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Si fa finta che i fondamentalisti non siano islamici?

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Abbiamo già avuto modo di occuparci, più volte, nei giorni scorsi del dramma e del martirio dei cristiani in Iraq, per i quali lo scorso 1° agosto era giornata - nell'ambito della Tradizione - dedicata alla preghiera ed al digiuno nella quale abbiamo chiesto l'intercessione della Beata Vergine Maria, Regina di Palestina.
A seguito dell'incrudelimento della persecuzione nei confronti di queste inermi popolazioni, di antica tradizione cristiana, anche la CEI è intervenuta, proclamando per il 15 agosto prossimo una nuova giornata di preghiera.
Orbene, nel comunicato della Conferenza episcopale, peraltro molto generico, non si menziona che gli autori dei massacri sarebbero islamici. Questo ha suscitato diverse voci di dissenso, anche in ambito cattolico, da parte di chi, in maniera assai critica, da un lato, ha ravvisato, dalle autorità ecclesiastiche, una certa debolezza di posizione nella difesa dei cristiani perseguitati (v. qui e qui) e dall'altro, di chi evidenzia, specificatamente nel comunicato, un'evidente deformazione della verità dei fatti, tacendosi una parte non indifferente di questa, in nome di un frainteso pacifismo e di dialogo interreligioso.
Dal nostro punto di vista, però, tale ultima critica, in gran parte fondata, non è del tutto corretta se dovesse trovare conferma la notizia, diffusa su alcuni siti stranieri d'informazione, al di sopra di ogni sospetto ed indipendenti, secondo la quale il leader dell'autoproclamato califfato non sarebbe di origini interamente islamiche ed anzi la struttura dell'ISIS sarebbe stata creata - secondo quanto riferisce l'ex segretario di Stato Hillary Clinton - in funzione anti-Assad (v. anche qui); e se trovasse conferma quanto riportato dal Financial Times secondo cui gli "attacchi aerei" degli USA sarebbero un'ennesima farsa, non riuscendo - molto stranamente - ad arrestare l'avanzata dell'ISIS (v. anche qui e qui).
Sta di fatto, però, che chi fa le spese di questi discutibili giochi di potere nello scacchiere del Vicino Oriente sono, ancora una volta, le innocenti popolazioni cristiane, che subiscono violenze ed uccisioni di sorta (v. qui e qui), nel più generale e sostanziale disinteresse internazionale, che si è arrestato a mere espressioni di circostanza di commiserazione, quanto non a vere e proprie banalità.
Essi, però, sono davvero i nuovi martiri del XXI sec. ed a loro non possiamo non portare che il nostro deferente pensiero, invocando incessantemente l'Onnipotente secondo le parole del Salmo 43: Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? Exsúrge, et ne repéllas in finem. Quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? Adhæsit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádiuva nos, et líbera nos e della preghiera di Mardocheo, come ci è trasmessa dal libro di Ester (Esth. 13, 17): ... Exaudi deprecationem meam, et propitius esto sorti et funiculo tuo, et converte luctum nostrum in gaudium, ut viventes laudemus nomen tuum, Domine, et ne claudas ora te canentium, Domine Deus noster.
Oggi, poi, che ricorre la memoria liturgica tradizionale di S. Chiara, invocare la sua intercessione; Lei, che confidando nell'Eucaristia, grazie alla mano potente del Signore, arrestò, il 22 giugno 1241, l'avanzata dei saraceni di Vitale d'Aversa, al soldo di Federico II di Svevia: “Ecco, o mio Signore, vuoi tu forse consegnare nelle mani dei pagani le inermi tue serve, che ho allevato per il tuo amore? Proteggi, ti prego, Signore, queste tue serve, che io ora, da me sola, non posso salvare”. Subito una voce, come di bimbo, risuonò alle sue orecchie dal Tabernacolo: “Ego vos semper custodiamIo vi custodirò sempre!”.


Far finta che i fondamentalisti non siano islamici

di Riccardo Cascioli

«Noi non possiamo tacere», è il titolo del comunicato con cui i vescovi italiani invitano a dedicare il 15 agosto, solennità dell’Assunzione della Vergine Maria, alla preghiera per i cristiani perseguitati, in particolar modo per quelli dell’Iraq (clicca qui). È un appuntamento a cui aderiamo con convinzione: ciò che sta avvenendo è una tragedia probabilmente senza precedenti nella storia, se è vero che in queste settimane è stata cancellata in Iraq la presenza di una delle più antiche comunità cristiane che pure per quasi duemila anni aveva superato indenne (o quasi) tutti i marosi della storia. Peraltro è anche la comunità che parla ancora la stessa lingua di Gesù, l’aramaico, così che la cacciata assume anche un ulteriore valore simbolico. 

Aderiamo dunque con convinzione. Ma mentre ringraziamo la Conferenza episcopale per questa occasione che ci offre, non possiamo non provare anche un certo disagio proprio leggendo il comunicato: perché quel titolo iniziale - «Noi non possiamo tacere» - viene clamorosamente contraddetto dal contenuto, che riflette peraltro un terribile equivoco di cui sembra vittima la Chiesa, ma più in generale gran parte del mondo occidentale.

Ovvero si tace l’identità dei persecutori, non si vuole vedere chi sono davvero i carnefici e perché lo fanno. È una sorta di denuncia contro ignoti, pur avendo benissimo gli strumenti e le conoscenze per identificare i colpevoli. Nel comunicato si parla di cristiani perseguitati, scacciati, uccisi; si parla di Iraq e Nigeria; ma poi si fa riferimento a non meglio precisati terroristi e, più avanti, a integralisti. Fine. Ma chi sono costoro? Chi vuole l’eliminazione dei cristiani in Iraq, Nigeria e nella maggior parte dei paesi in cui i cristiani sono perseguitati? 

Ecco, si ha paura a dire che si tratta di islam, che i persecutori sono islamici. E non riguarda solo il comunicato della Cei, è un fatto generalizzato, nella Chiesa e nelle nostre società occidentali. Un esempio: due anni fa in Inghilterra è stato scoperto che dei fondamentalisti islamici avevano elaborato una strategia, già in fase avanzata di realizzazione, per prendere il controllo – ovvero islamizzare – alcune scuole statali a Birmingham. Da qui è suonato l’allarme, ma la cosa che è poi emersa è che le autorità locali avevano capito già da tempo quanto stava accadendo, ma non avevano detto nulla per evitare di offendere i musulmani. 

Ecco il dramma: si ha paura di offendere i musulmani. E quando si è proprio costretti a dire che i carnefici sono islamici, ci si affretta immediatamente ad aggiungere che però si ha a che fare con frange radicali che tradiscono il vero islam, che invece sarebbe una religione di pace. Ed ecco l’equivoco in cui si tiene l’opinione pubblica occidentale: si sta facendo credere che i casi dell’Iraq, della Siria, della Nigeria siano opera di gruppi tutto sommato circoscritti, che usano la religione contro lo stesso islam. E a questo scopo si dà uno sproporzionato risalto ai casi di musulmani che difendono i cristiani o che prendono posizione contro quanto sta combinando l’Isis in Iraq. Giusto fare emergere anche queste storie e valorizzarle, ma non a scapito della realtà.

È vero che ci sono tantissimi musulmani che desiderano vivere in pace, che ci sono alcuni che hanno dato anche la propria vita per difendere i cristiani in Iraq e che sono tanti a non volere i fondamentalisti dell’Isis o i nigeriani di Boko Haram. Ma non si può fare finta che non ci sia un problema con l’islam.

È un approccio errato sia dal punto di vista concettuale sia storico. Concettuale: sostenere che «il vero islam rifiuta la violenza» è un pio desiderio, non la realtà. Come ha scritto l’islamologo padre Samir Khalil Samir: «Che la maggioranza dei musulmani possa essere contraria alla violenza, può anche darsi. Ma dire che "il vero islam è contrario ad ogni violenza", non mi sembra vero: la violenza è nel Corano». E spiega: «Nella sua vita, Maometto ha fatto più di 60 guerre; ora se Maometto è il modello eccellente (come dice il Corano 33:21), non sorprende che certi musulmani usino anche loro la violenza ad imitazione del Fondatore dell'Islam».

Il fondamentalismo, oggi ampiamente dominante nel mondo islamico anche se in diverse versioni, è dunque semplicemente la riproposizione del modello maomettano. È vero che ci sono nel mondo islamico studiosi, intellettuali che propongono una reinterpretazione del Corano in chiave spirituale, sottolineando la storicità di certi contenuti legati al mondo arabo al tempo in cui è nato l’islam, ma si tratta di un fenomeno oggi ancora nettamente minoritario. E comunque non si può continuare a far finta di avere a che fare con un islam che in realtà non esiste.

Una seconda questione che viene sottovalutata è la mancanza di una autorità nell’islam. Ogni imam, ogni muftì, in fondo rappresenta se stesso e chi lo segue, non c’è un interlocutore riconosciuto che possa parlare a nome almeno di una parte riconoscibile del mondo islamico. Questo rende velleitario qualsiasi tentativo di un “dialogo” con l’islam, il dialogo come lo si intende comunemente è semplicemente impossibile. È possibile invece – e auspicabile - un rapporto con i singoli musulmani, e di questo sono segno i casi citati di islamici iracheni a difesa delle abitazioni dei cristiani. Ma è comunque una realtà che spazza via un certo irenismo che va di moda in ambienti cattolici.

La mancanza di un’autorità religiosa riconosciuta fa sì che allora all’interno del mondo musulmano diventino decisivi i rapporti di forza tra diverse correnti. E oggi dominano i gruppi fondamentalisti, anche grazie alla loro organizzazione.

E qui arriviamo all’errore “storico” che anche nella Chiesa si fa: il fondamentalismo islamico che vediamo all’opera in Medio Oriente e in Africa non riguarda solo quelle regioni, ma ce l’abbiamo anche in casa e in costante crescita. Lo rivelano anzitutto gli ormai innumerevoli casi accertati di combattenti in Siria e Iraq partiti dall’Europa. Non ci si faccia illusioni: non appena la situazione si stabilizzerà in quelle regioni torneranno in Europa per proseguire la stessa guerra. 

Non solo: ci sono altre associazioni islamiche, legate o comunque vicine ai Fratelli musulmani, che pur presentandosi in modo diverso condividono lo stesso progetto del Califfato. Arrivandoci in altro modo, dal basso e gradualmente, ma l’obiettivo è lo stesso. Conquistare l'Europa è un obiettivo sempre più spesso dichiarato pubblicamente. E sono le associazioni e le personalità che più vengono scelte come interlocutori sia dalle autorità ecclesiastiche sia da quelle civili. In pratica stiamo spalancando le porte a chi aspetta solo il momento giusto per eliminarci. Del resto la cecità di fronte alla realtà dell’islam ha già fatto sì che Europa e Usa, con le loro scellerate scelte politiche, abbiano agevolato enormemente l’ascesa di qaedisti e salafiti nei paesi del Nord Africa (vedi Libia) e del Medio Oriente. Per non parlare della (non) gestione del fenomeno dell’immigrazione.

Piaccia o no l’islam rappresenta una grave minaccia per la nostra civiltà e una preghiera per i cristiani perseguitati che non abbia questa consapevolezza rischia di essere solo un pio sentimentalismo.


Una buona lettura estiva: "Lamentazione sui tempi presenti" del Cardinale Giacomo Biffi

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Si tratta di un estratto di un testo del 1984 dell'allora da poco nominato arcivescovo di Bologna, Mons. Giacomo Biffi, poi divenuto cardinale e che fu ripubblicato nel 2012. A distanza di tanti anni, esso mantiene ancora la sua freschezza ed attualità nel diagnosticare alcuni mali del tempo presente, e segnatamente della Chiesa.

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Lamentazione sui tempi presenti del Cardinale Giacomo Biffi

L’ideologia post-conciliare

Essa deriva sì storicamente dal Vaticano II e dal suo magistero, ma attraverso un processo di “distillazione fraudolenta” immediatamente posto in atto all’indomani dell’assise ecumenica. L’operazione potrebbe schematicamente essere descritta così: la prima fase sta nella lettura discriminatoria dei passi conciliari, che distingue tra quelli accolti e citabili, e quelli da passare sotto silenzio; nella seconda fase si riconosce come vero insegnamento del concilio non quello effettivamente formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe dato se non fosse stata afflitta dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito; con la terza fase si arriva a dire che la vera dottrina del concilio non è quella di fatto canonicamente approvata ma quella che avrebbe dovuto essere approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coraggiosi, più coerenti. Con un metodo esegetico siffatto – non enunciato mai in modo esplicito, ma non per questo meno implacabilmente applicato – è facile immaginare i risultati. I quali, per quanto remoti siano dalla verità cattolica, vengono sempre messi in conto al Vaticano II; e chi si azzarda anche timidamente a dissentire è segnato col marchio infamante di “preconciliare”, quando non è addirittura classificato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti. E poiché tra i “distillati di frodo” dal Vaticano II c’è anche il principio che nessun errore può essere condannato nella Chiesa a meno di peccare contro il dovere della comprensione e del dialogo, nessuno osa più denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando il popolo di Dio.

Concilio e “post-concilio”

Credo che il lavoro preliminare da compiere sia di distinguere accuratamente il concilio dal “postconcilio”, in modo che si possa accogliere il primo con totale cordialità e valutare il secondo alla luce del primo e di tutto l’insegnamento rivelato con animo libero da qualunque intimidazione e da qualunque ricatto culturale. Questa distinzione non deve turbare un cuore credente. Chi alla luce della fede riflette sulla storia della salvezza, sa benissimo che nella nostra vicenda come non c’è evento nefasto dal quale Dio non ricavi qualche bene per i suoi figli, così non c’è divino capolavoro che il demonio non tenti di tramutare per qualche aspetto in occasione di malessere e di rovina. Il che vale anche per il Vaticano II, opera senza dubbio provvidenziale e supernamente ispirata.

Gli “idoli” post-conciliari

Propiziati dal “post-concilio”, nella coscienza della cristianità contemporanea si celano, come nella sella del cammello di Rachele (Gn 31,19.34), molti svariati idoletti. Non tentiamo di ricordarli tutti ovviamente; ci limitiamo a segnalare quelli che più vistosamente influenzano tanto la ricerca teoretica quanto l’attività pastorale.

1. La “antropolatria

Nei primi decenni del secolo XIX Feuerbach affermava che “il segreto della teologia è l’antropologia” e vagheggiava l’avvento di una teologia di nuovo genere, contrassegnata dal fatto “che essa pone nell’al di qua l’essere divino che la teologia comune, per paura e incomprensione, pone nell’al di là”. Viene da pensare che il pensatore tedesco, sia pure anonimamente, abbia fatto scuola presso molti cattolici della seconda metà del secolo XX e che la sua aberrante intuizione, probabilmente veicolata dalla grande ubriacatura marxista, dopo tanto tempo sia stata tacitamente ricevuta. L’uomo sembra divenuto l’unico oggetto dei nostri pensieri, dei nostri interessi, della nostra adorazione. E, nel desiderio di coglierlo in se stesso, nella sua autonoma e singolare natura, si è addirittura proposto da qualcuno che anche il credente debba guardare l’uomo “ut si Deus non daretur”, come se Dio non ci fosse, prescindendo cioè dal suo Creatore e valutando soltanto l’umanità come tale, presa a sé e separata da qualunque dipendenza e da qualunque superiore significazione. Sennonché l’uomo è intrinsecamente e non per un sopraggiunto rivestimento “immagine di Dio” e totale relazione a lui; e dunque escludere Dio sia pur metodologicamente dalla prospettiva sull’uomo vuol dire snaturare l’uomo e non coglierlo nella sua verità. Se con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che credono in Dio avvertono quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa (Gaudium et spes, 36). Si arriva così anzi a una contraddizione esistenziale. Noi siamo “adoratori costituzionali”: privati ideologicamente del vero Dio, rivolgiamo necessariamente altrove i nostri insopprimibili impulsi latreutici e ci poniamo ad adorare le creature, prima di ogni altra l’uomo. D’altra parte, l’uomo avulso dal suo Archetipo e dalla sua Sorgente è così fragile, debole, manipolabile, che, nell’atto stesso in cui crediamo di adorarlo, poniamo le premesse della sua profanazione. È facile rilevare come lo smarrimento del Padre abbia di solito fatalmente condotto sia al culto indebito della personalità e alla venerazione del tiranno sia alla schiavizzazione dei fratelli. Naturalmente questa “antropolatria” non ha niente a che vedere con l‘“antropocentrismo” di chi riconosce nell’uomo “il culmine dell’universo e la suprema bellezza del creato”, colui che detiene “la sovranità su tutti gli esseri viventi”, come dice sant’Ambrogio. L’antropocentrismo è prerogativa essenziale del disegno divino, in quest’ordine di cose liberamente eletto tra gli infiniti possibili, dal momento che il Padre ha collocato Cristo Gesù, uomo divinamente personalizzato, al centro di tutto e in lui ha chiamato tutti gli uomini a sé, facendoli partecipare, mediante l’inabitazione dello Spirito Santo, prima alla sua natura e poi alla sua stessa gloria. Come si vede, il vero antropocentrismo include nel suo stesso contenuto concettuale il rapporto privilegiato col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e non lascia spazio ad alcuna forma di antropolatria. Antropolatria e antropocentrismo, anche se all’esterno possono presentare qualche somiglianza, nella realtà sono dunque diversi e incompatibili. L’antropolatria è propria di chi ha “cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile” (Rm 1,23); ed è l’approdo obbligato di chi, perdendo di vista l’Autore dell’essere e della vita, ha in sostanza una visione atea del mondo. L’antropocentrismo è proprio di chi onora l’uomo per quello che l’uomo è; esso non insidia affatto il culto del vero Dio, costituisce la predella da cui ci si può lanciare al riconoscimento del Padre. La cultura antropolatrica dà regolarmente origine a società disumane, nelle quali l’uomo – teoricamente adorato – è di fatto avvilito, reso servo, privato di ogni scopo plausibile dell’esistere. La cultura antropocentrica è un appello intrinseco al Padre e al suo disegno d’amore, senza di che l’uomo non solo non può essere visto come il centro di tutte le cose, ma appare piuttosto un frammento trascurabile di materia alla deriva sul mare dell’insignificanza. L’esteriore somiglianza può talvolta indurre in equivoci; ma non – c’è dialogo o convivenza possibile tra antropolatria e antropocentrismo, a meno che l’una o l’altra comincino a non essere più nei fatti quello che il loro nome significa in sé. In realtà la questione della riscoperta del Padre è preliminare a ogni serio discorso su un umanesimo non illusorio. Una delle citazioni più frequentemente ripetute in questi anni è la splendente frase di Ireneo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”. Se ne coglierebbe meglio la verità, si eviterebbe il pericolo di travisamenti ideologicamente strumentalizzati, si dimostrerebbe maggior rispetto verso il pensiero dell’antico scrittore, se ci si abituasse a riferirla nella sua integrità: “La gloria di Dio é l’uomo vivente; ma la vita dell’uomo sta nella contemplazione di Dio”.

2. La “cronolatria”

Il secondo idolo è stato indicato da J. Maritain, quando ha parlato di “cronolatria” o “adorazione dell’attualità”. La lucidità della denuncia del pensatore francese non ha però impedito che questo “culto” si estendesse e si affermasse sempre più nella cristianità, al punto da essere ormai un’abitudine mentale acquisita che neppure sente più il bisogno di giustificarsi. Senza affermarsi mai espressamente, essa trapela in modo spesso involontario e quindi tanto più significativo dal linguaggio d’uso corrente, nel quale l’aggettivazione del biasimo teorico non è: falso, errato, illogico, cattivo, aberrante; ma piuttosto: superato, sorpassato, attardato, vecchio. Non conta tanto la verità quanto la formulazione recente. Le idee, come le uova, devono essere “di giornata”. Talvolta si sente perfino squalificare un teologo o un vescovo con la frase: “è fermo al concilio di Trento”; dove è mirabile il fatto che la condanna sia espressa con l’indicazione non di ciò che, una volta dimostrato, potrebbe costituire una giusta critica (e cioè, ad esempio, la non consonanza con l’insegnamento del Vaticano II), ma di ciò che dovrebbe se mai rappresentare un titolo di merito (e cioè la fedeltà alla dottrina di un magistero solenne che, per quanto antico, resta tuttora autorevole). E con questa disinvoltura “cronolatrica” ci si dispensa dall’addurre le prove di una eventuale infedeltà al magistero più recente. Allo stesso modo, veniamo spesso esortati a pregare per gli “uomini del nostro tempo”, come se qualcuno fosse mai tentato di ricordare nelle sue orazioni gli assiro-babilonesi; o a vivere nel “mondo di oggi”, contro il pericolo di sconfinare inavvertitamente nell’epoca carolingia; o a impegnarci a “essere moderni”, che è un po’ come se una mucca si impegnasse ad avere la coda. Non ci si meraviglia allora di notare che il tema della “vita eterna” si faccia sempre più raro nei discorsi ecclesiastici, dove invece hanno sempre più larga parte le questioni del “tempo presente”. Queste è giusto e doveroso affrontare senza evasioni alienanti, ma non “invece di quella”, bensì “alla luce di quella”: solo con la coscienza sempre pungente della “vita eterna” e della sua impareggiabile rilevanza è possibile “redimere il tempo presente”, ridonandogli senso e spessore. Naturalmente non c’è niente di male nell’uso di queste locuzioni, le quali possono anche avere la buona finalità di richiamare il cristiano da un atteggiamento “astratto” e troppo remoto dalle condizioni esistenziali. Ma, considerate come un “vezzo linguistico”, sono la spia di un atteggiamento spirituale indebitamente ossessionato dal culto dell’attualità. Si ha talvolta l’impressione che i credenti si ritengano piuttosto mobilitati a riscattare il tempo presente, non dalla vanità e dalla malizia dei “giorni cattivi” (cfr. Ef 5,16), ma proprio dalla incombenza oppressiva dell’eterno, il quale – se è troppo insistentemente rammemorato – si teme non lasci spazio all’inserimento nel quotidiano. Il caso è preoccupante: quando si scambia il fondamento della libertà con la ragione della tirannia, la medicina con la malattia, la fonte dell’energia con la causa della paralisi, le speranze di sopravvivere sono poche. Di solito, poi, prevaricare nei confronti della fede porta anche ad attentare alla ragione. E in effetti la “cronolatria”, rovesciando la prospettiva cristiana, guasta altresì i meccanismi del raziocinio. ”Lo spirito che si inquieta per la verità e arriva a cogliere la verità, trascende il tempo”. Perciò “sottoporre le cose dello spirito alla legge dell’effimero, che è quella della materia e del puro fatto biologico”, vuol dire soffocare la vita stessa dell’anima. Quando resta se stessa e non viene traviata, “la ragione non si preoccupa di essere inserita o di accettare la storia, né allo stesso modo si interessa e si dà pena di essere contemporanea, ma solo di essere ‘ragione’, perciò di essere vera”.

