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"Ego enim sum Raphaël Angelus, unus ex septem, qui astámus ante Dóminum" (Tob. 12, 15) - S. Raffaele arcangelo

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Come si onora con un ufficio speciale gli arcangeli Michele e Gabriele, così, in questi ultimi tempi, la devozione verso san Raffaele si è largamente diffusa.
Quest’Arcangelo ci è noto dal libro di Tobia e nell’antichità cristiana è sovente menzionato dai Padri e nelle iscrizioni. Alla menzione di Raffaele, sant’Ambrogio unisce quella di Gabriele e di Uriele, perché quest’ultimo è menzionato nell’apocrifo libro di Enoch: non moritur Gabriel, non moritur Raphaël, non moritur Uriel(Sant’Ambrogio, De Fide libri quinque ad Gratianum Augustum, lib. III, cap. 3, §. 20, in PL 16, col. 593C; nell’ed. 1880, col. 618A). L’associazione di questi tre nomi di angeli si ritrova anche su un piccola lama d’oro, raccolta nella rotonda di Santa Petronilla, in Vaticano, nella tomba di Maria, sposa dell’imperatore Onorio e figlia di Stilicone. Su questa vi era scritto:

MICHAEL • GABRIEL • RAPHAEL • VRIEL

Questi quattro angeli, col titolo di maiores, sono spessissimo invocati nel Canon universalisdegli Etiopi, nei calendari orientali ed in molte litanie del Medioevo.
Su un’ametista intagliata, risalente al VI-VII sec., che misura approssimativamente 3 cm., vi è intagliata una figura eretta del Cristo benedicente, con nella mano sinistra un cartiglio con le prime parole del Vangelo di Giovanni, νρχνλόγος. A sinistra della figura si leggono i nomi degli angeli  (Cfr. George Frederick Kunz, The magic of jewels & charms, Philadelphia-London 1915, p. 246; Marvin C. Ross, Catalogue of the Byzantine and Early Mediaeval Antiquities in the Dumbarton Oaks Collection, vol. I,Dumbarton Oaks 1962, p. 96, n. 116). In effetti, i santi angeli con i loro nomi erano sovente invocati a fini protettivi così come si riconoscevano analoghe proprietà al Vangelo di Giovanni (Cfr. Edmond Le Blant, Le premier chapitre de Saint Jean et la croyance à ses vertus secrètes, in Rev. Archéolog., 1894, t. II, pp. 8 ss., partic. p. 8), e conservata al British Museum, si leggono questi nomi attorno all’immagine del Cristo benedicente:

ΡΑΦΑΗΛ
ΡΕΝΕΛ
ΟΥΡΙΗΛ
ΙΧΘΥOϹ
ΜΙΧΑΗΛ
ΓΑΒΡΙΗΛ
ΑΖΑΗΛ

Raffaele, Gabriele, Michele ed Uriele sono conosciuti, ma i nomi degli altri angeli che formano la corte dell’Ιχθυος,ichthýs celeste sono tratti dagli apocrifi (per la verità si è incerti se l’Ιχθυοςmenzionato sia riferito qui a Cristo o sia da intendersi come nome di un angelo) e quello che viene al terzo posto in quest’altra iscrizione di Kodja Geuzlar, presso il sito archeologico di Thiounta, nell’antica Frigia, rivela la stessa origine:

ΚΥΡΙΕΒΟΗΘΙAAAAA ΜΙΧΑΗΛ E ΓΑΒΡΙΗΛΙϹΤΡΑΗΛΡΑΦΑΗΛ


Il culto al santo arcangelo è assai diffuso in Europa, e segnatamente a Cordova, in Spagna, ed è particolarmente vivo negli ordini dei Mercedari e dei Fatebenefratelli.
La Roma cristiana ha dedicato nel 1957 una chiesa a San Raffaele Arcangelo, nel quartiere del Trullo.
A proposito del culto degli Spiriti beati, bisogna rievocare il grande rispetto che gli antichi professavano verso i santi Angeli deputati da Dio alla custodia dei sepolcri dei fedeli. Nell’isola di Thera, l’odierna Santorini, nell’arcipelago delle Cicladi, troviamo un gran numero di tombe sulle quali sono menzionate questi Angeli. Ecco alcuni esempi di queste iscrizioni funerarie:


L’iscrizione di un’altra tomba si conclude così: νορκίζωμςτνδεφεστταγγελόν, μήτίςποτετολμνθάδετινκαταθέσθε, cioè Vi scongiuro per l’angelo che plana su questo luogo: che nessuno osi introdurvi un altro cadavere.

