Quantcast
Channel: Scuola Ecclesia Mater
Viewing all 2409 articles
Browse latest View live

"Volo, ut protínus des mihi in disco caput Joánnis Baptístæ" (Marc. 6, 25) - Decollazione di S. Giovanni Battista

$
0
0

Di san Giovanni Battista ci siamo occupati in occasione della sua Natività il 24 giugno scorso, ricordando anche i luoghi legati a tale evento con una serie di video. In uno di questi in particolare, Padre Frédéric Manns - autorevole biblista della Custodia di Terrasanta - conduce lo spettatore in un affascinante percorso di scoperta della figura del Battista, il personaggio profetico per eccellenza, dalla sua nascita ad 'Ain Karem sino alla sua morte a Macheronte (v. qui) e sepoltura.

Il nome arabo di Macheronte è Qalaat al-Mishnaqa. Il fatto tragico della morte del Battista trova riscontro nel racconto di Giuseppe Flavio. Il re nabateo Areta IV Philopatris volle vendicare con una guerra l’affronto subito da Erode Antipa, che aveva ripudiato sua figlia Shaudat, per sposare Erodiade la moglie di suo fratello Filippo.

Giuseppe Flavio riporta il sentimento popolare che intese la sconfitta di Erode Antipa come una punizione divina: Ora, alcuni giudei pensavano che la distruzione dell’esercito di Erode (Agrippa) veniva da Dio, giustamente, come punizione per quanto aveva fatto a Giovanni detto il Battista. Perché Erode lo aveva fatto uccidere, sebbene fosse un uomo giusto, e aveva esortato i giudei a praticare la virtù, sia nella giustizia l’uno verso l’altro, sia nella pietà verso Dio, e perciò a farsi battezzare (Giuseppe FlavioAntiquitates Judaicæ, XVIII, 109-119).

La decollazione di san Giovanni Battista, il 29 agosto, fin dal IV sec. era celebrata in Africa, in Oriente, in Siria e un po’ dovunque. Manca nel Sacramentario Leoniano, ma appare nel Gelasiano.

Si conosce la sorte delle reliquie del precursore del Signore. Fu dapprima sepolto in Samaria, a Sebastya, presso l’attuale Nablus, ma nel 362, sotto Giuliano l’apostata, i pagani violarono la sua tomba e bruciarono le sue sacre ossa. 

Rufino di Aquileia racconta, nella sua Storia ecclesiastica, in effetti, che il 29 agosto 362, su ordine dell'empio imperatore Giuliano l’Apostata, i pagani di Sebastya distrussero la tomba venerata del Precursore e del profeta Eliseo, bruciando gran parte dei resti e disperdendone le ceneri. Parte delle reliquie furono salvate da alcuni monaci di passaggio che le consegnarono a Gerusalemme all’igumeno Filippo. Scrive Rufino: «Al tempo dell’imperatore Giuliano … a Sebaste città della Palestina, avvenne che i pagani invasero il sepolcro di San Giovanni Battista: dapprima ne dispersero le ossa, ma poi le raccolsero di nuovo per bruciarle; mischiarono con della polvere quelle sacre ceneri e le dispersero per campagne e villaggi. Ma per disposizione divina avvenne che da Gerusalemme sopravvenissero alcuni provenienti dal monastero di Filippo … mischiatisi fra coloro che raccoglievano le ossa destinate al fuoco, dopo averne raccolti essi pure con molta cura e pietosa premura, per quanto riusciva loro possibile, si allontanarono di là furtivamente…e recarono al santo padre Filippo quelle venerande reliquie» (Rufinus, Historia Ecclesiastica, II, 28, in PL 21, 536).
In senso analogo si esprimono Teodoreto, Filostorgio ed altri.

Geertgen tot Sint Jans, Leggenda delle reliquie di S. Giovanni Battista, 1484 circa, Kunsthistorisches Museum, Vienna.


Una parte delle reliquie poté essere rimessa a sant’Atanasio, ad Alessandria, e poi dal patriarca Teofilo, il 27 maggio 395, riposte nella basilica (Martyrium) che era stata dedicata al Precursore sul sito dell’ex tempio di Serapide.

Gran parte delle reliquie che si salvarono dal fuoco e dalla distruzione sarebbero state, infine, tumulate nella città di Mira.
Si sa per certo, infatti, che nel 540 le reliquie del Santo erano pervenute a Mira, centro anatolico dell’antica Licia, luogo in cui nel 1099 vennero recuperate (comprate o rapinate non è certo ...) dai Genovesi di ritorno dall’assedio di Antiochia, avvenuto nel corso della prima crociata.

Le preziose reliquie giunsero, dopo un viaggio durato tre mesi, finalmente a Genova, come ci tramandano gli scritti di Jacopo da Varagine, il 6 maggio dello stesso anno, e trasportate stabilmente nella Cattedrale di San Lorenzo dopo una probabile sosta nella chiesa di San Giovanni di Prè, prospiciente l’omonima marina.

Nonostante tutto ciò, la tomba del Battista a Sebastya continuò ad essere meta di devoti pellegrinaggi, tanto che san Girolamo testimonia i miracoli che vi avvenivano. Lì, secondo la testimonianza sempre dell’autore della Vulgata, erano venerate, oltre la tomba del Battista, anche quelle dei profeti Abdia ed Eliseo (Donato BaldiEnchiridion locorum Sanctorum documenta S. Evangelii loca respicientia, Jerusalem 1955, p. 231. V. anche san GirolamoEpist. 46, in PL 22, col. 491; Id., Comment. in Abdias, in PL 25, col. 1099). Sotto la basilica, che fu eretta in onore del Battista, le reliquie di Eliseo e di Giovanni erano conservate in «in due casse ricoperte d’oro e d’argento, davanti alle quali ardevano in perpetuo delle lampade», come racconta un documento all’inizio del VI sec. (Baldiop. cit., p. 232). Oggi ancora si può vedere a Sebastya il luogo, che esse occupavano nella cripta della chiesa del XII costruita sul luogo della basilica bizantina, mentre il ricordo della scoperta della testa del Precursore è legato ad un’altra chiesa, di minori dimensioni, che si trova ad una certa distanza, presso il Forum (foro). Nel 1931, sono stati scoperti, in quest’ultima, degli affreschi, molto danneggiati, rappresentanti la decapitazione di Giovanni e la scoperta della sua testa (F. ZayadineSamarie, in Bible et Terre Sainte, n. 121 (1970), pp. 6-14, partic. 13-14).




Per quanto concerne la sorte della testa di Giovanni Battista, essa è difficile da ricostruire. Niceforo (Niceforo Callisto XanthopoulosEcclesiasticæ Historiæ, lib. I, cap. 19, in PG 145, col. 689-692) e Simeone Metafraste, in accordo con Giuseppe Flavio (Giuseppe FlavioAntiquitates Judaicæ, XVIII, 5, 1-2; Id., XVIII, 116-119), affermano che il capo del Battista fu sepolto da Erodiade nella fortezza di Machairos (Macheronte) dove, probabilmente, era stato ucciso. Altri affermano che fosse stato sepolto nel palazzo di Erode a Gerusalemme. Una tradizione vorrebbe, in effetti, che la sacra reliquia della testa, scoperta nella Città Santa sotto l’impero di Costantino, venisse trasferita segretamente ad Emesa, l’odierna Homs, in Fenicia (ora in Siria), e nascosta in un luogo ignoto sino a che non fosse stato manifestato in una rivelazione che portò, nel 452-453, il vescovo Uranio a farne il riconoscimento autentico. Per un’altra tradizione, l’imperatore Teodosio fece deporre ad Hebdomon, un quartiere di Costantinopoli, corrispondente all’odierna Bakırköy, il presunto capo di san Giovanni, un tempo conservato a Gerusalemme da alcuni monaci.

Non si sa nulla di un trasferimento del capo di san Giovanni Battista a Roma. Quello che, ancora oggi, è venerato a San Silvestro in Capite appartiene, non al Precursore, ma a quel celebre prete martire Giovanni, che i pellegrini dell’Alto Medioevo visitavano sulla via Salaria vetus, sul cimitero chiamato precisamente ad septem palumbas ad Caput Sancti Johannis.

Ecco come si esprime il De Locis SS. MartyrumInde, non longe in Occidente, ecclesia sancti Johannis martyris, ubi caput ejus in alio loco sub altari ponitur, in alio corpus.

Il suo nome figurava probabilmente nel Martirologio Geronimiano, il 24 giugno, con quello di Festus, ma sarebbe stato senza dubbio assorbito da quello del Precursore.
A questo san Giovanni della via Salaria, era dedicata una piccola chiesa speciale, presso quella di San Silvestro, che, in ragione della santa reliquia, prese il titolo di IN CAPITE.
La reliquie, secondo una leggenda, la Magna Legenda Sancti Grati, non fondata però su dati storici, sarebbe stata portata a Roma dal vescovo san Grato d’Aosta, il quale, durante un viaggio in Terra Santa assieme a san Giocondo, dai ruderi del palazzo di Erode, sarebbe stato portato da un angelo presso un pozzo da cui riemerse miracolosamente la testa del Battista. Il santo vescovo la raccolse e, nascosta, la portò con sè. Sulla strada del ritorno, ovunque andasse, si verificavano miracoli e le campane suonavano prodigiosamente. Giunto a Roma e presentatosi al papa, egli consegnò la testa del Battista al Pontefice, ma, per prodigio, la mandibola rimase attaccata alle sue mani. San Grato allora la portò ad Aosta ed ancora oggi questa è venerata nella Cattedrale (Per riferimenti, cfr. Amato Pietro FrutazLe fonti per la storia della Valle d’Aosta, vol. 1, Roma 1966, pp. 181-182, 194). Per questo motivo, spesso san Grato è raffigurato con tra le mani la testa di san Giovanni.
Fino al 1411 la reliquia romana, reputata appartenente al Battista, veniva portata ogni anno in processione da quattro arcivescovi. Il cranio custodito a Roma è senza la mandibola, conservata nella cattedrale di San Lorenzo a Viterbo.
La spada del boia troncò il capo di Giovanni, ma su questo capo, come canta Paolo Diacono, nell’inno delle Lodi Ut queant laxis del 24 giugno, Dio ha posto la triplice corona di profeta, di martire e di vergine: Serta ter denis alios coronant Aucta crementis, duplicata quosdam; Trina centeno cumulata fructu Te sacer ornant (Paolo DiaconoCarmen VDe Sancto Joanne Baptista, 10, in PL 95, col. 1597).
In onore del glorioso Precursore decollato, furono erette nel basso Medioevo parecchie chiese e confraternite destinate all’assistenza religiosa dei condannati a morte. Produssero un gran bene e, grazie ad esse, la soddisfazione della giustizia umana, tutta avvolta all’epoca di un’atmosfera di compassione e di amore, si elevò all’altezza di un atto di religione, in modo che questi infelici, assistiti da dei “consolatori” e nel bacio del Crocifisso, potevano salire rassegnati al patibolo, felici di poter soddisfare Dio e la società per il crimine commesso. Perciò san Giuseppe Cafasso, “consolatore” zelantissimo dei condannati a morte, diceva: “Su cento appesi, cento salvati!”.
A Roma, due chiese erano dedicate alla decollazione di san Giovanni Battista. La prima si trovava vicino alle prigioni di Tor di Nona, di fronte a Castel Sant’Angelo. In questa chiesetta si portavano i condannati a morte perché ricevessero prima della pena gli ultimi conforti religiosi (Cfr. M. ArmelliniLe chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 351). L’altra, denominata San Giovanni Decollato o della Misericordia o Santa Maria in Petrocia o della Fossa, nel rione Ripa, esiste ancora oggi, e non è lontana dal Velabro, ed uno dei numerosi privilegi di cui godeva la sua confraternita era di poter, ogni anno, liberare durante la Quaresima un condannato a morte. In questa chiesa si seppellivano, in fosse comuni, i cadaveri dei condannati a morte (Ibidem, pp. 632-633). Esse sono coperte da chiusini in marmo sui quali è scritto: Domine, cum veneris iudicare, noli me condemnare (Signore, quando verrai a giudicare, non condannarmi). Nella camera storica dell’Arciconfraternita sono conservati numerosi cimeli relativi all’attività della medesima: tra le altre cose, il cesto che raccoglieva la testa dei giustiziati, l’inginocchiatoio sul quale Beatrice Cenci recitò l’ultima sua preghiera, le barelle sulle quali i confratelli trasportavano i resti dei condannati a morte per la sepoltura.
Riguardo all’origine dell’odierna celebrazione, da un punto di vista liturgico, nel VII sec. a Roma si annunciava al 30 agosto, dopo il natale dei Santi Felice ed Adautto: Et depositio Helisæi et decollatio sancti Iohannis Baptistæ. La doppia menzione di Eliseo e di Giovanni Battista rileva chiaramente l’origine della festa del Precursore. La festa della Decollazione di san Giovanni è incontestabilmente legata ai santuari sorti sulla tomba e sulla sepoltura del capo del Battista.

Tito Chartophylax, Icona di S. Giovanni Battista (Ο Άγιος Ιωάννης ο Πρόδρομος), 1536, Chiesa della Panaghia Chryseleousis, Empa

Scuola italiana, Testa del Battista, The Ashmolean Museum of Art and Archaeology, Oxford

Francesco Cairo, Testa del Battista, XVII sec.

Jusepe de Ribera, Testa del Battista, 1644, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid


Jusepe de Ribera, Testa del Battista, XVII sec., Museo civico Filangieri, Napoli

Andrea Vaccaro, Testa del Battista, XVII sec.


Sebastián de Llanos y Valdés, Testa del Battista, XVII sec., collezione privata


Autore anonimo sivigliano, Testa del Battista, XVII sec., Ayuntamiento de Sevilla, Siviglia

Orazio Gentileschi, Carnefice con la testa del Battista, 1612-13, Museo del Prado, Madrid

Belisario Corenzio, Salomé con la testa del Battista, XVII sec.

Martin Faber, Decollazione del Battista, 1616, Musée de Valence, Valence

Pieter Paul Rubens, Decollazione del Battista, 1608-09, National Gallery, Londra

Juan Bautista Maino, Salomé con la testa del Battista, XVII sec.

Carlo Dolci, Salomé con la testa del Battista, 1665-70, Royal Collection, Windsor

Onorio Marinari, Salomé riceve la testa del Battista appena tagliata, 1680 circa

Onorio Marinari, Salomé con la testa del Battista, XVII sec., Szépművészeti Múzeum,  Budapest

Onorio Marinari, Salomé con la testa del Battista, XVII sec., collezione privata

Jusepe Leonardo, Decollazione del Battista, 1637 circa, Museo del Prado, Madrid

Giovanni Andrea Ansaldo, Decollazione del Battista, 1615

Faustino Ranieri, Decollazione del Battista, XIX sec.


Francesco Grandi, Decollazione del Battista, 1882, Museo diocesano, Rimini


Roberto Ferri, S. Giovanni decollato, 2008, Duomo, Montepulciano

Il Lezionario di Gerusalemme dell’inizio del V sec. infatti già ne fa menzione. I Bizantini ed i Siriani d’Antiochia la celebrano il 29 agosto; i Copti lo fanno il 30 perché il 29 è il giorno del Nuovo Anno, e gli Armeni il sabato della III settimana dopo la Dormizione della Théotokos. In Occidente, il martirologio geronimiano annuncia la festa alla stessa data, facendo menzione di Sebaste: In Provincia Palestina civitate Sebastea natale sancti Iohannis Baptistæ, qui passus est sub Herode rege. Essa dové essere stabilita a Roma sotto il papa Teodoro (642-649), che era di origine palestinese.
Nei secc. XI e XII, il titolo di «Decollatio» è prevalso a Roma su quello di «Passio», che era dato dai sacramentari dell’VIII sec. Il sacramentario di San Trifone parla di Revelatio capitis, insistendo sull’invenzione della reliquia. 

Scuola Napoletana, S. Giovanni nel deserto, XVII sec., collezione privata


Festa della Transverberazione di S. Teresa d'Avila

$
0
0
Lo scorso 27 agosto è stata la festa tradizionale, per la Spagna e per le famiglie del Carmelo, della Transverberazione del cuore di S. Teresa: un'esperienza mistica assai rara, che hanno provato pure Padre Pio, il Santo del Gargano, e santa Veronica Giuliani.
Si legge nell’Officium Transverberationis Cordis S. Teresiae Virginis (die 27 augusti), ad Matutinum, lectio 6, quanto segue: Cum autem illius (Teresiae) cor incorruptum ac transverberationis signis decoratum in ecclesiae sanctissimae Incarnationis monialium Ordinis Carmelitarum excalceatorum Albae repositum, frequenti et pio concursu Christi fideles in praesentem usque diem venerentur; iis omnibus perspectis, Benedictus decimus tertius Pontifex Maximus solemnitatem hanc ad recolendam insignis prodigii memoriam in eodem Ordine quotannis celebrari concessit.
La Riformatrice del Carmelo fu diverse volte protagonista dello straordinario dono della transverberazione.
Una prima volta, ad Avila, nel coro superiore del monastero dell’Incarnazione, negli anni 1559-1562. Non a caso, in questo monastero è stata dedicata a ciò un’apposita cappella della transverberazione. Non solo. Lo straordinario fenomeno è commemorato il 27 agosto con Messa ed Ufficio propri, concessi dal Sommo Pontefice Benedetto XIII, il 2 maggio 1726 (pubblicato il 25 luglio 1726), originariamente solo per le famiglie carmelitane (analogamente a quanto accade per il 1° aprile per santa Caterina da Siena, la cui stigmatizzazione è commemorata in detta data da parte della sola famiglia domenicana) e poi estese nel XIX sec. a tutte le diocesi di Spagna.