3. La “cosmolatria”

Di tutte le idolatrie che ci affliggono, l’adorazione del mondo è senza dubbio la più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male della Sposa di Cristo senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma se azzarda a scrivere due righe contro il “mondo”, deve aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da parte dei recensori più benevoli e pii. Questa “cosmolatria” fa tanto più spicco in quanto stride con tutta la consuetudine linguistica dell’ascetica tradizionale: la “fuga dal mondo”, la “rinuncia al mondo”, il “disprezzo del mondo” dai primordi del cristianesimo fino a pochi anni fa sono, stati temi classici della riflessione e della predicazione; ebbene, di essi nelle comunità cristiane di oggi non si trova più traccia. Al loro posto si propone l’ “inserimento nel mondo” e perfino il “servizio del mondo”. A esaminare con attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per esempio, alcuni formulari suggeriti da qualche parte per le preghiere dei fedeli) si ha l’impressione che i due vocaboli “mondo” e “Chiesa” rispetto all’uso di prima si siano semplicemente scambiati di senso. Si implora sempre infatti che la Chiesa capisca, riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga riconosciuto e appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue necessità, esaltato nei suoi valori. Ad ascoltare certe celebrazioni del mondo viene da domandarci perché mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la Chiesa, peggiorando notevolmente le cose. Almeno sul piano terminologico è innegabile la rottura con tutta la tradizione precedente. Ma è davvero soltanto una questione di vocabolario? All’origine di questo mutamento c’è la “Gaudium et spes”; ma si tratta della “Gaudium et spes” passata al filtro della ideologia post-conciliare e, così mortificata, acriticamente accolta da molti strati della cristianità. Affrontando il tema dei rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo, il Vaticano II ha compiuto un’opera preziosa di chiarificazione e di illuminazione. Mettendosi nella prospettiva della Genesi e della Somma teologica, vale a dire considerando la natura umana e il mondo in ciò che li costituisce in se stessi, la Costituzione pastorale afferma senza esitazioni la loro bontà radicale e l’invito al progresso che, per quanto ostacolato dall’ambiguità della materia e dalle ferite del peccato, è iscritto nella loro essenza. E mostra, non solo in maniera generale ma con analisi molto accurata e con tutta la generosità che deriva dalla divina carità, come la Chiesa, restando perfettamente nel campo della sua missione esclusivamente spirituale e nell’ambito delle “cose di Dio”, possa e voglia aiutare il mondo e la specie umana nel loro sforzo di avanzare verso i loro fini temporali. A dire il vero si trova qui nuovamente affermata la dottrina perenne della Chiesa – ma con connotazioni nuove ed eccezionalmente importanti, dal momento che è riaffermata sotto il segno della libertà – non più per rivendicare il diritto della Chiesa di intervenire ratione peccati nelle cose del mondo al fine di combattere il male (a questo, credo, sarà sempre obbligata, sotto una forma o l’altra), ma per dichiarare il suo diritto, e la sua volontà, di animare, stimolare, assistere dall’alto, ratione boni perficiendi, se posso dire, e senza attentare all’autonomia del temporale, gli sviluppi del mondo verso il raggiungimento di un bene più grande. Ma l’ideologia postconciliare, oltrepassando indebitamente questa prospettiva, ha letto il documento come se esso avesse voluto offrire – a proposito delle relazioni tra il “mondo”, di cui si parla ripetutamente negli scritti apostolici, e la Chiesa – un insegnamento in netto contrasto con quello delle pagine di san Giovanni e di san Giacomo. Il prevalere di questa ideologia ci spiega come mai in questo tempo di esasperato biblismo ci siano molte frasi del Nuovo Testamento che non si ascoltano mai: è una sorta di censura tacita ma severissima, esercitata sul Libro di Dio. Proprio perché la parola di Dio non sia incatenata (cfr. 2 Tm 2,9), ne trascriviamo un po’ per comodità del lettore.”Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive” (Gv 7,7).”Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv12,31).”Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv 14,27).”Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,18-19).”Quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio” (Gv 16,8).”Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).”Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 17,9).”Io ho dato loro la mia parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,14).”Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17,25).”Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (1 Gv 2,15).”Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!” (1 Gv 2,17).”La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui” (1 Gv 3,1).”Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia” (1 Gv 3,13).”Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa é la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,4-5).”Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1 Gv 5,19).”Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27).”Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio!” (Gc 4,4).”Il mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio” (1 Cor 1,21).”Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio” (1 Cor 2,12).”La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio” (1 Cor 3,19).”La tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10).”Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Sappiamo benissimo che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento altre espressioni nelle quali la parola “mondo” indica la creazione di Dio che è buona, e l’umanità che è in attesa della salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non saperlo, perché sono passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte le parti; sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes, fortunatamente non si pone. Si pone invece per quelle che abbiamo sopra elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella cristianità dei nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato soltanto il linguaggio, sotto quali locuzioni dei nostri giorni questa dottrina si cela? Tutto sembra farci pensare che si tratti non del disuso di una terminologia, ma di un insegnamento esplicito della Rivelazione che non ha più posto nell’odierna riflessione teologica e pastorale. Così, privo delle naturali difese immunizzatrici, l’organismo ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella “cosmolatria” che stiamo qui denunciando. Occorre ripartire dal dato rivelato preso nella sua integrità, senza operarvi nessuna aprioristica selezione. Una frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la multiformità della parola di Dio a proposito di “mondo”.”Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10).In due righe il vocabolo compare tre volte e sempre con sfumature diverse.”Era nel mondo”: si riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella realtà creaturale. E’ una indicazione che non implica alcuna valutazione. Nello stesso senso la parabola del seme dice: “il campo è il mondo” (Mt 13,38). ”Il mondo fu fatto per mezzo di lui”: qui è implicitamente affermata l’originaria bontà del mondo, e quindi la presumibile disposizione di accoglienza verso il Figlio di Dio. Allo stesso modo è detto che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). ”Eppure il mondo non lo riconobbe”: qui la parola “mondo” esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente, ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre l’iniziativa salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente ammonito di non perdere mai di vista e non sottovalutare questa tragica realtà. Il mondo è dunque o un semplice spazio o una realtà nativamente buona ma da redimere o una forza malvagia che resiste alla redenzione e cerca di vanificarla. Nessuna di queste tre verità va trascurata Ciò che non c’è nel Nuovo Testamento è l’idea che la Chiesa debba essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo. Neppure c’è l’idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa. Chi muove dalla pur giusta convinzione dell’intrinseco e inalienabile valore delle cose, create da Dio e da lui riconosciute come “buone” (cfr. Gn 1), e ritiene che qui si esaurisca quanto il cristiano ha da dire sul “mondo”, rischia obiettivamente di non riconoscere la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la redenzione e di rendere superflua la croce di Cristo. Molti atteggiamenti rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del “mondo” sarebbero plausibili in un ordine di cose di incontaminata innocenza; un ordine bello in sé e desiderabile, che però non esiste. L’irenismo a ogni costo nei confronti di tutto e di tutti è forse una nostalgia per la pace del Paradiso terrestre (dove per altro non mancava il serpente); o, se si vuole, è un’abusiva pregustazione dello stato d’animo che ci rallegrerà nell’eterna Gerusalemme: rispetto al tempo di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione. Il “servizio del mondo”. Parrebbe anche utile una breve riflessione circa il “servizio del mondo”, che ci viene indicato spesso come dovere della Chiesa e dei credenti. L’affermazione è carica di ambiguità e, se non è chiarita, può alla lunga provocare una visione distorta dell’impegno cristiano. Gli equivoci possibili sono due: sul concetto di “mondo” e sul dovere del “servizio”. Per “mondo” qui si può intendere solo l’umanità che – dolorante, sviata, senza luce – è in attesa della salvezza. Non certo il “mondo” per il quale il Signore non ha pregato e che poi dalla parola di Dio siamo invitati a odiare; della cui oscura esistenza non dobbiamo mai dimenticarci. E il “servizio” più urgente e necessario che può essere reso agli uomini decaduti e infelici è l’annuncio del Salvatore e del progetto d’amore che il Padre ha pensato per noi: questa é la vera “promozione umana”, che poi diventa la molla propulsiva di ogni altro “progresso” nel benessere, nella pace sociale, nella giustizia terrena. Va anche detto che l’unico a dover essere propriamente e direttamente servito da noi è il Figlio di Dio, Gesù Cristo. “Ci sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore” (1 Cor 12,5). Nessun altro può essere riconosciuto come padrone. Vero è che l’unico nostro Signore si è fatto “servo” di tutti: e noi, se vogliamo veramente e concretamente servirlo, dobbiamo servirlo anche associandoci a lui in questo servizio degli altri e attendendo dunque alle necessità reali di tutti. La delucidazione, che può sembrare sottile e puntigliosa, è invece essenziale: noi, servi di Cristo, diventiamo in lui servi degli uomini; ma non per questo siamo tenuti a dare agli uomini sempre ciò che a loro piace o che da noi essi si aspettano. Noi abbiamo il “foro”. Un secondo esempio significativo è dato dal fenomeno del monachesimo, che, chiudendosi nel microcosmo del monastero per inseguire l’ideale di una vita evangelica perfettamente coerente, di fatto ha contribuito in modo determinante al sorgere della nuova Europa. È curioso notare nella storia ecclesiale che il programma spirituale e culturale della “fuga dal mondo” di solito riesce ad animare un’azione incisiva nella società e a riplasmarla effettivamente alla luce del Vangelo. Basti pensare all’incidenza nella realtà sociale e politica del suo tempo di sant’Ambrogio, che pure ha scritto un De fuga saeculi e teorizza continuamente nei suoi scritti l’urgenza della solitudine.

4. La “schizolatria”

La quarta “latria” nasce ed è alimentata da una “fobia”. La paura ossessiva dell’integralismo – cioè dell’abitudine mentale a risolvere tutti i problemi umani di ogni ordine e grado deducendo immediatamente le soluzioni dai princìpi di fede – induce alcuni incauti al culto esasperato della divisione degli ambiti e alla esaltazione della totale impermeabilità tra un piano e l’altro dell’impegno umano. Alcune annotazioni si impongono a questo proposito. L’inerzia mentale, lo schematismo linguistico, l’incapacità a seguire l’effettivo succedersi dei mutamenti culturali cospirano a tenere nascosto agli occhi di molti il fatto che un integralismo cattolico – che pur ha avuto una sua lunga e deleteria stagione – oggi non esiste più se non in frange trascurabili della cristianità. È morto da un pezzo, anche se il suo fantasma è continuamente evocato da alcuni sprovveduti e da molti interessati. A lottare contro le ombre non c’è pericolo di farsi male, e perciò sono numerosi i prodi che si slanciano in queste battaglie. Per contro esistono – graffianti, acritici, sicuri di sé – altri integralismi di vario colore: c’è un integralismo marxista, un integralismo radicale, un integralismo laicista, un integralismo liberale, perfino un integralismo mazziniano. Ogni “parrocchia” politica in Italia ritiene di avere una concezione totalizzante della realtà, in grado di portare luce su ogni questione, ivi comprese quelle che si riferiscono alla coscienza morale, ai contenuti dell’impegno religioso. alle forme di esercizio del, magistero ecclesiale. Tutte queste “parrocchie” si adoperano a tenere viva la fobia dell’integralismo cattolico; e il più delle volte viene contrassegnato con questa etichetta ogni desiderio di coerenza cristiana ed è condannata a questo titolo ogni determinazione di irradiare la fede nella cultura e nella vita. Né c’è da stupirsene; stupisce piuttosto che questo tipo di intolleranza trovi consensi in molti credenti anche sinceri. Ma la schizolatria è soprattutto un attentato alla retta visione cristiana della realtà. Essa sembra dimenticare totalmente l’esistenza di un solo Signore, nel quale, per mezzo del quale, in vista del quale tutto esiste, sia nell’ordine della redenzione sia nell’ordine della creazione. Conseguentemente colpisce al cuore l’unità del piano divino e la stessa ultima intelligibilità di questo universo di fatto esistente. Ci sia consentito riprodurre qui alcune pagine lucidissime di Inos Biffi, meritevoli di rilettura e di approfondita meditazione. ”Il primo punto di partenza non esatto è la suddivisione, anzi la distinzione tra piano creaturale / o di natura, e piano redentivo / o della grazia. Questa distinzione, che per qualcuno arriva persino alla separazione, non è teologicamente accettabile e proponibile. Essa viene a misconoscere il dato primo dell’attuale e concreto ordine di realtà: ed è il progetto originario, assoluto e totalizzante – su cui abbiamo già insistito – consistente nella predestinazione dell’uomo e dell’universo in Gesù Cristo risorto da morte. E’, indubbio che Dio avrebbe potuto concepire un altro ordine di provvidenza; è indiscutibile che solo la fede – che fa uditori della Parola – trasmette integralmente questo disegno originario di fronte al quale tutti gli altri sono ipotetici: ma questo è in ogni modo un fatto, fuori del quale esiste solo, obiettivamente, la non esistenza o l’ipotesi. Una teologia corretta non accetterà mai un ordine naturale e ad esso giustapposto un ordine soprannaturale concretamente esistenti e che si tratterebbe di tenere uniti. E di conseguenza: una specie di natura-ragione neutra, valida per tutti, non riferita a Gesù Cristo, di “pura” entità “creaturale” (ossia dipendente dalla pura creazione). Ne deriva che, se per mediazione si dovesse intendere l’atto di chi si sforza di mettere insieme tali due ordini inizialmente separati, essa è semplicemente scorretta e impossibile. Purtroppo ci è dato di constatare che un certo linguaggio e certe impostazioni concettuali traducono esattamente questa inconsistente dicotomia. Manca un pensiero che traduca, oltre la cultura religiosa e storica, una dottrina teologica criticamente fondata. La verità è un’altra: nel disegno originario in Gesù Cristo è compresa la “ragione”, la “filosofia”, l’incontrovertibilità, dell’essere e vi è compresa non come sostituibile dalla fede, ma nella sua specificità. Per il fatto di essere creata in Gesù Cristo la ragione non smette di essere tale: l’accoglienza per fede del disegno divino in Cristo non la degenera e non la umilia. Per poter giustamente parlare di mediazioni bisogna uscire da questo equivoco. Il cristiano va anche più avanti: egli intende la grazia non solo non adulterante, ma di fatto sanante la ragione: la redenzione in certo modo rende la ragione a se stessa. Un secondo punto di partenza non esatto sarebbe quello di porre da un lato il dato della fede, dall’altro il dato della storia, e quindi della temporalità, della politica, come se alla fede non appartenesse la storicità, la politicità, in una parola sola: l’antropologia filosofica. Ci sono dati di intelligibilità e di struttura antropologica la cui mortificazione significherebbe la mortificazione dello stesso disegno originario. Il cristiano non prende a prestito dalla filosofia pagana-neutra la dimensione razionale dell’uomo: piuttosto, eventualmente, riconosce che al di fuori dell’orizzonte della fede consapevole esistono valori obiettivamente appartenenti al piano di salvezza, il quale non si separa e non si distingue affatto – in concreto! – dal piano “creaturale” come abbiamo ora detto. Facendo storia, cultura, politica, ecc., il cristiano non fa altro che rilevare e determinare una dimensione del contenuto della sua fede, mettendo in atto la razionalità che è un reale ingrediente del disegno divino: un ingrediente che richiede riflessione, ricerca, confronto; che conclude a gradi più o meno di certezza, che lascia spazi di ipoteticità e margini di pluralismo. Se è vero in un certo senso che non c’è passaggio diretto dalla fede alla politica, è altrettanto vero che la politica mette in opera elementi che non sono discordi o àlteri rispetto al piano integrale originario. S’è parlato, con preciso fondamento, di “umanesimo integrale”. Occorrerebbe più compiutamente parlare di “cristianesimo integrale”. Ancora: si è detto – e giustamente in una determinata prospettiva – che si deve distinguere per unire: nella nostra prospettiva va detto che si deve “distinguere nell’unito”. Una mediazione che fosse configurata come lo sforzo o l’impegno di tenere insieme la salvezza e la storia, il vangelo e la politica, come se fossero costitutivamente separati, è una pura ideologia, in quanto immagina radicalmente fuori il secondo versante dall’ordine salvifico; oppure m quanto si rappresenta piuttosto miticamente la storia come entità a sé da ‘battezzare’. L’originario costitutivo impone una filosofia, con le sue proprietà caratterizzanti: essa è un compito del credente – e ognuno, dotto o indotto, la pone, sia pure con diversa teorizzazione. È vero che il cristianesimo non può fare a meno della filosofia, ma il motivo è perché l’uomo creato da Dio in Gesù Cristo è un essere “filosofico”, con quel che ne consegue”.

5. La “bibliolatria

Il culto della Sacra Scrittura, la riscoperta del suo valore vitale, gli studi di cui è fatta oggetto rappresentano certamente una preziosa conquista del nostro tempo. Possiamo anzi dire che ancora non è letta, meditata, amata abbastanza dai cattolici: è augurabile che si abbia a progredire su questa strada a passo più spedito e con animo più risoluto. Pure c’è qualcosa che ci inquieta nel modo attuale di accostarci al Libro di Dio e ci spinge a formulare alcune osservazioni, che proponiamo candidamente trascurando il rischio non ipotetico di essere fraintesi e mal giudicati. Noi non siamo il “popolo del Libro”; a rigore non siamo neppure il “popolo della Parola”: siamo il “popolo dell’avvenimento”. La Parola di Dio risuona all’interno dell’evento salvifico e, rendendolo non solo un fatto ma anche una illuminazione, non solo una “res” ma anche un “signum” eloquente, non solo un “mistero” ma anche un “evangelo”, lo offre alla nostra contemplazione perché la contemplazione ci porti alla partecipazione intera della vita. La “pagina sacra” è il mezzo privilegiato con cui possiamo arrivare alla “Parola” per nutrircene e vivere con intelligenza nell’evento. Non è dunque un assoluto, ma è ordinata all’avvenimento. L’avvenimento resterà nel Regno eterno, quando la Bibbia non avrà più sussistenza e valore. Per circa un secolo la Chiesa non ha avuto un canone dei libri sacri cristiani, senza che per questo potesse dirsi manchevole di qualche elemento essenziale. Anche quando i vangeli non erano ancora stati scritti né erano state ancora raccolte le lettere degli apostoli, la Parola di Dio risuonava con tutta la sua forza nella Chiesa e la salvezza era presente e operante. Chi si colloca integralmente all’interno dell’avvenimento, si pone nelle condizioni di leggere giustamente la Sacra Scrittura e di coglierne il senso ultimo. Chi non si colloca integralmente, o almeno non con sempre rinnovata coscienza, all’interno dell’avvenimento, per quanto numerose, erudite, scientificamente vagliate si facciano le sue citazioni è sempre in pericolo di rimanere all’esterno del Libro di Dio e di non gustare la sua saporosa sostanza. A cominciare dal demonio, che nelle narrazioni sinottiche appare bravissimo nell’addurre i passi ispirati a sostegno delle sue argomentazioni, la storia delle aberrazioni teologiche è caratterizzata dall’abbondante ricorso da parte degli eretici ai testi scritturistici. E per la verità anche ai nostri giorni assistiamo talvolta ad “alluvioni” di frasi bibliche che nascondono una fondamentale infedeltà alla Parola di Dio. Ma c’è una insidia più subdola e perniciosa: l’uso abbondante e quasi ossessivo della Bibbia – staccato però dalla consapevolezza sempre richiamata dell’avvenimento salvifico, il quale include anche la Sacra Scrittura e la trascende – può condurre a una visione meramente “culturale” del cristianesimo e rendere l’atto di fede non più un “assenso reale” ma un puro “assenso nozionale” mentre – come splendidamente dice san Tommaso, “actus credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”: l’atto di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni ma una realtà. La distinzione tra “assenso nozionale” e “assenso reale” è uno dei concetti fondamentali della Grammatica dell’assenso, di J.H. Newman. In realtà, in campo teologico la questione è ancora più seria di quel che per il campo pastorale abbiamo qui cercato di dire. Il pericolo sta nell’insensibile ma sempre più vasto affermarsi della tendenza (crediamo non pienamente consapevole) a considerare la “res” – attinta nell’atto di fede, quando l’atto di fede c’è veramente – scientificamente inconoscibile come il “noumeno” kantiano, e quindi non più oggetto di attività teologica, la quale si esercita soltanto sul “fenomeno”. Di qui la risoluzione della teologia nell’esegesi, e poi anche nella storiografia, nella metodologia, nello studio delle mediazioni con le filosofie contemporanee, nella psicologia religiosa, nella sociologia religiosa ecc. Sventurato quel teologo o quell’esegeta che, pensando a Gesù Cristo, primariamente e come d’istinto si richiama a un personaggio della catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al Salvatore che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto antecedentemente a tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni testimonianza, come qualcuno che vive. Un uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: “Dov’é Gesù?” risponde in modo del tutto ovvio e naturale: “In cielo alla destra del Padre e in chiesa nel tabernacolo”, senza che gli passi lontanamente per la testa di tirare in campo la Sacra Scrittura. Questo, per lui, è l’indirizzo di una persona reale e concreta. Guai se l’interrogazione cominciasse ad avere come risposta: “Si trova nel vangelo di Luca, nel ‘corpus’ giovanneo, nella lettera agli Ebrei”; cominciasse cioè ad avere come risposta l’indicazione di un “luogo” letterario. Nei modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura diventa non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al mistero che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il Signore Gesù. Così sarebbe un “idolo”. Da questo ” idolo ” deve essere purificato il santuario del nostro cuore e il “tempio” della comunità cristiana radunata in Cristo e offerta al Padre dall’impeto dello Spirito.

