo la sua Passio – su una griglia infuocata aver distribuito ai poveri i beni della Chiesa, impressionò molto le generazioni che gli succedettero immediatamente, e per le quali Lorenzo diventò a Roma ciò che era stato Stefano a Gerusalemme, a tal punto che la popolarità del diacono martire romano prevalse rapidamente su quella del papa Sisto II stesso, varcando i limiti dell’Urbe.
Il cadavere carbonizzato del martire fu deposto in pace dal prete Giustino nel cimitero di Ciriaca, nell’Ager Veranus, sulla via Tiburtina. Essa ci è attestata dalla Depositio Martyrum del 354 ed il suo nataleè annunciato nel martirologio Geronimiano.
Sul luogo della sua sepoltura, il generoso imperatore Costantino eresse una ricca basilica; ma poiché il sepolcro di san Lorenzo si trovava nel mezzo degli altri cubiculae delle cripte sotterranee, il vincitore di Massenzio, volendo risparmiare il cimitero, aprì solamente una scala di comunicazione tra la basilica e l’ipogeo del Santo. Questa scala a due ringhiere è menzionata non solo dal Liber Pontificalis nella biografia di Silvestro, ma anche in un’epigrafe locale: Ad mensa beati martyris Laurentii, descindentibus in cripta, parte dextra.
Sulla tomba del martire, Damaso collocò l’iscrizione seguente:

VERBERA • CARNIFICES • FLAMMAS • TORMENTA • CATENAS
VINCERE • LAVRENTII • SOLA • FIDES • POTVIT
HAEC • DAMASVS • CVMVLAT • SVPPLEX • ALTARIA • DONIS
MARTYRIS • EGREGIVM • SVSPICIENS • MERITVM

I colpi, i boia, le fiamme, il cavalletto, le catene,
solo la fede di Lorenzo poteva superarli.
Damaso supplicante colma questi altari di doni
Ammirando i meriti del glorioso martireDamaso supplicante colma questi altari di doni
Damaso supplicante colma questi altari di doni.
Ammirando i meriti del glorioso martire.

Secondo san Leone Magno, Roma era diventata «celebre anche grazie a Lorenzo, come Gerusalemme era stata glorificata da Stefano» («… atque ita per universum mundum clarificavit gloriam suam, ut a solis ortu usque ad occasum, leviticorum luminum coruscante fulgore, quam clarificata est Jerosolyma Stephano, tam iilustris fieret Roma Laurentio», cioè il Signore «ha voluto esaltare a tal punto il suo nome glorioso in tutto il mondo che dall’Oriente all’Occidente, nel fulgore vivissimo della luce irradiata dai più grandi diaconi, la stessa gloria che è venuta a Gerusalemme da Stefano e toccata anche a Roma per merito di Lorenzo» - San Leone Magno, Sermone 85, In natali S. Laurentii martyris, in PL 54, col. 437, nonché R. Dolle (a cura di), Sermons. Léon le Grand, tomo 4, Paris 1973, p. 77).
Il collegamento tra san Lorenzo (al Verano) e Gerusalemme, sarà nuovamente riproposto alla fine delle Crociate, quando passò a rappresentare il patriarcato di Gerusalemme. In effetti, la basilica di San Giovanni in Laterano, sede del pontefice, rappresentava il patriarcato di Roma; poiché a Roma si erano rifugiati i patriarchi latini insediati dai Crociati sulle antiche sedi orientali e fuggiti a seguito dell’avanzata musulmana ed alla caduta dell’ultimo baluardo del regno latino di Gerusalemme, cioè di San Giovanni d’Acri, nel 1291, furono loro assegnate le basiliche patriarcali: san Pietro, per Costantinopoli; san paolo fuori le Mura, per Alessandria; santa Maria Maggiore per Antiochia; san Lorenzo per Gerusalemme. Anche il pellegrinaggio mutò e si spostò dai luoghi santi della Palestina alle memorie dell’Incarnazione e della Passione presenti a Roma (Cfr. sul punto Nicola Bux, Il pellegrinaggio a Gerusalemme all’origine del Giubileo cristiano, in Communio, 160-161 (1998), pp. 38-46).
Tornando alla festa laurenziana, va rammentato come sant’Agostino, nonostante la popolarità del culto del Martire, si lamentasse del piccolo numero di fedeli venuti a celebrare la sua festa: Beati Laurentii illustre martyrium est, sed Romæ, non hic; tantam enim video vestram paucitatem (così Sant’Agostino, Sermone 303, In natali martyris Laurentii, 1, in PL 38, col. 1393). È vero che egli, in seguito, confessò la sua fatica, tanto il caldo era grande e per questo risparmiò ai fedeli un più lungo sermone («Ergo pauci audite pauca: quia et nos in hac lassitudine corporis et aestibus non possumus multa» - ivi).
Nella processione dei martiri rappresentati a Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, san Lorenzo è il solo ad essere vestito di porpora, mentre gli altri sono vestiti di bianco e ciò «testimonia della gloria e della preminenza del martire romano» (P. Perdrizet, Le Calendrier parisien à la fin du moyen âge, Paris 1933, p. 198). 