Una seconda serie di transverberazioni si verificarono, sempre nel monastero dell’Incarnazione di Alba de Tormes, negli anni 1571-1574, quando Teresa era priora del monastero stesso.
Una terza volta, infine, nella casa di Doña Guiomar de Ulloa, sua intima amica, che ne fu fortunata testimone. Di quest’ultima ne fece menzione, durante il processo canonico di beatificazione, la figlia, Doña Antonia di Guzman.
In mancanza di relazioni puntuali, che coprano tutti i periodi suddetti nei quali si verificò il fenomeno della transverberazione, ci si è soliti rifare ad un testo scritto dalla stessa Teresa.
Si tratta di un passo tratto dal “Libro della Vita”, sez. III, 29, 13:
«Il Signore, mentre ero in tale stato, volle alcune volte favorirmi di questa visione: vedevo vicino a me, dal lato sinistro, un angelo in forma corporea, cosa che non mi accade di vedere se non per caso raro. Benché, infatti, spesso mi si presentino angeli, non li vedo materialmente, ma come nella visione di cui ho parlato in precedenza. In questa visione piacque al Signore che lo vedessi così: non era grande, ma piccolo e molto bello, con il volto così acceso da sembrare uno degli angeli molto elevati in gerarchia che pare che brucino tutti in ardore divino: credo che siano quelli chiamati cherubini, perché i nomi non me ridicono, ma ben vedo che nel cielo c’è tanta differenza tra angeli e angeli, e tra l’uno e l’altro di essi, che non saprei come esprimermi. Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avesse un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere quei gemiti di cui ho parlato, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi d’altro che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che mento».
Nel passo successivo, il par. 14, Teresa scriveva ancora:
«I giorni in cui durava questo stato ero come trasognata: non avrei voluto vedere né parlare con alcuno, ma tenermi stretta alla mia pena che per me era la beatitudine più grande di quante ve ne siano nel creato. Questo mi è accaduto alcune volte, allorché il Signore volle che io avessi quei rapimenti così grandi che, anche stando tra persone, non potevo opporre loro resistenza, pertanto con mio grande rammarico cominciarono a divulgarsi. Da quel momento sento meno questo tormento, bensì sento quello di cui ho parlato prima in altro luogo – non ricordo in quale capitolo – che è molto diverso per molti aspetti ed è di maggior valore. Infatti, quando ha inizio la pena di cui parlo, sembra che il Signore rapisca l’anima e l’immerga nell’estasi; non c’è tempo, pertanto, di sentir pena né di patire, perché subito sopraggiunge il godimento. Sia benedetto per sempre il Signore che fa tante grazie a chi risponde così male ai suoi immensi benefici!».
Nella relazione che fa Teresa della sua transverberazione (termine mistico per indicare il “trapassare il cuore” da parte di un dardo d’amore), si fa esplicito riferimento ad una visione di natura certamente corporale, non intellettuale. In precedenza, Teresa riferisce di aver visto Dio in visione intellettuale (Vita, 7, 6). Questa volta, l’Angelo gli appare in forma corporea e le scaglia addosso un dardo, una freccia infuocata, “nel cuore, cacciandolo dentro fino alle viscere”.





Francisco Romero Zafra, Gruppo processionale del Serafino e S. Teresa, 1990, all'uscita della processione dalla Iglesia Conventual del Santo Angel, il 17 luglio di ogni anno, Siviglia

Horace Le Blanc, Tranverberazione di S. Teresa, 1621, Musée des Beaux-Arts de Lyon, Lione



Alonso de Arco, Transverberazione di S. Teresa con Sacra Famiglia, 1750 circa, collezione privata, Filadelfia

Juan Rodríguez Juárez, Transverberazione di S. Teresa e Sacra Famiglia, XVII sec., Colección Daniel Liebsohn, Città del Messico


Nicolás Rodriguez Juárez, Transverberazione di S. Teresa, Museo Nacional del Virreinato, Tepotzotlán


Cristobal de Villalpando, Transverberazione di S. Teresa, XVII sec., Pinacoteca de la profesa, Città del Messico




José Gutiérrez de la Vega, Transverberazione di S. Teresa, 1825, Capilla de la Quinta Angustia, Siviglia


Peter Van Lint, Transverberazione di S. Teresa, collezione privata




Gianlorenzo Bernini, Estasi di S. Teresa d’Avila, 1647-52, Chiesa di S. Maria della Vittoria, Cappella Cornaro, Roma. Il celebre gruppo marmoreo si ispira passo surriportato della Vita di S. Teresa

Francesco Fontebasso, Estasi di S. TeresaSzépművészeti Múzeum, Budapest

Carlo Cignani (attrib.), Estasi di S. Teresa, 1688

Bernardo Strozzi, Estasi di S. Teresa, XVII sec.

Giuseppe Bazzani, Estasi di Santa Teresa, 1745-50, Szépművészeti Múzeum, Budapest

Paolo Pagani, Estasi di S. Teresa, Chiesa di S. Vincenzo, Cerete


Giuseppe Maria Colignon, Transverberazione di S. Teresa con Sacra Famiglia e S. Giovanni della Croce,  1825, Chiesa di S. Niccolò al Carmine, Siena

Ella chiama questo soggetto mistico con il termine “Cherubino”. Ora, gli “spiriti sublimi”, che si consumano tutti di amore sono designati, in verità, dalla Scrittura e dalla Teologia, con l’appellativo di “serafini”. I Cherubini ed i Serafini appartengono a due gerarchie angeliche differenti, sebbene pur sempre superiori (Serafini, Cherubini, Troni), ma con funzioni diverse. I Cherubini, infatti, manifestano la presenza di Dio ed in special modo la sua Gloria; i Serafini indicano l’ardore dell’Amore Divino. Orbene, Teresa erroneamente chiama l’essere che le appare come “cherubino”, quando in realtà doveva trattarsi di un “serafino”. Ma quest’errore è giustificabile considerando che Teresa non aveva una formazione teologica. San Giovanni della Croce, fedele discepolo di Teresa, ma dotato di una più vasta e soda cultura teologica, in effetti, non sbaglia ad attribuire alla creatura angelica incaricata di commettere la transverberazione, cioè il mistico dono di fuoco e di amore, l’espressione di “serafino”.
Questa interpretazione è avallata anche dagli strumenti adoperati dall’Angelo, vale a dire il dardo d’oro con la punta di ferro ed il fuoco: oro, ferro e fuoco sono gli elementi tipici che contraddistinguono l’amore, nella sua preziosità, nella sua fortezza e nel suo vigore.
Il libro biblico del Cantico dei Cantici così descrive l’amore:
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio» (Ct 8, 6-7).
Anche gli effetti della ferita subita la dicono lunga su questo fenomeno. Lasciano, infatti, Teresa in una “fornace di amore”. Questa ferita, poi, le produceva uno spasimo “vivo” e “dolce” ad un tempo. Per la vivezza, la nostra Santa usciva in gemiti; mentre per la dolcezza, non ne desiderava la fine. Per la Riformatrice del Carmelo, il dolore non era fisico, ma spirituale, anche se il corpo “vi partecipava non poco”, dal momento che le pareva che anche le viscere le fossero strappate nel momento in cui l’Angelo ritraeva il dardo.
In un’altra opera di santa Teresa, le Relazioni Spirituali (5, 17), scrive:
«Un’altra forma di orazione assai frequente è una specie di ferita, in cui sembra quasi all’anima che le si trafigga il cuore e tutta se stessa con una freccia. Ciò produce un vivo dolore che fa emettere lamenti, ma insieme così piacevole che l’anima vorrebbe non le venisse mai meno. Questo non è un dolore fisico né si tratta di una piaga materiale: ha sede nell’anima e non ne appare traccia sul corpo. Siccome tutto ciò non può spiegarsi se non aiutandosi con paragoni, io mi servo di alcuni confronti – grossolani, è vero, rispetto a un simile fatto, ma non so esprimermi in altro modo. Queste sono grazie che non si possono scrivere né raccontare, perché riesce a capirle solo chi ne ha fatto esperienza. Intendo dire che si riesce a comprendere fin dove arrivi questa pena, in quanto le pene spirituali sono assai diverse dalle altre. Da ciò deduco in che misura le anime dell’inferno e del purgatorio debbano patire più di quel che si possa immaginare qui mediante le nostre pene corporali».
Per la nostra Santa, dunque, la transverberazione non le avrebbe prodotto alcun effetto fisico. Sta di fatto che, alla sua morte, il suo corpo fu sottoposto ad autopsia. Il cuore estrattole dal petto e collocato in un prezioso reliquiario conservato nella Chiesa delle Carmelitane Scalze di Alba di Tormes, mostra evidenti trafitture con segni di bruciature. Ecco il resoconto dei medici chiamati ad esaminare il cuore della Santa: «Descúbrese también en el sagrado corazón, en la anterior y superior parte, una cisura o división que, empezando en la parte derecha a la siniestra, se extiende casi por todo él; está la división hecha al través, y represéntase ser propiamente herida; lo que tiene de ancho es muy poco; la profundidad es tal, que se infiere haber penetrado la herida la sustancia y ambos ventrículos del corazón. Consta manifiestamente de su figura haber sido hecha con mucho arte, con instrumento cortante, agudo y ancho. Asimismo aparecen en el mismo corazón, así delante como detrás, otras cisuras o divisiones, aunque de menos cantidad, a manera de unos agujeritos redondos, cuya causa no alcanzamos: dícese comúnmente ser diversas heridas hechas por los ángeles en otras varias ocasiones. Déjanse también ver las señas de la combustión en el color rojo oscuro, o casi negro que tiene, especialmente en la circunferencia de la división o cisura grande» (Riprodotto in J. de Lamano, Santa Teresa de Jesús en Alba de Tormes, Salamanca 1915, pp. 358-359)
Ma queste prove evidenti - oggi ahimé negati da alcuni critici (anche all'interno degli stessi ordini carmelitani) senza alcun fondamento - non contraddicono, tuttavia, le parole di Teresa, la quale non poteva compiere nessun esame fisico sul suo cuore: del resto, l’ardore ed il dolore che provava erano talmente superiori a qualsiasi ardore e dolore fisico che a lei sembrava di avere solo una ferita nell’anima e non anche nel corpo. 




Cuore transverberato ed incorrotto di S. Teresa d'Avila, Chiesa del Convento de la Anunciación de Madres Carmelitas, Alba de Tormes

Le circostanze nel quale si inseriva il fenomeno della transverberazione è descritto nei parr. 10-14 della sua Vita, dove si parla di ferite o trafitture di amore. Riporto i passi che precedono il racconto della sua visione:
«10. Questi altri impulsi sono diversissimi. Non siamo noi a porre la legna, ma sembra che, acceso già il fuoco, subito vi siamo gettati dentro per bruciare. Non è l’anima a inasprire il dolore della piaga, per l’assenza del Signore, ma è una saetta che le si conficca a volte nelle viscere e nel cuore così al vivo da lasciarla incapace di capire cosa abbia o cosa voglia. Solo intende di volere Dio e che la saetta pare abbia la tempera di un’erba che l’induce ad odiare se stessa per amore del Signore, in servizio del quale rinunzierebbe volentieri alla vita. Non si può magnificare né dire il modo con cui Dio ferisce l’anima e l’enorme sofferenza che produce, perché la trae fuori di sé, ma questa pena è così piacevole che non c’è nessun godimento nella vita terrena capace di offrire maggior piacere. L’anima vorrebbe sempre, come ho detto, giungere a morire di un tal male.
11. Questa pena e questa gioia unite insieme mi facevano uscire di senno perché non riuscivo a capire come ciò potesse essere. Oh, che cos’è per l’anima vedersi ferita! Si sente, cioè, in modo tale da potersi dire ferita per così eccellente causa, e vede chiaramente di non aver fatto nulla per attirarsi questo amore, ma che dal sommo amore, di cui Dio la privilegia, sembra sia caduta a un tratto su di lei quella scintilla che la fa ardere tutta. Oh, quante volte ricordo, quando mi trovo in questo stato, quel verso di Davide: Come la cerva anela ai corsi d’acqua, che mi sembra di vedere realizzarsi testualmente in me.
12. Quando questi impeti non sono molto forti, sembra all’anima di potersi calmare un po’, per lo meno cerca qualche rimedio, non sapendo che cosa fare, con alcune penitenze, ma il corpo è ormai insensibile ad esse e non sente dolore nemmeno nel versare sangue, quasi fosse morto. Cerca allora altri espedienti e maniere che servano a procurarle qualche sofferenza per amor di Dio, ma quel primo dolore è così forte che non so quale tormento fisico glielo potrebbe togliere. Siccome il rimedio non è qui, queste nostre medicine sono di troppo basso livello per un male di così alto livello. Si calma un po’ e ha una qualche tregua, se chiede a Dio di darle un rimedio per il proprio male, ma non ne vede alcuno all’infuori della morte, perché con essa pensa di godere totalmente il suo bene. Altre volte l’impeto è così forte che non si può fare né questo né altro; il corpo resta come morto, non si possono muovere né piedi né mani, anzi, se si sta in piedi, si ricade su se stessi come una cosa inerte, senza poter neppure respirare; si emettono solo alcuni gemiti, non forti, perché non si ha più energia, ma intensi di sentimento».

La sofferenza dell'ambiguità

$
0
0
LA SOFFERENZA SALVA DALL'AMBIGUITA'

Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VII n° 9 - Settembre 2014

Le difficoltà non sono sempre un male, non sono certamente un male in sé. Questo è vero per la vita personale e lo è anche per la vita pubblica. È vero per la vita spirituale ed è vero, verissimo, anche per la vita della Chiesa.
Il male è uno solo: perdere Cristo e la sua grazia. Il male è la dannazione, non la sofferenza.
Siamo così immersi nella mentalità pagana di questo mondo da non accorgerci più che ragioniamo come esso. Troppe volte per noi il male è soffrire e, ed è peggio, valutiamo la bontà delle cose, la giustezza delle decisioni e delle opere intraprese, dal fatto che esse ci diano o no serenità e tranquillità. Se non ci fanno soffrire, le cose per noi sono buone.
Questo modo di pensare e di pesare le cose è quanto di più lontano dal cristianesimo ci sia. In esso passa il rifiuto pratico della Croce di Cristo.
Questo è vero per ogni cosa, anche per il ritorno alla Tradizione e alla Messa di sempre.
In questi anni, dopo la promulgazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, con il quale sua santità Benedetto XVI dichiarava apertamente che la Messa tradizionale non fu mai abolita e dava facoltà ai sacerdoti di tornare a celebrarla; dopo la sua entrata in vigore nel settembre di sette anni fa', molti si spaventarono così tanto delle resistenze messe in campo dalle curie diocesane contro il ritorno della Tradizione nella Chiesa, da gettare la spugna fin dall’inizio, in quella che doveva essere una “gloriosa battaglia”.
Molti sacerdoti, convinti in cuor loro che fosse necessario tornare alla Messa “Tridentina”, si spaventarono dei possibili provvedimenti punitivi nei loro confronti e non fecero più nulla; così i fedeli a loro affidati non ebbero nemmeno il tempo di rendersi conto della posta in gioco.
Osiamo dire che tutti questi provvedimenti punitivi, nei riguardi dei sacerdoti decisi a celebrare secondo l’antico rito, fatti di resistenze- minacce- piccole o grandi restrizioni-trasferimenti o confinamenti, che in sè sono ingiusti, sono stati anche un bene.
Sì, le sofferenze che ci hanno causato, le sofferenze causate ai sacerdoti e ai fedeli che domandavano di abbandonare la disastrosa riforma liturgica post-conciliare, sono stati in fondo un bene che Dio ha provvidenzialmente permesso, affinché la lotta per vivere e morire da cattolici, e non da cripto-protestanti, fosse purificata.
Che cosa intendiamo dire? Semplicemente che le sofferenze vissute per Cristo, oltre a santificare chi le vive con Lui, preservano dal male più profondo per la Chiesa di questi tempi, che è l'ambiguità!
Come è avanzato il disastro nel Cattolicesimo moderno? Esattamente con il metodo dell'ambiguità: apparentemente nella Chiesa si salvava qualche aspetto tradizionale, ma lo si svuotava di contenuto vero e lo si reinterpretava secondo una mentalità non più pienamente cattolica. Nel post-concilio è avvenuto così, traducendo prima la messa in italiano, poi cambiandone i testi, poi ripensando il sacerdozio in modo più democratico, fino a giungere alle ipotesi moderne di modificazione della morale e della disciplina dei sacramenti (vedi ad es. la richiesta della comunione per i divorziati risposati in civile). L'ambiguità è il metodo del modernismo pratico nella Chiesa: fingere rispetto per la Tradizione, cambiando di fatto la fede e la morale in nome dell'adattamento ai tempi mutati e in nome di un approfondimento della fede stessa.
L'ultima arma del demonio sarebbe stata quella di permettere qualche messa tradizionale qua e là, dentro un contesto ecclesiale di fatto modernista e protestantizzato, così da “anestetizzare” la coscienza dei sacerdoti e fedeli tradizionali.
All'epoca dell'immediato post-concilio il demonio addormentò la coscienza di molti cattolici in nome dell'obbedienza: quanti vescovi, preti e fedeli, piangendo, sacrificarono la Verità sull'altare di una falsa obbedienza, aprendosi alle novità pericolose; oggi, in un epoca non più cristiana e sostanzialmente disobbediente, il demonio usa un’altra arma, quella dell'unità. Così nella Chiesa ti possono concedere un po' di Tradizione, purché non diventi una scelta esclusiva, altrimenti - ti dicono - rompi l’unità. In nome dell’unità della Chiesa ti chiedono di accettare tutte le riforme e innovazioni che oggi vanno per la maggiore, e che stanno letteralmente bruciando il campo di Dio, dimenticando che l’unità si fa sulla fede.
Ecco perché le resistenze delle gerarchie, le sofferenze di duri provvedimenti, sono un dolore buono, perché ci salvano dall'inganno di una falsa obbedienza e di una falsa unità. In una parola ci salvano dall'ambiguità.
Tornare alla Messa della Tradizione, senza abbracciare tutto il Cattolicesimo della Tradizione, sarebbe una mortale follia. Follia sarebbe mischiare Messa tradizionale e apostolato “modernistico”. Ma da questa mortale follia ci salva proprio la sofferenza.
Sì, perché la sofferenza delle piccole e grandi persecuzioni da parte dei fratelli nella fede, ci dice che la vita cattolica di oggi, così come è vissuta e propagandata, non ha proprio nulla a che fare con la Tradizione della Chiesa.
Certo, tornerà forse un po' di latino in qualche canto; rispolvereranno abiti e stendardi per le processioni... ma vivranno tutto questo in modo troppo umano e non cristiano. Ci sarà la facciata di un folklore tradizionale, ma dentro ci potrà essere una “congregazione protestante”.
Allora, benedette le piccole e grandi sofferenze che dovremo vivere, le piccole o grandi emarginazioni di cui saremo oggetto, cari sacerdoti e fedeli; benedette se ci impediranno questo inganno mortale, facendoci cercare in tutta umiltà la grazia di Cristo nella Chiesa di sempre.