Alcuni segni di sanità teologica e pastorale

La rassegna delle più diffuse “idolatrie” non deve indurci a credere che tutto sia traviato nella cristianità e non ci siano più veri adoratori del Dio vivo. Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito Santo è all’opera oggi più che mai e riesce coi suoi inattesi prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una insipienza ecclesiale che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione. E così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un’acutissima mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall’incontro con persone, gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni spirituali diverse, sinceramente si determinano a una generosa adesione all’Evangelo e a una totale partecipazione all’evento salvifico. Il fenomeno, che complessivamente è stato una felice sorpresa dopo lo squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza futuro, è composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta analisi e di una pacata valutazione. Da quali segni possiamo riconoscere, nella concretezza di questo momento storico, la sanità teologica e pastorale delle forze che vanno via via affiorando nel mondo cristiano? Dopo l’esperienza di questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci parrebbe di poter suggerire, come contributo a un discernimento che non sia astratto e puramente nominale, l’attenzione a tre note caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono né forse le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono aiutare nell’ora presente. La prima è il sentimento acuto della distinzione tra il bene e il male, la consapevolezza che tra il bene e il male è in atto una lotta irriducibile e la persuasione che in questo scontro – che è ancora in atto e lo sarà fino alla venuta del Signore – ciascuno di noi è chiamato a combattere nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli sono date La seconda è la convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, è il Salvatore del mondo e non colui che deve essere salvato dal mondo. Egli è il vincitore, e noi dobbiamo essere la sua vittoria. Perciò a lui – e quindi al cristianesimo – è necessario ricorrere perché l’uomo viva, cresca, emerga dalle sue contraddizioni e dalle sue schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a pensare che solo l’apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di essere ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai nostri tempi (1). La terza è la percezione della bellezza della Chiesa e l’ammirato stupore per questo capolavoro dell’amore del Padre; o almeno la certezza di fede che la Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che l’infinita potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra polverosa e dalla nostra umanità disastrata.

NOTE

(1) La retorica circa il “dialogo” e il “confronto” – che sono attitudini lodevoli in se stesse, quando non diventano i nuovi nomi del cedimento e della mondanizzazione – ha innegabilmente contribuito a una “smobilitazione generale” dei cristiani, che ha pochi precedenti nella storia. Anche l’uso acritico e indiscriminato di alcune frasi, che adoperate a proposito hanno una loro validità, ha contribuito al diffondersi dello spirito di resa o almeno alla confusione. Ne citiamo qualcuna, per non restare nel vago.
“Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante”. Principio giustissimo, ma da applicarsi con due avvertenze: che di fatto l’affermazione non si traduca nel non distinguere più tra l’errore e la verità; che ci si renda conto che, se la condanna dell’errore non deve restare un’inutile astrazione, il popolo cristiano va messo in guardia anche da colui che di fatto semina l’errore, naturalmente senza cessare di volere il suo vero bene e lasciando sempre a Dio il giudizio sulle intenzioni profonde delle persone.
“Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. Questo principio vale solo in proporzione alla vastità e all’importanza di ciò che ci unisce e all’esiguità di ciò che ci divide. Quando si ha la stessa fede nella Trinità, in Cristo, Figlio di Dio, crocifisso e risorto, nella vita eterna, è del tutto insipiente litigare su quando e come vada cantato l’alleluia. Ma quando la divisione verte sulle questioni sostanziali, il volerla accantonare e quasi dimenticare vuol dire snaturarsi nel profondo e perdere la propria identità; così l’ecumenismo diventa davvero, come amaramente è stato detto, una “comune apostasia”.
“La Chiesa deve diventare credibile”. Così come suona, il concetto è mal formulato e inaccettabile, perché fa delle esigenze e delle persuasioni degli uomini il metro per giudicare l’azione e la realtà dei cristiani, mentre l’unico metro resta il Signore Gesù e la sua verità. La Chiesa deve sforzarsi di essere sempre più credente; in tal modo diventerà sempre più credibile agli occhi dei non credenti ben disposti, che ricercano la verità, e sempre più incredibile agli occhi dei non credenti che non hanno nessuna voglia di credere.
“Bisogna guardarsi dai profeti di sventura”. Se la frase vuol dire di evitare coloro che tentano di uccidere le ragioni della speranza cristiana – tra le quali emergono l’esistenza di Cristo vivo e Signore, e l’inalienabile bellezza della Chiesa – allora è giusta e da approvare. Se vuol dire che bisogna sempre dire a tutti i costi e per tutte le circostanze che tutto va bene, allora è smentita dalla parola di Dio. Di solito i veri profeti sanno annunziare anche il dolore e sanno denunziare il male; gli annunziatori di facile allegria, di tranquillità senza lotta, di immancabile benessere, nella Bibbia sono i falsi profeti (cfr. Ger 14,13-16; 23,17; 27,9-10).
“Non bisogna essere manichei”. Il manicheismo consiste nel credere all’esistenza di due princìpi assoluti, due dèi, uno del bene e uno del male; il manicheo non crede quindi al Dio buono, creatore di tutto, né alla sua vittoria finale. Questa è un’aberrazione da condannare. Definire manicheo invece chi vuol distinguere tra il vero e il falso, tra il buono e il cattivo, tra il giusto e l’ingiusto, tra ciò che è conforme alla volontà di Dio ed è perciò da seguire, e ciò che è difforme ed è perciò da respingere, è un modo truffaldino di combattere il cristianesimo dandogli prima una falsa e infamante etichetta.

G.  BIFFI, La bella, la bestia e il cavaliere. Saggio di teologia inattuale, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 20-41.

In onore di S. Chiara

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In onore della festa di S. Chiara, che abbiamo celebrato ieri, si posta una meravigliosa canzone del cantautore Angelo Branduardi, "Audite poverelle" dall'album "L'infinitamente piccolo" pubblicato nel 2000:

Audite poverelle, dal Signor vocate
Ke de multe parte et provincie
Sete adunate,
Audite poverelle, dal Signor vocate
Vivate sempre en veritate
Ke in obedientia moriate.
Non guardate alla vita fora
Quella dello spirito e migliora
Ve prego per grande amore
Che in poverta viviate.
Quelle che son d'infermita gravate
E l'altre che son fatigate
Ciascuna lo sostenga in pace
E serà in Cielo coronata 
(cum la Vergene Maria).

Il testo, musicato dal Branduardi, è opera - probabilmente - dello stesso San Francesco, che dettò sia le parole sia la melodia verso il 1225; si tratta di un componimento consolatorio per le Povere Dame del Monastero di S. Damiano.



IN VIGILIA ASSUMPTIONIS B. MARIÆ VIRGINIS

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Tra le feste Mariane, quella della dormitio (κοίμησιςsanctæ Mariæ (κοίμησις της Θεοτόκου), o della sua corporea assunzione in cielo, fu fin dall’antichità la più celebre e la più solenne.

Icona della Dormizione della Beatissima Vergine Maria, Madre di Dio, XVI sec.

Icona della Dormizione, Tomba della Vergine Maria, Gerusalemme 

Essa attingeva direttamente dalla tradizione gerosolomitana, dove sin dai tempi più remoti (almeno dal III sec. d.C., ma la tradizione orale è più antica) si ricordava la dormizione della Vergine sul monte Sion, in Gerusalemme, ed il trasporto del corpo, ad opera degli Apostoli e della primitiva comunità dei credenti, presso la sua tomba, posta vicino al Monte degli Ulivi, in un wādī, cioè in un letto di un torrente, ormai secco, scavato tra le rocce, dove l’imperatrice Eudossia vi aveva fatto erigere una basilica.

Lecomte du Noüy, Donne cristiane alla tomba della Vergine, 1871, collezione privata

Ancora oggi, gli Orientali, in occasione della festività ortodossa della Dormizione, percorrono, in processione, il tratto di strada che dal Monte Sion (o meglio dal Sion cristiano), luogo tradizionale della Dormizione, scende alla Tomba di Maria.
Vieni in pace perché le schiere celesti attendono te e che io ti introduca tra le gioie del Paradiso”, sulla base di queste parole del Cristo – riportate dall’apocrifo Transitus Virginis o Dormitio Mariae – la Vergine Madre si sarebbe, dunque, addormentata nel Signore, a Gerusalemme, per poi risvegliarsi, in anima e corpo, senza conoscere – analogamente alla sorte del corpo del Figlio – alcun segno di corruzione o decomposizione, in Paradiso.
Il fatto che la Madonna sia nata ed addormentasi nel Signore a Gerusalemme fa sì che ella sia considerata come la più illustre cittadina della Città Santa. Per questo è venerata come Ιεροσολυμίτισσα, Jerosolymitissa, cioè Gerosolomitana. E sotto questo titolo è veneratissima dai cristiani un'icona della Παναγία, Panaghia, Tuttasanta, col Bambino, in un'edicola dietro il banco di pietra, all'interno della Tomba della Vergine a Gerusalemme.




Icona ed edicola della Jerosolymitissa, Tomba della Vergine Maria, Gerusalemme

Tornando alla Dormizione, l’apocrifo suddetto, risalente secondo una tradizione ad un discepolo di san Giovanni l’Evangelista, tale Leucio, sebbene ne abbiamo una versione scritta risalente soltanto al IV-V sec. d.C., in verità, potrebbe aver avuto una redazione primitiva “ad un periodo assai anteriore al IV secolo”, come autorevolmente sosteneva il celebre frate-archeologo, P. Beniamino Bagatti (Le due redazioni del “Transitus Mariae”, in Marianum, 32 (1970), pp. 279-287), il quale ravvisava una grande coincidenza di dati tra il testo e le scoperte archeologiche: ad es., le tre camere sepolcrali messe in luce dagli scavi nella c.d. Tomba di Maria corrispondono alle tre camere descritte nella versione siriana del documento.
La data dell’odierna festa, al 15 agosto, però, non fu fissata in relazione alla Dormizione di Maria. In effetti, originariamente, in questa data si commemorava la dedicazione del santuario bizantino del Kathisma (cioè del RiposoRequies in latino) di Maria, vicino al monastero di Mar Elias, ed oggi, anche al Kibbutz Ramat Rachel, sulla strada tra Gerusalemme e Betlemme, ad opera del vescovo di Gerusalemme Giovenale (456 d.C.) (su questo sito, v. qui e qui con la lezione di P. Eugenio Alliata). In questo luogo si ricordava che Maria, in prossimità di Betlemme, prima di partorire il Figlio di Dio, si sarebbe riposata, sedendosi su una pietra, che si conservava al centro del Santuario ottagonale (i cui resti sono tuttora visibili).

Mosaico della palma con i frutti decisamente "sproporziati", resti della chiesa del Kathisma, Betlemme

Lavori di scavo e pulitura del mosaico, chiesa del Kathisma

Veduta area dei resti della chiesa del Kathisma

Le letture di questo giorno ricordavano il parto della Vergine (Is. 7, 10-15; Gal. 3, 29-4,7; Lc. 2, 1-7), alludendo alla maternità divina e salvifica di Maria e non già alla sua Assunzione.
Tuttavia, a seguito dell’ampia diffusione dell’apocrifo sopraricordato, fu quasi naturale ricollegare ed evocare il “riposo” di Maria alla sua “dormizione” corporale, cioè al suo “riposo” definitivo, distaccandosi sempre più il ricordo dalla Maternità a favore di quello dell’Assunzione.
Verso il VI sec. questo passaggio poteva dirsi compiuto ed il 15 agosto – come sancito dall’imperatore Maurizio alla fine del VI sec. – indicò definitivamente la Dormizione della Santa Vergine, celebrata con grande solennità con un riposo festivo e che dalla Vita di San Teodoro di Gerusalemme (+ 529 d.C.) apprendiamo era celebrata con la partecipazione di una grande folla (per approfondimenti sulle origini della festa dell'Assunzione, v. il saggio di Frédéric Manns, OFM, in AA. VV., L'Assunzione di Maria Madre di Dio. Significato storico-salvifico a 50 anni dalla definizione dogmatica, PAMI, Città del Vaticano 2001, pp. 169-182; Simon Claude Mimouni, Dormition et Assomption de Marie. Histoire de traditions anciennes, Paris, 1995, passim).

Hugo van der Goes, Il transito della Vergine, 1480 circa, Groeninge Museum, Bruges


Duccio da Buoninsegna, Annuncio di morte alla Vergine, 1308-11, Museo dell’Opera del Duomo, Siena; la palma è simbolo di morte e del paradiso


Buoninsegna, Commiato da S. Giovanni, con arrivo di tutti gli Apostoli, 1308-11, Museo dell’Opera del Duomo, Siena

Buoninsegna, Commiato dagli apostoli, 1308-11, Museo dell’Opera del Duomo, Siena


Buoninsegna, Dormizione della Vergine, 1308-11, Museo dell’Opera del Duomo, Siena. Anche qui compare la palma

Buoninsegna, Funerale della Vergine, 1308-11, Museo dell’Opera del Duomo, Siena. La salma è preceduta dalla palma

Buoninsegna, Sepoltura della Vergine, 1308-11, Museo dell’Opera del Duomo, Siena. Qui pure vi è il simbolo della palma.

La festa giunse a Roma nel secolo successivo. Qui si celebrava una messa nella basilica Liberiana, la quale poneva termine alla lunga processione, o fiaccolata, che si snodava per le vie di Roma durante la nottata.
L’autore di questa processione notturna di clero e di popolo, fu san Sergio I (papa dal 687 al 701). San Leone IV (papa dall’847 all’855) fu ripristinata, dopo che era caduta in una certa dimenticanza, semplicemente richiamando in vigore l’uso del suo predecessore, sebbene verosimilmente introducesse l’ufficio e la messa vigiliale, nonché la dotasse di un’ottava: farebbe pensare ciò la circostanza che alcuni antichissimi lezionari ed evangeliari non contemplino alcuna lettura per questa vigilia se non a partire da una certa epoca, appunto dal IX sec.
Verso il X sec. l’odierna solennità crebbe di proporzioni ed il corteo, invece che da Sant’Adriano al Foro, partiva addirittura dalla residenza papale del Laterano, colle icone del Salvatore e della Theotokos, cinti da centinaia di luci.
Fuori di Roma, in moltissimi luoghi d’Italia venne ricopiata per la vigilia dell’Assunzione la commovente usanza della Città Eterna; ed ancora adesso in alcuni paesi del Latium, questa sera si formano due processioni, una coll’immagine del Salvatore, l’altra con quella di Maria Santissima, che muovono alla volta una dell’altra. Quando i due cortei s’incontrano, i portatori delle due icone si scambiano il bacio della pace; il celebrante allora offre l’incenso alle sante immagini, il Cristo prende la destra, la Vergine la sinistra, e così in processione trionfale si conclude ad una qualche chiesa dedicata alla Madonna, ove s’incomincia la festa dell’Assunta.
Giusta l’XI Ordo Romanus, la mattina del 14 agosto il Papa coi cardinali, digiuni ed a piedi scalzi, si recavano nell’oratorio di san Lorenzo nel Patriarchium, ove facevano sette genuflessioni innanzi l’icona bizantina del Salvatore che ancor oggi vi si custodisce. Allora il Pontefice ne scopriva lo sportello, ed al canto del Te Deum la deponeva in piano, cioè la discendeva perché nella sera seguente potesse esser portata in processione dai diaconi cardinali.
I vespri e l’ufficio vigiliare di nove lezioni, sull’imbrunire, erano cantati a Santa Maria Maggiore; quindi il Pontefice e tutto il clero tornavano in Laterano per cominciare la processione notturna (cfr. A. I. SchusterLiber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano – VIII. I Santi nel mistero della Redenzione [le Feste dei Santi dall’Ottava dei Principi degli Apostoli alla Dedicazione di san Michele], Torino-Roma, Marietti, 1932, pp. 180-181).
Oltre alla vigilia dell’Assunzione, la Chiesa oggi commemora due importanti ricorrenze di Martiri di Cristo: la prima è la festa dei Santi Ottocento Martiri di Otranto; la seconda è il martirio del francescano conventuale San Massimiliano Maria Kolbe.
I primi furono uccisi il 14 agosto 1480 dai musulmani turchi di Agomet Pascià, agli ordini di Maometto II il Conquistatore, sul colle della Minerva, poco lontano dalla città di Otranto, dopo che lo stesso arcivescovo idruntino, Mons. Stefano Pendinelli (Stefano Argercolo de Pendinellis) (1403-1480), fu trucidato:
«Durante la notte precedente quello sventurato giorno, l’arcivescovo Stefano [...] aveva confortato tutto il popolo col divino sacramento dell’Eucarestia per la battaglia del mattino seguente, che lui aveva previsto». I turchi, «raggiunto l’arcivescovo che sedeva sul suo trono vestito con abiti pontificali e con in mano la croce, lo interrogarono chi fosse; ed egli intrepidamente rispose: Sono il rettore di questo popolo e indegnamente preposto alle pecore del gregge di Cristo. E dicendogli uno di loro: “Smetti di nominare Cristo, Maometto è quello che ora regna, non Cristo”, egli rispose indirizzandosi a tutti: “O miseri ed infelici, perché vi ingannate invano? Poiché Maometto, vostro legislatore, per la sua empietà soffre nell’inferno con Lucifero e gli altri demoni le meritate pene eterne; ed anche voi, se non vi convertite a Cristo e non ubbidite ai suoi comandamenti, sarete nello stesso modo cruciati con lui, in eterno”. Aveva appena terminato di proferire queste parole quando uno di loro, impugnata la scimitarra, con un sol colpo gli recise la testa; e, così decollato sulla propria sedia, divenne martire di Cristo nell’anno del Signore 1480, l’11 di agosto».

Ritratto di Mons. Stefano Pendinelli, Chiesa dell'Assunta, Galatina

Il 13 agosto, quando fu posto ai cittadini di Otranto la scelta - ieri come al giorno d'oggi - se abbracciare la fede islamica o soccombere, un tale Antonio Primaldo, di professione sarto, a nome di tutti rispose: “Credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui”. Rivolgendosi, dunque, ai Cristiani li esortò con queste parole: “Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della Patria e per salvar la vita e per li Signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l’anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in Croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella Fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la corona del martirio”. A queste parole incominciarono a gridare tutti a una voce con molto fervore che preferivano piuttosto mille volte morire con qualsivoglia sorta di morte che rinnegar Cristo. Dinanzi a questa limpida professione di fede, furono condannati a morte. Ed il mattino seguente, «quei prodi campioni della santa fede con la fune al collo e con le mani legate dietro le spalle, furono menati al vicino colle della Minerva. Con l’umile portamento, con l’aria divota e serena e col frequente invocare i nomi di Gesù e di Maria, facevano di sé spettacolo glorioso a Dio e gradito agli Angeli. Tutto quel tratto di strada, che corre dalla porta antica di mare fino al colle, risonò di sante preci, colle quali quelle anime grandi imploravano la grazia di consumare il sacrifizio delle loro vite». Si confortavano l’un altro a «pigliar pazientemente il martirio e questo faceva il padre al figlio, e il figlio al padre, il fratello al fratello, l’amico all’amico, il compagno al compagno, con molto fervore e con molta allegrezza. … Girava intorno ai cristiani un turco importuno con alla mano una tabella vergata in carattere arabo. L’apostata interprete la presentava a ciascuno e ne faceva la spiegazione, dicendo: Chi vuol credere a questa avrà salva la vita; altrimenti sarà ucciso. Ratificarono tutti la professione di fede e la generosa risposta data innanzi: onde il tiranno comandò che si venisse alla decapitazione, e, prima che agli altri, fosse reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui odiosissimo, perché non rifiniva di far da apostolo co’ suoi. Anzi in questi ultimi momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a’ commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori; che stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a riceverli. Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto si rizzò in piedi: e ad onta degli sforzi de’ carnefici, restò immobile, finché tutti non furono decollati. Il portento evidente ed oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl’infedeli, se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che vive nel mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei profittò avventurosamente del miracolo, e, protestandosi ad alta voce cristiano, fu condannato alla pena del palo». L’orrendo massacro lasciò il colle della Minerva rosso di sangue, coperto quasi interamente dai corpi degli Ottocento: era il 14 agosto, vigilia dell’Assunzione di Maria SS. Per riferimenti ed approfondimenti, rinvio qui ed allo studio di Alfredo Mantovano, Gli Ottocento Martiri di Otranto, in Cristianità, maggio 1980, n. 61, pp. 14-19, ripubblicato con aggiornamenti in occasione della canonizzazione dei martiri nel 2013 (v. qui).