Nel rito bizantino si celebra contemporaneamente, il 10 agosto, Lorenzo e Sisto. A Costantinopoli la sinassi aveva luogo «al loro martyrion», vale a dire nella basilica di Lorenzo (cfr. Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, pp. 271-272).
Va segnalato, infine, che il 10 agosto, giorno della festa del Santo, si verifica un miracolo di liquefazione del sangue, analogo a quello più famoso di san Gennaro, che si verifica nella cittadina di Amaseno, dove, in un'ampolla di vetro, si conserva, allo stato solido, un po' di sangue del martire Lorenzo, insieme ad un po' del suo grasso ed a residui di carbone.



Sin dalla sera del 9 a tutto il 10 agosto, il sangue si liquefa assumendo un vivido colore rubino. Tuttavia, da alcuni anni, il prodigio si verifica anche al di fuori della data della festa del Santo.

Guercino, Martirio di S. Lorenzo, 1628, Duomo, Ferrara

Orazio Ferrari, Martirio di S. Lorenzo, 1638 circa, Pinacoteca, Cagliari

Valentin de Boulogne, Martirio di S. Lorenzo, 1622-24, Museo del Prado, Madrid

Scuola genovese, Martirio di S. Lorenzo, XVII sec.

Jean-Baptiste de Champaigne, Martirio di S. Lorenzo, 1660 circa

Jan Boeckhorst, Martirio di S. Lorenzo, 1649-59, Musée des Beaux Arts, Bordeaux


Bartholomeus Breenbergh, Martirio di S. Lorenzo, 1647, Städelsches Kunstinstitut und Städtische Galerie, Frankfurt am Main

Massimo Stanzione, Martirio di S. Lorenzo, 1628-32

Jusepe de Ribera, Martirio di S. Lorenzo, 1620-24, National Gallery of Victoria, Melbourne

Jusepe de Ribera, Martirio di S. Lorenzo, 1620-24, collezione privata

Jusepe de Ribera, Martirio di S. Lorenzo, 1628-30, Banco Sanpaolo, Napoli

Giacomo Serpotta, Martirio di S. Lorenzo, XVII sec., Oratorio di S. Lorenzo, Palermo

Alejo Vera Estaca, Sepoltura di S. Lorenzo, 1862, Museo Nacional del Prado, Madrid

I cannoni di agosto rombano ancora

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I cannoni di agosto rombano ancora

di Roberto de Mattei

(Il Foglio, 1.8.2014)