Immagini che non hanno bisogno di commenti ..... "Beati estis cum maledixerint vobis et persecuti vos fuerint et dixerint omne malum adversum vos, mentientes, propter me" (Matth. 5, 11)

$
0
0
Per ricordare a tutti il significato cristiano del martirio, soprattutto in questo momento nel quale molti neo-martiri subiscono violenze e persecuzioni da parte dell'Islam, posto un'immagine altamente evocativa, che rammenta a coloro, che professano la loro fede nel Teantropo e nel Filantropo Gesù Cristo, come la strada tracciata non può essere diversa da quella percorsa dal Divin Maestro, che ne è l'esempio:

 Juan de Roelas (attrib.), Cristo esempio dei martiri, 1615 circa, Museo del Prado, Madrid


Stefano Di Stasio, Martirio dei Protomartiri francescani, 2000, Chiesa di S. Maria della Pace, Terni

"Venite, filii, audite me; timorem Domini docebo vos" (Ps 33, 12) - S. Pio X, papa e confessore

$
0
0
Nei giorni scorsi abbiamo ricordato il centenario del pio transito del Santo Pontefice Pio X, salito al Cielo nelle prime ore del 20 agosto 1914. Diverse sono state le iniziative civili e religiose dedicate all'evento
Ne abbiamo tracciato il profilo tramite un interessante articolo di Cristina Siccardi, pubblicato su Corrispondenza romana, ed abbiamo rammentato papa Sarto tracciando un profilo di uno dei suoi più fedeli collaboratori ed interpreti, il card. Casimiro Gennari, con un breve studio del prof. Vito Abbruzzi.
Oggi, 3 settembre, ricorre la memoria liturgica tradizionale del grande Pontefice fissata in questa data nel 1955 (nel 1969 la sua memoria obbligatoria fu spostata al 21 agosto). Per questo, non potevamo esimerci dal metterne in risalto la bianca figura, sottolineando come essa non trovi alcun termine di paragone con l'oggi. Egli fu il Papa della Pascendi, che condannò il modernismo; che fu accusato da molti maîtres à penser - oggi lodati - di eccessiva "rigidità" e "fissismo" dogmatico per la sua lotta instancabile, e senza compromessi, alle deviazioni del pensiero moderno (liberalismo, relativismo, immanentismo), che conducono inevitabilmente all'ateismo.


Egli fu il Papa soprattutto dell'Instaurare omnia in Christo, cioè della restaurazione della società cristiana come sola portatrice di civiltà, tutto il contrario insomma di coloro che, pur cattolici, auspicano una società civile "separata" dalla Chiesa ed in cui per un malinteso "rispetto" altrui si oscurano memorie e simboli della genuina tradizione cristiana dell'Italia.
Per rendere, dunque, giustizia alla grande personalità del Santo Pontefice, che è stata anche di recente piegata ad infelici paragoni, mi sembra doveroso postare il seguente contributo del prof. De Mattei, pubblicato alcuni giorni fa su Corrispondenza romana; un contributo nel quale viene presentato il recente libro di Cristina Siccardi, che avevamo già segnalato in occasione del centenario dell morte, e che restituisce quello che è il volto più genuino di san Pio X. 

* * * * * * *
IN MEMORIAM: 
il vero volto di san Pio X

di Roberto de Mattei

Cento anni dopo la sua morte la figura di san Pio X si erge dolente e maestosa, nel firmamento della Chiesa. La tristezza che vela lo sguardo di Papa Sarto nelle ultime fotografie, non lascia solo intravedere le catastrofiche conseguenze della guerra mondiale, iniziata tre settimane prima della sua morte. Ciò che la sua anima sembra presagire è una tragedia di portata ancora maggiore delle guerre e delle rivoluzioni del Novecento: l’apostasia delle nazioni e degli stessi uomini di Chiesa, nel secolo che sarebbe seguito.
Il principale nemico che san Pio X dovette affrontare aveva un nome, con cui lo stesso Pontefice lo designò: modernismo. La lotta implacabile al modernismo caratterizzò indelebilmente il suo pontificato e costituisce un elemento di fondo della sua santità. «La lucidità e la fermezza con cui Pio X condusse la vittoriosa lotta contro gli errori del modernismo– affermò Pio XII nel discorso di canonizzazione di Papa Sarto – attestano in quale eroico grado la virtù della fede ardeva nel suo cuore di santo (…)».
Al modernismo, che si proponeva «un’apostasia universale dalla fede e dalla disciplina della Chiesa», san Pio X opponeva un’autentica riforma che aveva il suo punto principale nella custodia e nella trasmissione della verità cattolica. L’enciclica Pascendi (1907),con cui fulminò gli errori del modernismo, è il documento teologico e filosofico più importante prodotto dalla Chiesa cattolica nel XX secolo. Ma san Pio X non si limitò a combattere il male nelle idee, come se esse fossero disincarnate dalla storia. Egli volle colpire i portatori storici degli errori, comminando censure ecclesiastiche, vigilando nei seminari e nelle università pontificie, imponendo a tutti i sacerdoti il giuramento antimodernista.
Questa coerenza tra la dottrina e la prassi pontificia suscitò violenti attacchi da parte degli ambienti cripto-modernisti. Quando Pio XII ne promosse la beatificazione (1951) e la canonizzazione (1954), Papa Sarto fu definito dagli oppositori estraneo ai fermenti rinnovatori del suo tempo, colpevole di aver represso il modernismo con metodi brutali e polizieschi. Pio XII affidò a mons. Ferdinando Antonelli, futuro cardinale, la redazione di una Disquisitio storica dedicata a smontare le accuse rivolte al suo predecessore sulla base di testimonianze e di documenti,. Ma oggi queste accuse riaffiorano perfino nella “celebrazione” che l’“Osservatore Romano” ha dedicato a san Pio X, per la penna di Carlo Fantappié, proprio il 20 agosto, anniversario della sua morte.
Il prof. Fantappié recensendo sul quotidiano della Santa Sede, il volume di Gianpaolo Romanato Pio X. Alle origini del cattolicesimo contemporaneo (Lindau, Torino 2014), nella sua preoccupazione di prendere le distanze dalle «strumentalizzazioni dei lefebvriani», come scrive in maniera infelice, utilizzando un termine privo di qualsiasi significato teologico, arriva ad identificarsi con le posizioni degli storici modernisti. Egli attribuisce infatti a Pio X, «un modo autocratico di concepire il governo della Chiesa», accompagnato «da un atteggiamento tendenzialmente difensivo nei confronti dell’establishment e diffidente nei riguardi degli stessi collaboratori, della cui fedeltà e obbedienza non di rado dubitava»Ciò «fa comprendere anche come sia stato possibile che il Papa abbia sconfinato in pratiche dissimulatorie o esercitato una particolare sospettosità e durezza nei confronti di taluni cardinali, vescovi e chierici. Avvalendosi delle indagini recenti sulle carte vaticane, Romanato elimina definitivamente quelle ipotesi apologetiche che cercavano di addebitare le responsabilità delle misure poliziesche agli stretti collaboratori anziché direttamente al Papa». Si tratta delle medesime critiche riproposte qualche anno fa, in un articolo dedicato a Pio X flagello dei modernisti, da Alberto Melloni, secondo cui «le carte ci consentono di documentare l’anno con cui Pio IX era stato parte cosciente ed attiva della violenza istituzionale attuata dagli antimodernisti» (“Corriere della Sera”, 23 agosto 2006).
Il problema di fondo, non sarebbe «quello del metodo con cui fu represso il modernismo, bensì quello della opportunità e validità della sua condanna». La visione di san Pio X era “superata” dalla storia, perché egli non comprese gli sviluppi della teologia e dell’ecclesiologia del Novecento. La sua figura in fondo ha il ruolo dialettico di un’antitesi rispetto alla tesi della “modernità teologica”. Perciò Fantappié conclude che il ruolo di Pio X sarebbe stato quello di «traghettare il cattolicesimo dalle strutture e dalla mentalità della Restaurazione alla modernità istituzionale, giuridica e pastorale».
Per cercare di uscire da questa confusione possiamo ricorrere ad un altro volume, quello di Cristina Siccardi, appena pubblicato dalle edizioni San Paolo, con il titolo San Pio X. Vita del Papa che ha ordinato e riformato la Chiesa, e con una preziosa prefazione di Sua Eminenza il cardinale Raymond Burke, prefetto del Supremo tribunale della Segnatura Apostolica.
Il cardinale ricorda come fin dalla sua prima Lettera enciclica E supremi apostolatus del 4 ottobre 1903, san Pio X annunciava il programma del suo pontificato che affrontava una situazione nel mondo di confusione e di errori sulla fede e, nella Chiesa, di perdita della fede da parte di molti. A questa apostasia egli contrapponeva le parole di san Paolo: Instaurare omnia in Christo, ricondurre a Cristo tutte le cose. «Instaurare omnia in Christo – scrive il cardinale Burke – è veramente la cifra del pontificato di san Pio X, tutto teso a ricristianizzare la società aggredita dal relativismo liberale, che calpestava i diritti di Dio in nome di una “scienza” svincolata da ogni tipo di legame con il Creatore» (p. 9).
E’ in questa prospettiva che si situa l’opera riformatrice di san Pio X, che è innanzitutto un’opera catechetica, perché egli comprese che agli errori dilaganti occorreva contrapporre una conoscenza sempre più profonda della fede, diffusa ai più semplici, a cominciare dai bambini. Verso la fine del 1912, il suo desiderio si realizzò con la pubblicazione del Catechismo che da lui prende il nome, destinato in origine alla Diocesi di Roma, ma poi diffuso in tutte le diocesi di Italia e del mondo.
La gigantesca opera riformatrice e restauratrice di san Pio X si svolse nella incomprensione degli stessi ambienti ecclesiastici. «San Pio X – scrive Cristina Siccardi – non cercò il consenso della Curia romana, dei sacerdoti, dei vescovi, dei cardinali, dei fedeli, e soprattutto non cercò il consenso del mondo, ma sempre e solo il consenso di Dio, anche a danno della propria immagine pubblica e, così facendo, è indubbio, si fece molti nemici in vita e ancor più in morte» (p. 25).
Oggi possiamo dire che i peggiori nemici non sono coloro che lo attaccano frontalmente, ma quelli che cercano di svuotare il significato della sua opera, facendone un precursore delle riforme conciliari e postconciliari. Il quotidiano “La Tribuna di Treviso”, ci informa che in occasione del centenario della morte di san Pio X, la diocesi di Treviso ha «aperto le porte a divorziati e coppie di fatto», invitandole, in cinque chiese, tra cui la chiesa di Riese, paese natale di Papa Giuseppe Sarto, al fine di pregare per la buona riuscita del Sinodo di Ottobre sulla famiglia, di cui il cardinale Kasper ha dettato la linea, nella sua relazione al Concistoro del 20 febbraio. Fare di san Pio X il precursore del cardinale Kasper è un’offesa di fronte a cui la sprezzante definizione melloniana di «flagello dei modernisti» diviene un complimento.














Medagliere dei papi di nome Pio, stampa del 1903

S. Pio X in trono - Ritratto ufficiale, 14 settembre 1903



Atelier Fratelli D'Alessandri, Pio X, 1904, National Portrait Gallery, Londra

Ritratto di S. Pio X, 1905






Fausto e Pier Enrico Astorri, Monumento a papa Pio X, 1923, Basilica di san Pietro, Città del Vaticano, Roma. 
La statua fu posta sul loculo dei c.d. provvisori, dove erano sepolti cioè i Pontefici, dopo le esequie, sino alla morte del successore ovvero fino a quando non era pronta la tomba o il monumento che ne avrebbe accolto definitivamente le spoglie. Prima che fosse chiuso dalla statua, lì vi fu deposto per ultimo papa Pecci, come ci informa il dott. Antonio Margheriti Mastino

Benedetto XVI riceve la Federazione Internazionale Juventutem e saluta l'intero popolo Summorum Pontificum

$
0
0
EXCLUSIF : BENOÎT XVI REÇOÎT JUVENTUTEM ET SALUE LE PEUPLE SUMMORUM PONTIFICUM


[De notre correspondant à Rome, Guillaume Luyt]

Ce lundi 1er septembre 2014, le pape émérite a reçu en fin de journée Cosimo Marti, cofondateur et trésorier de la fédération internationale Juventutem, accompagné de Giuseppe Capoccia, délégué général du pèlerinage « Populus Summorum Pontificum ».
C’est en juillet de cette année, en coïncidence avec le septième anniversaire du motu proprio Summorum Pontificum du 7 juillet 2007, que Cosimo Marti a reçu, via la nonciature apostolique à Berne – le siège de Juventutem est en Suisse –, un courrier qu’il n’attendait plus. Comme de très nombreux catholiques, il avait en effet demandé, sans succès, une audience à Benoît XVI avant que celui-ci ne renonce à l’exercice de la papauté.
Une fois le retrait du Saint-Père effectif, il avait considéré sa requête comme archivée et l’avait oubliée.
Quelle surprise pour lui alors que ce courrier de Mgr Gänswein l’invitant à rencontrer le pape émérite en sa retraite vaticane !

Cosimo Marti et Giuseppe Capoccia franchissant le contrôle de la gendarmerie vaticane avant leur rencontre avec le pape émérite.

Autorisé à être accompagné d’une personne, Cosimo Marti a choisi Giuseppe Capoccia, originaire des Pouilles comme lui et, surtout, délégué général du Cœtus Internationalis Summorum Pontificum qui, depuis 2012, organise le pèlerinage international du peuple Summorum Pontificum à Rome dontla prochaine édition se tiendra fin octobre. Il faut dire que le pèlerinage accueillera cette année, rassemblée autour de son chapelain, l’abbé de Malleray, FSSP, la fédération Juventutem qui fête cette année ses 10 ans. Vendredi 24 octobre, le cardinal Pell, Préfet pour l’économie du Saint-Siège, célébrera ainsi une messe pontificale en l’église de la Très Sainte Trinité des Pèlerins, en action de grâces pour Juventutem.
Rappelons que le Cardinal Pell officia solennellement pour Juventutem aux JMJ de Cologne de 2005, qui marquèrent la première participation officielle de catholiques liés à la messe traditionnelle à un événement public de l’Église. Ce furent aussi les premières JMJ de Benoît XVI comme pape, qui avait accordé sa bénédiction à Juventutem en cette occasion. Moins de deux ans plus tard, dans sa Lettre aux évêques accompagnant le motu proprio Summorum Pontificum, il pensait certainement au millier de jeunes de la délégation Juventutem à Cologne lorsqu’il écrivit : « Aussitôt après le Concile Vatican II, on pouvait supposer que la demande de l’usage du Missel de 1962 aurait été limitée à la génération plus âgée, celle qui avait grandi avec lui, mais entre-temps il est apparu clairement que des personnes jeunes découvraient également cette forme liturgique, se sentaient attirées par elle et y trouvaient une forme de rencontre avec le mystère de la Très Sainte Eucharistie qui leur convenait particulièrement. »
Très émus l’un comme l’autre avant de franchir la porte Sainte-Anne qui marque la limite de la Cité du Vatican et porteurs d’innombrables intentions de prières, Cosimo Marti et Giuseppe Capoccia nous ont confié n’avoir qu’un désir : témoigner à Benoît XVI de la reconnaissance et de l’affection que lui porte la jeunesse du peuple Summorum Pontificum, laissant le reste dans les mains de la Providence et du Pape émérite.

… Arbor quælibet viridis a suo trunco decisa ad trium jugerum spatium ....

$
0
0
Non molti lo sanno, ma al santo re inglese Edoardo III detto “il Confessore” - la cui memoria liturgica la ricorderemo, nel calendario tradizionale, il prossimo 13 ottobre - si deve la profezia, sul letto di morte, dell’apostasia e dello scisma anglicano. Si era, nel mese di gennaio del 1066, ed il sovrano era ormai costretto a letto dalla sua ultima malattia, nel palazzo reale di Westminster. Sant’Aelredo, abate e vescovo di Rievaulx, nello Yorkshire, racconta che poco prima del suo beato transito, questo santo re fu rapito in estasi: gli apparvero due pii benedettini della Normandia, che aveva conosciuto nella sua giovinezza durante l’esilio in quel Paese, i quali gli rivelarono quello che doveva accadere all’Inghilterra nei secoli a venire e la causa della sua terribile punizione. Dissero: “L’estrema corruzione e la malvagità della nazione inglese hanno provocato la giusta collera di Dio. Quando la malvagità sarà arrivata all’apice, Dio nella sua ira manderà al popolo inglese degli spiriti maligni, che lo puniranno e lo affliggeranno con grande severità, separando l’albero verde dalla sua radice per la lunghezza di tre furlong (misura equivalente a 200 metri circa, e quindi ad un totale di seicento metri, ndt). Alla fine, però, lo stesso albero, per la compassione e la misericordia di Dio, e senza alcun aiuto da parte delle autorità inglesi, ritornerà alle sue radici, rifiorirà e porterà abbondante frutto” («… Arbor quælibet viridis a suo trunco decisa ad trium jugerum spatium a radice propria separetur, quæ cum nulla manu hominis cogente, nulla urgente necessitate, ad suum truncum reversa in antiquam radicem sese receperit, resumptoque succo rursum floruerit et fructum fecerit, tunc sperandum est aliquod in hac tribulatione solatium, et de ea quam prædiximus adversitate remedium») (Sant’Aelredo di Rielvaux, Vita Sancti Ædwardiregis et confessoris, in PL 195, col. 771C-773B). Dopo aver sentito queste parole, il santo re Edoardo aprì gli occhi, riacquistò i sensi e la visione svanì. Riferì subito quello che aveva visto alla sua sposa, Edgitha, a Stigand, arcivescovo di Canterbury, al duca Harold (Aroldo II), suo successore al trono e fratello della regina, ed a Roberto, custode del palazzo, che stavano pregando riuniti attorno al suo letto.
A questa visione del santo re possono darsi due interpretazioni. La prima riguarderebbe la famiglia stessa di Edoardo, che aveva perso il regno con l’elezione di Aroldo II; dopo questi sarebbe venuto Guglielmo il Conquistatore e suo figlio Guglielmo il Rosso (Guglielmo II), che completava la serie di tre re estranei all’antica famiglia (quella di Edoardo). Il ravvicinamento il ramo si ravvicinò alla sua radice quando santa Matilde di Scozia sposò il re Enrico I, da cui sarebbe fiorita l’imperatrice Matilde ed avrebbe portato i suoi frutti con Enrico II Plantageneto (per questa interpretazione, cfr. Augustin Thierry, Histoire de la conquête de l'Angleterre par les Normands: de ses causes et de ses suites jusqu'à nos jours, en Angleterre, en Ecosse, en Irlande et sur le continent, vol. III, Paris 1858, V ed., pp. 76-78).
La seconda interpretazione è più profonda e forse più pertinente e coerente con la personalità del santo re Edoardo III. Essa colpisce pensando agli eventi che sarebbero poi accaduti. Gli spiriti menzionati sarebbero, dunque, gli innovatori protestanti che nel ‘500 pretesero di riformare la Chiesa Cattolica d’Inghilterra. Il taglio dell’albero verde raffigurerebbe quello della Chiesa d’Inghilterra dalla Chiesa cattolica, dalla sede di Roma. Albero doveva essere separato dalla sua radice vivificante per la lunghezza di tre furlong. Questi furlongsono stati interpretati come tre secoli, alla fine dei quali l’Inghilterra sarebbe dapprima ravvicinata e poi nuovamente riunita alla Chiesa Cattolica e avrebbe prodotto fiori di virtù e nuovi frutti di santità, come li produsse un tempo.
La profezia fu citata da Ambrose Lisle March Phillipps de Lisle, in una lettera del 28 ottobre 1850 al Conte di Shrewsbury, in occasione del ristabilimento della gerarchia cattolica in Inghilterra da parte di Pio IX in quell’anno, come ricordava qualche tempo fa Il Timone.
Oggi si realizza proprio un’ulteriore realizzazione di quella profezia (nella sua seconda interpretazione), con il ritorno – dopo cinquecento anni – dei francescani, i Greyfriars, sul suolo inglese di Oxford, dal quale erano stati espulsi ai tempi dell’empio e vizioso re Enrico VIII Tudor.