Cappella delle Reliquie dei Martiri, Cattedrale, Otranto

In questo giorno ricevette l’incorruttibile corona di gloria anche San Massimiliano Maria Kolbe.
Egli, francescano conventuale di origine polacca, che aveva studiato a Roma, e fondatore della Milizia dell’Immacolata, internato durante l’ultima guerra nel campo di concentramento di Auschwitz col numero 16670, si offrì di sostituire un padre di famiglia, Francesco Gajowniczek, che era stato condannato a morte, assieme ad altri nove internati, secondo le dure leggi del campo, perché un prigioniero era fuggito.
Rinchiuso nel bunker della morte assieme agli altri, privi di abiti, dove si moriva di fame e di sete, dopo 14 giorni non tutti erano morti, rimanevano solo quattro ancora in vita, fra cui padre Massimiliano. Le SS decisero, allora, giacché la cosa andava troppo per le lunghe, di abbreviare la loro fine con una iniezione di acido fenico. Il francescano martire volontario, tese il braccio, con grande calma. All'ufficiale medico nazista che gli fece l'iniezione mortale nel braccio, Padre Kolbe disse: «Lei non ha capito nulla della vita...» e mentre l'ufficiale lo guardava con fare interrogativo, soggiunse: «...l'odio non serve a niente... Solo l'amore crea!». Le sue ultime parole furono: «Ave Maria». Era il 14 agosto 1941. Il giorno seguente il suo corpo fu cremato e le ceneri disperse.
Le sue ceneri si mescolarono insieme a quelle di tanti altri condannati, nel forno crematorio; così finiva la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo della Chiesa polacca.
San Massimiliano Maria Kolbe si decise a fondare la Milizia dell’Immacolata dopo un episodio decisivo della propria vita.
Egli, giovane seminarista francescano, rimase, mentre era a Roma per gli studi filosofici e teologici (1912-1919), profondamente colpito dalle manifestazioni massoniche antipapali che si spingevano sino al Vaticano.


Lì, infatti, assisté ad una processione di anticlericali-massoni che andavano a celebrare Giordano Bruno in Campo dei Fiori (il cui monumento di Ettore Ferrari era stato inaugurato tristemente qualche decennio prima, nel 1889), inalberando uno stendardo nero su cui Lucifero schiacciava S. Michele Arcangelo. In piazza S. Pietro erano distribuiti volantini in cui si leggeva che “Satana deve regnare in Vaticano e il Papa dovrà fargli da servo”.
Per questo, dinanzi al dilagare del Male nella Città Eterna, fondò, il 16 ottobre 1917, con altri sei seminaristi (Padre Giuseppe Pal, rumeno, Padre Quirico Pignalberi, della provincia di Roma, Padre Antonio Glowinski, rumeno, Frate Antonio Mansi e Frate Enrico Granata, entrambi della provincia di Napoli, Frate Girolamo Biasi, della provincia di Padova), un’associazione a cui diede un nome da battaglia e cavalleresca, chiamandola Milizia dell’Immacolata.
Nel gennaio 1922, la Milizia venne approvata come “Pia Unione della Milizia di Maria Immacolata” dal Cardinale Domenico Basilio Pompili, Vicario Generale dell’Arcidiocesi di Roma. Quello stesso Cardinale lo ordinò sacerdote il 28 aprile 1918.
Una volta ritornato nella sua Polonia, fondò, a 40 Km da Varsavia, Niepokalanow, cioè la Città dell’Immacolata, che raccolse sino ad oltre 750 religiosi, di varie estrazioni sociali, tutte persone devote di Maria Immacolata. Nel 1930 fondò, poi, in Giappone, su quel modello, Mugenzai-No-Sono (il “Giardino dell’Immacolata”). Questa “piccola città” fu risparmiata dall’esplosione atomica che colpì Nagasaki nel 1945.
Tutto questo in onore della Vergine Maria, verso cui i francescani nutrivano una particolare devozione (San Bonaventura da Bagnoregio, nella Vita Maggiore di S. Francesco, racconta come il Serafico Padre avesse una devozione peculiare per Maria, avendo, per suo merito, reso Gesù nostro fratello; una devozione di gratitudine, dunque), venerata anche come la celeste Patrona dell’intero Ordine Francescano.
Il carisma di P. Massimiliano ispirerà l'opera dell'ordine, nel suo ramo maschile e femminile, dei Francescani dell'Immacolata, oggi incomprensibilmente censurati dalle autorità ecclesiastiche.

Una delle ultime foto di P. Massimiliano prima dell'internamento nel campo di concentramento dove troverà la morte




Luogo del martirio di P. Massimiliano, Blocco 11, Auschwitz, visitato da Giovanni Paolo II nel 1979 e da Benedetto XVI nel 2006.


I luoghi di Maria la Dormizione e la Tomba

La Dormizione di Maria nella tradizione orientale

La Dormizione della Vergine nei riti orientali a Gerusalemme

"Exaltata est Sancta Dei Genitrix super Choros Angelorum" - IN ASSUMPTIONE BEATÆ MARIÆ VIRGINIS

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Abbiamo rammentato ieri, nella Vigilia dell'Assunta, come la Vergine Benedetta sia stata ritenuta, fin dall'antichità più remota, assunta in Cielo ed esaltata al di sopra dei Cori Angelici. 

Et factus est repente de caelo sonus tamquam advenientis Spiritus vehementis et replevit totam domum ubi erant sedente (Act 2, 2) (mosaico della cripta della Chiesa della Dormizione sul Sion, Gerusalemme)

A Gerusalemme, abbiamo detto, si conservano ancora i ricordi dei tanto del luogo della Dormizione quanto quello della Tomba vuota - simile ad un'altra Tomba vuota, quella del Figlio. Ed abbiamo posto in luce come Colei, che generò l'Autore della Vita, sia celebrata dagli orientali e segnatamente da quelli della comunità di Gerusalemme, che la onorano come la loro più illustre cittadina. Senza voler entrare nella ricostruzione storico-teologica dell'ultimo dogma mariano proclamato infallibilmente dal Magistero della Chiesa il 1° novembre 1950 (v. il video qui), e rinviando all'uopo a più approfonditi studi, ricordo, da un punto di vista liturgico, essa è attestata a Roma nel VII sec. come una delle quattro grandi feste mariane, sotto il titolo di «dormizione». Nell’VIII sec., essa prende il titolo di d’Assumptio B.M.V., ed è dotata di una vigilia e di un’ottava da papa Leone IV (847-855).


La Messa della Vigilia è stata mantenuta tale quale, quella del giorno della festa fu rimpiazzata nel 1950 da un formulario più esplicito.
L’Ottava era, nel calendario di S. Pio V, quasi completa: solo i giorni dell’Ottava di S. Lorenzo (17 agosto) e della festa di san Bernardo (20 agosto) venivano a romperla. L’aggiunta progressiva delle feste di san Giacinto (nel 1625, dapprima al 16 agosto e poi al 17), di san Gioacchino (nel 1738, dapprima la domenica nell’Ottava e poi il 16 agosto), di santa Giovanna de Chantal (nel 1769, il 21 agosto), di san Giovanni Eudes (nel 1928, il 19 agosto), e poi la trasformazione del giorno Ottavo del 22 agosto, nel 1944, come festa del Cuore Immacolato di Maria, hanno fatto sì che, al momento della sua soppressione nel 1955, solo il 18 agosto restasse consacrato all’ottava dell'Assunzione.
Dopo la promulgazione del dogma dell’Assunzione da parte di papa Pio XII, come detto, un nuovo formulario per la Messa è stato prescritto nel decreto del 31 ottobre 1950. Questo nuovo formulario sottolinea ulteriormente, come in passato, la sovrana dignità di Maria.


Il nuovo Ufficio fu promulgato il 27 aprile 1951. Contrariamente alla Messa, interamente nuova salvo il versetto dell’Alleluja, l’Ufficio del 1950 apporta pochi cambiamenti:
- il capitolo (l’epistola della Messa prima del cambiamento);
- tre inni propri (Primi Vespri, Mattutino, Lodi);
- quattro antifone proprie supplementari al Mattutino;
- al 1° Notturno, lettura della Genesi e delle lettere ai Corinzi al posto del Cantico;
- al II Notturno, la lezione 6 di san Giovanni Damasceno è rimpiazzata dagli atti di Pio XII;
- al III Notturno, il Vangelo, prima del cambiamento, ha un nuovo commentario patristico.

Guido Reni, Assunzione della Vergine Maria, XVII sec., collezione privata

Guido Reni, Assunzione della Vergine Maria, 1580

Guido Reni, Assunzione della Vergine Maria, 1617

Guido Reni, Assunzione ed Incoronazione della Vergine Maria, 1602-03, Museo del Prado, Madrid

Alessandro Turchi, Assunzione della Vergine Maria, 1631-35, Museo del Prado, Madrid

Eugenio Cajés, Assunzione della Vergine, 1603, Museo del Prado, Madrid

Juan de Alfaro, Assunzione della Vergine, 1668, Museo del Prado, Madrid

Ambito di Federico Zuccari, Assunzione della Vergine, XVI sec., Museo del Prado, Madrid

Luca Giordano, Assunzione della Vergine, 1700 circa, Museo del Prado, Madrid

Francisco Bayeu y Subías, Assunzione della Vergine, 1760 circa, Museo del Prado, Madrid

Lavinia Fonta, Assunzione con i SS. Pietro Crisologo e Cassiano, 1584

Annibale Carracci, Assunzione della Vergine, XVII sec.

Jacopo Arrigoni, Assunzione della Vergine, XVIII sec.

Giovanni Battista Lenardi, Assunzione della Vergine con i SS. Nicola di Bari ed Anna, 1690, collezione privata

In questa festività mariana, mi pare oltremodo significativo sottolineare il profondo legame che esiste tra la festa dell'Assunzione e la Francia. Non mi riferisco all'idea malsana che saltò in mente a Napoleone di sradicare dal cuore dei fedeli l'odierna festa dell'Assunzione di Maria, per sostituirla con quella di un improbabile martire "san Napoleone" morto un 15 agosto (v. anche qui).
No, non ci si riferisce a questo. Ma al c.d. voto di Luigi XIII. Il re di Francia, infatti, con decreto reale firmato il 10 febbraio 1638 - evento ricordato ogni anno il 15 agosto - poneva ufficialmente e solennemente la Francia sotto l’esplicita protezione di Maria: “Riconoscendo la SS.ma e gloriosissima Vergine come protettrice speciale del regno, noi le consacriamo la nostra persona, il nostro Stato … E affinché i posteri non manchino di seguirci volontariamente in questa impresa, come monito e testimonianza immortale della presente consacrazione, faremo fare un nuovo altare con l’immagine della Vergine che terrà tra le braccia il suo prezioso figlio sceso dalla croce; noi saremo rappresentati ai piedi del figlio e della madre in atto di offrire loro la nostra corona e il nostro scettro” (il testo completo del voto, in lingua francese, è consultabile qui. V. anche qui).
A seguito di tale voto, nacque Luigi XIV, re Sole, la cui nascita (Château-Neuf di Saint-Germain-en-Laye) apparve miracolosa, avvenendo dopo 23 anni di matrimonio sterile tra i suoi genitori, Luigi XIII e Anna d’Austria. Di questa regale devozione vi era traccia nel nome Louis Dieudonné, giacchè nella sua nascita si vide una grazia del cielo dovuta al voto di consacrazione della Francia alla Vergine Maria fatto da Luigi XIII e celebrata nell’agosto 1638.
Ancora oggi i cattolici francesi - una minoranza ormai - ricordano quest'antico voto.
La Francia, pertanto, non può dimenticare questo legame stretto con la Vergine! Pena il rinnegamento della sua stessa storia, come ahimé sta avvenendo, in special modo, negli ultimi decenni (v. per uno degli ultimi episodi qui).



Jean-Auguste-Dominique Ingres, Il voto di Luigi XIII, 1824, Cattedrale di Notre-Dame, Montauban


Philippe de Champaigne, Il voto di Luigi XIII, 1638, Musée des beaux-arts, Caen

Philippe de Champaigne, Luigi XIV offre la sua corona alla Vergine per soddisfare il voto del padre, 1638, Musée des beaux-arts, Caen

Il divino eloquentissimo silenzio del canone

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Mi è stato girato un contributo di don Alfredo Morselli, già pubblicato altrove, che volentieri posto anche qui.


Il divino eloquentissimo silenzio del canone

di don Alfredo M. Morselli

“Noi ordiniamo a tutti i Vescovi e ai sacerdoti di non più fare in silenzio, ma in modo da essere uditi dal popolo fedele, la divina oblazione, così come la preghiera che accompagna il battesimo: lo spirito degli uditori ne potrà ricavare una maggior devozione, un nuovo ardore per lodare e benedire Dio. Questo è l’insegnamento del divino Apostolo, nella sua prima lettera ai Corinti”.
No, non è il Vaticano II - che non ha prescritto di recitare il canone diversamente da come si e fatto per secoli e secoli - (anche il canone a voce alta è una delle tante cose che si attribuiscono spesso al Concilio e che il Concilio non ha mai detto, al pari dell’abolizione del latino, della celebrazione cosiddetta verso il popolo, della S. Comunione in mano e non in ginocchio, delle chitarre, della creatività liturgica etc.). Il testo suddetto è uno stralcio di un decreto dell’imperatore Giustiniano, il quale, inascoltato in vita, sembra essersi ripreso la rivincita 1400 anni dopo la sua morte (cit. in L. Thomassin, Traité de l’Office divin dans ses rapports avec l’oraison mentale, 1688; abbiamo consultato l’edizione del 1894, a c. dei benedettini di Ligugé: il testo citato è a p. 105-106).
Questo decreto conferma l’antica prassi, così ben descritta nelle Costituzioni apostoliche, secondo la quale al momento in cui “il sacrifico comincia … i fedeli pregano nel segreto del loro cuore; poi, quando la preghiera è terminata, sono ammessi alla partecipazione al Corpo e al Sangue del Signore”.
Del resto, Giustiniano non ha argomenti o esempi di prassi precedente su cui appoggiarsi: egli cita, fuori luogo, San Paolo, precisamente 1 Cor 14; in questo passo l’Apostolo mette in guardia uomini di parlare ad altri uomini in modo loro incomprensibile, ma non si tratta qui delle preghiera eucaristica, bensì di fraterna esortazione vicendevole o parola carismatica.
Il grande teologo oratoriano francese Luis Thomassin (1619-1695) così spiega: “Se un uomo non deve esortare un fratello in modo incomprensibile, Dio infinito e ineffabile ha bene il diritto e la gioia di donarci, nel più augusto dei sacramenti, delle cose superiori alla nostra intelligenza, a cui dobbiamo prestare particolare ossequio” (Traité de l’Office divin, p. 106). Lo stesso Thomassin nota che Giustiniano non aveva altri argomenti se non quello debolissimo di 1 Cor: se avesse avuto una pezza di appoggio nella prassi di qualche importante chiesa, la avrebbe senz’altro usata.


Ma che cosa ha spinto i santi Padri a non seguire il decreto di Giustiniano? Perché contravvennero platealmente il decreto del potente imperatore? Qual era la loro forma mentis? Quali i loro argomenti?
I motivi erano sostanzialmente due: da una parte l’idea della preghiera come azione divina nell’uomo, piuttosto che azione umana; vedremo in seguito come non era ancora avvenuta la frattura - tutta moderna - tra liturgia e orazione mentale. Dall’altra, la consapevolezza della sublimità del mistero che si attua nel Sacrificio Eucaristico. Vediamo ora il primo punto, e partiamo dall’invito rivolto ai fedeli dal celebrante all’inizio della preghiera eucaristica: sursum corda, in alto i cuori. Qui non si tratta dei cuori intesi come sede del sentimento, bensì della mens, ovvero della parte alta o fondo dell’anima. La partecipazione alla liturgia non può essere disgiunta dall’orazione mentale, da quello stato in cui si trova l’anima che vuol essere obbediente al comandamento del Signore secondo il quale è necessario pregare sempre.
Così afferma s. Clemente Alessandrino: “Sia che si trovi in cammino, sia che parli, sia che lavori secondo le luci e le norme della legge eterna, [il giusto] prega continuamente. Giacché il santuario più abituale della sua orazione è il fondo del suo cuore, dove custodisce i gemiti e i desideri che s’innalzano fino al trono del Padre celeste” (Stromata, VII, MG IX, 470, cit. in Traité de l’Office divin, p. 16-17).
E San Basilio chiedendosi come sia possibile, stando al versetto semper laus eius in ore meo (Ps 33,2), che la nostra bocca faccia sempre risuonare la lode del Signore, afferma che noi abbiamo una sorta di bocca interiore e spirituale attraverso la quale possiamo assimilare la parola divina, la verità e il Verbo stesso: è questa la bocca che Dio ci ordina di tenere sempre aperta, per ricevere il cibo incorruttibile della verità eterna. L’impressione che la verità e la carità di Dio hanno compiuto nei nostri cuori sussiste stabilmente nella nostra anima, e ne costituisce veramente una santissima preghiera (In Ps. XXXIII, MG XXIX, 354, cit. in Traité de l’Office divin, p. 18). Questa preghiera, secondo S. Agostino, non è altro che lo Spirito Santo, Carità che prega in noi, che abita nei nostri cuori, da dove fa salire verso il cielo un’orazione ininterrotta (In Ep. Joann., tract. VI, ML XXXV, 2024, cit. in Traité de l’Office divin, p. 24).
La predicazione e la salmodia hanno il compito di risvegliare questa preghiera muta, ma il cui silenzio permette che si realizzi nella sua profonda e massima attività, in quanto attività divina in noi.
Allora cosa significa sursum corda?
Che la vostra anima ora si inabissi nel mistero, che sia la bocca spirituale che si nutre delle grazie del Sacrificio e che non lasci fuoriuscire parole umane, ma solo l’inesprimibile gemito dello Spirito Santo, Carità increata diffusa nei nostri cuori. Che non ci sia parola umana frammezzo alla Grazia del mistero che discende da Dio e che a Lui risale dai nostri cuori … Hai dilatato il mio cuore - dice il Salmo 118,32 -, perché l’orecchio di carne non può intendere (occhio non vide e orecchio non udì) il mistero che si celebra, e qualunque suono entri, in questo momento, nell’orecchio naturale, toglierebbe spazio al nutrimento celeste.
Non è forse questo l’orecchio che il Signore ci ha aperto toccando quello del sordomuto? E non è forse la lingua del cuore - ovvero la possibilità al nostro cuore di essere la lingua dei gemiti inesprimibili dello Spirito Santo -, quella che Gesù ci ha sciolto, intimando effatá alla vecchia lingua annodata dal peccato originale? E non si dica che il popolo non capisce! Proprio perché si capisce quel poco che si può capire della sublimità del mistero, ci si rifiuta di ingabbiarlo o di ridurlo a mera comprensione discorsiva; la ragione non è però affatto esclusa quando comprende che deve fermarsi e cedere il passo a una conoscenza intuitiva, sempre razionale, ma più simile quella degli angeli e dei beati in Paradiso.

"Beátus vir, qui invéntus est sine mácula, et qui post aurum non ábiit" (Eccli. 31, 8) - San Gioacchino, padre della Beata Vergine Maria