Il rombo dei cannoni di agosto che cento anni dopo riecheggia ancora nei cieli d’Europa, è in grado di offrirci qualche lezione storica?
Quando sorse l’alba del 1 gennaio 1914, l’Europa era immersa nella tranquilla opulenza della Belle époque e confidava ancora nel progresso radioso dell’umanità. Civiltà, modernità e progresso erano sinonimi. Il XX secolo si era aperto nell’ingenua presunzione di aver per sempre lasciato alle spalle i mali e gli errori che affliggono gli uomini dopo il peccato originale. Winston Churchill ricorda nelle sue Memorie che “la primavera e l’estate del 1914, in Europa, furono caratterizzate da un’eccezionale quiete” (The World Crisis (1911-1918), Macmillan, London 1943, p. 103). Chi avrebbe immaginato che l’assassinio dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, a Sarajevo, avrebbe inaugurato un’epoca di morte e di distruzione su scala mondiale?
Eppure, dopo l’uccisione dell’erede al trono austro-ungarico, avvenuta il 28 giugno 1914, l’Europa precipitò, nello spazio di un mese, nell’immane catastrofe. Dal 1914 al 1918 la migliore gioventù europea si dissanguò in una lotta fratricida. Quasi nove milioni di uomini mancarono all’appello al termine di questa conflagrazione globale. Nella storia dei conflitti che hanno sempre accompagnato le vicende umane, la Prima guerra mondiale occupa un posto centrale, non solo per l’estensione planetaria, e il numero spaventoso delle vittime, ma soprattutto per la novità e l’intensità dell’odio ideologico tra i popoli che essa accumulò nelle trincee contrapposte. La sola offensiva del 16 aprile 1917, tra Soissons e Compiègne, costò centodiciassette mila morti per guadagnare cinque chilometri; trecentosessantamila furono le vittime francesi nella prima battaglia offensiva di Verdun dell’ottobre 1916. Emilio Gentile che ha dedicato un bel libro a L’Apocalisse della modernità (Oscar Mondadori, Milano 2014) afferma che “l’odio e l’orrore divennero universali durante la Grande Guerra, come forse mai era accaduto nella storia dell’umanità” (p. 18). Lo storico francese Jean de Viguerie mostra da parte sua come alla dottrina tradizionale della “guerra giusta”, per sua natura difensiva, si sostituisce, nel ‘14-18, una nuova concezione della guerra, offensiva, totale, incessante, che ha le sue radici nella Rivoluzione francese (Les deux patries. Essai historique sur l’idée de patrie en France, Dominique Martin Morin, Boère 2004). Il primo conflitto mondiale fu, in questo senso, una continuazione dell’appello alle armi lanciato l’11 luglio 1792, quando l’Assemblea nazionale dichiarò “la patria in pericolo”. E’ con la Rivoluzione francese che nasce la parola d’ordine di “annientare il nemico”, interno ed esterno, come avvenne con le “colonne infernali” che tra il 1793 e il 1794 sterminarono gli insorti della Vandea.
Nata come scontro tra grandi potenze, la Grande guerra si trasformò in un conflitto di tipo nuovo, che la rese una “guerra civile mondiale” o, come è stata anche definita, una “rivoluzione mondiale” (Lawrence Sondhaus, Prima Guerra mondiale. La Rivoluzione globale, tr. it., Einaudi, Torino 2014). Una dinamica inesorabile travolse i protagonisti del conflitto, spingendoli verso la guerra. L’attentato di Sarajevo fu solo la scintilla che fece detonare la conflagrazione, ma le ragioni profonde di questa guerra non possono essere limitate alla tensione franco-tedesca relativa al confine renano o alla competizione politica ed economica anglo-tedesca.
L’Austria, dopo l’uccisione dell’Arciduca Francesco Ferdinando, pianificata a Belgrado, voleva impartire una lezione alla Serbia. Berlino promise a Vienna il suo sostegno. La Francia assicurò il suo appoggio alla presenza russa nei Balcani. Il presidente francese Poincaré era sicuro che Vienna e Berlino non avrebbero mai rischiato di sfidare l’alleanza franco-russa, alla quale riuscì ad assicurare il sostegno della Gran Bretagna, la quale a sua volta aveva condotto una trattativa segreta con la Russia in chiave antiturca. L’Austria e la Germania erano invece convinte che la guerra sarebbe rimasta localizzata e che l’Inghilterra non avesse alcun interesse a farsi trascinare in una guerra determinata da un conflitto austro-russo nei Balcani.