* * * * * * * * *

A 500 anni dall'espulsione da Oxford i “Greyfriars” (francescani conventuali) sono tornati


Quasi 500 anni dopo la loro espulsione da Oxford, i “Greyfriars” (Frati Grigi, cioè i Francescani Conventuali, che vestono l'abito color cinerimo) sono tornati al Convento del Beato Agnello da Pisa.
Oxford è per il francescanesimo inglese la vera e propria "culla", il luogo di fioritura e moltiplicazione dei primi religiosi autoctoni, ricevuti già nel 1224, vivente il fondatore, da fra Agnello da Pisa. Questo intraprendente missionario francescano, dopo aver aperto il primo convento a Parigi, nella grande città universitaria in cui desiderava poter diffondere l'Ordine minoritico, fu inviato dal Poverello d'Assisi fino ai confini del mondo medievale: la Gran Bretagna. Un gruppo di 8 frati sbarcò nell’isola il 10 settembre di 790 anni fa! Si recarono dapprima a Canterbury, la sede primaziale della cattolica Inghilterra di allora, poi a Londra, ospiti dei Domenicani, e infine nella città universitaria di Oxford, dove Agnello sapeva di poter trovare giovani entusiasti per la vita religiosa e insieme vivacità culturale, teologica e biblica. Lo studio di Oxford per i frati studenti si sviluppò mirabilmente in poco tempo, arrivando ad essere secondo solo a quello di Parigi. L'iniziatore della missione inglese, Agnello, nonostante la malferma salute, volle tornare per breve tempo in Italia. Stabilitosi di nuovo ad Oxford, morì il 13 marzo del 1235 o 1236, a soli 41 anni. Nei secoli dai francescani di Oxford sarebbero usciti frati del calibro di Ruggero Bacone, Giovanni Duns Scoto, e Guglielmo di Occam.
Durante la Riforma inglese del XVI secolo i Greyfriars furono perseguitati e cacciati, come tutti gli ordini religiosi soppressi dalla furia anticattolica di Enrico VIII. Solo nel 1906 i Cappuccini, altro ramo della famiglia francescana, si erano insediati ad Oxford, fondando un collegio universitario (chiuso nel 2008 in modo piuttosto controverso). Oggi rimangono a condurre la locale parrocchia. Solamente nel 1910 anche i frati Conventuali misero di nuovo piede sul suolo inglese.
Dal 26 settembre prossimo 12 frati conventuali apriranno di nuovo formalmente le porte del convento nella cittadina di Oxford, presso All Saints (Tutti i Santi), a breve distanza dal centro (fonte). Il complesso di All Saints viene ceduto dalle suore anglicane Sorelle dei poveri che si ritirano (foto in alto: la consegna delle chiavi da parte delle suore). I frati in formazione potranno così risiedere e studiare nella prestigiosa università, frequentando la scuola di teologia dei Frati Predicatori, ricominciando ad annodare i cordoni della storia tranciati ai tempi della separazione dei cristiani inglesi da Roma.
Intanto, nella memoria della Beata Vergine Maria Regina, il 22 agosto 2014, due frati inglesi hanno emesso la professione solenne dei voti proprio ad Oxford, nelle mani del Vicario generale dell'Ordine, fra Jerzy Norel.
Fra James Mary McInerney e fra Gerard Mary Toman hanno formulato i loro voti definitivi durante una celebrazione che si è tenuta dai Domenicani del Collegio “Blackfriars” (Frati neri, come vengono chiamati i Domenicani per via della loro cappa), i quali hanno generosamente offerto la loro cappella e il refettorio del priorato per la festa seguente.
Grazie a Dio l'Ordine dei "Greyfriars" sta sperimentando in Inghilterra e Irlanda una promettente fioritura vocazionale dopo un lungo inverno: il 25 luglio scorso 6 giovani hanno professato i loro primi voti da francescani, un novizio ha da poco iniziato il cammino di preparazione e altri due religiosi sono stati ordinati sacerdoti il mese scorso. Tanti auguri ai nostri confratelli!

I frati di Inghilterra e Irlanda partecipanti al Capitolo Custodiale

Perché non in Italia?

$
0
0
Si riporta ben volentieri dal sito di Paix liturgique un'interessante proposta per l'Italia: cioè favorire, nei seminari nostrani, una formazione dei candidati al sacerdozio anche sotto l'aspetto tradizionale, segnatamente quello liturgico (e non solo), che consenta ai novelli presbiteri di celebrare la S. Messa non solo nel rito ordinario, ma pure in quello straordinario, secondo quella che è stata la mens di Benedetto XVI, imitando così altre esperienze, come quella del Seminario Maggiore di Guadalajara, in Messico. In questo, infatti, come già segnalato tempo fa da altri (v. anche qui), i giovani candidati al presbiterato hanno l'opportunità di accedere apertamente, non in maniera "catacombale" e senza timore di reprimende e censure dai loro formatori, alle bellezze dell'antica liturgia.
Si tratta, dunque, di un invito da accogliere e valorizzare onde consentire ai giovani seminaristi di poter completare, a tutto tondo, la loro formazione spirituale, umana e sacerdotale, apprendendo un'autentica "arte del celebrare", con la giusta gravitas e pietà; qualità, che, del resto, devono contraddistinguere la vita del presbitero sia sull'altare sia nella vita ordinaria, come auspicava, ad es., il beato Antonio Rosmini.

* * * * *

PERCHÉ NON IN ITALIA?

Guadalajara è la sede di una delle principali arcidiocesi messicane. Di solida tradizione cattolica, conta 2000 sacerdoti e, soprattutto, il più grande seminario maggiore del mondo. Fondato nel 1696, conta oggi più di 600 seminaristi, che vuol dire il 20% del totale dei seminari italiani e più o meno quanto la totalità dei seminari diocesani francesi...

Il 2 giugno 2014, per la prima volta dalla riforma liturgica, un sacerdote è veramente salito all’altare del Signore nella cappella del seminario San Giuseppe di Guadalajara per celebrarvi la Santa Messa secondo il messale di San Giovanni XXIII. È padre Jonathan Romanoski, uno dei sacerdoti della Fraternità San Pietro installata a Guadalajara, che ha celebrato questa messa alla presenza di circa 300 studenti del seminario. Bisogna dire che anche prima della promulgazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, la diocesi di Guadalajara aveva lasciato uno spazio alla liturgia tradizionale in modo tale che la coabitazione fra le due forme si svolgesse senza intoppi.

Padre Romanoski, originario della Pennsylvania e ordinato nel 2008 dal Cardinale Castrillón Hoyos, aveva precedentemente già avuto occasione di animare degli incontri per la scoperta della forma straordinaria del rito nel quadro del seminario. Tuttavia questi corsi avevano un carattere limitato mentre la messa del 2 giugno ha radunato circa la metà dei seminaristi ed è stata cantata in modo molto ufficiale dalla schola cantorum del seminario.
Prima della celebrazione, organizzata a richiesta dei seminaristi, padre Romanoski ha potuto esporre brevemente le principali caratteristiche della forma straordinaria del rito romano. Scommettiamo dunque che questa messa del 2 giugno 2014 lascerà il segno perché ha consentito a numerosi futuri preti di scoprire le bellezze e le ricchezze della liturgia tradizionale in un ambito assolutamente ufficiale e molto “normale” come quello del loro seminario. Dando notizia di questi fatti l’articolista spagnolo Fernández de La Cigoña, direttore di un blog ben conosciuto nel mondo ispanico, ha voluto sottolineare che quella celebrata a Guadalajara era la messa dei Cristeros: “Loro non ne conoscevano altra. Da lei avevano la grazia di essere cattolici. Ma non semplicemente dei cattolici come noi. Degli eroi, dei martiri, dei santi.

(Foto Una Voce Mexico)

I COMMENTI DI PAIX LITURGIQUE

1) Deo gratias! Se i frutti della Santa Messa del 2 giugno devono ancora venire, è evidente che quella celebrazione è già di per sé un meraviglioso frutto del Motu Proprio di Benedetto XVI. Chi avrebbe potuto immaginare, alla vigilia del gesto di riconciliazione voluto da Benedetto XVI, proprio mentre si manifestava una grande ostilità da parte di alcuni vescovi, che qualche anno più tardi le porte di uno dei più grandi seminari del mondo si sarebbero spalancate alla liturgia tradizionale?

2) “Fare l’esperienza della tradizione”: Ce ne sarà voluto di tempo perché Roma ascoltasse questo appello di Monsignor Lefebvre, ma, dopo il 2007, è proprio ciò che alcuni settori della chiesa, quando ne hanno avuto la possibilità e se ne hanno avuto la libertà, hanno iniziato a fare. E questo è, in ogni caso, ciò che i futuri sacerdoti dell’arcidiocesi di Guadalajara hanno potuto conoscere il 2 giugno 2014. I seminaristi lo hanno chiesto, la direzione dell’istituto ha risposto favorevolmente ed è stato reperito un sacerdote idoneo. Questa è la normalità alla quale aspiriamo, quella della quale parla regolarmente il Cardinale Cañizares, ormai ex Prefetto del Culto divino.

3) In Italia, mentre i seminari si trovano in una lenta agonia proprio come in tutta l’Europa, fino ad oggi quasi nessuno ha tentato di fare l’esperienza della tradizione: giusto a Massa-Carrara-Pontremoli la forma straordinaria non è totalmente ignorata grazie alla creazione della sezione del seminario dedicata al Beato John Henry Newman ed affidata alla Fraternità San Filippo Neri di don Pietro Cantoni. In Francia, dopo un’esperienza abortita a Lione, solo la diocesi di Fréjus-Toulon offre ai futuri preti l’accesso alla liturgia tradizionale.

4) Nonostante ciò ci sono in Francia, ma anche in Italia, dei vescovi che amerebbero poter disporre di preti “Summorum Pontificum”, capaci di celebrare sia l’una che l’altra forma liturgica. Alcuni peraltro non si fanno scrupoli a rimproverare ai sacerdoti “Ecclesia Dei”, che hanno fatto in tutta legittimità la scelta della forma straordinaria, di non celebrare quella ordinaria, mentre sono incapaci di offrire ai loro seminaristi diocesani la possibilità di formarsi alle due forme liturgiche del rito romano. La ragione di questa cautela da parte dei vescovi può essere spesso rintracciata nell’ostilità da parte del corpo docente dei seminari e di una parte del clero diocesano che rifiuta ciò che viene visto come un processo di “tradizionalizzazione” della diocesi. Fin tanto che esisterà questo rifiuto ideologico di aprirsi alla tradizione da parte dei seminari europei, contrariamente a quanto succede in numerosi seminari americani come nel caso di Guadalajara, la curva negativa del numero dei loro studenti, e quindi delle ordinazioni, difficilmente potrà essere invertita.

5) Signori vescovi, non sarà il caso di cominciare ad aprire davvero le porte dei vostri seminari e di lasciare un po’ di spazio a questi nuovi candidati al sacerdozio desiderosi di esercitare un ministero allo stesso tempo ordinario e straordinario al fine di concretizzare l’esperienza dell’arricchimento reciproco voluta da Benedetto XVI? Una tale apertura darà l’ulteriore beneficio di nutrire l’unità del clero attraverso una migliore conoscenza delle specificità reciproche.

Il seminario maggiore di Guadalajara è oggi il più grande seminario del mondo.


Avviso sacro: Castelfranco Veneto ricorda S. Pio X

$
0
0
CASTELFRANCO VENETO

MESSA PER SAN PIO X



Il CNSP (Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum) ha organizzato per il giorno sabato 27 settembre, alle ore 16.00, presso il Duomo di Castelfranco Veneto (TV) - Vicolo del Cristo 10 -, la celebrazione di una S. Messa votiva in forma straordinaria in onore di San Pio X.

Celebrerà mons. Marco Agostini, cerimoniere pontificio.

Rammentiamo che è a Castelfranco che San Pio X ricevette il sacramento dell'ordine sacro il 18 settembre 1858 dall’allora vescovo di Treviso, Sua Ecc.za il beato Giovanni Antonio Farina, fondatore delle suore dorotee.


Gino Borsato, S. Pio X, 1955, chiesa plebana, Cavaso de Tomba



Il beato Giovanni Antonio Farina, già vescovo di Treviso, è stato, infine, pastore della diocesi di Vicenza dal 1860 al 1888 e fondatore delle Suore Maestre di Santa Dorotea Figlie dei Sacri Cuori, in una foto d'epoca. La sua memoria liturgica è il 4 marzo.

"Beata es, Virgo María, quæ ómnium portásti Creatórem: genuísti qui te fecit, et in ætérnum pérmanes Virgo" (Ant. Offert.) - Natività della Beata Vergine Maria

$
0
0
L'8 settembre la Chiesa celebra la nascita di Maria, esattamente nove mesi dopo il suo Immacolato Concepimento (8 dicembre), dopo aver ricordato in luglio ed in agosto rispettivamente la genitrice ed il padre della Vergine. È il compleanno di Maria.
.Come la prima Eva, tutta radiosa di vita e di innocenza, uscì dalla costola di Adamo, così Maria, splendente ed immacolata, uscì del cuore del Verbo eterno, che, per opera dello Spirito Santo, come la liturgia insegna, volle esso stesso plasmare questo corpo e quest’anima che dovevano servirgli un giorno da tabernacolo e da altare. Ecco dunque il senso sublime della festa odierna della Natività della beata Vergine. È l’aurora annunciatrice del giorno che si eleva già dietro le colline eterne; è la verga mistica che si drizza già sul venerabile tronco di Jesse; è il fiume nuovo che sgorga dal Paradiso che si prepara già ad annaffiare il mondo intero; è il simbolico vello che fu steso sul suolo arido della nostra terra, per raccogliere la rugiada prodigiosa; è la nuova Eva, cioè la vita e la madre dei viventi che nascono in questo giorno rispetto a quelli per i quali l’antica Eva fu madre del peccato e della morte.
Le origini di questa festa, come quella dell’Assunzione, sono nella Città Santa, a Gerusalemme, dove si collega al ricordo della dedicazione della basilica elevata, nel primo quarto del V sec., forse dall’imperatrice Eudossia, sul luogo della Piscina probatica, nei cui pressi si credeva poter localizzare l’abitazione a Gerusalemme dei santi Gioacchino ed Anna e, dunque, il luogo della nascita di Maria (cfr. DonatoBaldi, Enchiridion locorum Sanctorum documenta S. Evangelii loca respicientia, Jerusalem 1955, pp. 720-736).
Si è certi di questa datazione in quanto il motivo principale del mosaico pavimentale del martyrion della Probatica è la Croce. Ora, è noto che, nel 427, un editto di Teodosio II proibì di mettere delle croci nelle decorazioni dei pavimenti per rispetto per il segno della redenzione (C. 1.8.1: «Imperatores Theodosius, Valentinianus. Cum sit nobis cura deligens per omnia superni numinis religionem tueri, signum salvatoris christi nemini licere vel in solo vel in silice vel in marmoribus humi positis insculpere vel pingere, sed quodcumque reperitur tolli: gravissima poena multando eo, si quis contrarium statutis nostris temptaverit, specialiter imperamus. * THEODOS. ET VALENTIN. AA. EUDOXIO PP. *<A 427 D. XII K. IUN. HIERIO ET ARDABURIO CONSS.>»). Tale divieto fu reiterato dal sinodo Quinisesto o Trullano nel 692, can. 73, in J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum. Nova et amplissima collectio, vol. XI, Florentiæ 1765, col. 975-976 («Τοῦζωοποιοῦσταυροῦδείξαντοςἡμῖντὸσωτήριον, πᾶσανσπουδὴνἠμᾶςτιθέναιχρή, τοῦτιμὴντὴνἀξίανἀποδιδόναιτῷδι᾿οὗσεσώσμεθατοῦπαλαιοῦπτώματος. Ὅθενκαὶνῷκαὶλόγῳ, καὶαἰσθήσει, τὴνπροσκύνησιναὐτῷἀπονέμοντες, τοὺςἐντῷἐδάφειτοῦσταυροῦτύπουςὑπότινωνκατασκευαζομένους, ἐξαφανίζεσθαιπαντοίωςπροστάσσομεν, ὡςἂνμὴτῇτῶνβαδιζόντωνκαταπατήσειτὸτῆςνίκηςἡμῖντρόπαιονἐξυβρίζοιτο. Τοὺςοὖνἀπὸτοῦνῦντοῦσταυροῦτύπονἐπὶἐδάφουςκατασκευάζοντας, ὁρίζομενἀφορίζεσθαι», «Cum crux nobis vivifica salutare offenderit, nos omnem diligentiam adhibere oportet, ut ei, per quam ab antiquo lapsu salvati sumus, eum quem par est honorem habeamus. Quamobrem et mente, et sermone, et sensu adorationem ei tribuentes, Crucis figuras, quæ a nonnullis in solo ac pavimento fiunt, omnino deleri jubemus, ne incedentium conculcatione victoriæ nobis trophæum injuria afficiatur. Eos itaque, qui deinceps Crucis signum in solo construunt, segregari decernimus» cioè: «Dal momento che dallavivificantecroce è venuta a noila salvezza, dobbiamo essereattenti arendereil dovuto onorea quello da cuisiamostati salvatidall’antica caduta.Perciò, nella mente, nella parola, nei sensi, dovendodarevenerazione(προσκύνησιν) ad esso, comandiamo che la figuradella croce, chealcuni hannoposto sul suolo o sul pavimento, sia eliminata completamenteda esso, perché il trofeodella vittoria, cheha vintoper noi, non siaprofanatosotto i piedidi coloro che camminanosu di esso.Pertantocoloro chedaquesto comando si allontanino, rappresentando sul pavimento il segno dellacroce,decretiamo che siano separati [scomunicati]»).
Per cui, stante questa proibizione, si può dire con certezza che la dedicazione della Chiesa alla Probatica dové risalire ad un’epoca anteriore alla normativa teodosiana.
Questo luogo, poco distante dalla Porta dei Leoni, fu riedificato dai crociati dopo la distruzione persiana, e trasformato, a seguito della conquista islamica di Gerusalemme, in scuola coranica (madrasah). Esso fu ceduto in proprietà, dopo la guerra di Crimea, al governo francese, il quale l’affidò ai Padri Bianchi, ordine religioso fondato nel XIX sec. dal card. Charles-Martial Allemand Lavigerie, il cui busto si trova in un piccolo giardino nei pressi, appunto, di quella che è denominata Chiesa di Sant’Anna alla Probatica (v. anche qui).