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Dopo aver celebrato ieri la festa dell’Assunzione al Cielo della Madre di Dio ed il 26 luglio scorso quella della madre della Santa Vergine, oggi, nel calendario tradizionale, si celebra la festa del padre della stessa: san Gioacchino, a cui persino l'islam, col nome di Imran, dedica una sura del Corano, la III.
Il culto liturgico in onore dei beati genitori della santa Vergine è assai antico in Oriente.
Nel Menologio di Costantinopoli, la loro commemorazione si fa l’indomani della Natività della Madre di Dio, il 9 settembre (in tale data sono ricordati pure dai greco-cattolici), mentre presso i siriaci si celebrava il 25 luglio.
I loro nomi e le circostanze della loro vita ci sono note dall’apocrifo essenzialmente grazie al Protoevangelium Jacobi ed allo Pseudo-Matteo, detto anche Libro sulla nascita della Beata Vergine e sull’infanzia del Salvatore.
Ad onor del vero, alcuni commentatori ravvisano una menzione di Gioacchino nel Vangelo di Luca, nel passo in cui si legge che «Gesù quando incominciò il suo ministero aveva circa trent’anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, figlio di Eli» (Lc 3, 23). Quell’Eli, in ebraico Eliachim,– si spiega – sarebbe una contrazione ebraica di Jeho-achim, cioè Gioacchino, e si argomenta che, col matrimonio con Maria, Giuseppe sarebbe diventato “figlio” – agli occhi della legge – di Gioacchino.
Che ciò sia stato lo scopo dell’Evangelista e che si possa proporre l’identificazione di Eli con Gioacchino appare assai dubbio, sebbene – va riconosciuto – gli autorevoli Bollandisti si spingano addirittura a sostenere che Gioacchino sia figlio di Eli e, dunque, fratello di Giuseppe. Né può sostenersi con sicurezza – in quanto fondato su testi assai dubbi – che Gioacchino avesse grandi possedimenti terrieri ed avesse numerose mandrie ed armenti.
Interessante è, però, evidenziare che, secondo il Protovangelo di Giacomo, Gioacchino ed Anna, in età avanzata, ricevettero da Dio la ricompensa delle loro preghiere mediante la nascita di Maria, accordando a questa coppia di pii israeliti loro l’onore di essere i genitori della santa Vergine e gli avi, dunque, del Salvatore. L’eccellenza del frutto è sempre l’indice sicuro della qualità dell’albero e la concezione immacolata di Maria riflette una soavità tutta particolare sulla casta unione dei suoi genitori.
Il santo Vangelo ci parla di una sorella della santissima Vergine, che accompagnò quest’ultima sino ai piedi della Croce. Secondo alcuni autori, essa sarebbe stata anch’ella figlia di Anna e Gioacchino.
Per la tradizione, i genitori della Vergine sarebbero vissuti dapprima in Galilea (la tradizione vuole che Anna sia originaria di Sefforis, non lontano da Nazaret) e poi si sarebbero stabiliti a Gerusalemme, dove sarebbe nata la Madre di Dio e lì, pare, siano morti entrambi.
La loro abitazione gerosolomitana sorgeva dove oggi è eretta la chiesa di Sant’Anna alla Probatica. Il luogo sarebbe stato scoperto da Elena, la quale vi avrebbe rinvenuto pure le loro tombe, che sarebbero stati onorate sino a quando l’edificio non fu trasformato in Madrasa, cioè scuola coranica. La cripta che avrebbe contenuto le due tombe dei genitori di Maria è stata riscoperta il 18 marzo 1889.
A differenza degli orientali, che tributarono sin dalle epoche più remote un culto a Gioacchino, i Latini lo ammisero più lentamente. Originariamente la data della festa fu fissata al 16 settembre, sebbene non manchino esempi in cui fosse fissata al 9 dicembre. Finalmente, fu introdotta nel Breviario, nel 1512, da papa Giulio II, che la fissò al 20 marzo, in relazione con quella di san Giuseppe e con la solennità dell’Annunciazione.
San Pio V la soppresse così come quella di sant’Anna del 26 luglio e quella della Presentazione al Tempio di Maria del 21 novembre: nell’ottica della riconquista dinanzi all’eresia protestante, occorreva escludere dalla liturgia romana quelle feste fondate sui vangeli apocrifi!
Gregorio XIII la ristabilì nel 1584 sempre al 20 marzo; Paolo V stabilì che la festa fosse quella comune di un Confessore (sempre nell’ottica di evitare i vangeli apocrifi); Gregorio XV, nel 1623, la elevò di rango e la dotò di un nuovo Ufficio (letture del II e del III Notturno, antifone al Magnificat ed al Benedictus).
Nel 1738, Clemente XII fissò la memoria di questo santo alla domenica nell’Ottava dell’Assunzione.
Leone XIII, di cui san Gioacchino era il santo Patrono, elevò la festa ulteriormente di rango.
La riforma del calendario e del Breviario di san Pio X, volendo liberare le domeniche dalle feste perpetuamente assegnate, la fissò definitivamente al 16 agosto.
Il pensiero che domina, nella messa della festa, è ben espresso in queste parole di san Giovanni Damasceno: De fructu ventris vestri cognoscimini. Pie enim et sancte in humana natura vitam agentes, Filiam angelis superiorem et nunc Angelorum Dominam edidistis, cioè «Sarete riconosciuti dal frutto delle vostre viscere. Agendo piamente e santamente nella natura umana, avete generato una figlia superiore agli angeli ed adesso Regina stessa degli Angeli» (Il testo completo è questo: «O castissimum par Ioachim et Anna! Vos castitatem, quam naturæ lex præscribit, conservantes, ea quæ naturam superant, divinitus estis consecuti: mundo quippe Dei matrem viri nesciam peperistis. Vos pie et sancte in humana natura vitam agentes, filiam angelis superiorem nuncque angelorum dominam edidistis. O speciosissima dulcissimaque puella! O filia Adami et Dei mater! … Beati lumbi et venter, ex quibus prodiisti! Beatæ ulnæ, quæ te gestaverunt; labia item, quibus castis osculis frui concessa es, parentum nempe dumtaxat tuorum, ut in omnibus semper virginitatem colores! Iubilate Deo, omnis terra, cantate, exsultate et psallite. Exaltate vocem vestram, exaltate, nolite timere» - San Giovanni Damasceno, Homilia I in Nativ. B. V. M., § 6, in PG 96, col. 670).
I genitori della Madre di Dio e gli avi di Gesù sono come il penultimo anello di quella catena patriarcale di grazie e di benedizioni che collega Adamo al Cristo. È la ragione per la quale si legge nella messa della festa la genealogia del Salvatore secondo san Matteo, come nella messa vigiliale del 7 dicembre.
Il legame molto stretto, che unisce il Salvatore e san Gioacchino, conferisce a questi un eminente dignità sugli altri santi, e fa sì che l’onore che gli è reso si rifletta in un modo speciale su Gesù Cristo e sulla sua Madre Immacolata.



Educazione della Vergine con i SS. Gioacchino ed Anna

Morte di S. Gioacchino

Giotto di Bondone, Espulsione di Gioacchino dal Tempio, 1304-06, Cappella degli Scrovegni, Padova

Giotto di Bondone, Gioacchino si ritira presso dei pastori nel deserto, 1304-06, Cappella degli Scrovegni, Padova

Giotto di Bondone, Sacrificio di Gioacchino, 1304-06, Cappella degli Scrovegni, Padova

Giotto di Bondone, Sogno di Gioacchino, 1304-06, Cappella degli Scrovegni, Padova




Giotto di Bondone, Incontro di Gioacchino ed Anna presso la Porta d'Oro a Gerusalemme, 1304-06, Cappella degli Scrovegni, Padova. 
Secondo Giotto, il concepimento di Anna avvenne, in maniera casta, con il bacio che si scambiarono i due anziani presso She'ar Harahamim, cioè la Porta d'Oro o Porta della Misericordia. Da lì, per Giotto, ebbe inizio la salvezza. In effetti, secondo una tradizione ebraica, che non doveva essere ignota - forse - al pittore, la Shekhinah (שכינה, la «presenza divina») si manifesterebbe attraverso questa porta. Per cui, nell'incontro di Gioacchino ed Anna a questa porta si manifestò la "presenza divina" mediante il concepimento immacolato di Maria. 
Della misteriosa ed inquietante donna velata di nero, che si copre parzialmente il volto, non volendo guardare e gioire dell'incontro tra Gioacchino ed Anna, sono state avanzate diverse interpretazioni. Ad es., per alcuni sarebbe una raffigurazione dello stato simil-vedovile di Anna, dovuto all'allontanamento del marito nel deserto.
In verità, sembra più plausibile ritenere che in quella donna velata il pittore abbia voluto rappresentare il Giudaismo incredulo e cieco dinanzi al mistero, che si va compiendo col concepimento di Maria. L'incontro tra i due anziani coniugi avviene, inoltre, su un ponticello, quasi a significare un ideale collegamento tra l'Antica e la Nuova Alleanza. Mentre le ancelle di Anna, simbolo - per Giotto - del Giudaismo che crederà al Messia, appaiono in movimento sul ponte e gioiose; la donna velata, invece, si vede ferma, immobile sul ponte, dal lato della città di Gerusalemme (simbolo dell'Antica Alleanza), non volendolo, quasi ostinatamente, attraversare e muoversi incontro ai due anziani, simbolo del mancato riconoscimento del Nuovo Patto, preferendo le tenebre alla luce come si legge nel celebre Prologo di Giovanni (di qui il colore luttuoso del manto della donna, assolutamente non usuale per Giotto).

Albrecht Dürer, SS. Giuseppe e Gioacchino, XV sec.

Juan Simón Gutiérrez, S. Gioacchino, 1700 circa, Museo de Bellas Artes, Siviglia

S. Gioacchino, Altare di S. Giuseppe, Basilica di S. Martino, Bingen

Eugenio Cajés, Incontro dei SS. Gioacchino ed Anna alla Porta d'oro di Gerusalemme, 1605 circa, Museo de la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid


Vittore Carpaccio, Incontro dei SS. Gioacchino ed Anna, con i SS. Luigi IX e Libera, Gallerie dell'Accademia, Venezia


Gaspar de Crayer, La Vergine adolescente preparata dagli angeli alla presenza dei SS. Gioacchino ed Anna, XVII sec., Royal Museum of Fine Arts of Belgium, Bruxelles

Anonimo, Allegoria dell'Immacolata bambina con S. Gioacchino, XVII sec., collezione privata

Juan Correa (attrib.), L'Immacolata è concepita dal cuore dei SS. Gioacchino ed Anna, XVII sec., Pinacoteca de La Profesa, Città del Messico

Luca Giordano, Vergine Maria tra i SS. Gioacchino ed Anna, XVIII sec., chiesa di San Miguel Arcángel, Segovia

Willem van Herp, SS. Gioacchino ed Anna con la Vergine Bambina, XVII sec., Haggerty Museum of Art, Milwaukee

Santa eguale agli Apostoli Elena, augusta imperatrice

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Il 18 agosto ricorre la memoria di S. Elena, imperatrice, madre dell'imperatore Costantino, veneratissima presso le chiese orientali ed alla quale spettò l'onore di riportare alla luce, nei luoghi santi, il Santo Sepolcro e la Grotta della Natività, nonché scoprire il legno della vera Croce di Cristo.
Per commemorarla, rinvio al testo della voce relativa dell'Enciclopedia Costantiniana del 2013 edita dalla Treccani: Elena: De Stercore Ad Regnum, in “Enciclopedia Costantiniana” – Treccani















SS. Costantino ed Elena, Cattedrale di S. Isacco, San Pietroburgo

Jean Bourdichon, S. Elena e la vera Croce, libro delle Ore di Anna di Bretagna, XVI sec.

Lucas Cranach il Vecchio, S. Elena, 1525, Cincinnati Art Museum, Cincinnati


Cima da Conegliano, S. Elena, 1495, National Gallery, New York

Cima da Conegliano, S. Elena e Costantino ai lati della Croce, 1501-03, chiesa di S. Giovanni in Bragora, Venezia

Cima da Conegliano, Adorazione dei Pastori con Sacra Famiglia e con Santi (SS. Caterina d'Alessandria, Elena e Tobiolo e Raffaele), 1509, Chiesa dei Carmini, Venezia

Santi di Tito, Maria de' Medici (?) in abiti di S. Elena, 1590 circa

Francesco Morandini, S. Elena, 1575

Autore anonimo, S. Elena, 1636 circa, chiesa parrocchiale di Santa Maria Annunciata, Serina

Paolo Veronese, Visione di S. Elena, 1580 circa, Musei Vaticani, Città del Vaticano, Roma



Paolo Veronese, Visione di S. Elena, 1570 circa, National Gallery, Londra

Jean-Auguste-Dominique Ingres, Vergine adorante l'Eucaristia con i SS. Elena e Luigi IX, 1852, Metropolitan Museum, New York

Una nuova lettura per i giovani ed i ragazzi .....

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LA MESSE – DES RITES SACRÉS À LA DÉCOUVERTE DU MYSTÈRE : UNE LECTURE D'ÉTÉ POUR VOS ENFANTS... ET POUR VOUS !

Le livre que nous vous proposons d'offrir et de faire lire à vos enfants ou bien de (re)lire vous-même en ce mois d'août n'est pas nouveau. Il fête ses 60 ans dans son édition originale américaine et date de 2009 dans son édition française, due à une collaboration efficace entre les éditions Reynald Secher et Nuntiavit (FSSP). 

Indémodable par son sujet – la messe –, il demeure surtout d'une grande efficacité pédagogique et spirituelle et d'une lecture facile puisqu'il s'agit... d'une bande dessinée ! C'est le cardinal Spellman, archevêque de New-York de 1939 à 1967, qui avait donné son imprimatur à cette BD due au père capucin Demetrius Manousos

Nous vous reproposons cette semaine la préface de l'édition française, signée de l'abbé Jacques Olivier. 

QU'EST-CE-QUE LA MESSE ? 
par l'Abbé Jacques Olivier, FSSP 

Le Saint-Sacrifice de la Messe est quelque chose de si grand qu'il faudrait trois éternités pour l'offrir dignement : la première pour s’y préparer, la seconde pour le célébrer, la troisième pour rendre de justes actions de grâces. (Saint Jean Eudes) 

Il y a deux mille ans, à trois heures de l'après-midi, cloué sur une croix au sommet du Golgotha, Jésus mourait pour le salut des hommes. En offrant sa vie en sacrifice à son Père du ciel, il rachetait le monde et réalisait la grande, l'incomparable, la seule et unique messe. La messe de la Croix, anticipée la veille au Cénacle avec les apôtres lors de la Sainte Cène et perpétuée dans chacune des messes célébrées depuis lors. 

Il y a deux mille ans, le Christ a voulu donner sa vie en sacrifice à son Père par amour pour nous, et se donner à nous en nourriture pour nous faire devenir enfants de Dieu et temples du Saint-Esprit.

Depuis deux mille ans, à l'image du Christ-prêtre, les prêtres répètent et actualisent les gestes du Christ : ils renouvellent de manière non-sanglante le sacrifice du Christ et font communier les fidèles au Pain de Vie. « Faites ceci en mémoire de moi... » leur a ordonné Jésus. En langage courant, on dit qu'ils disent la messe, sans se douter de la puissance de ces simples mots... 

Aucun chrétien ne doit ignorer que l'autel d'une église – de la plus majestueuse cathédrale à la plus humble chapelle – est toujours un autre calvaire, sur lequel est rendu présent à chaque messe l'acte d'amour infini de Dieu pour les hommes, source de toutes grâces. En y assistant avec piété, nous y recevons plus que par l'accomplissement de toutes nos bonnes œuvres réunies : c'est Dieu lui-même qui vient agir en nous. Nous sommes alors unis au Christ qui augmente en nous la vie surnaturelle et nous donne des gages pour la vie éternelle et pour notre propre résurrection. 

Le sacrement de l'eucharistie est ainsi une nourriture pour notre âme : « Jésus-Christ est présent dans l'Eucharistie d'une façon unique et incomparable. Il est présent en effet d'une manière vraie, réelle, substantielle : avec son Corps et son Sang, avec son Âme et sa Divinité. Il est présent de manière sacramentelle, c'est-à-dire sous les espèces du pain et du vin, le Christ tout entier, Dieu et homme ». Nous sommes bel et bien « conviés au festin des noces de l'Agneau ». 

Mais cette invitation passe par la croix : il n'y a pas de Vie, de Présence, d'Amour, sans Sacrifice... « Il n'y a pas de plus grand amour que de donner sa vie pour ceux qu'on aime » nous enseigne Jésus, avant de nous en donner l'exemple par sa mort sur la Croix : son Corps est livré et son Sang répandu. 

Au moment de la consécration, se réalise à nouveau l'offrande faite à Dieu du Sacrifice Parfait. Ce sacrifice adore Dieu, sauve le monde, répare les péchés, obtient toute grâce... Aujourd'hui encore, chaque messe réalise quatre effets : 
– la louange : elle est l'adoration, la reconnaissance de l'empire de Dieu sur toute la création,
– l'action de grâces : elle remercie infiniment Dieu pour ses bienfaits, en lui rappelant ce qu'il a fait de meilleur pour nous,
– la propitiation : elle obtient la rémission (le pardon) pour nos péchés, et nous sauve des peines de l'enfer ou du purgatoire,
– l'impétration : elle nous obtient de Dieu les dons naturels et surnaturels dont nous avons besoin dans notre vie. 

Nous pouvons ainsi comprendre pourquoi il est important d'assister à la messe au moins chaque dimanche et grande fête : nous avons tant à y recevoir. C'est la meilleure occasion de présenter nos intentions de prière à Dieu, pour nous-mêmes, pour nos amis, pour nos malades ou pour nos défunts, et d'obtenir son aide miséricordieuse. 

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POUR VOUS PROCURER CE LIVRE

La Messe – Des rites sacrés à la découverte du mystère 
Grand format, 24 euros ; petit format, 16 euros.
Si vous n'avez pas encore la BD dans votre bibliothèque, sachez que vous pouvez encore l'acquérir en ligne via le site des éditions Reynald Secher ou directement auprès de Petrus Diffusion, la boutique des Amis de la Fraternité Saint-Pierre (tél : 03 86 66 17 50).


Il valore della Santa Comunione - recensione al libro di Mons. Schneider, "Corpus Christi. La Santa Comunione e il rinnovamento della Chiesa"

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Qualche tempo fa davamo conto della pubblicazione di un recente testo dell'ottimo Mons. Schneider in edizione francese. Si pubblica oggi la recensione, all'edizione italiana dello stesso libro, di Cristina Siccardi.


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Il valore della Comunione 

di Cristina Siccardi

Nostro Signore, come dimostrato nei Vangeli, insegna, ammonisce, rimprovera, consiglia, promette. E mette in guardia: la prudenza deve sempre guidare i passi di colui che vive nella Fede. Mai, per esempio, offrire la santità a chi la rigetta, come riporta San Matteo: «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci» (Mt 7,6).
La pratica delle Comunioni indegnamente ricevute rappresenta ai nostri giorni «la piaga più profonda nel Corpo Mistico di Cristo», afferma Monsignor Athanasius Schneider nel saggio Corpus Christi. La Santa Comunione e il rinnovamento della Chiesa (Libreria Editrice Vaticana, pp. 97, € 9.00). «Tale indegnità è in primo luogo interiore: vale a dire nei casi in cui si riceve la Santa Comunione in stato attuale di peccato mortale, in stato abituale di peccato mortale, quando la si riceve senza avere piena fede nella Presenza Reale e nella Transustanziazione, quando non pentiti dei peccati veniali commessi. Tale indegnità può anche essere determinata da atteggiamenti esteriori: vale a dire nel caso di furto sacrilego delle ostie consacrate, quando l’Ostia Santa è ricevuta senza alcun segno esteriore d’adorazione, quando la si riceve non curanti della dispersione dei frammenti, quando la si amministra frettolosamente, quasi come se si trattasse della distribuzione di biscotti in una scuola oppure in una caffetteria» (pp. 41-42).
I grandi periodi di fioritura spirituale della Chiesa sono sempre coincisi con i tempi di penitenza e di forte venerazione del Sacramento dei sacramenti, la Sacra Eucaristia. L’uso della pastorale moderna di prendere la Comunione con le mani non è mai esistita nella Chiesa, ed è chiaramente un segno che minimalizza, intimamente e pubblicamente, la Fede, affievolendola. Nel 1970 l’Arcidiocesi di Vienna legittimava questa barbara pratica nel seguente modo: «Il fatto che i fedeli possano prendere l’ostia con la loro propria mano, così come prendono il pane comune, sarà inteso da parte di molte persone come un gesto semplice e naturale che corrisponde a questo segno». Il considerare la Comunione come un fatto «semplice e naturale», quindi umano, avvicina il sentire moderno della pastorale alle direttive dei protestanti che non credono nella Presenza reale del Corpo di Cristo nell’Ostia Santa. Scrive Monsignor Schneider: «Una tale situazione oggettiva richiede almeno una graduale revoca della pratica della Comunione in mano. Per di più, si richiedono espiazione e riparazione al Signore Eucaristico, che è già stato troppo offeso nel sacramento del suo amore» (p. 48). Tale esigenza venne anche proclamata a Fatima. In una delle sue visite, l’Angelo del Portogallo, che anticipò le apparizioni della Madonna ai tre pastorelli, portò loro la Comunione e fu lui a comunicarli in bocca: «Mangiate e bevete il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, orribilmente oltraggiato dagli uomini ingrati. Riparate i loro crimini e consolate il vostro Dio».
L’eliminazione di gesti espliciti di adorazione nei confronti della Santa Eucaristia, come il non mettersi in ginocchio davanti all’Altissimo o il non prendere direttamente in bocca l’Ostia Santa – gesto biblicamente motivato e atteggiamento tipico dell’infante – non va certamente a vantaggio né di un nuovo e vigoroso germogliare della Fede, né della Chiesa stessa, che sussiste ogni giorno perché ogni giorno sui suoi altari si compie il Santo Sacrificio.
«Il sacerdote continuamente tocca Dio con le sue mani. Quale purezza, quale pietà si esige da lui! Rifletti adesso un po’, come debbano essere quelle mani che toccano cose così sante!», così scrive San Giovanni Crisostomo in De sacerdotio (VI, 4) e le sue parole sono ricordate ancora da Monsignor Schneider in un altro suo saggio: Dominus est. Riflessioni di un vescovo dell’Asia Centrale sulla sacra Comunione (Libreria Editice Vaticana, pp. 66, € 8.00). Durante il rito dell’Ordinazione sacerdotale l’unzione esprime la conformità a Cristo: come Egli è stato unto dal Padre (Cristo=Unto del Signore) con lo Spirito Santo (At 10,38) ed è stato consacrato Sommo Sacerdote, così i sacerdoti, che nell’imposizione delle mani sono resi simili a Lui, ricevono anche materialmente l’unzione: il Vescovo unge con il sacro Crisma le palme delle mani di ciascun ordinato, inginocchiato davanti a lui.
Nell’antica Chiesa siriaca il rito della distribuzione della Comunione era paragonato con la scena della purificazione del profeta Isaia da parte di uno dei serafini. In uno dei suoi sermoni sant’Efrem fa parlare Cristo con queste parole:
«Il carbone portato santificò le labbra di Isaia. Sono IO, che, portato adesso a voi per mezzo del pane, vi ho santificato. Le molle che ha visto il profeta e con quali fu preso il carbone dall’altare, erano la figura di Me nel grande sacramento. Isaia ha visto Me, così come voi vedete Me adesso stendendo la Mia mano destra e portando alle vostre bocche il pane vivo. Le molle sono la Mia mano destra. Io faccio le veci del serafino. Il carbone è il Mio corpo. Tutti voi siete Isaia» (p. 45). Oggi, nella maggior parte delle chiese del mondo non si ascende più alla grandezza del miracolo della Transustanziazione, esso viene banalizzato, fino a renderlo un fatto ordinario. I Padri della Chiesa, i cui insegnamenti il Vescovo Schneider ci fa sapientemente riascoltare, sono una voce imprescindibile dell’ossatura della Chiesa stessa; essi non hanno fatto “tendenza”, hanno consolidato e ordinato regole e precetti, veri e propri pilastri della Fede, senza i quali ci si smarrisce e si profana ciò in cui si vorrebbe credere. San Giovanni Crisostomo, molto amato dal Cardinale John Henry Newman, rimproverava sacerdoti e diaconi che distribuivano la Sacra Comunione con rispetto umano e senza la debita adorazione alla Divinità ad essa intrinseca:
«Anche se qualcuno, per ignoranza, si accosta alla Comunione, impediscilo, non temere. Temi Dio, non l’uomo. Se infatti temi l’uomo, costui ti schernirà; se invece temi Dio, sarai rispettato anche dagli uomini. Sarò disposto a morire, piuttosto che dare il sangue del Signore ad una persona indegna; verserò il mio sangue, piuttosto che dare il venerato sangue del Signore in modo inadeguato» (p. 51). La santità sacerdotale è chiamata ad utilizzare proprio tali parametri e propositi, e fra tutti ricordiamo il culto che Padre Pio da Pietrelcina aveva per Gesù Eucaristia.
Al cospetto di Dio le ginocchia si piegano da sole. Di fronte al Sommo Bene e all’Onnipotente il riconoscimento della propria pochezza, per chi si nutre di Fede, è automatico. Il nutrimento maggiore è proprio la Santa Comunione che deve essere presa non con le proprie mani impure, ma dalle mani del ministro di Cristo, chiamato ad imboccare sia il tronfio e saccente “adulto cattolico”, sia l’umile “anima bambina” di Dio.