Nel pomeriggio di giovedì 23 luglio l’Austria consegnò al governo serbo un ultimatum che fu giudicato inaccettabile. Il 28 luglio l’Impero austro-ungarico dichiarò guerra alla Serbia e bombardò Belgrado. Il 30 luglio lo Zar Nicola II si lasciò strappare dai generali l’ordine di mobilitazione generale, che nell’ottica dell’epoca, equivaleva a una dichiarazione di guerra contro l’Austria. Il 31 luglio il governo tedesco inviò un ultimatum alla Russia, invitandola a fermare i preparativi bellici e un ultimatum alla Francia, chiedendole quale atteggiamento avrebbe assunto nel caso di una guerra tra Russia e Germania. Di fronte al rifiuto della Russia di arrestare la mobilitazione, la Germania le dichiarò guerra il 1 agosto. Pochi minuti prima anche la Francia aveva emanato l’ordine di mobilitazione generale. Il 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia e le truppe tedesche invasero il Belgio e il Lussemburgo. Il giorno successivo la Gran Bretagna entrò in guerra contro l’Impero tedesco; il 6 agosto l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Russia. L’11 e il 12 agosto la Francia e l’Inghilterra dichiararono guerra all’Austria-Ungheria. La voce dei cannoni iniziò a tuonare da un capo all’altro d’Europa.
Lo storico inglese Niall Ferguson ricorda che alla vigilia della guerra discendenti e altri parenti della regina Vittoria erano seduti sui troni non solo di Gran Bretagna e Irlanda, ma anche di Austria-Ungheria, Russia, Germania, Belgio, Romania, Grecia e Bulgaria. In Europa solo Svizzera, Francia e Portogallo erano già repubbliche. “Nonostante le rivalità imperiali della diplomazia prebellica, i rapporti personali tra gli stessi monarchi erano rimasti cordiali, persino amichevoli: la corrispondenza tra George, Willy e Nicky, testimonia il protrarsi dell’esistenza di un’élite reale cosmopolita e poliglotta con un certo senso dell’interesse comune” (La Verità taciuta. La prima guerra mondiale: il più grande errore della storia moderna, tr. it. Corbaccio, Milano 2002, p. 559).
Uno studioso italiano, Alberto Lumbroso ha pubblicato da parte sua i Carteggi Imperiali e Reali 1870-1918 (Bompiani, Milano 1931) in cui raccoglie i telegrammi scambiati tra i sovrani europei nella “settimana tragica” con cui si chiude il luglio e si apre l’agosto del 1914. Il 29 luglio un accorato telegramma di Willy (Guglielmo II), convince Nicky (Nicola II) a rinunciare per qualche ora alla mobilitazione generale e ad ordinare una sola mobilitazione parziale contro l’Austria. Il 31 luglio, il Kaiser rivolge ancora un appello al cugino: “La pace europea può essere salvata soltanto da te, se la Russia si decide a fermare le misure militari che minacciano l’Austria-Ungheria”. Quando l’ultimo telegramma di Willy giunge a Nicky, chiedendo “una risposta immediata, affermativa, chiara e precisa” per “evitare sciagure incalcolabili”, l’ambasciatore di Germania ha già consegnato la sua dichiarazione di guerra al ministro degli Esteri russo.
L’Europa precipitò nel baratro con gioioso furore. La predicazione pacifista aveva prodotto una reazione opposta tra i giovani europei, assetati di gloria e di eroismo. Nei più recenti Stati nazionali, come la Germania e l’Italia, la guerra era vista come l’occasione di creare una nuova coscienza nazionale. Il darwinismo sociale affermava il carattere inevitabile della lotta e il modernismo cattolico vedeva in essa una forma di purificazione spirituale. Se per Benedetto XV la guerra era una “inutile strage”, per Romolo Murri, e per il suo discepolo Luigi Sturzo, fondatori della Democrazia cristiana in Italia, la guerra era una “possente purificatrice”, destinata ad elevare “il valore dei princìpi divini ed eterni di morale, di diritto, di religione” (E. Gentile, op. cit., pp. 211-212).
Negli ambienti massonici la guerra era vista come un atto di solidarietà nazionale e come uno strumento della autoredenzione dei popoli. Lo storico ungherese François Fejtő, nella sua opera capitale, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico (tr. it. Mondadori, Milano 1988), ha dimostrato l’esistenza di un “complotto ideologico” ordito da lobby politiche e società segrete per colpire a morte l’Austria asburgica che rappresentava l’opposizione al mondo nato dalla Rivoluzione francese.
La Grande guerra fu – secondo Fejtő – un conflitto ideologico di massa che ebbe lo scopo di “repubblicanizzare e de-cattolicizzare l’Europa” e compiere, a livello nazionale e internazionale, l’opera interrotta della Rivoluzione francese. Un capitolo del libro è dedicato al ruolo della massoneria, il cui obiettivo era quello “di estirpare dall’Europa le ultime vestigia del clericalismo e del monarchismo” (p. 320). L’Austria-Ungheria, erede del Sacro Romano Impero medioevale, rappresentava il principale ostacolo al progresso dell’umanità e allo stabilimento della “democrazia universale”. “E’ innegabile – scrive Fejtő, – che il fatto di demolire l’Austria corrispondeva alle idee dei massoni, in Francia e negli Stati Uniti, che essi erano quasi senza riserve a favore del suo smantellamento, e che la loro influenza vi ha contribuito” (p. 357).