Léon Bonnat, Il card. Lavigerie primate d'Africa, 1888, Musée national du Château de Versailles, Versailles

Busto del cardinale Lavigerie, chiesa sant'Anna alla Probatica, Gerusalemme

La memoria di questa festa si trova menzionata nelle omelie di sant’Andrea di Creta (+ 720). Meravigliosi sono poi i testi di Romano il Melodo per questa ricorrenza, nella quale la sterile - afferma - "ha partito il nido del Signore" (cfr. Manuel Nin, Oggi la sterile partorisce il nido del Signore, in L’Osservatore Romano, 8.9.2011, p. 1). 
A Roma, al contrario, dai tempi di Onorio I, si celebrava in questo giorno la dedicazione di Sant’Adriano al Foro, per cui, la festa della Natività non sembra risalire al di là dei tempi del papa Sergio I. L’evangeliario del 645, che non conosce ancora la festa della Natività di Maria, in effetti, annuncia all’8 settembre soltanto il natale di sant’Adriano. In questa data il papa Onorio (625-638) dedicò, appunto, l’antica sala delle deliberazioni del Senato romano al culto cristiano intitolandola al santo martire Adriano (L. DuchesneLe Liber Pontificalis, Coll. Bibliothèque des Ecoles Françaises d’Athènes et de Rome, tomo 1, Paris 1886, p. 324). Si ignora il motivo della scelta di questo martire come titolare. Si tratta verosimilmente di colui di cui i calendari bizantini fanno menzione il 26 agosto con la sua sposa Natalia ed altri numerosi compagni e di cui il martirologio geronimiano annuncia la passione a Nicomedia il 4 marzo con ventitré compagni.
La festa della Natività di Maria, invece, la si trova solamente nel Geronimiano, nel Sacramentario chiamato Gelasiano e nei calendari gallicani posteriori. Il Capitulare Evangeliorum di Würzburg l’ignora ancora.
Essa, dunque, fu ricevuta dapprima a Bisanzio a cominciare dal VI sec. e, poi da lì, si diffuse in tutto l’Oriente. Dové penetrare a Roma nella seconda metà del VII sec. (A. ChavasseLe Sacramentaire Gélasien, Paris 1958, pp. 375-402).
Quando il papa Sergio I (687-701) decretò che una processione litanica solennizzasse le quattro feste del 2 febbraio, del 25 marzo, del 15 agosto e dell’8 settembre, egli fissò la basilica del Foro come punto di partenza di questa processione: Letania exeat a sancto Hadriano et ad sanctam Mariam populus occurrat (Ibidem, p. 376). Nel XII sec., essa si svolgeva ancora, secondo la testimonianza del canonico Benedetto, ma i canonici del Laterano non vi partecipavano. Essi si accontentavano di farla nel loro chiostro.
Dal XI sec., nel frattempo, la Natività di Maria acquistò sempre più importanza tanto da diventare festa di precetto e da meritare un’ottava.
Nel 1243 Papa Innocenzo IV stabilì che essa assumesse il rango di festa obbligatoria per la Chiesa latina, sciogliendo così un voto formulato dai cardinali elettori nel Conclave del 1241 ed ostacolati dalle ingerenze di Federico II, che, per tre mesi, li tenne prigionieri.
Nel secolo XIV la festa della Natività di Maria si meritò anche la sua vigilia, prescritta da Gregorio XI (morto nel 1378), che la volle con un suo digiuno e ne compose la Messa.
San Pio X tolse la Natività di Maria dall’elenco delle feste di precetto e ridusse l’ottava a semplice. Pio XII, con la sua riforma liturgica, abolì l’ottava.

Icona della Natività della Theotokos


Effigie di Maria Bambina, Santuario di Maria Bambina, Milano


Maria Bambina, XVIII sec., collezione privata

Maria Bambina, XIX sec., collezione privata


Giotto di Bondone, Natività della Vergine, 1304-06, Cappella degli Scrovegni, Padova


Domenico Ghirlandaio, Natività della Vergine, 1486-90, Cappella Tornabuoni, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze

Paolo Camillo Landriani, detto Il Duchino, Natività della Vergine, XVI sec.

Carlo Maratta, Natività della Vergine, 1681-85 circa

Giovanni Battista Beinaschi, Natività della Vergine, XVII sec.


Bartolomé Esteban Murillo, Nascita della Vergine, 1660, musée du Louvre, Parigi

Luca Giordano, Natività della Vergine, XVII sec., Museo del Prado, Madrid

Francesc Pla i Duran, detto El Vigatà, Natività della Vergine, 1780 circa, Museu Nacional d'Art de Catalunya, Barcellona

Francisco de Zurbarán, Maria Bambina assopita o in meditazione, 1645 circa, collezione privata

Francisco de Zurbarán, Maria Bambina assopita, 1630-35, Fundación Banco Santander, Madrid

Francisco de Zurbarán, Infanzia della Vergine, 1658-60, Hermitage, San Pietroburgo


Francisco de Zurbarán, Maria Bambina, 1632-33, Metropolitan Museum of Art, New York

La messa tridentina difende il senso del sacro

$
0
0
Di don Roberto Spataro, SDB, segretario della Pontificia Academia Latinitas, avevamo pubblicato più di due mesi fa un intervento a favore del latino, perché fosse riconosciuto patrimonio immateriale dell'umanità da parte dell'Unesco.
Oggi, pubblichiamo volentieri un nuovo intervento dello stesso autore, che approfondisce il tema della salvaguardia del latino, soprattutto quello ecclesiastico e liturgico in uso nella messa tridentina.
L'intervento, oltre che dal sito del Coordinamento Nazionale Summorum Pontificum da cui è tratto, è stato anche riportato, tra gli altri, dal blog Messa in latino.

* * * * * * * *

DON ROBERTO SPATARO: LA MESSA TRIDENTINA DIFENDE IL SENSO DEL SACRO


Don Roberto Spataro S.D.B., segretario della Pontificia Academia Latinitas, e docente all’Università Pontificia Salesiana, ha celebrato il 27 luglio scorso a Bacoli (Napoli), nella Parrocchia di S. Anna Gesù e Maria, una Messa in rito romano antico su invito della sezione di Napoli di Una Voce, alla presenza di oltre 100 fedeli. Latinista, docente di letteratura cristiana, Don Spataro è un difensore della liturgia tradizionale ed ha tenuto conferenze sul rito tridentino. LETTERA NAPOLETANA gli ha rivolto alcune domande.

D. Ritiene che la Messa in rito romano antico sia una risposta, per i fedeli che vi partecipano, alla perdita del senso del sacro nella nostra società?

R. Sono d’accordo. Nel mondo occidentale, com’è sotto gli occhi di tutti, il processo di secolarizzazione è drammaticamente sempre più aggressivo ed invadente. Pertanto, è necessario offrire spazi ove il “sacro”, cioè la presenza oggettiva di Dio, sia comunicato e appreso, accolto e assimilato. La Messa “tridentina” privilegia un linguaggio, fatto di parole in una lingua riservata a Dio, e di eloquenti simboli, che coinvolgono tutti i sensi esterni ed interni dell’uomo, capace di trasmettere immediatamente ed efficacemente la bellezza e la potenza del “sacro”.

D. Come spiega il fatto che soprattutto nei Paesi anglosassoni, ma anche in Brasile, siano soprattutto i giovani ad essere attirati dal rito tradizionale?

R. Nei paesi anglosassoni c’è un fenomeno significativo: non sono pochi i giovani che da varie denominazioni protestanti aderiscono al Cattolicesimo e che amano la Messa “tridentina” in quanto in essa trovano ciò che, mossi dalla Grazia di Dio, cercavano: la natura sacrificale della Messa, il ruolo insostituibile del sacerdozio ordinato, la fede nella presenza reale e nella transustanziazione. Inoltre, percepiscono nella Messa tridentina una vera e propria summa della fede cattolica cui hanno dato la loro adesione con entusiasmo e, a volte, subendo ostacoli ed incomprensioni.

D. Per quanto riguarda il clero, si trovano molto più facilmente sacerdoti di 30-40 anni disposti a celebrare il rito tridentino che sacerdoti di 50-60. Come mai?

R. I sacerdoti che oggi hanno tra i 50 e i 70 anni sono stati formati negli anni del postconcilio quando vigeva un certo sospetto, se non una vera e propria ostilità, verso la Tradizione, e si ricercava, nella teologia e nella pastorale, un “novum” concepito ingenuamente come “bonum”. Sono pertanto psicologicamente bloccati verso ciò che ritengono un “ritorno al passato”. Nelle generazioni più giovani, soprattutto in quei seminaristi e giovani che hanno seguito con gioia l’insegnamento del Papa Benedetto XVI, questa precomprensione non c’è, poiché non hanno vissuto né gli anni del Concilio né i primi decenni ad esso successivi. Per alcuni di essi, la Tradizione è una risorsa, un “ritorno al futuro”, se mi è lecito l’ossimoro.

D. In una sua recente conferenza lei ha parlato di “minoranze creative” in riferimento ai gruppi di fedeli che si organizzano per chiedere ai parroci di celebrare con il Vetus Ordo ed ha ricordato che le riforme, anche liturgiche, sono partite a volte da piccole comunità monastiche.

R. Il concetto di “minoranza creativa” è stato valorizzato dall’allora cardinale Ratzinger per descrivere gruppi di persone che, con le loro motivazioni robuste, la loro testimonianza di vita, a volte con la loro organizzazione, e soprattutto con la loro adesione ad un pensiero “forte”, ispirato ai valori dell’umanesimo cristiano, i “principi non negoziabili”, possono rigenerare dall’interno la società corrosa dalla “dittatura del relativismo”, un po’come le antiche comunità monastiche hanno salvato e rinnovato creativamente la civiltà romana al suo tramonto. In fondo, quello di “minoranza creativa” è un concetto vicino alla categoria biblica del “piccolo resto”, quei pochi che, per la loro fedeltà a Dio, diventano strumento della sua azione redentrice. Anche nelle epoche più oscure della storia, Dio, nella sua Provvidenza, suscita sempre la presenza di persone pie e buone, umili e coraggiose.

D. Dopo il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI pensa che il clima sia cambiato e che, almeno in Italia, la diffusione del rito romano antico avvenga con maggiore difficoltà?

R. Non sono in grado di stabilire una “classifica” nazionale delle resistenze al Motu Proprio. Certamente, membri del clero ed anche noti prelati in Italia non hanno nascosto la loro opposizione al Summorum Pontificum. Mi sia consentito affermare che, non poche volte, coloro che esprimono il loro dissenso riguardo alla Messa tridentina ne hanno una conoscenza approssimativa e contestano un documento pontificio senza averlo mai letto interamente!



D. Per i tanti cattolici disorientati dall’aggressione della cultura laicista e dalla desacralizzazione pensa che il ritorno della Messa Tridentina sia una speranza?

R. Sicuramente! Attorno a questa nobile forma liturgica, realmente culmen et fons, fedeli laici e sacerdoti organizzano la propria vita spirituale. Vi attingono i tesori della Grazia divina e vi trovano, come posso constatare soprattutto tra i fedeli laici, un alimento robusto per corroborare la propria fede e dare una coraggiosa testimonianza, in un contesto che tende a marginalizzare il Cristianesimo e la sua incidenza sociale, con i risultati che hanno reso il mondo, proprio perché indifferente o ostile a Dio, meno umano e misericordioso, come ci ricorda il Papa Francesco.

Intervista al prof. Enrico Maria Radaelli - "La Chiesa ribaltata"

$
0
0
Riporto dal sito Cooperatores Veritatis l'intervista al prof. Enrico Maria Radaelli. Dallo stesso sono tratte anche le immagini.
Ringrazio LDCaterina63 per avermi autorizzato al rilancio, su questo blog, dell'intervista da lei fatta al docente, a Venezia, lo scorso agosto.
* * * * * * *

Il prof. Enrico Maria Radealli, docente di Filosofia dell’estetica, è discepolo del grande teologo italo-svizzero Romano Amerio, nonché curatore unico della sua opera omnia. Ha scritto diversi articoli sull'origine della bellezza pubblicati dall'Osservatore Romano, ed è autore di diversi libri in difesa del Depositum fidei della Chiesa cattolica: i più recenti Il domani - terribile o radioso? - del dogma?, Prefazione di Roger Scruton, Milano, Aurea Domus 2013 (presso la libreria Hoepli a Milano e la Coletti e la Leoniana a Roma) e La Bellezza che ci salva, Prefazione di Antonio Livi, Milano, Aurea Domus 2012 (presso la libreria Hoepli a Milano e la Coletti e la Leoniana a Roma). Recentemente è stata pubblicata dalla Gondolin Editrice la sua ultima fatica, intitolata "La Chiesa ribaltata - Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero di Papa Francesco", in cui il prof. Radaelli studia attentamente i quattro atti più significativi dei primi nove mesi del pontificato del papa regnante. Molto gentilmente, ha accettato di rilasciare al nostro staff quest'intervista. Lo ringraziamo sentitamente e speriamo che la sua opera in difesa del Dogma porti abbondanti frutti.

ENRICO MARIA RADAELLI, Ritratto (Foto di Piergiorgio Radaelli, Roma, 12 dicembre 2010).

D. - Prof. Radaelli, grazie per averci concesso quest’intervista. Cominciamo subito dal titolo del suo ultimo libro “La Chiesa ribaltata”. Perché “ribaltata”?

R. - Ritengo particolarmente importante l’occasione che mi date di questa intervista, perché in essa, potendo parlare del mio ultimo saggio, La Chiesa ribaltata, cercherò di esporre quella che ritengo l’unica e vera ermeneutica da seguire del Vaticano II et postea per salvare la Chiesa dallo smarrimento in atto del suo magistero. Il titolo “La Chiesa ribaltata” vuol essere un segnale d’allarme. In realtà noi sappiamo (v. p. 149 del libro) che la Chiesa non può ‘ribaltarsi’ nel senso compiuto di ‘perdere la propria essenza’. Può però – e ciò sta avvenendo da cinquant’anni – ribaltare l’ordine con cui procede da sempre la virtù di religione su cui essa è imperniata, ordine metodologico ricordato fin dal II secolo dal grande vescovo e martire sant’Ignazio di Antiochia: «La fede è il principio, l’amore il fine» (v. p. 86) sulla base di innumerevoli indicazioni testamentarie (p. es. Gv 14,15: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti», dove la condizione dell’amore a Dio è l’osservanza della sua legge). Il ribaltamento cui mi riferisco è ciò che Romano Amerio, illustre pensatore cattolico italo-svizzero del secolo scorso, tutt’ora misconosciuto malgrado sia stato di gran lunga il primo in tutto il mondo a mettere i Papi del concilio davanti alle loro potenti contraddizioni metafisiche, affigge con una definizione rigorosa, precisa e appunto metafisica: «dislocazione della divina Monotriade» (R. AMERIO, Iota unum, p. 315 Lindau). Questa «dislocazione» consiste nello spostare la Terza Persona della ss. Trinità sulla Seconda e questa sulla Terza: l’amore al posto del Logos, la volontà prima dell’intelletto, la libertà in luogo della legge, il sentimento sopra la ragione. In tutti i miei libri prima o poi si incontra questa dislocazione di essenze, e in molti essa costituisce il centro metafisico del loro argomentare, qualsiasi sia il loro orizzonte tematico. Ma, riferendomi a questo preciso lavoro sul magistero di Papa Bergoglio – La Chiesa ribaltata –, ci tengo a dire che tutto il libro è una precisa, argomentata e circostanziata denuncia di tale sovversione, rivoluzione, ribaltamento, avvenuta nella Chiesa, nella civiltà, nel mondo.


La prima esauriente risposta, e tutta fuori dal coro, agli spiazzanti interrogativi portati dal magistero di Papa Francesco. È un'Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero del papa argentino, anche alla luce del pensiero gnostico sul mistero d’iniquità come esposto nella 2a lettera ai Tessalonicesi. Lo studio prende in considerazione sia il magistero papale nel suo insieme che nei quattro atti più significativi avvenuti nei primi nove mesi del pontificato: la Lettera enciclica Lumen Fidei, l’intervista a Civiltà Cattolica, l’intervista a Eugenio Scalfari e l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Il discepolo di Romano Amerio dimostra in questo libro che la pratica di un amore senza la sua legge rischierebbe persino – se solo fosse possibile – il ribaltamento dell’essenza della Chiesa.