Centenario della morte di S. Pio X

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Esattamente 100 anni fa, nella memoria liturgica di San Bernardo, Abate e Dottore della Chiesa, alle prime ore di questo giorno (1:30 am circa), si addormentava nel Signore il grande San Pio X, venendo chiamato alla gloria del Paradiso.
Poche ore prima di lui moriva anche il Generali dei Gesuiti, P. Franz Xaver Wernz, insigne canonista, fedele collaboratore del Pontefice e degnissimo figlio di S. Ignazio di Loyola.
San Pio X, del resto, già l'anno precedente, il 1913, aveva subito un attacco cardiaco. Da allora era vissuto sempre in precarie condizioni di salute. Il giorno della festa dell'Assunzione di Maria del 1914, il papa si ammalò. Da allora le sue condizioni di salute peggiorarono sempre più, non riuscendo più a riprendersi. Peraltro lo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914-1918), non avevano fatto altro che aggravare quelle condizioni dell'anziano papa, gettandolo in uno stato di grave malinconia. Ripeteva: "verrà il guerrone". Il 20 agosto 1914, un ennesimo attacco cardiaco gli fu fatale. Proprio in quel giorno le forze armate tedesche marciarono su Bruxelles.
Numerosi sono i meriti del grande Papa sia in campo liturgico, musicale, canonico, pastorale e teologico.
Fu canonizzato nel 1954 dal successore il venerabile Pio XII, il quale ebbe modo di conoscerlo personalmente ed apprezzarne le doti umane e cristiane. La sua festa liturgica tradizionale è il 3 settembre.
Afferma il card. Burke nella prefazione al recente libro di Cristina Siccardi, San Pio X. Vita del Papa che ha ordinato e riformato la Chiesa, ed. Paoline, 2014, che sarà presentato dall'autrice in anteprima il 22 agosto [sottolineatura ed evidenziazione nostre, ndr.]:
Se la vita di San Pio X merita in se stessa una nuova presentazione in occasione del centenario della sua morte, tale studio è anche molto vantaggioso per la migliore comprensione dell’insostituibile servizio del Successore di San Pietro nel mondo di oggi.Purtroppo la figura di San Pio X è attualmente poco conosciuta o talvolta, per dire la verità, è vista in un modo gravemente incompleto. Con questa nuova biografia Cristina Siccardi ha saputo dare una visione completa della figura del santo, presentando Papa Sarto come il Papa “riformatore”. Il suo lavoro, dal sapore squisitamente storico e spirituale, restituisce in completezza il ritratto di Pio X, offrendo spunti non soltanto interessanti, ma inediti. […] Instaurare omnia in Christo è veramente la cifra del Pontificato di San Pio X, tutto teso a ricristianizzare la società aggredita dal relativismo liberale, che calpestava i diritti di Dio in nome di una “scienza” svincolata da ogni tipo di legame con il Creatore. Questa “scienza” antropocentrica faceva in modo che clero e laici rimanessero sempre più imprigionati nell’ignoranza religiosa. […] La straordinaria figura di San Pio X emerge qui di forza propria: egli fu essenzialmente sacerdote e come tale, per tutta la sua vita, portò al mondo il bene che un sacerdote può e deve portare: la Grazia di Dio attraverso i Sacramenti e la Verità di Dio attraverso l’insegnamento, soprattutto la predicazione.  […] spero che lo studio della vita di San Pio X che Cristina Siccardi ci offre ci ispiri e rafforzi nell’affrontare oggi la paurosa confusione e il diffuso errore sulle questioni più fondamentali della fede e della morale, come ha fatto Papa Sarto al suo tempo, cosicché i fedeli di oggi sappiano articolare la sana dottrina e la giusta morale per il bene di tutti e per la loro eterna salvezza.
Possa essere questa biografia, della quale invito caldamente alla lettura, occasione per conoscere realmente la figura di San Pio X, per tramandarne la giusta memoria e per imitare la sua vita eroica in Cristo.


Per celebrane il centenario, da parte nostra, non possiamo fare a meno che ricordare il Santo Pontefice mediante l'unico film, sinora esistente, sulla sua figura: "Gli uomini non guardano il cielo", del 1952, diretto da Umberto Scarpelli.
Il papa fu interpretato da un magistrale attore, l'inglese Henri Vidon (1887-1970), che, tra l'altro somigliava tantissimo al vero san Pio X.



Una scena del Film: l'elevazione al Supremo Pontificato

Altra scena del film: il Papa congeda l'ambasciatore dell'Impero austriaco rifiutando di benedirne le armate

Scena finale del film: l'ultima messa del Papa

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S. Pio X, appena spirato e ricomposto sul letto di morte, il 20 agosto 1914

S. Pio X sul catafalco nel Palazzo Apostolico prima della traslazione della salma nella Cappella Sistina per la venerazione dei fedeli

Traslazione del corpo del santo Pontefice. Queste ultime due fotografie sono tratte dal lavoro del dott. Antonio Margheriti Mastino, La morte del Papa - Riti, cerimonie e tradizioni dal Medioevo all'età contemporanea, il quale non manca di approfondire la tematica anche dal punto di vista medico-legale





Antoon van Welie, Ritratto di Pio X, 1905, Musei Vaticani, Città del Vaticano, Roma

S. Pio X nel suo studio mentre posa per il pittore Antoon van Welie, dicembre 1904

A. Patinucci, Ritratto di S. Pio X, XX sec., Museo diocesano, Trento

Ritratto di S. Pio X, 1935, museo diocesano, Treviso

Anonimo, S. Pio X, XX sec., Museo diocesano, Novara


Nino e Silvio Gregori, S. Pio X, XX sec.

Memoria centenaria del pio transito di san Pio X, Papa riformatore e restauratore

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Chiesa cattolica: Memoria di san Pio X, Papa riformatore e restauratore

di Cristina Siccardi

Le ragioni della profonda crisi della Fede e della Chiesa, che con costernazione molti cattolici osservano e vivono oggi, sono quelle individuate con logica e realismo da san Pio X, il grande Pontefice riformatore e restauratore che guidò la Chiesa nel primo Novecento fino allo scoppio della prima Guerra mondiale. Il centenario del suo dies natalis, 20 agosto 1914 – 20 agosto 2014, viene così a cadere in un tempo in cui l’obiettivo del suo Magistero, Instaurare omnia in Christo, diventa di sorprendente attualità: come allora Papa Sarto, di fronte agli assalti secolarizzanti del liberalismo e del modernismo, vide come unico rimedio la necessità di ricapitolare ogni cosa in Cristo, così oggi le parole di San Paolo diventano insegnamento di urgente attuazione per difendere la Chiesa da quei mali fotografati, esaminati e analizzati nell’enciclica Pascendi Dominici Gregis che San Pio X scrisse nel 1907 e che resta, nel Magistero petrino, uno dei documenti più importanti e più celebri di tutti i tempi.
San Pio X avviò un piano santamente ambizioso e di riforma generale poiché non solo le forze nemiche, liberali e massoniche, minacciavano la Chiesa, e i semi avvelenati del liberalismo e del modernismo (termine presente per la prima volta nella Pascendi) avevano ormai attecchito con successo in alcuni ambienti “cattolici”, sia nel clero, sia fra i laici; ma si era andato formando, in particolare sotto il Pontificato di Leone XIII, un clima di stanchezza e di apatia nei Seminari, nelle parrocchie e persino nelle celebrazioni delle Santa Messe, dove erano entrati addirittura canti profani, bande musicali, arie di opere liriche… fra le azioni di Papa Sarto ci fu anche la Riforma della musica sacra: avvalendosi della consulenza di un eccellente esperto e compositore come Lorenzo Perosi (1872-1956), diede al canto gregoriano la preminenza assoluta nella Liturgia.
Il Modernismo, definito nella Pascendi, «sintesi di tutte le eresie», tentava di coniugare Vangelo e positivismo, Chiesa e mondo, filosofia moderna e teologia cattolica; esso aveva visto i suoi albori in Francia, dove si era consumata la Rivoluzione che aveva abolito il diritto divino, incoronando la «dea ragione». Il motto «liberté, egalité, fraternité», che aveva prodotto il testo giuridico della Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen (26 agosto 1789), divenne, lungo i decenni, il lite motive di molti pensatori cristiani che decisero di inchinarsi al mondo, senza più condannare gli errori e senza più preservare l’integrità della dottrina della Fede. Fu proprio contro questa mentalità che San Pio X decise di combattere al fine di tutelare gli interessi di Dio e della Sposa di Cristo.
Profonda Fede, amore immenso per la Chiesa, grande umiltà e grande sensibilità. Uomo dalle poche parole e dai molti fatti, era sempre teso a compiere la volontà di Dio, anche quando, chiamato ad alte mansioni, sentiva tutto il peso gravoso delle responsabilità; ma una volta accolto l’impegno, la sua preoccupazione era quella di rispettare e far rispettare leggi e principi divini, senza distrazioni verso il rispetto umano e il consenso delle opinioni del mondo. Non cercò mai i riflettori, ma soltanto la difesa dei diritti del Creatore e la salvezza delle anime.
Dal campanile di Riese, dove nacque il 2 giugno 1935, passò a quelli di Salzano e di Treviso per poi arrivare a quello di San Marco a Venezia e approdare a quello di San Pietro a Roma, tuttavia rimase sempre identico a se stesso: libero da ogni passione terrena, continuò a voler vivere in povertà, come lasciò scritto nel suo Testamento: «Nato povero, vissuto povero e sicuro di morir poverissimo». Povertà per sé, ma non per Dio: non lesinava mai corredi e paramenti nella Sacra Liturgia.
San Pio X si caratterizza per la sua formazione tomista, per il suo sano e disincantato realismo, per la sua tangibile pastoralità (vicina ai reali e non demagogici problemi), per il suo attaccamento alla Fede e non all’ideologia, per il suo tenere le distanze dalla politica; ma proprio per questo suo atteggiamento di pastore-missionario fu sempre stimato e rispettato in vita. Questo Pontefice, seppure con discrezione ed umiltà, come era di sua natura, è diventato interprete determinato e determinate della Chiesa militante e continua, senza rumore, ma nel proficuo e fertile silenzio di Dio, a fare scuola.
Diede vita ad un’immensa opera di restaurazione con l’obiettivo di Instaurare omnia in Christo, come ebbe a scrivere nella sua enciclica programmatica E Supremi Apostolatus del 4 ottobre 1903:
«Le ragioni di Dio sono le ragioni Nostre; è stabilito che ad esse saranno votate tutte le Nostre forze e la vita stessa. Perciò se qualcuno chiederà quale motto sia l’espressione della Nostra volontà, risponderemo che esso sarà sempre uno solo: “Rinnovare tutte le cose in Cristo».
Agì su due fronti: da un lato riformò e dall’altro condannò.
Riformare per restaurare. Dirà lo spagnolo Cardinale Rafael Merry del Val, non solo Segretario di Stato di San Pio X, ma suo braccio destro, suo confidente, suo amico d’anima:
«La riforma della curia romana, la fondazione dell’istituto Biblico, l’erezione dei seminari centrali e la legislazione per una migliore formazione del clero, la nuova disciplina per la prima – per la frequente – comunione, la restaurazione della musica sacra, il suo poderoso atteggiamento contro i fatali errori del cosiddetto modernismo e la sua energica difesa della libertà della Chiesa in Francia, in Germania, in Portogallo, in Russia e altrove – per non parlare di molti atri atti di governo – basterebbero indubbiamente per additare Pio X come un grande pontefice e un eccezionale condottiero di uomini. Posso attestare che tutto questo enorme lavoro fu dovuto principalmente, e spesso elusivamente, al suo progetto e alla sua iniziativa personale. La storia non si limiterà a proclamarlo semplicemente un papa la cui “bontà” nessuno sarebbe capace di mettere in questione».
Quel suo passato da cappellano a Tombolo (1858-1867); da parroco a Salzano (1867-1875); da canonico, da Direttore di Seminario, da cancelliere, da Vicario capitolare a Treviso (1875-1884); da Vescovo di Mantova (1884-1893); da Cardinale e Patriarca di Venezia (1893-1903), fu basilare per il gigantesco piano riformatore che mise in moto durante il suo Pontificato, che durò 11 anni, dal 1903 al 1914.
Quando Giuseppe Sarto divenne sacerdote (18 settembre 1858), si dedicò subito e con particolare attenzione all’istruzione catechistica, considerando l’ignoranza religiosa il primo grave problema che un ministro di Dio deve affrontare. «Frequentare la Messa», diceva, «e ignorare le verità della fede sono cose che si elidono a vicenda, perché non è possibile accettare verità che non si conoscono». Diede così vita al Catechismo Maggiore (1905) e alCatechismo della dottrina cristiana (1912), maggiormente divulgato.
Diede anche avvio alla formulazione di un Codice di Diritto canonico, il Codex iuris canonici, mai esistito nella Chiesa. Era un’esigenza viva e sentita da Vescovi e canonisti. E finalmente volle dare rimedio al caos delle norme, alla poca chiarezza di molte di esse, alla contraddittorietà delle une e delle altre che andavano spesso a elidersi a vicenda e alla difficoltà del reperimento di fonti certe, tanto che molte erano persino sconosciute a chi avrebbe dovuto servirsene.
Il Codex, dove sono presenti spirito di Fede, intransigenza sui principi e profonda pietà, è risultato essere un grande strumento di utilità pastorale, sovvenendo così alle nuove ed inedite necessità organizzative e funzionali che si sono presentate alla Chiesa del XX secolo e, allo stesso tempo, si inserisce a pieno titolo nel programma di restaurazione cattolica che caratterizza il Pontificato di San Pio X.
L’Eucaristia fu un asse portante della dottrina pastorale di Giuseppe Sarto. Già Patriarca egli raccomandava vivamente la Santa Messa quotidiana. Il decreto Sacra Tridentina Synodus (1905) verte sulla comunione frequente, mentre il decreto Quam singulari (1910) sull’anticipazione «all’età dell’uso della ragione» (7 anni) della prima comunione. Atti molto innovativi, che mettevano al centro della vita di ogni fedele, come della stessa Chiesa, Gesù Eucaristico. La ragione per cui volle anticipare la prima comunione era per rispondere all’esigenza di preservare il più possibile l’innocenza nei bambini, quell’innocenza che oggi la civiltà laica e senza Cristo fa di tutto per violare ed infrangere.
Né si può tralasciare la sua ampia azione di denuncia contro le leggi anticristiane della Francia. Ricordiamo, in particolare, la Lettera all’episcopato francese Notre charge apostolique (1910), contro la concezione secolarizzata della democrazia.
Uomo di profonda e riflessiva intelligenza, non aveva difficoltà alcuna a parlare con tutti, ad ascoltare tutti, ad avere un atteggiamento di carità concreta (i suoi agiografi ne hanno registrato l’immensa portata, oltre che descrivere grazie e miracoli ottenuti per sua intercessione e ancora in vita) e intellettuale con ogni individuo: traboccante di umiltà, non fu mai né altero, né superbo, neppure quando venne avviato il piano repressivo nei confronti dei modernisti; il suo cuore rimase sempre generosamente evangelico, seppure fieramente dalla parte di Cristo. Spirito né settario, né fanatico, egli fu realmente cattolico e la sua intransigenza in materia di Fede non si trasformò mai in zelo amaro. Rimase sempre padre misericordioso e curato d’anime.
Sapienza e fecondità sono presenti nelle sue sedici encicliche, documenti sentiti, partecipati, vissuti e supportati da una Fede adamantina che esige di essere applicata. In esse si coglie la gioia della Buona Novella dell’uomo di Dio che dai tetti annuncia la rivelazione del Salvatore a tutte le genti e trasmette un unico insegnamento, quello di Gesù Cristo, a dispetto di chi vorrebbe silenziarlo, oppure profanarlo, oppure cambiarne il significato a proprio piacimento.


L'ombra di S. Pio X: il card. Casimiro Gennari

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Per commemorare il centenario della morte di Papa Sarto, che ricordiamo quest'oggi (v. anche qui), ci è stato inviato un interessante scritto, che volentieri pubblichiamo, che traccia il profilo di uno dei più fedeli collaboratori del Pontefice veneto.
Il suo nome era Casimiro Gennari
Si tratta – come ricorda Gianpaolo Romanato – di una «figura finora trascurata dalla storiografia, … già fondatore del "Monitore Ecclesiastico", la rivista che prima della nascita degli "Acta Apostolicae Sedis" fu l'organo semiufficiale della Santa Sede» (Gianpaolo Romanato, La rivoluzione del papa modernizzatore).
Grande affinità, teologica, spirituale e morale, con papa Sarto caratterizzarono il pensiero e l'opera del card. Gennari. Egli era legato, in effetti, al Pontefice da sinceri sentimenti di amicizia e di concordia. A riprova può ricordarsi che, nel conclave, che era seguito alla morte di Leone XIII, nel 1903, secondo molti, il card. Gennari senz'altro dové essere tra i grandi elettori, appunto, del Patriarca di Venezia, card. Sarto.
In una nota confidenziale del 1913, redatta in previsione del futuro conclave, che sarebbe seguito alla morte dello stesso santo Pontefice (e che si tenne poi nell’estate del 1914), inoltre, significativamente mons. Umberto Benigni (1862-1934), fondatore ed organizzatore dello strumento formidabile di lotta al modernismo quale fu il Sodalitium Pianum, indicava i nomi dei cardinali, che riteneva più vicini all’azione anti-modernista del Papa di Riese. Fra questi vi erano tre cardinali, che avevano ricevuto il galero da Leone XIII e che rappresentavano quindi la continuità tra i due pontificati: il cappuccino José Vives y Tuto (1854-1913), il ravennate Francesco Salesio Della Volpe (1844-1916) ed, appunto, Casimiro Gennari (1839-1914) originario di Maratea, il quale era stato scelto cardinale nel concistoro del 15 aprile 1901 da papa Pecci e, nel 1908, designato da san Pio X quale Prefetto della S. C. del Concilio.
Alla morte, dunque, di papa Sarto, dunque, il card. Gennari era ritenuto come un “papabile”, che, se eletto al Supremo Pontificato, avrebbe degnamente continuato l’azione avviata dal suo predecessore, soprattutto con riguardo alla lotta alle eresie scaturenti dal modernismo. Ciò significava chiaramente come l’opera di quel porporato avesse genuinamente compreso l’azione riformatrice e restauratrice intrapresa dal papa Giuseppe Sarto, cogliendone lo spirito, le finalità ed il significato. 
Non ci sembra modo più degno di ricordare il centenario del beato transito di S. Pio X, perciò, che rammentarne uno dei più fedeli interpreti.