Abbeverandosi a queste fonti ideologiche, gli uomini politici interventisti vedevano nella guerra il compimento della modernità, ossia l’ultima fase di un processo culturale che avrebbe definitivamente liberato l’Europa dagli ultimi residui dell’oscurantismo. Tipico, in questa prospettiva, fu l’operato del moravo Thomas Masaryk e del boemo Eduard Benes, promotori con gli inglesi Wickham Steed e Hugh Seton-Watson del Congresso dei popoli oppressi dell’Austria-Ungheria organizzato a Roma dal 9 all’11 aprile 1918. Per essi, come ha ben spiegato Augusto Del Noce, la democrazia radicale avrebbe trasformato la guerra in rivoluzione, inglobando il pensiero di Giuseppe Mazzini, letto in chiave illuministica e sopprimendone tutti gli aspetti religiosi e “romantici” (Introduzione a Wolf Giusti, Tramonto di una democrazia, Rusconi, Milano 1972). L’eredità del movimento hussita, interpretato come movimento nazionale e sociale, al di là del suo significato religioso, confluiva in uno schema in cui la Prima guerra mondiale era vista come una vendetta degli “sconfitti” della battaglia della Montagna Bianca (1620) che aveva segnato insieme la vittoria della Controriforma e degli Asburgo.
Un altro congresso importante, quello di tutte le massonerie alleate e neutrali, per decidere il futuro assetto delle nazioni nell’Europa del dopoguerra, si era tenuto tra il 28 e il 30 giugno 1917 presso il Grande Oriente francese di Parigi in rue Cadet. La filosofia di base era contenuta nel libro di Ernest Nys, Idées modernes, droit international et franc-maçonnerie(1908), che esponeva il disegno massonico della nuova società internazionale. Questo progetto fu realizzato dai Trattati di pace di Parigi del 1919-1920, che costituirono come osserva lo storico francese François Furet, “più che una pace europea, una rivoluzione europea” (Le Passé d’une illusion. Essai sur l’idée communiste au XXe siècle, Calmann-Lévy/Robert Laffont, Paris 1995).
Il nuovo ordine europeo e mondiale segnò non solo uno sconvolgimento geopolitico, ma soprattutto una Rivoluzione nella cultura e nella mentalità. Il presidente americano Woodrow Wilson apparve come il profeta della nuova era, in cui le nazioni libere avrebbero finalmente trovato la via del progresso, della giustizia, della pace. Egli considerava la Prima Guerra mondiale come il conflitto che avrebbe posto fine a tutte le guerre (T.S. Knock, To End All Wars: Woodrow Wilson and the Quest for a New World Order, Princeton University Press, Princeton 1995).
I princìpi di legittimità e di equilibrio, sui quali si era costruita l’Europa dopo il Congresso di Vienna, furono sostituiti da quello dell’ “autodeterminazione dei popoli”. La carta postbellica dell’Europa vide l’emergere di repubbliche in Russia, Germania, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e nei tre stati baltici, oltre che in Bielorussia, Ucraina occidentale, Georgia, Armenia e Azerbaijan (assorbite di forza nell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche nel periodo dal 1919 al 1921).
L’Impero austriaco venne smantellato e rimpiazzato da un mosaico di piccoli Stati non più omogenei né meno multinazionali dell’Impero che essi avevano dissolto. Fu creata artificialmente la Ceco-Slovacchia, che manteneva una grande parte delle sue risorse in territorio tedesco, polacco e ungherese, compresa l’antica capitale ungherese, Poszsonyi (Pressburg). Essa era composta non solo dai cechi e dagli slovacchi, ma da alcuni milioni di tedeschi, che non rinunciavano ai propri diritti, da un considerevole numero di polacchi, in Slesia e da un certo numero di magiari, profondamente irredentisti. Masaryk e poi Benes ne saranno i presidenti.
Nei Balcani, il ruolo che aveva esercitato l’Austria fu affidato alla Jugoslavia, anch’essa creata ex-novo. Sarebbe stato equo, certamente, ricompensare i serbi, ma attribuire ad essi la Bosnia, l’Erzegovina, il Montenegro, una grande parte dell’Albania e gli sbocchi sul mare di cui in precedenza erano privi, significò raddoppiare il loro territorio, senza garantire l’equilibrio in quell’area.
L’Italia, d’altra parte, che era entrata in guerra soprattutto contro l’Austria-Ungheria, dopo la pace si trovò alle frontiere orientali un nuovo Stato che costituiva per essa una minaccia non minore dell’Impero asburgico. Meglio sarebbe stato allora trovare un compromesso con l’Austria per ottenere Trieste e Fiume. La delusione dell’Italia per la “vittoria mutilata” la destinava a trovare un’intesa con la Germania, mentre l’Austria non poteva che aspirare, per sopravvivere, ad una unificazione con la Germania. La strada da seguire sarebbe stata non già quella di “balcanizzare” l’Impero austriaco, ma di “debalcanizzare” i Balcani.