Cliccare qui per l'acquisto del libro, oppure per avere una copia con dedica, richiederlo direttamente all'Autore con questa E-MAIL.

Il “sistema Papa Francesco”

D. - Sino allo scorso anno, quando ci si riferiva al Vicario di Cristo, si diceva “il papa”, al di là del nome. Oggi, invece, quando si parla dell’attuale vescovo di Roma, si dice sempre “papa Francesco”. Infatti, nel suo libro, Lei sostiene che «papa Francesco non è più solo una persona, ma in qualche modo è un sistema» (pag. 36). Secondo Lei, d’ora in avanti, il papato sarà modellato sul “sistema Francesco” anziché sul modello tradizionale?

R. - Il “sistema Francesco” è delimitato alla persona che attualmente ricopre l’altissima carica: è la sua personalità, e, più ancora, le sue specifiche intenzioni: dare al papato la particolare nota che nel libro (p. 35 sgg.) definisco “sistema”: Papa Bergoglio è teso a infondere nella Chiesa la qualità specificamente “pastorale” nata nel Vaticano II con la sovversione della divina Monotriade che si diceva, precisamente nella forma pastorale con cui quel concilio fu aperto (forma pastorale ricevuta dalla forza dell’essenza “amore” da cui dipende), contravvenendo alla corretta forma che si sarebbe dovuta dare a un concilio universale – un concilio dove è presente il Papa, che ha giurisdizione universale, è automaticamente universale se egli vuole esercitare in tale adunanza pienamente tale sua giurisdizione –, dati i problemi gravi e pressanti che in ordine alla fede e alla morale gravavano già all’epoca: materialismo, semiarianesimo, semipelagianesimo, Nouvelle Théologie, liberalismo, modernismo i più importanti. La forma corretta avrebbe dovuto essere quella dogmatica, determinata dall’essenza “logos”. Il dovere morale di ogni Papa che raduna un concilio universale è dare le risposte adeguate ai problemi di fede e di morale presenti nella Chiesa al momento, e tali risposte, dinanzi a problematiche dottrinali come le sopra viste, possono essere adeguate solo se garantite dal carisma dell’infallibilità. Se fallibili, per definizione non sono e non possono essere adeguate. La Chiesa ebbe anche due concili universali in cui non fu esercitato il carisma (Laterano I e Lione I), ma solo perché le problematiche che li avevano resi necessari erano di natura disciplinare, non dottrinale. Chiesa e mondo, cinquant’anni fa, avevano bisogno di definizioni dottrinali dogmatiche (e dei complementari anatemi). Il “sistema Francesco” vorrebbe completare sistematicamente l’opera iniziata con la forma “pastorale” del Vaticano II, ma ciò non fa che estremizzare la volontà de-dogmatizzante iniziata con quel concilio. Il papato però non potrà modellarsi esemplarmente sul sistema adogmatico di Papa Francesco perché prima o poi dovrà per sua natura – la natura della Chiesa è il dogma – tornare alla propria origine dogmatica. In altre parole, la «dislocazione della divina Monotriade», per quanto sia di certo la più grossa, la più potente, la più subdola e misconosciuta astuzia di satana per vincere Dio, sarà temporanea, di certo vinta prima della fine della Storia dal ripristino fulgente e splendido della corretta disposizione delle essenze: il Logos è e resta la seconda Persona della Trinità, l’Amore è e resta la Terza. È l’ordine che avrà l’ultima parola nel mondo, non il disordine. La verità, non la falsità. Se fosse la falsità, come lo si capirebbe?

D. - Papa Francesco, sicuramente, è un grande comunicatore e un trascinatore di folle. Durante le udienze, gli Angelus, etc…, i “fedeli” gridano “Francesco! Francesco!”: non riescono a gridare “Gesù!”. Siamo, secondo lei, ormai al culto della personalità di papa Francesco? Forse, involontariamente, essi vedono nell’attuale vescovo di Roma non il Vicario, ma addirittura il “successore” di Cristo?

R. - Credere ancora impossibile, dopo i Papi del secolo di ferro, o Papa Onorio, o Papa Alessandro VI, tanto per dire i più distruttivi che la conformazione storica della Chiesa da se stessa si sia data, che la Divina Provvidenza permetta che sieda sul Trono più alto non solo un peccatore – tutti gli uomini sono per definizione peccatori –, ma anche un vero e proprio nemico della Chiesa, come non solo è ipotizzabile in linea teorica e plausibilissimo, ma è anche configurato con precisione da quel 2 Ts 2,6-7 che pongo a incipit di ognuna delle cinque parti in cui divido il mio libro, è cosa di un’ingenuità che, come mi faceva rilevare un mio amico carissimo, strenuo difensore della fede, a tratti diventa colpevole. Quanti sono stati i Papi simoniaci? e i lussuriosi? e i vanagloriosi? e tutti questi non erano forse nemici della Chiesa? Certo: lo erano in senso improprio, ma ciò rendeva comunque possibile che poi si potesse realizzare anche il senso proprio. Come rilevo a p. 247 del mio lavoro, Papa Francesco liscia il pelo del gregge sempre dal verso giusto, e non si sa chi è più narcisista: se le folle acclamanti o il Pastore acclamato. «Dalla vanagloria – ricorda san Gregorio Magno, v. p. 256 – nascono le stravaganze dei novatori», e noi, negli ultimi cinquant’anni, di questi novatori, di questi Papi novatori, ne abbiamo visti passare ben cinque, uno dopo l’altro, ciascuno con il suo lascito di “stravaganze”, cioè di errori, di ricercate “dimenticanze”, di vere e proprie scorrettezze dottrinali anche al limite dell’eresia (v. Iota unum, passim), tutte però – e qui si annida l’astuzia che però noi potremo a nostra volta mettere nel sacco con la terza, ma unica vera, ermeneutica del Concilio et postea – elargite a un grado di magistero non duramente e inequivocabilmente impegnativo per i Pastori come sarebbe il grado dogmatico. Bergoglio, come dimostro riga per riga nel mio libro, è la polarizzazione vivente di tutto questo.

D. - Papa Francesco, nell’E.G., parla di «conversione del papato». Effettivamente, da quando Paolo VI depose la propria tiara, non è stato forse creato il “pontificato ad personam”? Il simbolo delle tre autorità del romano pontefice è stato sostituito, a suo avviso, con la personalità del papa regnante?

R. - In La Chiesa ribaltata mi soffermo a lungo (pp. 60-7) sul significato da dare al particolarissimo plurale maiestatico papale: il suo abbandono va inquadrato nella generale intenzione sopra vista di de-dogmatizzazione. Si può notare, in generale, un certo larvato sempre maggiore distacco, nella “narrazione religiosa” del colloquio con i fedeli da parte di Papa Bergoglio, dalla figura di Cristo, ma è ancora presto per arrivare a delle conclusioni.

D. - Qualcuno ha definito papa Francesco “il primo vero ‘papa conciliare’”. Lei condivide questa definizione?

R. - In realtà, è il suo sogno. Ma cosa vuol dire “Papa conciliare”? Nell’accezione che possiamo cogliere da Papa Bergoglio, ciò vuol dire due cose:primo, ‘Papa la cui autorità vale in ordine all’autorità del concilio (Vaticano II)’, o ‘conferitagli dal concilio (Vaticano II)’, il che, se fosse professato apertis verbis, sarebbe un’eresia, ovvero l’eretica concretizzazione dei dettami del conciliabolo di Pisa e del concilio di Costanza prima dell’intervento correttivo di Papa Gregorio XII; secondo, ‘Papa che attua pienamente il concilio Vaticano II’, come ho già accennato, e anche questa è un’accezione ereticale, tanto quanto sono ereticali i dettami di quel concilio (v. libertà religiosa, collegialità episcopale, antropologia antropocentrica, sacramentalità delle altre fedi, condivisione del medesimo ente divino con ebraismo e islamismo eccetera), e in se stessa, specialmente, lo è la forma stessa data a quell’adunanza che, come ricordo nei miei Il domani del dogma e La Chiesa ribaltata, non corrispose alla misura con cui avrebbe dovuto corrispondere alle esigenze presenti nella Chiesa al momento in cui fu indetto – le fu impressa una forma mere pastorale e dunque non risolutiva invece che la forma rigorosamente dogmatica e giudiziale dovuta –.

D. - Un pontificato, quello di Francesco, fatto di gesti, parole, silenzi, etc…, ma senza un vero e proprio magistero. La Chiesa non ha più nulla da insegnare ai suoi figli e al mondo intero?

R. - Attenzione: la de-dogmatizzazione di cui stiamo parlando – e che Papa Francesco si è prefisso di portare a termine compiutamente allorché dice di voler “compiere il Vaticano II” – consiste proprio in questo: non insegnare, di fatto, più nulla. Ossia non insegnare più nulla che non piaccia al mondo. La Chiesa, come denuncio a p. 186 del libro, fino al Vaticano II Mater et Magistradel mondo, ora non solo non è più né Mater né Magistra, privando il mondo di quell’amore materno e di quella verità suprema di cui è l’unica portatrice, ma, del mondo una volta suo discepolo, essa si è fatta ligia e acquiescente discepola. E figlia: sempre attenta a non urtare l’esasperata sensibilità del nuovo suo “maestro”. E, tutto ciò (v. san Gregorio Magno), per pura vanagloria (cioè per superbia).

Il primato dell'ortoprassi sull'ortodossia

D. - Formalmente e ufficialmente – molti sostengono – il “depositum fidei” non sarà cambiato, ma sarà svuotato di significato per mezzo della “nuova pastorale”, basata sulla casistica personale, sociale e culturale. La Chiesa ha smesso di evangelizzare, ma si è impegnata nel campo della sociologia?

R. - La mia tesi fondamentale, fortemente esposta in tutti i miei lavori, specie nei due ultimi, è che nella “pastoralizzazione” totale e universale dell’insegnamento della Chiesa i Pastori “vaticansecondisti”, ossia seguaci della dottrina, della forma e del linguaggio de-dogmatizzanti dello spurio e meramente pastorale concilio Vaticano II, svuotato il depositum fidei senza però intaccarne formalmente l’integrità, non hanno nulla da temere sul lato dogmatico, ossia non possono venire in alcun modo accusati di cambiare la dottrina, perché in effetti, formalmente,dogmaticamente, non la stanno affatto cambiando. Ciò che io denuncio nei miei libri (pp. 192-5 de Il domani del dogma e pp. 70-1 de La Chiesa ribaltata) è proprio questo: che de voce essi sostengono (v. le celebri distinzioni ermeneutiche di Benedetto XVI nel Discorso alla Curia Romana del Natale 2005) di tenere una continuità con il magistero della Tradizione che de facto smentiscono nella più spregiudicata rottura. Questa terza ermeneutica, né “continuista” come la scuola ratzingeriana, né “di rottura” come la bolognese e la sedevacantista, ma “falso-continuista”, cioè sostanzialmente equivoca, non è considerata da nessuno, né tra i “vaticansecondisti”, come si può capire, né, stranamente, tra i tradizionisti, ma è l’unica vera: essa è la strada, semplice semplice, aperta dai novatori per potersi spostare impunemente dalla dottrina veridica alle falsificazioni correnti, approfittando dell’anello debole del magistero, il pastorale, che è chiamato a essere coerente con i suoi due gradi dogmatici solo “moralmente”, e, come si sa, il vincolo morale è un vincolo forte solo se è forte l’imperativo di chi lo deve osservare. I nemici della Chiesa (oggi infiltrati a tutti i livelli) stanno lavorando perché i loro molto distruttivi insegnamenti dilaghino nella Chiesa senza alcun controllo approfittando precisamente di questa molto alta e sottilissima discrezionalità.

D. - Mettendo in “congelatore” il dogma, dando la supremazia alla prassi, non si rischia di costruire la casa non sulla roccia, ma sulla sabbia?

R. - A p. 191 di La Chiesa ribaltata rilevo che continuando sulla strada falsissima intrapresa la sabbia con cui si sta costruendo la Chiesa oggi diverrà presto fango, e a p. 271 faccio notare che nel frattempo però si fa credere che la sabbia è basalto, l’argilla ferro, l’acqua roccia. E questo, di nascondere la finzione, è cosa ancora più grave della finzione in sé.

La «dislocazione della divina Monotriade»

D. - Santa Ildegarda da Bingen, Dottore della Chiesa, nel 1200 profetizzò che l’Anticristo avrebbe convinto tutti che ciò che conta è “volersi bene”, tutto il resto, cioè la Verità, è superfluo. Infatti, viviamo in un mondo in cui si può “peccare per amore”. L’Agape, come ha rilevato per primo Romano Amerio, ha preso il posto del Logos nella Chiesa, distorcendo la SS. Trinità stessa. Può parlarci della «dislocazione della divina Monotriade» denunciata magistralmente da R.A.?

R. - Per decenni lo Iota unum di Romano Amerio fu l’unico libro – e sottolineo l’unico – che i tradizionisti di tutto il mondo lessero e alzarono a bandiera della loro giusta resistenza al falsificante magistero della Chiesa “vaticansecondista”. Mi chiederò però per tutta la vita come mai nessuno di essi – e sottolineo nessuno –, né nessuno degli stessi “vaticansecondisti”, ritenne doveroso e necessario rilevare almeno il principale dei due fari che il grande Luganese fece risplendere nel suo capolavoro, parlo appunto della «dislocazione della divina Monotriade» che abbiamo visto giusto all’inizio. Il mio Maestro, a dir la verità, come rilevo nella mia monografia su di lui, Romano Amerio. Della Verità e dell’Amore (Marco Editore, Lungro di Cosenza 2005), ebbe forse il torto di non elaborare, su tale basilare concetto, un intero libro, ma le gravi parole con cui apre l’orizzonte del suo pensiero al decisivo argomento non lasciano dubbi sulla superficialità dei suoi lettori e di chi ancora oggi – forse non maliziosamente, ma il risultato è lo stesso – non ne vuole parlare: «Alla base del presente smarrimento vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo…» (R. AMERIO, Iota unum, p. 314, ed. Lindau). Parole gravi, potenti, che fanno sentire in tutta la vastità della loro deflagrazione nella mente quanto fossero annientanti sull’uomo gli effetti ultimi del relativismo, ossia quanto andasse alla radice antropologica della nostra stessa civiltà un semplice spostamento di due essenze, non mai da nessuno più di tanto considerato, né prima né dopo: il logos e l’amore. Spostamento realizzato nei secoli già da personalità storicamente e culturalmente di prima grandezza come Maometto e Cartesio, dunque nient’affatto secondario (v. il mio Theomachia ultima. Metafisica delle tre “grandi religioni monoteiste”: Cristianesimo, Ebraismo e Islam, p. 39 sgg.) Eppure è proprio così: forse non ne ho mai più parlato così bene come in quella monografia (pp. 72-6), ma non c’è un mio lavoro in cui non ne faccia cenno, e se ha un senso questo saggio de La Chiesa ribaltata, esso è proprio in riferimento alla dislocazione delle essenze trinitarie, che percorre tutto il libro. Perché il mondo non ne parla? perché la Chiesa “vaticansecondista”, che è ancora da più del mondo, non ne parla? perché i tradizionisti, che sono da più del mondo e della Chiesa “vaticansecondista”, non ne parlano? Eppure la radice di quello che il filosofo italo-svizzero chiamò garbatamente «smarrimento», e che oggi si può e anzi si deve diagnosticare senza pudore come ‘maligno tumore in metastasi al quarto grado’ di Chiesa, di civiltà e di mondo, è ancora solo qui: nell’intronizzazione delle due ancelle Caritas Libertas sul seggio altissimo della maestà di Veritas, loro e nostra Regina, così nascondendoci l’unica via per la nostra salvezza. Se la Verità non può librarsi assoluta nel cielo terso dato unicamente dalla sua propria realtà, ma, spostata dopo l’amore, viene posta come “relativa a”, “dipendente da” questo amore che così la condiziona, essa perde la qualità sua più intima, che è quella di essere un assoluto in se stessa e basta. Tutto il magistero di Papa Bergoglio è sotto l’impronta tumorale di questa drammatica e ultimativa dislocazione. Ma, come ho già detto e ricordo anche nel libro (p. es. alle pp. 298 e 299), il mondo non finirà se non quando il tumore sarà debellato, perché la Verità si può riconoscere, la falsità no, e non si possono chiudere le pagine della vita del mondo senza sapere chi ha vinto: questa certezza la dà solo la Verità.

Le aspettative sui prossimi sinodi dei vescovi

D. - Prof. Radaelli, l’opinione pubblica mondiale ha grandi attese sui prossimi sinodi sulla famiglia. Quali dovrebbero essere le attese dei cattolici?

R. - Nei primi secoli cristiani, le due “visioni del mondo” che si confrontavano, la pagana e la cattolica, erano consapevolmente antitetiche. L’“opinione pubblica” dell’Impero Romano, se vogliamo dir così l’ipotetico pensiero che percorreva la Gens Romana dell’epoca nei confronti della nuova religione che andava affermandosi pur tra le dure persecuzioni, sapeva che non erano molti gli apprezzamenti che poteva attendersi dalla Gens Christiana che andava insegnando per tutto l’Impero ideali da realizzare mai sentiti fino ad allora, p. es. l’indissolubilità del matrimonio. Oggi l’Impero Liberale – come chiamo il mondo d’oggi in La Chiesa ribaltata – sa che la sua controparte spirituale è caduta nella trappola che con ogni cura le aveva preparato, e che, come era da prevedere, almeno per ora al tutto carnale liberalismo (tutto carnale malgrado si ammanti doviziosamente e in ogni momento di valori carpiti alla Chiesa quali pace, dignità della persona, libertà, eccetera, ma rivoltati come un guanto e svuotati di senso nel Liberalismo truffatore) essa non sa trovare forti argomenti spirituali da opporre: i cattolici – intesi nella loro accezione di ‘masse di fedeli’ – hanno le stesse attese del mondo, dell’Impero, cioè del nemico, perché hanno perso la loro identità spirituale e si sono conformati al liberalismo mondano. Provvidenzialmente, sono però molto presenti Pastori come il cardinale Müller, il cardinale Bürke, o come i teologi americani – sette dell’Ordine Domenicano – di Nova et Vetera, tanto per dare qualche nome di chi sa opporsi con fermezza, rigore e coraggio alle aspettative fuorvianti, suicide e – diciamolo pure – peccaminose della maggioranza. Essa si nasconde la realtà: il divorzio ha ucciso il matrimonio, ma, come faccio ben notare nel mio lavoro (p. 288), con tale fellonesca strage i Liberali stanno uccidendo, anzi stanno “suicidando”, la civiltà: i figli, bene primario in assoluto perché sono il futuro di ogni cosa: spirito, filosofia, cultura, arte, economia o altro che sia, hanno bisogno di stabilità, e l’unica condizione di stabilità al loro sviluppo è la fedeltà e solidarietà assolute dei due fiori che, incontrandosi, li hanno fruttificati. L’indissolubilità del matrimonio è la sola garanzia all’indissolubilità della società. La sua dissolubilità è mediatamente e immediatamente la dissolubilità della società, e con essa dei divini valori che porta: verità, virtù, bellezza, unità, e con essi quello che Amerio chiama «cristianesimo secondario»: il benessere materiale e sociale in ogni suo risvolto più umano. Il 29 maggio la Camera dei deputati ha approvato la legge sul cosiddetto “divorzio breve”. Lascia attoniti la percentuale dei sì: 92%. Il 92% dei rappresentanti degli italiani non ritiene valore necessario e primario riconoscere al matrimonio durata perpetua, ossia la necessaria stabilità della prole nell’essere, roccia inalienabile, imprescindibile, di costituzione divina, per contrastare le perturbazioni non sempre positive del divenire, della società, del mondo (e di satana).