San Pio X e la sua ombra: il Card. Casimiro Gènnari

di Vito Abbruzzi

Cento anni fa, esattamente il 20 agosto del 1914, moriva San Pio X. Gli storici della Chiesa – e non solo – hanno versato fiumi di inchiostro sul suo pontificato, dividendosi in giudizi opposti tra di loro; ma tutti d’accordo sulla sua indiscussa santità.
Il pontificato di Giuseppe Melchiorre Sarto (nato a Riese, nel Trevigiano, il 2 giugno 1835) è stato certamente uno dei più fecondi nella storia della Chiesa, attuando con coraggio e fermezza il motto paolino “Instaurare omnia in Christo” (Ef 1, 10). Una volta eletto papa, infatti, rendendosi conto di non avere doti diplomatiche né una vera e propria formazione universitaria, San Pio X sentì il dovere di farsi affiancare da collaboratori preziosi e competenti, quali i cardinali Rafael Merry del Vale Casimiro Gènnari: entrambi morti in concetto di santità. Ma mentre del primo sappiamo abbastanza, del secondo, praticamente, poco o nulla. E per questo, proprio perché anche di lui quest’anno ricorre il centenario della morte, avvenuta a Roma il 31 gennaio del 1914, voglio spendere qualche parola, per ricordarne l’alta statura di uomo colto e pio.
Il Cardinal Gènnari nacque a Maratea (diocesi di Lagonegro, in Lucania) il 27 dicembre 1839 e a soli 24 anni, il 21 marzo 1863, fu ordinato sacerdote. Pur se i suoi studi teologici ebbero un ottimo esito sotto la direzione dei Gesuiti di Napoli, egli non conseguì alcuna laurea né in Teologia né in Diritto Canonico; materia quest’ultima in cui sarebbe diventato maestro insigne, fondando nel 1876 Il Monitore ecclesiastico (dal 1949 Monitor Ecclesiasticus): una rivista destinata alla formazione permanente del clero – agli inizi prettamente italiano – sul piano culturale, morale e ascetico. Elogiato come “pubblicazione opportunissima e di grande utilità”, a motivo delle sue rubriche, che “offrono veramente a tutti gli ecclesiastici la conoscenza dei documenti più necessari e l’offrono con egregio metodo, con degna dottrina, con giudiziosa disposizione, con opportunità manifesta”, Il Monitore Ecclesiastico sarà di fondamentale importanza in campo canonistico: dalla preparazione della codificazione del primo Codex Iuris Canonici(il cosiddetto Pio-Benedettino, promulgato nel 1917) alla sua chiara e sapiente interpretazione. Ed è proprio grazie a questa preziosa rivista che il Gènnari si farà particolarmente apprezzare da Leone XIII, che nel 1881 lo nominerà vescovo di Conversano (diocesi che reggerà molto solertemente e amorevolmente sino al 1897) e nel 1895 assessore del Sant’Uffizio, creandolo, infine, cardinale nel 1901. Una carriera brillante, dunque, ma ben lontana, anzi diametralmente opposta alle logiche delle biasimevoli cordate curiali.
Il 20 luglio 1903 veniva meno il grande vegliardo Leone XIII e il 31 luglio, con 63 cardinali su 65, si apriva il conclave che doveva portare alla cattedra di S. Pietro un santo: Pio X. Sono note le vicende che di quel conclave che sbarrò prima la via al pontificato del Card. Mariano Rampolla, già segretario di Stato, per il deprecato veto dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe e la aprì, quindi, all’umile Patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto. Per quanto tutelato da strettissimo segreto lo svolgersi del conclave, gli orientamenti dell’animo del Card. Gènnari, quali risultano dalle notizie dell’epoca, ci portano a pensare che, anch’egli, dopo aver favorito all’inizio la candidatura del Card. Rampolla, ripiegasse poi, con la maggioranza, sulla mite figura del Card. Sarto, a cui lo legavano tante identità di carattere e di vita e del quale doveva divenire così intimo collaboratore nei più gravi negozi della Chiesa.
Pio X, fin da quando era Patriarca di Venezia, aveva, infatti, in grande stima il Card. Gènnari, e, in una lettera, che tuttora esiste, lo ringraziava del nuovo trattato di “cortesia e gentilezza” per averlo onorato col prezioso regalo della sua bellissima opera Consultazioni morali; si congratulava con lui “per il diritto che si è acquistato alla gratitudine dei Vescovi e del Clero in cura d’anime” e gli augurava dal cielo “la retribuzione per tanti bei meriti”.
Tra i Canonici del Capitolo Cattedrale di Conversano – rimasto molto affezionato alla memoria del suo illustre pastore divenuto cardinale – si diceva che anche Mons. Gènnari, durante quello storico conclave, avesse ricevuto qualche preferenza: una proprio dal Card. Sarto; e questa voce – mai smentita – è giunta sino ai giorni nostri, ripetuta con convinzione da un capitolare anziano ancora vivente, mio amico.
Ma, al di là delle voci di popolo, resta il fatto che il pontificato di San Pio X fu fecondo di riforme e di innovazioni grazie alla sensibilità e alla lungimiranza di Casimiro Gènnari; nonché alla innata longanimità di lui. Tra tutti valga di esempio la codificazione del Diritto Canonico, fortemente caldeggiata dal nostro Gènnari, che, su espresso volere del papa San Pio X, preparò il Motu Proprio Arduum sane munus, che usciva il 19 marzo 1904, e che aprì ufficialmente la via all’opera della codificazione.
La sensibilità si vede nel sostenere con forza la necessità di ammettere alla Prima Comunione i fanciulli, raccomandando la Comunione frequente: “Il privar le anime anche di poche Comunioni, quando non ci sia una giusta causa, è un grande danno e una condannevole ingiustizia”.
La lungimiranza è nel far dire a Leone XIII, mediante la Bolla Apostolicae curae (da lui preparata), “che le ordinazioni compiute con il rito anglicano sono state del tutto invalide e sono assolutamente nulle”. Parliamo di lungimiranza, perché, proprio grazie a questa ferma presa di posizione, l’anglicanesimo è entrato in crisi con se stesso, spingendo in tempi recenti una parte considerevole di esso a chiedere di rientrare nella comunione con la Chiesa di Roma. Un rientro disciplinato dalla Anglicanorum coetibus: la “Costituzione Apostolica circa l'istituzione di Ordinariati Personali per Anglicani che entrano nella piena comunione con la chiesa cattolica”, firmata il 4 novembre 2009 da Benedetto XVI, nella quale, confermando quanto dichiarato e proclamatoda Leone XIII nella Apostolicae curae, si stabilisce che “coloro che hanno esercitato il ministero di diaconi, presbiteri o vescovi anglicani, che rispondono ai requisiti stabiliti dal diritto canonico e non sono impediti da irregolarità o altri impedimenti, possono essere accettati dall’Ordinario come candidati ai Sacri Ordini nella Chiesa Cattolica”. Una logica, questa, sacrosanta, ribadita – ma così disattesa! – dal Vaticano II, che insegna: “Bisogna assolutamente esporre con chiarezza tutta intera la dottrina. Niente è più alieno dall'ecumenismo che quel falso irenismo, che altera la purezza della dottrina cattolica e ne oscura il senso genuino e preciso” (Unitatis redintegratio, n. 11).
In ultimo, la longanimità. È grazie a questa virtù che Il Card. Gènnari, da vescovo di Conversano, prese a cuore la causa di canonizzazione della beata Rita da Cascia (proclamata tale da papa Urbano VIII nel 1627, centottanta anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1447), istruendo nel 1887 l’apposito processo grazie al miracolo da questa compiuto nel 1877 verso un tale Cosimo Pellegrini, sarto conversanese, risvegliatosi dal coma in cui era sprofondato, poiché colpito da “parossismo celebrale da ideotifo”. Un processo felicemente conclusosi con l’elevazione agli onori degli altari della “Santa degli impossibili e dei casi disperati”: cerimonia avvenuta in San Pietro il 21 maggio del 1900. Mi piace ricordare questo avvenimento non solo perché conversanese, ma perché – per merito di Gènnari – la popolarità di Santa Rita è divenuta di fama mondiale: seconda solo a quella della Madonna.
E a proposito di santità, voglio concludere citando quanto il Card. Pietro Palazzini disse nel suo discorso commemorativo su Gènnari, tenuto nella Cattedrale di Conversano il 20 giugno del 1965:
“Emulo del Santo Papa che si trovò a servire e ad imitare da vicino negli ultimi suoi anni, San Pio X, fu un grande Cardinale per la sua scienza e per la sua santità. Era nota la sua immensa carità, per cui si privava di tutto quanto guadagnava a beneficio dei poveri. Una povertà, la sua, che rasentava la miseria: accompagnata, com’era, da uno spirito di mortificazione che aveva dell’eroico. La sua stessa morte veniva spiegata con le privazioni, gli stenti e il freddo sofferto, avendo voluto egli restare senza riscaldamento in quel rigido gennaio del 1914, nonostante l’età e gli acciacchi, per spirito di mortificazione”.

"... qui amat filium aut filiam super me, non est me dignus ..." (Matth. 10, 37) - Ci può essere un amore più grande?

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La vita di santa Giovanna Francesca de Chantal ha offerto una risposta in senso affermativo alla domanda del Signore.
Ieri, commemorando il centenario del pio transito di san Pio X, proponevano all’attenzione un film – l’unico per la verità – dedicato alla vita del santo pontefice, “Gli uomini non guardano il cielo”. Ad un tratto, si racconta un episodio reale della biografia del papa, allorché era Patriarca a Venezia. Recatosi presso la ricca dimora di una nobildonna della città lagunare, in procinto di divorziare dal marito, in Ungheria (all’epoca in Italia non esisteva il divorzio!), questa lamentava come la sua esistenza fosse stata infelice e la Provvidenza parecchio ingiusta con lei e che, perciò, aveva “diritto ad un’altra storia”, a rifarsi una vita. Il santo Patriarca replicava che “di fronte a Dio non si hanno diritti, ma solo doveri” e che col divorzio in procinto di ottenerlo grazie alla sua ricchezza, in verità, non si accomodava nulla soprattutto “quando si decide di vivere in peccato mortale”. La donna, quindi, obiettava che aveva diritto di rifarsi una vita e che non poteva sacrificare tutta la sua vita ad un manigoldo, che l’aveva quasi impoverita: aveva, dunque, diritto all’amore. Il Patriarca, quindi, indicando il Cielo, ricordava alla donna che “c’è un solo amore che non può essere sacrificato ed è l’amore di Dio. Certo è un amore difficile, perché tutto dà e niente chiede, quell’amore è abnegazione, è carità”. Per questo, la donna non poteva disertare il campo di battaglia che Dio le aveva assegnato, perché, così facendo, avrebbe perso un’anima (quella del marito peccatore) ed avrebbe perso certamente se stessa.
Come ieri, dunque, questo film ci ha ricordato che c’è un Amore superiore, che non può essere sacrificato, così oggi l’odierna memoria di santa Giovanna Francesca.
Ella, discepola di san Francesco di Sales, fece onore al suo maestro e gli dimostrò che, senza ricorrere necessariamente a quelle forme speciali e trascendenti di santità che troviamo presso i Padri del deserto, si poteva giungere al sommo della perfezione cristiana amando Dio appassionatamente e compiendo i doveri del proprio stato, nella quadruplice situazione di sposa, di madre, di vedova e di religiosa, volta a volta vissuta dalla nostra santa.
Alla scuola del santo Vescovo di Ginevra, la santità di Giovanna Francesca diventò amabile, gentile e non diede più quell’impressione di malinconia che una virtù esordiente poteva causare a coloro che ne furono testimoni.
Madame de Chantal aveva affidato la direzione della sua anima a san Francesco di Sales, tanto che i suoi domestici dicevano a questo riguardo: «Il primo confessore di Madame la faceva pregare tre volte al giorno e, per questo, ci annoiavamo molto. Il Monsignore di Ginevra, al contrario, la fa pregare ora continuamente e questo non importuna più nessuno» («Le premier conducteur de Madame ne la faisait prier que trois fois, et nous en étions tous ennuyés; mais Mgr de Genève la fait prier à toutes les heures, et cela n’incommode personne») (Françoise M. De Chaugy, Giovanna Francesca di Chantal. Memoria della vita edelle virtù, Roma 2010, p. 72. Cfr. Id., Mémoires sur la vie et les vertus de Sainte-Jeanne Françoise Frémyot de Chantal. Sainte Jeanne-Françoise Frémyot de Chantal, sa vie et ses œuvres, t. 1, Paris 1874, p. 73).
Uno dei momenti più penosi della sua vita fu quello in cui dovette separarsi dai suoi.
In quell’istante, la nostra Santa dové sperimentare le parole del Redentore e cioè che l’Amore a Lui, per essere fatti degni di Lui, deve superare persino quello derivante dai vincoli di sangue, perché è davvero un amore che non può essere sacrificato!
Eccone il racconto: «Il 19 [recte: 29, ndr.] marzo 1610, giorno fissato per gli addii, i genitori e gli amici della santa si riunirono da M. Frémiot. L’assemblea era numerosa. Tutti si scioglievano in lacrime. M.me de Chantal, sola, conservava una calma apparente; ma i suoi occhi erano umidi di pianto e testimoniavano la violenza che era obbligata ad adoperare su se stessa per dominarsi. Andava da uno all’altro, baciando i suoi genitori, chiedendo loro perdono, li scongiurava di pregare per lei, provando a non piangere, e piangendo più forte. Quando arrivò ai suoi quattro bambini, non poté contenersi. Suo figlio, Celso Benigno, che aveva circa quindici anni, si appese al suo collo e provò con mille carezze a distoglierla dal suo progetto. M.me de Chantal, prona su di lui, lo copriva di baci e rispondeva a tutte le sue ragioni con una forza ammirevole. Nessun cuore insensibile che fosse, era capace di trattenere i singhiozzi sentendo “quelle parole filiali e materne così dolorosamente piene d’amore”. Dopo che i cuori ebbero esaurito la tenerezza, M.me de Chantal, per mettere fine ad una scena che la prostrava, si liberò vivamente dalle braccia di suo figlio e volle passare oltre. Questo fu allorché Celso Benigno, disperato di non potere trattenere sua madre, si coricò di traverso sulla porta dicendo: “Ebbene, Madre mia, se non posso trattenervi, almeno passerete sul corpo di vostro figlio”. A queste parole, M.me de Chantal sentì il suo cuore spezzarsi e, non potendo sostenere il più peso del suo dolore, si fermò e lasciò cadere liberamente le sue lacrime. Il buon Monsignor Robert, precettore dei figli, che assisteva a questa scena straziante, temendo che M.me de Chantal si indebolisse nel momento supremo: “Eh che cosa! Madame, le disse, le lacrime di un bambino vi potranno scuotere?” – “No!, riprese la santa che sorrideva attraverso le sue lacrime, ma che vuole, sono una madre!” – E, gli occhi al cielo, novello Abramo, ella passò sul corpo di suo figlio» (Mons. Emile Bougaud,Histoire de Sainte Chantal et des origines de la Visitation9, t. 1, Paris 1879, pp. 411-413 (traduzione mia). V. anche André Ravier, Jeanne-Françoise Frémyot, Baronne de Chantal, Paris 1983, trad. it. Giovanna di Chantal. Fascino femminile e santità3, Roma 2000, pp. 66-67; Giovanna di Chantal, Volerci come Dio ci vuole. Scritti spirituali3, Roma 2000, pp. 33-34; Françoise M. De Chaugy, Giovanna Francesca di Chantal cit., pp. 111-112).

Noël Hallé, S. Francesco di Sales consegna a S. Giovanna Francesca la regola della Congregazione della Visitazione, XVIII sec., Chiesa di Saint-Louis-en-L’Ile, Parigi

Valentin Metzinger, S. Francesco di Sales riceve i voti di S. Giovanna Francesca di Chantal, 1753-55, Narodna Galerija, Lubiana

Ritratto originale di S. Giovanna Francesca de Chantal



In virtúte tua, Dómine, lætábitur rex, et super salutáre tuum exsultábit veheménter (Ps. 20, 2)

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Ieri abbiamo celebrato la festa dell’Apostolo Bartolomeo-Natanaele, oriundo verosimilmente di Cana di Galilea (secondo la notizia tramandataci da Giovanni: Gv 21, 2), dove ancor oggi una chiesa, quasi sempre chiusa, con a fianco un piccolo cimitero cristiano, ed ubicata a poca distanza dal celebre santuario delle Nozze, ricorda il luogo dove, forse, abitava l'Apostolo.
Il 24 agosto è l’anniversario di una delle numerose traslazioni del corpo del Santo, ed è conformemente a quest’indicazione che la festa di detto giorno è celebrata dai Greci:  πάνοδος το λειφάνου το γίου ποστόλου Βαρθολομαίου. Teodoro il Lettore riporta che l’imperatore Anastasio I fece trasportare una prima volta il corpo dell’Apostolo a Daræ, in Mesopotamia, nel 507 (Teodoro LettoreEcclesiasticæ Historiæ, lib. II, § 57, in PG 86, col. 212), dove Giustiniano gli eresse una basilica (Procopio di CesareaDe ædificiis (Περί Kτισμάτων), lib. II, capp. 2 e 3). Ma si ha notizia di una precedente traslazione a Maipherqat (Martyropolis, nella provincia di Mesopotamia, attuale Tikrit, in Iraq) nel 410, ad opera del vescovo Maruthas. Fonti occidentali (Vittore di Capua) lo dice trasportato in Frigia nel 546, poi se ne perdono le tracce. Finalmente, Gregorio di Tours, nel 580, racconta, dal canto suo, che, dal suo tempo, le reliquie di san Bartolomeo erano venerate nell’isola di Lipari: «Bartholomæum apostolum apud Indiam [al. mss. Asiampassum agonis ipsius narrat historia. Post multorum vero annorum spatia de passione ejus, cum iterum Christianis persecutio advenisset, et viderent gentiles, omnem populum ad ejus sepulchrum concurrere, eique deprecationes assiduæ et incensa deferre, invidia illecti, abstulerunt corpus ejus, et ponentes eum in sarcophagum plumbeum, projecerunt illud in mari, dicentes: “Quia non seducis amplius populum nostrum”. Sed providentia Dei cooperante per secretum operis ejus, sarcophagum plumbeum a loco illo aquis subvehentibus sublevatum, delatum est ad insulam, vocabulo Lyparis. Revelatumque est Christianis, ut eum colligerent: collectumque ac sepultum, ædificaverunt super eum templum magnum. In quo nunc invocatus, prodesse populis multis virtutibus ac beneficiis manifestat» (La storia della sua passione narra che Bartolomeo apostolo subì il martirio in terra d’Asia. Dopo molti anni della sua passione, essendo sopraggiunta una nuova persecuzione contro i Cristiani, e vedendo i pagani che tutto il popolo accorreva al suo sepolcro ed a lui offriva preghiere e incensi, spinti dall’odio portarono via il suo corpo e, postolo in un sarcofago di piombo, lo gettarono in mare dicendo: “perché tu non abbia a sedurre il nostro popolo”. Ma, con intervento della provvidenza di Dio, nel segreto delle sue operazioni, il sarcofago di piombo, sostenuto dalle acque che lo portavano, da quel luogo fu traslato ad un’isoletta detta Lipari. Ne fu fatta rivelazione ai cristiani perché lo raccogliessero; raccolto e sepoltolo, su quel corpo edificarono un gran tempio. In esso è ora invocato e manifesta di giovare a molte genti con le sue virtù e le sue grazie) (San Gregorio di ToursLibri Miraculorum, lib. I, cap. 33, De Bartholomeo apostolo, in PL 71, col. 734).
Da qui, verso il IX sec., le ossa del Santo, profanate e disperse dagli arabi, furono prodigiosamente recuperate e, su ordine del principe longobardo Sicardo V furono trasferite a Benevento, dove furono onorate con la costruzione di una cappella annessa alla cattedrale, dedicata alla “beata Madre di Dio”. Il principe iniziò i lavori senza vederne il compimento perché morì nel luglio 839. Li completò il vescovo Orso I che, «devotamente e tra l’esultanza dell’intero Sannio», la consacrò il 25 ottobre dell’839, deponendovi «il corpo del beato Bartolomeo, unto di odorosi aromi balsamici» (Card. Stefano Borgia, Atti della Traslazione del corpo di S. Bartolomeo Apostolo dall’Isola di Lipari nella Città di Benevento, in Memorie istoriche della pontificia città di Benevento dal secolo VIII al secolo XVIII, vol. I, documento VI, Roma 1763, pp. 307 ss.). Nel 999 (anche se comunemente si continua ad indicare la data del 983) le reliquie di Bartolomeo, o parte di esse, furono realmente concesse all’imperatore Ottone III o furono sostituite con l’inganno e consegnate al sovrano quelle di san Paolino di Nola, sta di fatto che questi le depose all’isola Tiberina, a Roma, nella Chiesa da lui edificata originariamente in memoria dell’amico Sant’Adalberto, vescovo di Praga e martire nel 997. Tale circostanza, ovvero tale presunto inganno subito da Ottone III, costituì per parecchi secoli argomento di aspre dispute tra i Romani e gli abitanti di Benevento.
Nella Città eterna, si dedicò ai santi apostoli Andrea e Bartolomeo il monastero che il papa Onorio I eresse nella sua casa paterna vicino al Laterano e che, per questa ragione, ricevette anche il suo nome nel Liber Pontificalis nelle biografie di Adriano I e di Leone III: monasterium ss. Andreæ et Bartholomæi, quod appellatur Honorii papæ. La piccola chiesa del monastero, con il suo pavimento dei Cosmas, esiste ancora e si trova tra gli edifici dell’antico ospedale di San Michele Arcangelo e quelli che eresse Everso degli Anguillara. Molti Pontefici l’hanno restaurata ed arricchita di doni, tra gli altri Adriano I e Leone III.
Dopo il X sec., un altro santuario, in onore di san Bartolomeo, si elevò nell’isola del Tevere, dove, poco a poco, il tempio eretto da Ottone III in onore del suo antico amico, sant’Adalberto di Praga, cambiò il titolo e fu dedicata al nome dell’apostolo Bartolomeo.
Gli Atti di san Bartolomeo, con il racconto del suo martirio, ad onor del vero, ispirano poca fiducia. Sembra che si debba fare più caso alle tradizioni armene secondo cui Bartolomeo avrebbe predicato il vangelo ad Urbanopolis (o Arenban), nei dintorni di Albak. Lì avrebbe convertito al Cristo proprio la sorella del re, in modo che questi, infiammato di collera, lo fece fustigare finché avesse rese lo spirito. Gli armeni, non a caso, guardano a buon diritto san Bartolomeo come l’apostolo della loro nazione.