Allo stesso modo, la Polonia, che fin dal XII secolo aveva svolto un ruolo di primo piano nella Cristianità, avrebbe potuto divenire un bastione dell’Europa verso l’Est e, nello stesso tempo, contenere le spinte della Germania. La Conferenza di Pace indebolì invece la Polonia ad est, separando da essa la Lituania, che le era stata unita da un legame liberamente ratificato per circa cinque secoli, e riconoscendo l’indipendenza dalla Russia dell’Ucraina e della Curlandia (la futura Lettonia), mentre si concedevano ai polacchi terre prussiane, come Koeningsberg e il corridoio di Danzica, inevitabilmente destinate a costituire un casus belli con la Germania.
Ciò che le potenze di Versailles fecero per l’Austria, non lo fecero per la Germania. Avrebbero potuto smembrarla; si limitarono invece ad imporle la forma repubblicana, mantenendone l’unità. Le mutilazioni territoriali a cui fu sottoposto il Reich guglielmino (un settimo del suo territorio e un decimo della sua popolazione) lasciarono intatto il nucleo essenziale delle sue strutture politiche e sociali e dei meccanismi che ne avevano permesso l’espansione politica, militare ed economica.
La Conferenza di Parigi non solo non indebolì la Germania, ma la consolidò, distruggendo quel sistema di piccoli stati sovrani, circa una trentina di staterelli e di troni che avrebbero potuto costituire un forte elemento di resistenza al totalitarismo. Con ciò la conferenza di Parigi rese al pangermanesimo un servizio maggiore di quanto avrebbe potuto rendergli lo stesso Bismarck. Jacques Bainville lo notò immediatamente: “L’opera di Bismarck e degli Hohenzollern era rispettata in ciò che aveva di essenziale. L’unità tedesca non era solo mantenuta, ma rinforzata” (Les conséquences politiques de la paix, Godefroy de Bouillon, Paris 1996 (1920), p. 31). Non solamente gli Alleati la rispettarono – osservava lo storico francese – “ma la consacrarono con il loro sigillo, gli diedero la base giuridica internazionale che mancava ad essa dal 1871” (p. 66). L’Impero guglielmino era, nonostante tutto, una Federazione. La nuova Germania repubblicana si presentava come uno Stato centralizzato, le cui frontiere riunivano sessanta milioni di uomini umiliati dalle potenze vincitrici.
La Conferenza di Parigi unificò e consolidò la Germania, ma allo stesso tempo ne umiliò le aspirazioni, spingendola verso il riarmo ed il revanscismo. I “paragrafi ingiuriosi” del Trattato di Versailles, come l’articolo 231 che addossava interamente alla Germania e ai suoi alleati la colpa morale dell’“aggressione” dell’agosto 1914 e la richiesta della consegna dei “criminali di guerra”, a partire dall’Imperatore Guglielmo II, furono sentiti dall’opinione pubblica tedesca come un inaccettabile “diktat” e offrirono il pretesto per la costituzione di un “fronte anti-Versailles” che unì progressisti e conservatori. John Laughland ha notato come a quei Trattati risale l’“Etica della punizione” comminata in nome del “diritto umanitario” che poi caratterizzerà l’epoca contemporanea, mentre tutti i Trattati di Pace conclusi dall’inizio del XIV secolo fino a Versailles contenevano “clausole di amnistia” per gli sconfitti (Guerra totale in nome del Bene, in “Limes”, n. 5 (2014), pp. 61-66).
Lo squilibrio generato dalla pace di Versailles favorì i due “fratelli nemici” che entrarono pressoché contemporaneamente sulla scena negli anni venti: bolscevismo e fascismo. La guerra civile europea cominciò nel 1917, come sostiene Ernst Nolte o nel 1914, come ritengono altri storici? Non c’è in realtà contraddizione, perché la Rivoluzione russa fa parte della Prima guerra mondiale e non può essere separata da essa. La dinamica storica europea e mondiale, tra il 1917 e il 1945, fu determinata, come ha sottolineato Ernst Nolte, dalla grande “guerra civile europea” condotta tra il Terzo Reich e l’Unione Sovietica. Molti uomini politici europei non compresero l’affinità di fondo che legava i due sistemi ideologici, ma attribuirono al comunismo sovietico il ruolo di “avanguardia” nel processo di democratizzazione dell’umanità.
Ciò che accadde a Parigi appare come la negazione di qualsiasi forma di preveggenza politica, a meno che non si debba pensare, come molti hanno fatto, ad una scelta deliberata per impedire un’autentica pacificazione dell’Europa e facilitare l’esplosione di nuovi conflitti. Lo storico britannico Niall Ferguson lo ha ben sintetizzato: “La Prima guerra mondiale fu qualcosa di peggiore di una tragedia (…). Fu niente di meno che il più grande errore della storia moderna” (La Verità taciuta, cit., p. 587).
Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, governava la Chiesa san Pio X. Papa Sarto avvertiva la fragilità della società della Belle époque, e mentre il mondo era immerso nell’edonismo, sentiva avvicinarsi quello che chiamava “il guerrone”. La notizia dello scoppio della guerra lo turbò profondamente, proprio perché egli ne prevedeva le tragiche conseguenze. Il 2 agosto 1914 il Papa inviò a tutti i cattolici del mondo l’esortazione Dum Europa fere omnis, implorando con queste parole la cessazione del conflitto. “Mentre quasi tutta l’Europa è trascinata nei vortici di una funestissima guerra, ai cui pericoli, alle cui stragi e alle cui conseguenze nessuno può pensare senza sentirsi opprimere dal dolore e dallo spavento, non possiamo non preoccuparci anche Noi e non sentirci straziare l’animo dal più acerbo dolore per la salute e per la vita di tanti cittadini e di tanti popoli, che ci stanno sommamente a cuore”.
Nelle cerimonie del Venerdì santo si pregava per la Chiesa e per l’Impero e Papa Sarto aveva una grande considerazione per l’imperatore Francesco Giuseppe. Uno dei suoi segretari confidò ad un amico austriaco che il Papa, sollecitato a intervenire a favore della pace, avrebbe risposto: “Il solo sovrano a cui potrei offrire i miei servigi è l’imperatore Francesco Giuseppe che si è sempre mostrato leale e fedele verso la Santa Sede. Ma non mi è proprio possibile intervenire su di lui, perché quella che l’Austria-Ungheria intraprende è una guerra giusta”; ed avrebbe aggiunto che la responsabilità del conflitto ricadeva interamente sulla Russia, che aveva innescato il meccanismo di alleanze della Triplice Intesa contro la Triplice Alleanza.
Lo zar Nicola I, che regnava in Russia, non immaginava che il suo trono sarebbe stato il primo a cadere nel 1917, l’anno della Rivoluzione bolscevica. Questa decapitazione dei troni fu una tappa decisiva del processo di secolarizzazione della società che era iniziato nel XVI secolo e che puntava alla distruzione della Civiltà cristiana.
Caddero quattro grandi Imperi: l’austriaco, il tedesco, il russo e l’ottomano. Ciò che essi avevano in comune non era solo l’aspirazione all’universalità che la parola Impero per sua natura evoca, ma il fondamento sacrale dell’autorità. Sulle loro rovine si affermarono i grandi totalitarismi del Novecento, che sacralizzarono l’ordine immanente della politica. Il nazionalsocialismo si sviluppò nell’area dell’Europa centrale occupata dall’Impero tedesco e da quello austro-ungarico. Il comunismo prese il potere in Russia, sostituendo un nuovo imperialismo politico all’Impero patriarcale degli Zar. Sulle ceneri dell’Impero ottomano, sostituito dalla Repubblica turca laica e secolarista, iniziarono a svilupparsi, fin dagli anni ’30, nuove ideologie islamiste, portatrici di un altro tipo di totalitarismo che, dopo la caduta del nazismo e del comunismo, costituisce oggi una nuova minaccia per l’umanità.
Il Novecento, l’epoca del totalitarismo, può essere considerato come il secolo più distruttivo e cruento dell’intera storia universale. Il secolo in cui compaiono, per la prima volta nella storia, termini come “crimini contro l’umanità” e “genocidio”.
La storica di Oxford Margaret Macmillan scrive, a conclusione del suo ampio saggio dedicato alla guerra, che “l’Europa avrebbe potuto cambiare strada, eppure nell’agosto del 1914 scelse di percorrere fino in fondo un cammino che l’avrebbe condotta all’autodistruzione” (1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, tr. it. Rizzoli, Milano 2014, p. 697). Ma il “suicidio dell’Europa” era un destino obbligato? Molti autori, come Philippe Conrad, non lo credono (1914. La guerre n’aura pas lieu, Genèse Edition, Paris 1914). All’inizio dell’estate del 1914, ciò che si impose fu lo scenario più imprevedibile e forse più evitabile. Nella storia esiste l’imponderabilee si imbocca talvolta una strada sbagliata senza esserne consapevoli.
La Prima guerra mondiale non scoppiò per caso, ma il caso la rese un destino obbligato.Il 28 giugno 1914, dopo che fallì il primo attentato, perché la bomba cadde sotto la macchina sbagliata, l’arciduca Francesco Ferdinando volle accertarsi personalmente delle condizioni della scorta ferita. L’autista però sbagliò strada e in mezzo alla folla la macchina fu costretta a fare retromarcia senza protezione. Si trovò così di fronte all’osteria nella quale Gavrilo Princip si stava ubriacando. Si può immaginare la sorpresa del cospiratore nel trovarsi a pochi metri dalla sua vittima. Scaricò la sua Browning semiautomatica, e due colpi di rivoltella bastarono a cambiare la storia del mondo a venire. Dopo un secolo non siamo ancora usciti dall’epoca della Prima guerra mondiale.