D. - Vorremo chiederLe un commento sull'Instrumentum Laboris, presentato recentemente in Vaticano dal cardinal Baldisseri e dal vescovo Bruno Forte: si tratta, come qualcuno ha detto, di “sociologa spicciola”, oppure è, come qualcun altro ha scritto, un ottimo documento pastorale?

R. - Né l’uno né l’altro. L'Instrumentum Laboris è il tipico documento di una Chiesa che, davanti agli enormi problemi di cui il mondo la circonda per soffocarla, risponde con una inadeguatezza che diremmo patetica se non fosse quella della nostra Madre. Sono cinquant’anni che la Chiesa, di fronte ai problemi, si è inventata il concetto di “sfida” con cui ha riempito anche il presente documento, e sono cinquant’anni che regolarmente perde tutte quelle sfide che proclama a destra e a manca: non ne vince una. Come mai il mondo non proclama mai alla Chiesa una sfida che sia una? Non c’è un’entità del mondo che abbia proclamato o proclami “sfida” il divorzio, l’aborto, le unioni civili e di fatto, la libera sodomia, il gender, la comunione ai divorziati risposati, ma le vince tutte. Se la Chiesa smettesse di battere su terminologie così vetuste e paranoiche, che pongono i problemi come fossero ogni volta montagne gigantesche ed erte, avrebbe forse qualche possibilità di tornare a riconoscere – come prima del Vaticano II – la realtà. E la realtà è che essa ha con sé gli strumenti spirituali e gli argomenti logici della verità più che adeguati per affrontare il mondo e anche vincerlo. Il dogma e le virtù schierate dalla caritas sono qualità forti, di cui il mondo è privo. La Chiesa riprenda a usarli, invece di porsi nell’ambiguità di un linguaggio inclusivo e tutto teso alla “amorevole comprensione” come quello usato nell'Instrumentum Laboris. Questo suo linguaggio le fa perdere di vista la forza dogmatica della verità e la spiritualità potentissima delle virtù soprannaturali, p. es. della castità.

D. - Se, disgraziatamente, si decidesse di riconoscere, più o meno in modo informale, lasciando l’apparenza di non aver cambiato dottrina, queste “famiglie irregolari”, come dovranno comportarsi i cattolici fedeli all'immutabile comando evangelico «Non osi separare l'uomo ciò che Dio ha unito»?

R. - Questo riconoscimento, che certo avrà le più forti e impensabili spinte, a livello dogmatico non avverrà. La Chiesa potrà essere dilaniata dall’alto in basso, ma il comando evangelico, a livello dogmatico, non sarà calpestato. Ma è possibile che lo venga a livello pastorale, in quella falsa pastoralità in uso oggi. Già oggi quei teologi americani che si diceva rilevano l’importanza della virtù di castità come mezzo inatteso ma fecondo per far giungere l’uomo a traguardi cui egli con i soli propri mezzi non potrebbe giungere, ma cui la Chiesa cattolica, l’unica Chiesa al mondo che sia viatrice di grazie, può far giungere, proprio a dimostrazione della bontà del proprio erto cammino per liberarsi dalle trappole del Liberalismo da cui siamo partiti. Ricordiamoci di ciò che scrive Amerio sulla legge della conformazione storica della Chiesa: «La Chiesa non va perduta nel caso che non ‘pareggiasse la verità’, ma nel caso che ‘perdesse la verità’» (Iota unum, p. 28, ed. Lindau). È possibile, p. es., che nel caso dei divorziati risposati il Papa giunga anche a enunciare dottrine permissive in nulla conformi alla Sacra Scrittura e alla Tradizione (come già avvenuto in questi cinquant’anni, p. es., per dirne una, sulla libertà religiosa, v. La Chiesa ribaltata, pp. 73-4). Ma le sue enunciazioni saranno a livello pratico, (pseudo)pastorale, e non teoretico, cioè non dogmatico, sicché la verità e la Chiesa non saranno «perdute», ma soltanto «spareggiate». La cosa resta di una gravità massima, ovviamente, come si legge anche nel mio libro. In realtà, lì scrivo e concludo (pp. 300-3) che tutta la Chiesa dovrebbe spingere il Papa a fare un’ordalia: sì, un vero e proprio giudizio di Dio. E ciò perché dopo cinquant’anni la Chiesa è arrivata a un punto di avvitamento finale e ultimo, in un magistero de-dogmatizzato che la rende sempre più irriconoscibile. È una situazione insostenibile: non può durare più a lungo. Si provi dunque il Papa, se ci riesce, con i verbi “forti” giuridici e con il plurale maiestatico pontificale necessari in tali casi (“Noi stabiliamo, decretiamo e dichiariamo”, “Nos statuimus, sancimus et declaramus”), a dogmatizzare una qualsiasi delle inaccettabili e fellonesche novità di cui vuol riempire la Chiesa: essendo il dogma infallibile, portando sopra il fuoco del dogma i suoi sogni, la Chiesa sarà infallibilmente garantita della perfetta e adamantina bontà delle decisioni così enunciate. Ma se il Papa non riuscirà a enunciarle, tali sognanti novità – e non vi riuscirà punto –, vuol dire che esse, come si sa, erano false, e l’infallibile verità del dogma, anche in moribus, le ha smascherate.

La drammatica rinuncia di Benedetto XVI

D. - Infine, nel ringraziarLa per la sua cortese disponibilità, Le chiediamo la sua opinione riguardo alla rinuncia al ministero petrino di Benedetto XVI.

R. - Anche quello è stato un atto che non si capirebbe se non venisse inserito nella generale e deplorevole de-dogmatizzazione data dalla «dislocazione della divina monotriade». Canonicamente corretto, muove però a tutte le perplessità se si prova a giustificarlo, perché sottrarsi alle difficoltà non sembra propriamente ciò che può permettersi il Vicario di Cristo. Esso è l’ultimo degli atti con cui oggi la papalità è stata declassata, snervata della sua pienezza soprannaturale, della sua potenza di autorità somma e di autorità somma in quanto ricettiva di un mandato divino. «Pasci i miei agnelli». «Rinuncio». La rinuncia è un atto umano che l’uomo compie proprio in quanto si è del tutto liberato dell’aiuto di Dio. È un atto senza alcuna vicarietà. E non solo manca il logos, in esso, perché non c’è nessun insegnamento, nessuna ragione e nessuna giustificazione, tutte proprietà del logos, ma manca anche l’amore nel senso suo proprio: la caritas di dedizione, quello che viene chiamato “amore altruistico”. Tale perdita è una tipica conseguenza della «dislocazione», perché quando il pensiero che pensa l’ente viene spostato oltre l’ente, e l’ente non è più pensato, ma vale per ciò che è, quell’ente perde le connotazioni e le determinazioni che riceveva dal pensiero che lo pensava, perde la sua identità. L’amore, non più pensato dal Logos divino, diviene un’accozzaglia confusa: ora questo, ora quello, ma mai il giusto. O davvero si pensa che Benedetto XVI abbia rinunciato al proprio ufficio per non mettere in difficoltà la Chiesa con il sopravanzare della sua vecchiaia? avremo dunque altri Papi cosiddetti “emeriti”? Il suo successore non lo esclude. Ma ciò significa solo che se un evento eccezionale diviene la regola, toglie alla regola precedente la forza che la sosteneva, e l’ufficio del papato diviene un ufficio come un altro. Questa poi è una rinuncia a metà, e lo stesso rinunciante affermò (all’Udienza generale di fine del Pontificato, 27-2-13) che il suo sarebbe stato, da quel momento in poi, un munus papale “passivo”, cioè un potere papale, in contrapposizione a quello attivo che avrebbe esercitato il suo successore. Ma non si può dare unmunus “passivo”: un esercizio di potere o si fa o non si fa, ma quando non si fa si è fermi, e anche la sua potenza, che lo rende appunto potenzialmente in essere, dev’essere azzerata: in caso contrario non c’è rinuncia, ma sospensione della cosa. Che l’atto sia alquanto confuso lo si riscontra anche dalla veste, che è rimasta fondamentalmente quella papale, confondendo la gente, che in effetti parla di “due Papi”: Celestino V rinunciò anche alla veste, e riprese quello dell’eremo. Benedetto XVI avrebbe dovuto riprendere la sua veste da cardinale. Sempre ammesso che la sua rinuncia, oltre che canonicamente ineccepibile, fosse anche moralmente giustificabile. Lo era? Ho le mie riserve: «Pasci i miei agnelli». «No. Rinuncio».

Vi ringrazio qui di questa intervista e delle molto interessanti domande che mi avete proposto, perché ciò mi ha permesso di mettere ulteriormente a fuoco concetti che ritengo possano avere una qualche importanza, nel loro che, per la nostra amata Chiesa, per la nostra tribolata civiltà, per il mondo stesso, forse, mai però da me sviluppati prima nelle direzioni qui prese.

AUREA DOMUS - Il sito ufficiale di Enrico Maria Radaelli

Perché il latino è indispensabile nella liturgia?

$
0
0
È questo il titolo del seguente contributo di recensione ad un testo francese dell'abbé Barthe.
Del resto, non si era nascosto l'interesse per il tema con il rilancio degli interventi dell'ottimo P. Spataro, di cui ieri abbiamo pubblicato l'ultimo.

* * * * * *

POURQUOI LE LATIN EST-IL INDISPENSABLE DANS LA LITURGIE ?

Un certain nombre de nos lecteurs attachés à la liturgie “en latin” nous demandent régulièrement de les aider à faire comprendre à leur curé et à leurs amis paroissiens l’intérêt de l’usage de la langue latine dans la liturgie (non seulement traditionnelle, mais aussi nouvelle, puisque le n. 36 de la Constitution de Vatican II sur la liturgie rappelle que « l’usage de la langue latine, sauf droit particulier, sera conservé dans les rites latins »). 

Tout le monde sait que le latin, langue de Rome, a été la langue de l’unité de la prière officielle pour une bonne part des catholiques du monde, en même temps que la langue des formules intangibles de la foi romaine

En outre, pour préciser davantage les raisons qui expliquent que le latin est devenu et qu’il est resté une langue liturgique, nous avons pensé qu’il était intéressant de publier de larges extraits d’un chapitre du livre de l’abbé Claude BartheLe ciel sur la terre. Essai sur l’essence de la liturgie (éditions François-Xavier de Guibert, 2003) : « Une langue pour le sacré » (pp. 47-59).


UNE LANGUE POUR LE SACRÉ

La commotion culturelle produite par la réforme liturgique d’après Vatican II, conjuguée avec la quasi-disparition de l’enseignement des humanités, a torpillé le vaisseau déjà fragile dans les années soixante du latin liturgique. Aujourd’hui, dans les séminaires qui se veulent d’un bon niveau intellectuel, on étudie le grec et l’hébreu, mais pas le latin, en faisant donc l’impasse sur toute la tradition patristique et médiévale : pédagogie aberrante, qui pourra être inversée sans mal.

Comment une langue devient langue liturgique

Certes, tout climat idéologique peut toujours être renversé. Il reste que toute restauration liturgique va être confrontée à ce redoutable problème cultuel et culturel qu’est la perte d’habitude de la langue liturgique latine par les fidèles et même par les prêtres de quarante ans et moins, lesquels avec la meilleure volonté « restauratrice » du monde n’ont plus aucun usage de la célébration latine et du plain-chant. Mais on doit bien comprendre que l’usage d’une langue comme langue liturgique tient à bien autre chose qu’à la décision bureaucratique d’une conférence épiscopale « compétente ». 

Qu’est-ce qui permet à une langue de devenir et de rester une langue liturgique ? Si on considère aujourd’hui les langues liturgiques proprement dites, on constate qu’elles sont généralement des langues anciennes, celles utilisées à l’époque de la rédaction des grands textes sacrés : le latin de saint Léon et saint Grégoire, le grec patristique de saint Jean Chrysostome, le slavon ancien, le dialecte bohaïrique du rite copte, fixé au IXe siècle, l’arménien classique, etc., mais aussi, en ce qui concerne une part des liturgies protestantes et anglicanes, l’allemand de Luther, la version anglaise du roi Jacques – très contestée à l’heure actuelle – qui gardait la qualité de l’anglais de Shakespeare. 

Ce sont aussi des langues que la liturgie a remodelées, cela spécialement pour le latin liturgique, dont le style emprunte au latin noble de l’Antiquité tardive, mais sur un registre propre et avec un rythme particulier. En fait, la formation d’une langue liturgique représente un phénomène d’appropriation culturelle réciproque : une langue profane est empruntée par l’usage religieux à une culture déterminée parce qu’elle s’avère propre à être un véhicule pour la théologie et la prière ; cette langue devient dès lors elle-même un véhicule culturel spécifique qui contribue puissamment à conserver la langue profane en question. Pour le dire d’une autre manière : la langue peut devenir liturgique à cause de sa noblesse naturelle ; elle acquiert de la sorte une noblesse hiératique et sacrée, une noblesse propre qui va la conserver comme telle. 

Sans doute pourrait-on avancer des exceptions (le malayalam du rite syro-malankar, une des rares langues vivantes dans une liturgie traditionnelle). Il reste que le phénomène de constitution d’une langue liturgique est lié à une élaboration plus globale, qui comporte la prédication, la dispute théologique, et aussi, et tout particulièrement les commentaires et les versions de la Sainte Écriture. Une langue liturgique demeure aussi une langue de référence théologique. Or, le langage de la théologie, comme celui de la liturgie, est emprunté au langage qui se constitue en lisant, commentant, traduisant, glosant, interprétant, prêchant, méditant l’Écriture sainte. Ainsi le rite arménien a été créé par le catholicos Sahak, Grégoire l’Illuminateur, à la fin du IVe siècle, en même temps qu’une littérature chrétienne arménienne, avec une traduction de la Bible correspondante. 

Comment est apparu le latin liturgique ?

Il y avait dans l’empire romain, lors de la diffusion du christianisme en sa partie occidentale (Rome, l’Espagne, l’Afrique, la Gaule), deux grandes langues véhiculaires, le grec et le latin. En Orient, à Jérusalem par exemple, pour les populations non hellénophones, on a connu des cérémonies en plusieurs langues et des traductions de la Bible et de la liturgie (syriaque, copte). Durant deux siècles et demi, la langue liturgique de Rome n’a donc pas été la langue du cru, mais le grec, qui était la langue véhiculaire de la Bible, dans la traduction de la Septante. À cause, en effet, de ses origines orientales, le christianisme romain, arrivé dans la Ville quelques années après la mort du Christ, avait pour matrice cultuelle le grec. Langue commerciale et d’échange, koinè, que le peuple comprenait toujours plus ou moins, mais aussi langue de haute culture, qui faisait que les personnes de condition élevée se devaient d’être pratiquement bilingues (ce ne sera plus le cas au IVe siècle). 

C’est d’ailleurs vers la fin du Ier siècle que la Septante, version alexandrine du IIIe siècle avant Jésus-Christ, a commencé à intéresser les païens cultivés, notamment en raison de l’utilisation qu’en faisaient les chrétiens. Dans le même temps, la liturgie parlait grec pour une raison culturelle – si l’on veut bien prendre le terme en un sens non élitiste, et qui recouvre une commodité de prédication – parce que le christianisme n’avait pas encore de culture latine. Il s’appuyait sur la culture scripturaire et sacrée qui le véhiculait, le grec. 

Mais s’il était donc tout à fait anachronique de dire que l’usage du grec, à l’origine, était semblable à l’usage moderne d’une langue vulgaire dans la liturgie, il serait tout aussi anachronique de dire que le passage au latin a été quelque chose comme le phénomène d’après Vatican II. De même que des traductions latines littérales de la Bible grecque (on parle de Vieille latine pour les distinguer de la Vulgate, la traduction réalisée par saint Jérôme sur l’hébreu de l’Ancien Testament, à la fin du IVe siècle et au début du Ve siècle), ont circulé plus vite dans l’Empire qu’à Rome, de même la liturgie s’est latinisée en Afrique très tôt (le fait est attesté dès Tertullien, mort en 225, le créateur du latin chrétien, qu’on a appelé le Cicéron chrétien). À Rome, en Gaule, en Espagne, le passage au latin de la liturgie s’est fait au cours du IIIe siècle, et non durant le IVe siècle, comme on l’a cru longtemps. 

Dès lors la liturgie va donc pouvoir s’appuyer sur la culture romaine et l’investir. C’est alors, grâce à la Pax Ecclesiae que promulgue Constantin en 313, que va s’opérer la fameuse translatio : la culture chrétienne, spécialement liturgique, s’approprie peu à peu la culture latine. Virgile et Térence ont été à la base de la formation littéraire de Tertullien, Ambroise, Augustin, Hilaire de Poitiers. 

La langue des oraisons, du canon, des préfaces acquiert dès ce moment une expression très élaborée. Elle se distingue surtout par son caractère vraiment latin. H.-I. Marrou disait qu’elle est une variété originale de la langue littéraire latine. Léon, Gélase, Symmaque, Vigile, Grégoire, et leurs écolâtres ont su mettre la gravité romaine au service de l’expression du sacré.