Raffaello Sanzio, Madonna con il pesce con i SS. Girolamo, Raffaele e Tobia, 1513-15, Museo del Prado, Madrid

Bernardo Strozzi, La cura di Tobia, 1620-25, museo del Prado, Madrid

 Bernardo Cavallino, La cura di Tobia, museo del Prado, Madrid

Giovanni Bilivert, L'angelo S. Raffaele rifiuta i doni di Tobiolo e Tobia, 1612, Palazzo Pitti, Firenze 

Francisco de Goya y Lucientes, Tobia e l’angelo S. Raffaele, 1787 circa, museo del Prado, Madrid

Eduardo Rosales Gallina, Tobia e l’angelo S. Raffaele, 1860 circa, museo del Prado, Madrid

William Adolph Bouguereau, Il giovane Tobia saluta il padre, accompagnato da S. Raffaele, 1860

Joaquin Agrasot, Cura di Tobia, 1861, Museo de Bellas Artes, Alicante

Card. De Paolis: "Un errore ascoltare più la gente della verità della fede"

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Su segnalazione, pubblico l'intervista al card. De Paolis de La Stampa.

* * * * * * *

“Un errore ascoltare più la gente della verità della fede”

Il cardinale De Paolis sul Sinodo: non si può ridiscutere tutto

di GIACOMO GALEAZZI

«Ho partecipato a vari Sinodi e il meccanismo non funziona bene. Stavolta poi c’era troppa carne al fuoco, si è partiti senza certezze, ma non si può mettere in discussione tutto, la Chiesa è custode di una verità di cui non può disporre». È critico verso l’utilità della «istituzione sinodale» il cardinale Velasio De Paolis, presidente emerito della Prefettura per gli Affari economici della Santa Sede e tra i firmatari del testo «Permanere nella verità di Cristo» contrario alle aperture della Chiesa sulla comunione ai divorziati risposati. «C’è stato un errore originario di impostazione».

Cosa non la convince nel Sinodo?
«Si sono registrate un’influenza eccessiva del timore che la gente non ci segua e un eccesso di enfasi sulla retorica della novità. Sui temi della famiglia servono il tempo e la riflessione. Non la fretta. Al Sinodo tutti vogliono intervenire, ma il tempo e l’ascolto sono limitati così come è insufficiente lo spazio concesso alla discussione nei circoli minori. Paolo VI fondò mezzo secolo fa il Sinodo come strumento agile di collaborazione al governo della Chiesa. Però il confronto deve riguardare temi studiati e approfonditi sui quali ciascun padre sinodale abbia un parere preciso».

Ci sono state resistenze al cambiamento?
«Questo Sinodo ha risentito di un’evidente originalità nell’impostazione. Si è rivelata errata la scelta di discutere un po’ di tutto, come se si dovesse rifondare tutto. La Chiesa ascolta la gente ma ha certezze che perseverano nel tempo. Il Sinodo ha ripetuto il dramma del Concilio: coniugare novità nella continuità».

Un’occasione mancata?
«È stato chiamato in causa un numero eccessivo di questioni che quindi hanno alimentato aspettative infondate. E alla fine ciò ha pesato negativamente sul Sinodo. Non può essere tutto nuovo. La vita della Chiesa necessita di continuità per progredire davvero. E’ una questione di fondo, filosofica. Francesco chiede di tornare a un Vangelo che però si è calato nel tempo in tante culture. Il punto fermo è la parola di Dio. Un tesoro che nessuno può cambiare, neppure il Papa».

La pastorale contrasta con la dottrina?
«Sperimentiamo una confusione difficile da tenere a bada. Si ascolta più la gente delle verità di fede. Ma la Chiesa deve comunicare una verità ricevuta dall’alto, non assecondare gli orientamenti dell’opinione pubblica. Al Sinodo si sono fatti troppi riferimenti alla pastorale. La prassi deve rispettare i principi: è inconcepibile che sia separata dalla dottrina. Fossi intervenuto in aula avrei ribadito le verità di fede».

Quali in particolare?

«Per esempio, chi convive non può fare la  comunione. Negli anni è diminuito il ruolo della religione e la società non accetta più influenze da parte della fede. Viviamo in un mondo che teme la religione come fonte di conflitti. La contrapposizione tra fede e ragione ci rende schizofrenici. Così oggi è lo Stato ad occuparsi di questioni etiche. Non si può attendersi che la Chiesa parli in contraddizione con la dottrina».

"Per me reges regnant et legum conditores iusta decernunt" (Prov. 8, 15) - Festa del regno messianico di nostro Signore Gesù Cristo

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Il messianismo è essenzialmente un regno universale e glorioso inaugurato dal Cristo per la gloria di Dio e la salvezza del mondo. Su questo punto non c’è alcuna oscurità nella sacra Scrittura, che, allorquando si mostra così laconina nel descrivere il carattere particolare del Servo di Jahvé spezzato dalle nostre iniquità, è al contrario prolissa nella descrizione delle glorie dell’impero di Colui la cui fronte è cinta da mille diademi e che, sul suo mantello regale, porta scritta la sua dignità, Rex regum et Dominus dominantium (Ap. 19, 16).