Bella iniziativa per il prossimo 15 agosto, a Norcia, con la partecipazione del card. Pell!

Chiara, pianticella dell'Ordine Francescano

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Con un giorno di "ritardo" rispetto al pio transito (sebbene non sia un ritardo vero e proprio, atteso che morì nella sera dell'11, quando già - secondo le ore della liturgia si era nel nuovo giorno), il calendario tradizionale celebra la memoria di Santa Chiara d'Assisi.
Ella è colei che oggi la santa liturgia, e segnatamente il Martirologio tradizionale, chiama la prima e piccola pianta della povera famiglia dei Minori (primæ plantæ Páuperum Dominárum Ordinis Minórum), nel suo ramo femminile. Povera di denaro, sì, ma splendida nella magnificenza della sua miseria, perché riflette fedelmente la povertà reale del Cristo in Betlemme e sulla Croce.
Per comprendere la figura serafica di santa Chiara Sciti o Scifi, bisogna riferirsi al tempo nel quale visse. L’abuso della ricchezza e del potere feudale nel XIII sec. avevano imposto al clero ed ai monaci delle cure temporali, che, spesso, li distraevano troppo, a scapito della loro missione spirituale. Gli eretici ne prendevano argomento per accusare la Chiesa di essersi scostata così dalla povertà apostolica, mentre i buoni cattolici gemevano di questo stato di cose ed invocavano una riforma. Dio suscitò allora san Francesco, che professò, nel primo articolo della sua Regola, umile ubbidienza al papa Onorio (III) ed ai suoi successori. L’araldo del gran Re, senza bolla di privilegi, senza immunità feudali, si presentò dunque ai fedeli povero e scalzo, ma portante nelle mani, nei piedi e nel costato, il sigillo del Crocifisso e, nel suo nome, fece risuonare di nuovo sulle piazze posti ed agli incroci, la parola evangelica e le beatitudini della montagna.
Il potente abate di san Benedetto del Subasio esercitava la sua sovranità su numerose terre e fortezze nel territorio di Assisi. Il Poverello, per dare una culla alla nuova famiglia che voleva istituire, gli chiese il più povero dei suoi possedimenti, la cappella semidistrutta della Porziuncola, che diventò così la Betlemme dei Minori; chiesetta che fu esaltata - come abbiamo ricordato per il 2 agosto - da un grande privilegio celeste.
Chiara fu la perfetta imitatrice di san Francesco. Ciò che questi fece per la vita religiosa nel ramo maschile, lo fece Chiara nel ramo femminile. In principio, san Francesco le diede da professare la Regola del Patriarca san Benedetto, sull’ordine del quale volle innestare la sua nuova riforma delle recluse di San Damiano, allo scopo di stabilirle su una base canonica, già riconosciuta dalla santa Chiesa. In effetti, a seguito della decisione del IV Concilio Lateranense del 1215, di non voler autorizzare più nuove regole di vita religiosa, Francesco fu costretto a far adottare alle Povere Dame quella benedettina. Non contentandosi, tuttavia, dell’esempio dei ricchi monasteri di Benedettine diffusi all’epoca in Umbria, san Francesco stabilì che Chiara e le sue monache si legassero, tornando indietro di parecchi secoli, alle tradizioni più austere della vita benedettina, come il santo Patriarca l’aveva istituita tra le rocce solitarie di Subiaco, e nella più rigorosa povertà.
È così che Innocenzo III, prima che le Clarisse (così chiamate dal nome di Chiara) avessero una regola propria, poté scrivere loro: «Ecco, voi siete delle degne figlie del beato Benedetto».
Il monastero di San Damiano, dove Chiara visse e morì, rappresenta ancora oggi il palazzo reale di madonna paupertade. Ma, per assicurare meglio questo tesoro, la figlia spirituale del Poverello volle ottenere da Innocenzo IV, poco prima della morte, un diploma di perfetta povertà; mentre altri sollecitavano dal Pontefice romano degli onori, dei privilegi e dei beni, Chiara ambì, al contrario, per lei e per le sue sorelle il privilegio di seguire la perfetta povertà del Cristo.
Santa Chiara morì nel 1253 e fu canonizzata due anni dopo da Alessandro IV il 15 agosto 1255, in Anagni, con la bolla Clara claris praeclara.

Isidoro Arredondo, S. Chiara scaccia gli infedeli con l'Eucaristia, 1693, Museo del Prado, Madrid

Antonio Carnicero, S. Francesco taglia i capelli a Chiara ricevendo il suo proposito di consacrazione a Dio, 1787-89, Museo del Prado, Madrid



Autore anonimo, Pala di S. Chiara con scene di vita della santa, 1280 circa, Monastero di S. Chiara, Assisi

Léon François Bénouville, S. Chiara in meditazione, 1854, Musée départemental de l'Oise, Beauvais

Guercino, Visione di S. Chiara, 1615-21, Museo dell'Hermitage, San Pietroburgo

Antoni Viladomat Y Manalt, S. Francesco e S. Chiara a cena a San Damiano, 1724-33, Museu Nacional d'Art de Catalunya, Barcellona

Ambito del Murillo, Morte di S. Chiara, 1640 circa, Museo dell'Hermitage, San Pietroburgo

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