Dès lors, tous les rites occidentaux (romain, milanais, lyonnais, mozarabe, monastiques divers et variantes du rite romain) sont restés en possession paisible de cette langue jusqu’au XVIe siècle. 

Désacralisation et irruption des langues vulgaires

À vrai dire, le vernaculaire n’était pas la préoccupation majeure de Luther, qui parlait couramment latin et a célébré la Cène en latin, mais il s’est vite imposé et est devenu une revendication forte et emblématique de la Réforme. Pourtant, l’allemand de Luther et la version anglaise du roi Jacques ont ensuite été conservés un peu comme des langues liturgiques.

Il faut aussi évoquer les revendications en faveur des langues vernaculaires de certains milieux, jansénistes, joséphistes, plus largement de ce qu’on appelle les Lumières catholiques. Il y eut, en Allemagne unAufklärung catholique qui, à la différence des Lumières, critiquait l’Église de l’intérieur, et qui eut son équivalent en France dans les milieux que l’on désigne sous le terme générique de « jansénisme ». Ces courants jetèrent un certain discrédit sur les dévotions traditionnelles et leurs « excès », sur la communion hors de la messe, les messes multiples célébrées en même temps dans une même église. Ils voulaient surtout une introduction de la langue vulgaire dans la liturgie, un abandon massif du latin, un raccourcissement des prières, le tout au nom du thème du retour aux « usages de l’Église primitive ». Ceci, resté un peu marginal et qui n’a pas abouti, est concomitant du basculement de la civilisation occidentale entre les XVIIe et XVIIIe siècles, et bien plus directement que le protestantisme, préfigure les revendications qui gonfleront au XXe siècle.

Avec ces dernières on se trouvera dans un contexte clairement distinct de ce qui a précédé : celui d’une civilisation de masse, par essence étrangère à la culture humaniste qui faisait corps avec la culture chrétienne ; celui d’une sécularisation qui isole de manière étanche le profane et le religieux. De sorte que l’acculturation moderne du christianisme que veut réaliser la liturgie en langue vulgaire est d’une autre nature que l’acculturation traditionnelle. Elle tend essentiellement à une « mise à la portée », dans un contexte général de banalisation : elle n’est donc pas à proprement parler un phénomène d’acculturation, mais plutôt la prise en compte d’une crise de la culture. En outre, le langage liturgique a vocation à exprimer la communion : il tend donc, non à l’uniformisation, mais à l’unification. Or, les traductions de la Bible se multipliant, la liturgie en langue vulgaire va utiliser une traduction parmi d’autres, et non plus un texte commun permettant de retenir les versets de psaumes, les paroles de l’Évangile mémorisés identiquement par tous, comme on le pouvait au temps de la liturgie latine et de la Vulgate. 

De fait le langage liturgique de la romanité soulignait son unité se dégageant comme élément essentiel au sein des accidents de l’histoire. Entre l’Antiquité tardive, où se sont élaborés, à Rome, les textes liturgiques fondamentaux qui furent en usage – et dans la même langue – jusqu’à Vatican II, et le Moyen Âge qui avait donné à cette liturgie sa configuration, le monde catholique latin a parlé liturgiquement, una voce, d’une même voix, celle d’une liturgie de chrétienté célébrée à Rome. Cette épaisseur historique lui donnait toutes les apparences d’être comme hors du temps et correspondait à un profond besoin de signes externes de communion. 

Si donc le sens du sacré reste instinctivement du côté de la langue ancienne, ce n’est pas tant que le caractère incompréhensible du latin pour la majorité des assistants lui donne une valeur mystérieuse, mais parce que, à l’évidence, l’interprétation de la liturgie dans la langue d’aujourd’hui épouse un mouvement devulgarisation. Car la concision dépouillée de la latinité, sa sobriété, imposaient à la célébration un style de grande dignité, le langage noble se combinant avec le silence, tout spécialement celui du canon qui fut parfois jadis appelé « sanctuaire ». À quoi s’accorde le plain-chant, la gestuaire savamment étudiée et comme immémoriale, pour la création d’une atmosphère autre. Tout ce que la vulgarisation du langage et la banalisation des rites ont évacué.

***

En se voulant de plain-pied avec l’ordre du monde divin, la célébration eucharistique prend désormais la figure familière d’un repas en commun, avec paroles de simple urbanité de la part du célébrant à l’assemblée des fidèles, gestes de convivialité, introduction d’un liant social propre à la vie ordinaire. Il n’est donc pas douteux que l’irruption quasi totale du vulgaire et la disparition de la langue sacrée aient largement participé de la désacralisation et de la rupture de mémoire.

"Memória mea in generatiónes sæculórum" (Eccli. 24, 28) - SS. Nome di Maria

$
0
0
La festa del santo Nome di Maria è stato attribuito a questo giorno all’epoca dell’ultima grande riforma del Breviario romano, sotto san Pio X.
L’odierna ricorrenza, infatti, istituita dal beato papa Innocenzo XI, in memoria della grande vittoria ottenuta sui turchi sotto le mura di Vienna, il 13 settembre 1683, e che Innocenzo XII aveva assegnato alla domenica nell’ottava della Natività della Beata Vergine. La riforma di san Pio X del 1914, liberando le domeniche dalle feste dei santi, la fissò, appunto, al 12 settembre.
L’11 aprile 2013 è in uscito nelle sale cinematografiche un film, diretto da Renzo Martinelli, regista e co-sceneggiatore assieme allo storico Valerio Massimo Manfredi, "11 settembre 1683", che narra la celebre battaglia di Vienna e di cui posto alcune clip.




In quella battaglia, si contraddistinse la famosa figura del beato Marco d'Aviano (interpretato nel film dal premio Oscar F. Murray Abraham), frate cappuccino italiano, mistico, taumaturgo e consigliere dell'imperatore d'Austria, Leopoldo I. Quest'umile figlio di San Francesco, che Giovanni Paolo II elevò agli onori degli altari dieci anni orsono (27 aprile 2003), fu l'anima di quella battaglia, in quanto incitò le truppe cristiane, numericamente inferiori rispetto agli avversari, alla vittoria nell’assedio turco alla Mela d'oro, Vienna; assedio che durava ormai da diversi mesi e posto dalle armate del Gran Visir della Sublime Porta, Kara Mustafà, il quale, analogamente al sultano  Bayezid I nel XIV sec., aveva intenzione di piantare, nel cuore dell'Europa, il vessillo verde di Maometto, trasformare la Basilica di San Pietro in moschea e far abbeverare - diceva - i suoi cavalli arabi alle fontane di Piazza San Pietro.
Nonostante l'incombente pericolo per l'Europa, la quale risentiva ancora degli effetti della Guerra dei Trent'anni (conclusasi meno di quarant'anni prima), quel frate riuscì a riunire, sovrani tra loro diversissimi, per carattere, temperamento, idee, religiosità, in un comune ideale. Di difesa. Ma di cosa?
Nel film ora ricordato, il beato Marco d'Aviano, parlando alle truppe cristiane prima della battaglia, ricordava a quei soldati come essi, quel giorno, non avrebbero combattuto solo per difendere Vienna, ma anche e soprattutto - diceva - "per difendere la vostra fede e le vostre tradizioni". Tema quanto mai attuale!
Amara, Signora del mare, o amata da Dio, secondo l’interpretazione che si vuole dare al nome di Maria, è sempre il nome di nostra Madre celeste, il nome che Gesù bambino ha balbettato per primo, il nome che, dopo quello di Gesù, racchiude tutta la nostra speranza di salvezza. I santi, e specialmente san Bernardo e san Gabriele dell’Addolorata, vedono nel Nome dolcissimo di Maria tutte le qualità e le prerogative che i Dottori trovano nel Nome del Salvatore: luce, forza, dolcezza, protezione; tanto che i pii fedeli non desiderano altro che rendere la loro anima a Dio pronunciando i santi Nomi di Gesù e di Maria, prima di andare a contemplarli in cielo. San Pio X ha accordato delle preziose indulgenze a questa devota invocazione.
San Bernardo è stato uno dei panegeristi più eloquenti del santo Nome di Maria. Ogni anno, il mercoledì dei Quattro Tempi di dicembre, egli aveva costume di fare ai suoi monaci di Clairvaux un discorso sul Vangelo del giorno ed, in questa circostanza, egli ha pronunciato degli elogi magnifici del santo Nome di colei che fu l’unica degna di parlare con Gesù. Alcuni di questi elogi, dovuti al santo Abate, sono raccolti nel Breviario tradizionale.

Vicino alla basilica Ulpiana del Foro di Traiano, la Roma cristiana possiede una bella chiesa dedicata al santo Nome di Maria (Chiesa del Santissimo Nome di Maria al Foro Traiano), costruita a metà del ‘700 (Cfr. M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 253-254), e che costituisce una delle due cosiddette “chiese gemelle” del Foro Traiano (che poi tali non sono per niente, ancor meno di quelle di piazza del Popolo), insieme alla vicina Santa Maria di Loreto. Vi si conserva un’antica immagine, risalente al XIII sec., della Madre di Dio proveniente dell’oratorio di San Lorenzo al Laterano.



















Jan Tricius (attrib.), Ritratto di Giovanni III Sobieski, 1680 circa

Artista ignoto, Giovanni III Sobieski a cavallo, 1704 circa, Muzeum Narodowe w Krakowie, Cracovia

Tomba di Giovanni III Sobieski

Ancora sulla controversia matrimoniale tra Lotario II e papa san Nicolò I

$
0
0
Abbiamo già ricordato, in un articolo dello scorso giugno, a firma del card. W. Brandmüller, la vicenda matrimoniale del re Lotario II. 
Oggi, l'ottimo blog Rorate caeli, da noi seguito con molta attenzione, ci propone un nuovo contributo su quella controversia, che si svolse in un'epoca in cui si badava, prestandovi molta attenzione, all'eterna salvezza dell'anima ed in cui aveva ancora significato dirimente parlare di dannazione eterna. 
Oggi, la Chiesa appunta la sua attenzione, al contrario, non sui Novissimi, ma sul "disagio spirituale", che altro non sarebbe, in verità, che il rimorso della coscienza, con la consapevole certezza del soggetto di aver violato la santa Legge di Dio.
Nel prossimo sinodo straordinario - si spera - i pastori della Chiesa possano cercare il bene della salvezza eterna delle anime, non offrendo argomenti, che possano attenuare o soffocare quei rimorsi, aggiungendo a quelli degli altri ... .


* * * * * * * * *

The Roman See, Permanent and Unwavering Champion of the Indissolubility of Marriage and of the Integrity of the Blessed Sacrament:

I - Lothair II

"Yes, I do... for the whole life."

“There is nothing new under the sun,” least of all the continued crusade the church has headed and now heads against the enemies of Christian marriage. What marriage is, what duties it involves, what holiness it requires, what grace it confers, we leave to other pens more learned or more eloquent to define. What are the Scripture authorities and allowable inferences concerning the married state, its indissolubility and its future transformation in heaven, we leave to theologians to state.
...

But as witnesses are multiplied when a strong case has to be made out in favor of some important issue, let us turn to the tribunal of history, and look over the record of the church’s battles. Witnesses without number rise in silent power to show on which side the weight of church influence has ever been thrown—the side of the oppressed and weakly. Every liberty, from ecclesiastical immunities to constitutional rights, she has upheld and enforced, and it would be impossible that she, the knight-errant of the moral world, should have failed to break a lance, through every succeeding century, for the integrity of the marriage bond.
...

Lothair [Lothair II], King of Lorraine [Lotharingia], ... was anxious to get rid of his wife Thietberga [Teutberga]. This was one of the most famous cases of the sort during the Middle Ages, and was prolonged over many years, breeding not only the utmost moral disorder, but threatening also to bring about even political convulsions.

Lothair had conceived a criminal passion for one of his wife’s maids, Waldrade, and to marry her his first endeavor was to prove the queen guilty of incest before her marriage with him. For this purpose he summoned his bishops three times at Aix-la-Chapelle [Aachen], in 860, and had Thietberga condemned to the public penance usually inflicted in those days on a fallen woman. The time-serving prelates, after a superficial examination of the evidence, allowed the divorce on the plea that “it is better to marry than to burn”; thus giving an early historical proof of the old saying about a certain person “quoting Scripture.”


Widalon, Bishop of Vienne, who had not concurred in this iniquitous decree, wrote to the pope for guidance.The pope, Nicholas I, firmly standing by the tradition of the church, and vindicating the fundamental dogma of the sanctity of marriage, replied uncompromisingly that the divorce was null and void, the bishops blamable for their servility, and that even were it proved beyond doubt that Thietberga had been guilty of incest or any other sinful intercourse before marriage, yet the marriage itself could never on that account be legally dissolved.

The queen herself then appealed to the pope, who appointed two legates to inquire into the matter. Baffled in his first attempt, Lothair now trumped up a second pretext, and pretended that he had been previously married to Waldrade, and that the queen had therefore never been his lawful wife. The pope replied that, until this matter was disposed of, the queen should be sent with all honor to her father, and suitably provided for from the royal treasury. Thietberga was now arraigned before a packed and bribed tribunal, and forced to acknowledge herself an interloper, but found secret means of sending word to the pope that she had acted under compulsion. Nicholas then wrote an indignant letter to the king and bishops, annulled all previous decisions, and commanded a new and fair trial of the case to be held He then wrote to the Emperor of Germany, Louis II, and the King of France, Charles the Bald, as well as to all the bishops of the four kingdoms, Lorraine, France, Germany, and Provence, whom he ordered to repair to a council at Metz, where his legates would meet them. He charged them to have more regard to the laws of God than the will of men, and to protect the weak and innocent with all the dignity of their influence. Lothair, however, succeeded in corrupting the legates themselves, and the council merely met to confirm the previous infamous decrees and condemnations. Two of the prelates were chosen to report to the pope and bear hypocritical and falsified messages to him, but in vain.

Nicholas, secretly advised of this treachery, and no doubt also divinely inspired, detected the imposition, abrogated the decrees of the false council, and canonically deposed the two guilty prelates from all their functions and dignities. They immediately took refuge at Benevento with the Emperor Louis II, who, hotly espousing their cause, marched with his army against Rome, and surprised the clergy and people in the act of singing the litanies and taking part in a penitential procession at S. Peter’s. His soldiers dispersed the people by force of arms, and blockaded the pope in his palace. Nicholas escaped in disguise, and for two days lay concealed in a boat on the Tiber, with neither covering for the night nor scarcely food enough to sustain nature.

Thus the conflict between a sovereign’s unbridled passions and the calm and immutable principles of the Gospel was carried so far as to entail actual persecution on the sacred and representative person of the pontiff.

The emperor, repenting of his hasty attack, sent his wife to the pope to negotiate a reconciliation. ... Lothair and the rebellious bishops now quarrelled among themselves, and one of the deposed prelates, the Archbishop of Cologne, repaired in haste to Rome to reveal the duplicity, the plotting, and insincerity that had characterized the whole of the proceedings. The iking himself, however, showed a disposition to submit, most of the bishops begged the pope’s forgiveness, and the former legate, Rodoaldus, having been excommunicated for his collusion with the king, a new one, Arsenius, Bishop of Orta, was appointed. The conditions he was charged to demand were explicit — either Waldrade must be dismissed, or the excommunication until now delayed in mercy would be pronounced. Unwilling to submit entirely, yet dreading the consequences if he did not, Lothair actually recalled Thietberga to her lawful position, and allowed Waldrade to accompany the legate to Rome, as a public token of her repentance and obedience. But although his royal word was plighted, he soon found his blind appetites too much for his reason and his faith, and, sending messengers to bring back his mistress, relapsed into his former sins. Waldrade herself was now publicly excommunicated.

In the meantime, Pope Nicholas died, and was succeeded by Adrian II, who proved himself no less strenuous an opponent of royal license than his holy predecessor had been. Lothair, naturally inclined to temporize, offered to go to Rome and plead his own cause with the new pontiff. In a preliminary interview held at Monte Casino, the pope reiterated his firm intention of coming to no understanding before the king had made his peace with Thietberga and finally dissolved his criminal union with Waldrade.

The next day was Sunday, and the king hoped to hear Mass before he left for Rome, but he could find no priest willing to celebrate it for him, and was forced to take his departure in diminished state for Rome, where no public reception awaited him, so that he had to enter the Holy City almost as a pilgrim and a penitent. In those days of princely hospitality and profuse pageantry, such an occurrence was rare, and, therefore, all the more significant of the majestic and practical power of the church.

The famous Lothair Cross, in the Aachen Cathedral treasury, is named after King Lothair II of Lorraine, though mostly crafted at a later date

Lothair, now thoroughly sensible of his sin, and warned by the terrible dissensions of the past of what further misery to his country and people his prolonged obstinacy might involve, signified his intention to submit unconditionally to the pope’s decree. High Mass was then celebrated in his presence and that of all his noble followers by the pope in person, and when at the moment of communion the king approached the altar, Adrian impressively addressed to him the following unexpected adjuration:

“I charge thee, O King of Lorraine, if thou hast any concealed intention of renewing thy shameless intercourse with thy concubine Waldrade, not to dare approach this altar and sacrilegiously receive thy Lord in this tremendous sacrament; but if with true repentance and sincere purpose of amendment thou dost approach, then receive him without fear.”

The king, evidently moved by this solemn address, knelt down and communicated, and his retainers and courtiers took their places at the sacred board. That no pretext might remain for further equivocation, the holy pontiff warned them also, before administering the Blessed Sacrament to them, saying:

“If any among you have wilfully aided and abetted the king, and are ready wilfully to aid and abet him again in his wicked intercourse with Waldrade, let him not presume to receive sacrilegiously the body of the Lord; but you that have not abetted him, or that have sincerely repented of having done so, and are resolved to do so no more, approach and receive without fear.” 

A few of them shrank back at these awful words, but the greater part, whether in sincerity or in contempt, followed the king’s example and received.

After this, which did not take place till 869, we hear no more of Lothair’s passion for Waldrade. [Lothair died soon afterwards, in Piacenza, in his way back from Rome to Aachen.]

[Source: Catholic World, vol. XVI, Oct. 1872/Mar. 1873. THE CHURCH, THE CHAMPION OF MARRIAGE (Excerpts)]


Festa dell'Esaltazione della Santa Croce a Gerusalemme

Golgota e Santo Sepolcro

Vexilla Regis Prodeunt

O Crux ave spes unica

Praefatio de sancta Cruce - in tono sollemniori

Viewing all 2409 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>