Dopo quest’insigne memoria, oggi il calendario tradizionale ci propone quella di san Luigi (o Ludovico) IX, re di Francia.
Ecco un re sul quale il Cristo crocifisso impresse profondamente le stigmate della sua Passione. Per dimostrare che la virtù non ha sempre la sua ricompensa in questo mondo, Luigi, che la sua pietà spingeva senza tregua verso l’Oriente, alla riconquista dei luoghi santificati dal sangue della Redenzione, raccolse, al posto di palme e di allori, disfatte e cattività; così che, ricomprato dai suoi, tornò a Parigi, riportando come un trofeo simbolico delle sue campagne la corona di spine del divin Salvatore. Morì vittima dell’epidemia sotto le mura di Tunisi, che si preparava ad assediare, il 25 agosto 1270. Le notizie della vita di questo re ci sono state tramandate da Guglielmo di Nangis, nelle Gesta Ludovici IX, e da Jean de Joinville nella sua Livre des saintes paroles et des bons faiz de nostre saint roy Looÿs. Su Luigi IX, cfr. Benoît GrévinLuigi IX, Re di Francia, Santo, in Enciclopedia Federiciana, vol. II, 2005; Jacques Le GoffSaint Louis, trad. it. Aldo Serafini (a cura di), San Luigi, Torino 2007, passim.
Roma cristiana gli ha dedicato un tempio insigne non lontano dallo stadium Domitiani, denominata San Luigi dei Francesi (Cfr. M. ArmelliniLe chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 436-437), famosa per le tele del Caravaggio sul ciclo di san Matteo nella cappella Contarelli, e chiesa nazionale dei Francesi nell’Urbe.
Oggi la Chiesa, con questa memoria liturgica tradizionale, ricorda, in maniera particolare, ai fedeli il senso della dignità regale che, con la nostra incorporazione al Cristo Re e Sacerdote, abbiamo ottenuto nel sacramento del Battesimo. Se i cristiani appartengono tutti a questa dinastia sacra istituita dal Cristo, regale sacerdotium, conviene che sappiano dominarsi e tenere le loro passioni assoggettate. Si attribuisce a san Colombano una bella espressione che si riferisce a questa libertà regale che deve custodire intatta il cristiano. Questo santo abate, nel 610 d.C., ebbe un duro scontro con i sovrani-tiranni di Borgogna, in special modo la regina Brunechilde, o Brunilde, e suo nipote Teodorico II.
Questa sovrana merovingia, per la verità, ebbe ottimi rapporti con san Gregorio Magno, il quale le inviò per ricompensa alcune reliquie di san Pietro. Ella appoggiò inoltre l’azione missionaria di sant’Agostino di Canterbury. San Gregorio di Tours la definì come donna bella, intelligente, istruita e di sani principi e che, da ariana, si convertì alla fede cattolica (San Gregorio di ToursHistoria Francorum, lib. IV, cap. XXVII, in PL 71, col. 291: «Erat enim puella elegans opere, venusta aspectu, honesta moribus atque decora, prudens consilio, et blanda colloquio. ... Et quia Arianæ legi subjecta erat, per prædicationem sacerdotum, atque ipsius regis commonitionem conversa, beatam in unitate confessa Trinitatem credidit, atque chrismata est, quæ in nomine Christi catholica perseverat»). Era cognata (moglie del fratello) di san Gontranno. Ciò non le risparmiò le critiche di san Colombano, in quanto donna pure eccessivamente ambiziosa ed avida di potere, la quale, come una nuova Gezabele, a tale scopo, nonostante i suoi rapporti col Papa, cercò di tenere sotto controllo il clero disponendo a suo piacimento delle sedi vescovili. Anche il santo vescovo di Vienne, Desiderio, poi celebrato come santo, per aver rimproverato alla regina i costumi suoi e quelli di Teodorico, fu dapprima esiliato e poi ucciso.
Per mantenere il potere ed il controllo sul nipote, peraltro, Brunechilde assecondava le passioni di Teodorico, facendogli tenere a servizio, pur coniugato (con la principessa visigota Ermenberga), moltissime ancelle, che in verità erano vere e proprie concubine (Per le vicende di Brunechilde, Teodorico e san Colombano, le notizie ci sono fornite dal monaco Giona di Bobbio. Cfr. JonaeVitæ Columbani abbatis discipulorumque ejus libri duo, in B. Krusch (a cura di), Mon. Germ. Hist., Script. Rerum MerovingicarumPassiones vitæque Sanctorum Ævi Merovingici, t. IV, Hannoveræ et Lipsiæ 1902, lib. I, capp. XVIII e XX, pp. 86 ss.).
Dicevamo di san Colombano. Questi, dal porto di Nantes, mentre stava per essere imbarcato in stato di arresto e ricondotto verso l’Irlanda, scrivendo ai suoi monaci di Luxeuil (in realtà ad Attala, suo probabile successore, a cui il nostro Santo irlandese si rivolse ad personam nel corpus della stessa lettera per tornare al “voi” verso la fine), così si esprimeva: si aufers libertatem, aufers dignitatem (o si tollis libertatemtollis dignitatem), cioè se elimini la libertà, elimini la dignità (San ColombanoEpistola IVAd Discipulos et Monachos suos, § 5, in PL 80, col. 273, ora anche in Id., Le opere, con Introduzioni di Inos Biffi e Aldo Granata, Milano 2001, Lettera IV Ai suoi monaci, § 6, pp. 68-69).
Ecco il grande dono che Dio ha accordato all’umanità e che il Cristo gli ha in seguito restituito. Dobbiamo custodire gelosamente questa prerogativa della nostra dignità di figli di Dio, senza mai assoggettarci alla servitù degradante delle passioni, senza compiacere gli uomini. La libertà è ordine ed armonia; e per gioire dei frutti di questa vera libertà, bisogna dominare se stessi e mettere spontaneamente sulle spalle il giogo soave della legge del Cristo, liberandoci anche dal desiderio di piacere agli uomini. San Paolo provò a farlo, ma lui stesso scrisse: Si adhuc hominibus placerem, Christi servus non essem (Gal. 1, 10). Il Salmista ha una parola molto forte contro queste vigliacche vittime del rispetto umano: disperdet ossa eorum qui hominibus placent, quoniam Deus sprevit eos (Sal. 53, 6).
La vicenda umana del santo odierno è proprio paradigmatica di quanto si è venuto dicendo. Umanamente parlando le sue imprese militari soprattutto, la sua crociata, furono dei fallimenti. Ma, agli occhi di Dio, furono dei successi, perché il santo re mise da parte ogni ricerca di rispetto umano (a differenza di quanto fece, anni dopo, ad es., un Federico II di Svevia …), ed è, per questo, esaltato in cielo e per questo è annoverato tra i difensori della Chiesa in terra.
Non desta meraviglia, perciò, che numerosi sono coloro che rievocano con passione i nomi dei sovrani delle antiche dinastie francesi. Il nome di san Luigi IX, però, esprime ancora, per questa nazione, tutto un programma ed un ideale di fede, di purezza, di giustizia, di valore e di onore che eleva i gigli della vera Francia cattolica tanto più alto di quanto sia scesa nel fango con la fazione giacobina avversa, distruttrice della sua propria patria.

Simon Vouet, S. Luigi in gloria, 1642-43, Musée des Beaux-Arts, Rouen

Simon Vouet, S. Luigi riceve la corona di spine dalle mani di Cristo, 1639, Chiesa Saint-Paul-Saint-Louis, Le Marais

Georges Rouget, S. Luigi amministra la giustizia perdonando Mauclerc, XIX sec., Musee des Beaux-Arts, Quimper

Gabriel-François Doyen, S. Luigi riceve il Santo Viatico dalle mani del suo confessore, 1773,, cappella della scuola militare (École Militaire), Parigi


Melchior Doze, Morte di S. Luigi, XIX sec., Cattedrale, Nimes


Morte di Luigi IX






La preghiera continua e la preghiera di Gesù

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In questo periodo estivo, dopo aver proposto nel luglio scorso un invito a non trascurare la preghiera, propongo oggi alla lettura un’interessante testo, attinto dalla spiritualità cristiana orientale. È un brano tratto da un libro di Matta El Meskin o Matta il Povero (1919-2006), un monaco egiziano copto, igumeno (abate) del monastero di San Macario il Grande, nel deserto di Scete dal 1969 sino alla morte. Egli è considerato tuttora un apprezzato autore spirituale, soprattutto per i suoi consigli onde pregare in modo efficace, con fervore e sempre, almeno interiormente, senza distogliere mai - nelle occupazioni quotidiane di ciascuno - la propria attenzione da Dio; consigli che attingono dalla tradizione spirituale dei Padri del deserto. Del resto Origene raccomandava: «Prega sempre colui che unisce la preghiera alle opere che deve fare, e le opere alla preghiera. Soltanto così possiamo considerare realizzabile il precetto di pregare incessantemente» (De oratione, 12).

Orante, III sec. d.C., cubicolo della Velatio, Catacombe di Priscilla, Roma

La preghiera continua e la preghiera di Gesù

di Matta El Meskin

La vita nel suo senso più profondo, si riassume in due atti costanti di un’estrema semplicità: il primo è l’amore la cui sorgente è Dio, il secondo è l’adorazione, che è il proprium della creazione: “Dio è amore” (1 Gv 4,16); “Io non sono che pre­ghiera” (Sal 109,4). Questi due atti sono ininterrottamente co­stanti; così, Dio non cessa di amare la creazione e la creazione non cessa d’adorare Dio: “Vi dico, che se questi taceranno, gri­deranno le pietre” (Lc 19,40). Tutti gli atti e le molteplici occupazioni della vita passeranno e scompariranno dopo averci valso condanna o ricompensa e re­steranno soltanto questi due straordinari atti: l’amore di Dio per noi e la nostra adorazione di Dio. Non passeranno mai e rimar­ranno eternamente, perché Dio è felice d’amarci: “Ho posto le mie delizie tra i figli dell’uomo” (Pr 8,31) e noi troviamo tutta la nostra felicità nell’adorazione di Dio. Quest’adorazione è un’intuizione divina depositata da Dio al cuore della natura dell’uomo, affinché egli abbia la gioia d’adorare la sorgente della vera felicità. L’abbiamo toccato con mano, sperimentato e verificato tante e tante volte; abbiamo acquisito la certezza che la preghiera e l’adorazione sono fonti di felicità permanente. C’è dunque un mezzo per condurre una vita d’ado­razione e di preghiera ininterrotta, per mettere Dio al centro del nostro pensiero, per fare in modo che tutti i nostri atti e i nostri comportamenti gravitino intorno a lui, per vivere alla sua pre­senza dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina? In realtà, quest’opera non è una cosa da poco; esige da parte nostra grande determinazione, perseveranza e molta attenzione. Non dimentichiamo però che, così facendo, realizziamo il verti­ce della volontà e del piano divini e che, di conseguenza, vi tro­veremo immancabilmente l’aiuto, l’amore e la guida di Dio. Riassumiamo come segue la sostanza di quest’esercizio. 1. Gli obbiettivi della preghiera continua: - Vivere sempre alla presenza di Dio. - Associare Dio a tutte le nostre attività, a tutti i nostri pen­sieri e conoscere la sua volontà. - Accedere a una vita di gioia, avvicinandoci alla fonte stessa della felicità: Dio, e gioire del suo amore. - Acquisire un’alta conoscenza di Dio nel suo stesso essere. - Praticare un felice distacco dalle cose di questo mondo, sen­za rimpiangere nulla.
2. Qualche indicazione sulla preghiera continua: - Ravvivare il sentimento di essere alla presenza di Dio che vede tutto ciò che facciamo e sente tutto ciò che diciamo. - Tentare di parlargli di tanto in tanto, con brevi frasi che tra­ducano il nostro stato del momento. - Associare Dio ai nostri lavori domandandogli di essere pre­sente alle nostre attività, rendendone a lui conto dopo averle con­cluse, ringraziandolo in caso di riuscita, dicendogli il nostro rammarico in caso di fallimento, cercandone le ragioni: ci siamo forse allontanati da lui o abbiamo omesso di chiedere il suo aiuto? - Cercare di percepire la voce di Dio attraverso i nostri lavori. Molto spesso egli ci parla interiormente ma non essendo attenti a lui, perdiamo l’essenziale dei suoi orientamenti. - Nei momenti critici, quando riceviamo notizie allarmanti o quando siamo assillati, chiediamogli subito consiglio; nella pro­va egli è l’amico più sicuro. - Non appena il cuore comincia a irritarsi e i sentimenti ad agitarsi, volgiamoci a lui per calmare la nefasta agitazione prima che invada il nostro cuore; invidia, collera, giudizio, vendetta, tutto ciò ci farà perdere la grazia di vivere alla sua presenza, per­ché Dio non può coabitare con il male. - Tentare per quanto possibile di non dimenticarlo, tornando subito a lui, non appena i nostri pensieri sono colti in flagrante reato di vagabondaggio. - Non intraprendere un lavoro o dare una risposta prima di aver ricevuto una sollecitazione da Dio. Questa diventa sempre meglio discernibile a misura della fedeltà del nostro cammino alla sua presenza e della nostra determinazione a vivere con lui.
3. Principi base per una vita di preghiera continua: - Credi in Dio? Allora che Dio sia la base di tutti i tuoi comportamenti; con lui accogli tutto ciò che incontri nella vi­ta, felicità o tristezza. Che la tua fede non cambi ogni giorno a seconda delle circostanze. Non lasciare che sia il successo ad aumentare la tua fede, né il fallimento, la perdita e la malattia a indebolirla o ad annientarla. - Hai accettato di vivere con Dio? Allora, una volta per tutte, metti in lui tutta la tua fiducia e non cercare di indietreggiare o di battere in ritirata. Sii fedele a lui fino alla morte. - Affidagli tutti i tuoi affari materiali e spirituali; egli è vera­mente in grado di reggerli tutti. Sappi che la vita con Dio sopporta tutto: malattia, fame, umiliazione… e non essere sorpreso se ti accadono queste cose; sii paziente e le vedrai trasformarsi e schierarsi dalla tua parte per il tuo maggior bene. - Concentra il tuo amore su Dio e non permettere agli ostaco­li di ridurlo; al contrario, accogli ogni sofferenza senza amarezza ma con dolcezza, a motivo di questo amore, perché il vero amore trasforma la sofferenza in felicità. - Beati coloro che sono stati ritenuti degni di soffrire per il suo Nome. Ancora più beati coloro che desiderano sacrificarsi per amore del suo Nome. Breve storia della preghiera continua La preghiera continua è una disciplina spirituale particolare che impegna le facoltà interiori dell’anima e tocca centri precisi del cervello con lo scopo d’acquisire la calma interiore neces­saria a pervenire a uno stato di veglia spirituale costante e di percezione permanente della presenza divina, accompagnata da un completo dominio dei pensieri e delle passioni. Costituisce l’opera spirituale più importante e più elevata che, condotta con successo, può farci raggiungere le vette della vita spirituale. Questa forma di preghiera è già menzionata negli insegna­menti dei primi padri del deserto d’Egitto: Macario il Grande parla della recitazione costante del “dolce Nome di Gesù” e abba Isacco, discepolo di Antonio, fa un lungo elogio della ripetizione continua del versetto di un salmo. Entrambi hanno vissuto verso la fine del IV secolo e gli insegnamenti del secondo sono stati raccolti da Cassiano durante i suoi viaggi in Egitto. Attraverso le parole di abba Isacco apprendiamo che questo metodo di preghiera, costitutivo di una delle tradizioni asce­tiche più importanti tra quelle che i padri avevano ricevuto dai loro predecessori, “è un segreto che ci è stato rivelato da quei pochi padri appartenenti al buon tempo antico, ma che vivono tutt’ora; noi lo riveliamo a nostra volta a quel piccolo numero di anime che dimostrano una vera sete di conoscerlo”. Quanto agli effetti di questa pratica sulle facoltà dell’anima e della mente, essi erano noti ai padri fin dall’inizio, come si deduce dalle parole di Isacco: “[Questa preghiera] esprime tutti i sentimenti di cui è capace la natura umana; conviene perfetta­mente a tutti gli stati e a ogni sorta di tentazione… Che l’anima (mens) ritenga incessantemente questa formula, cosicché, a for­za di ripeterla, acquisti la capacità di rifiutare e allontanare da sé tutte le ricchezze rappresentate dai nostri molteplici pensieri”. Fin da allora, cioè dal IV secolo, la preghiera continua si è dif­fusa in Egitto e in tutto l’oriente cristiano fino a occupare un posto preponderante nella dottrina ascetica di tutte le chiese orientali. La ritroviamo, tra gli altri, negli insegnamenti di Nilo il Sinaita (+ 430), poi in quelli di Giovanni Climaco all’inizio del VII secolo (570-640), e di Esichio di Batos (Sinai, VII o VIII secolo). L’importanza accordata all’hesychìa (tranquillità) si am­plifica progressivamente fino a raggiungere uno dei suoi vertici negli insegnamenti di Isacco ll Siro, vescovo di Ninive, verso la fine del VII secolo. Gli elementi frammentari di questi insegnamenti furono rac­colti in una dottrina sistematica solo con l’arrivo di Simeone il Nuovo Teologo (1022) e poi di Gregorio il Sinaita, che li orga­nizzarono in una dottrina mistica di tipo specificamente bizan­tino. Gregorio il Sinaita, seguito dal discepolo Callisto che di­verrà patriarca di Costantinopoli, la introdusse al Monte Athos alla fine del XIII secolo e fece della preghiera continua una prati­ca mistica fondamentale nella tradizione bizantina, dopo aver raccolto la quasi totalità delle parole dei padri riferite a questo argomento, ordinandole, spiegandole e commentandole. Con il soggiorno di Nil Sorskij al Monte Athos, nella seconda metà del XV secolo, si aprì una porta molto ampia per l’impian­tazione in Russia della preghiera continua. Tutta l’eredità orien­tale antica, con le sue ricchezze, si trovò trasferita ai padri russi che rivaleggeranno in ardore per applicarla con amore, fedeltà e devozione. Ormai, questa pratica occuperà un posto molto im­portante nella vita delle generazioni successive, come ci si può rendere conto leggendo i Racconti di un pellegrino russo. Ma, lasciando il deserto d’Egitto, suo luogo d’origine, la pre­ghiera continua perse buona parte della sua semplicità originaria; chi la praticava nei primi secoli, viveva spontaneamente in profondità i suoi effetti spirituali senza esaminarne il come; ne raccoglieva i frutti senza che ciò suscitasse in lui ambizioni spirituali. Questa forma di preghiera è dunque passata da un’umile pra­tica ascetica a una sistematizzazione mistica elaborata, provvista di discipline proprie, proprie condizioni, gradi e risultati. L’o­rante può prendere coscienza di tutto ciò ancor prima di cominciare a praticarla. Il che, naturalmente, non ha mancato di attri­buire al metodo una buona parte di complessità, accresciuta da una dannosa mancanza di naturalezza. Nondimeno, la preghiera continua ha sempre i suoi adepti e i suoi praticanti esperti e, su coloro che l’amano, non cessa di versare in abbondanza i suoi effetti benefici, le sue grazie e le sue benedizioni. L’autore stes­so confessa i benefici di questa preghiera per quanto lo riguarda personalmente.

(tratto da Matta El Meskin, L’esperienza di Dio nella preghiera, ed. Qiqajon, Magnano, 1999, pp. 257-262)


Pietro Canonica, Le Comunicande, 1920 circa, Villa Borghese, Roma

Permanenza e cambiamento in liturgia

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Permanence and Change in the Liturgy

by Peter Kwasniewski


It is a fact of history that the liturgy changes over time, it develops. This it usually does slowly, absorbing surrounding influences, in an organic process. Most often, elements are added to the liturgy: it grows, expands, like a plant or animal growing towards maturity. More rarely, it demands pruning, which is typically done carefully and conservatively, out of respect for the quality of the growth that has come before.
Just as a living organism reaches a point of maturity after which it no longer grows but preserves itself and reproduces its species, so too, analogously, we can expect the liturgy to develop more extensively at first, in its infancy, and for its rate of growth to slow down dramatically as it attains perfection of form, fullness of ritual, text, music, and meaning. Thus, the liturgy will develop more in the first 500 years of the history of the Church than in the next 500, and in the first millennium more than in the second. At least before the middle of the twentieth century, it was taken for granted that the rate of liturgical change has slowed down as the inherited forms were of greater coherence and completeness. Change, after a certain point, pertains far more to accidental or incidental features, such as the cut of a chasuble or the design of a candlestick, than to what is done or what is said.
On the other hand, given that man’s nature never changes and Christ’s sacrifice never changes—given that man, for whom the liturgy is intended, and Christ, whose worthy praise and sacrifice the liturgy makes present and shares with us, do not vary—one might wonder what exactly would develop in the liturgy, and why. For one thing, we cannot say there was something inherently flawed about the apostolic liturgies of the early Church, such that they were defective until they received augmentation and amplification over time. Nevertheless, insofar as it is a human activity, the liturgy does not fall ready-made from heaven but is assembled slowly over the centuries by monks, popes, and other saints privileged with an experiential savoring of the beauty of God, a living contact with divine glory under sacramental veils. While not reducible to an artifact or construct, public worship is shaped and regulated by men who are cooperating with a divinely implanted instinct for holiness and goodness of form.
The essence of the liturgy was there from the beginning, as the oak tree in the acorn, but the fullness of its expression, the richness of its meaning and beauty, were meant by God to take many centuries to unfold before the eyes of Christian man, until he could behold the tree in all its glory and majesty, and taste the sweetness of its fruits most abundantly. It was not absolutely necessary that the liturgy develop, but it was supremely fitting that it do so—and the Holy Spirit brooded over this development with bright wings, as He led the Church into the fullness of truth. One is reminded of the words of Christ: “Truly, truly, I say to you, he who believes in me will also do the works that I do; and greater works than these will he do, because I go to the Father” (Jn 14:12).


St. Pius X celebrating Mass

If it makes sense that development both comes from saints and slows down over time, would it not be impossible for the Church ever to legitimately change her liturgy in a radical manner? For to do so would necessarily imply a negative judgment on the “greater works” of which Jesus speaks, a kind of blasphemy against the Holy Spirit by implying that it was not in Christ’s name but rather Beelzebub’s that the Catholic Church promulgated her liturgy throughout the centuries (cf. Pius XII, Mediator Dei, nn. 50, 59, 61). Thus, although development is natural and good, a certain kind of development—namely, that of sharp discontinuity—would necessarily be bad, a corruption or deviation rather than the flowering of an organic reality.
An essay I once read argued that man’s existential identity as pilgrim or viator is the reason why the liturgy must change in each generation. The writer, from the Reform of the Reform school, was attempting to explain how there could be room for something as drastically different as the Novus Ordo, while simultaneously upholding the value of keeping the usus antiquior available, as stipulated by Summorum Pontificum. The proposed solution involved asserting that some modern people needed a more modern liturgy, while others didn’t and could do fine with a more ancient one.
But the fact that man is a pilgrim is irrelevant to whether the liturgy, as such, should change. After all, man as man never changes; he is always this kind of being, with certain powers in need of certain objects for their perfection. A liturgy imbued with divine and human strength will permanently suit this pilgrim being. Nor does his Savior change, or the Sacrifice by which his salvation was (and is) accomplished. A different kind of liturgy, were it fashioned, would only suit a different kind of being. To have permission to undertake a radical liturgical alteration, there would have to be not merely a substantial change in man—a thing which happens all the time, whenever conception or death occurs—but also an essential change, the emergence of a new species, together with the arrival of a new Savior and a new Sacrifice. There is, after all, a Christology latent in every act of worship, in any ritual, utterance, or music.
Liturgy, indeed, is a transitory action, but its origin, meaning, and finality are unchanging. It is a temporal event with a permanent nature—in that respect much like man himself, who clearly comes into being and changes throughout his life and yet has the very same immortal soul giving him a singular and everlasting identity. An individual’s spiritual development takes place within and by means of an unchanging liturgy, which acts as a fulcrum for his elevation, a center for his revolutions, a focus for his shifting sight.

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