Il santo Sacrificio e l’Ufficio divino costituiscono il tributo solenne e quotidiano che la Chiesa rende al Cristo nella sua qualità di Pontefice e Re. Le feste liturgiche dell’Epifania, della Pasqua, dell’Ascensione hanno esse stesse per oggetto i misteri in cui il Cristo si presenta a noi in particolare sotto la forma di Re.
Nell’Epifania, in qualità di monarca, si fa cercare dai Magi venuti dal lontano Oriente e riceve le primizie dell’adorazione dei potenti della terra.
Nella Pasqua, piega sotto i suoi piedi tutti gli imperi che gli sono avversi, curvat imperia, ed inaugura il regno messianico trionfando della morte e del demonio. È in qualità di Re e di arbitro supremo dei destini del mondo che il Cristo, senza tener conto dell’autorità civile, invia i suoi Apostoli a predicare liberamente l’Evangelium Regninel mondo intero: Data est mihi omnis potestas in cælo et in terra. Ite ergo; docete omnes gentes, baptizantes eos.
Infine, al tempo della sua Ascensione, egli si asside definitivamente sul trono della divinità alla destra del Padre e del suo regno, che, come canta il simbolo della fede, non finirà mai, cujus regni non erit finis.
Malgrado le affermazioni così numerose e solenni della potenza regale del Cristo, contenute nella sacra Scrittura e nella divina liturgia, imperversa, da più di due secoli, nel mondo civilizzato, una funesta eresia chiamata liberismo dagli uni e laicismo dagli altri. Quest’errore è multiforme, ma consiste tutto sommato nel negare la supremazia di Dio e della Chiesa sulla società civile e sugli Stati, i quali, ufficialmente, si proclamano indipendenti da ogni altra autorità superiore: Ecclesia libera in libera patria; libera Chiesa in libero Stato. Questa celebre formula, erroneamente attribuita a Camillo Benso conte di Cavour, in realtà risale al "cattolico" liberale Charles Forbes René, conte de Montalembert, che fu amico e collaboratore di Lamennais (sebbene poi rompesse con questi) e fu ospite pure del Manzoni. Ancora oggi è possibile leggere questo motto inciso all’interno della cappella del suo castello di La-Roche-en-Breuil in un'iscrizione latina, composta da Théophile Foisset, che commemora la nascita dei liberali cattolici francesi riunitisi attorno a Mons. Félix Dupanloup, vescovo di Orléans, per una messa che segnò l'avvio di quell'esperienza (In hoc sacello, Felix, Aurelianensis episcopus, panem verbi tribuit et panem vitae christianae amicorum, pusillo gregi, qui pro Ecclesia libera in libera patria commilitare jamdudum soliti, annos vitae reliquos ibidem Deo et libertati devovendi pactum instaurare. Die Octobris XIII, A.D. M.DCCC.LXII.
Aderant Alfredus comes de Falloux, Theophilus Foisset, Augustinus Cochin, Carolus comes de Montalembert, absens quidem corpore praesens autem spiritu, Albertus princeps de Broglie). 

Pierre-Auguste Pichon, Charles Forbes René de Montalembert, XIX sec., castello di Versailles, Versailles

Mons. Félix Dupanloup, 1860-70, Bibliothèque nationale de France, Parigi

In seguito fu il conte di Cavour ad utilizzare quella formula in occasione di un suo intervento al parlamento del 27 marzo 1861, che portò alla proclamazione di Roma come capitale del regno d’Italia. In quel discorso, il capo del governo piemontese avanzò l’idea di indipendenza del neo-Stato da Dio e dalla Chiesa. Eppure la storia, che è maestra di vita, dovrebbe non far dimenticare che tale convincimento era persino giunto, in epoche storiche antiche, ma anche a noi più vicine, fino al punto di rivendicare persino delle prerogative divine per lo Stato, a cui dovrebbe essere sacrificato ogni altro diritto, individuale e familiare, come era un tempo per il dio Moloch. Lo Stato era ed è per costoro la suprema espressione dell’assoluto. Contro questa pretesa si sono schierati innumerevoli uomini di buona volontà, martiri e santi come furono, ad es., molti cristeros o i martiri di Barbastro (v. anche qui)  o il beato P. Miguel Pro (v. qui), che hanno versato il loro sangue per "Cristo Rey", inneggiando, mutuandone la melodia dal popolare "Noi vogliam Dio", Tú reinarás, il cui ritornello ripete "Reine Jesús por siempre/Reine su corazón,/en nuestra patria, en nuestro suelo/es de María, la nación".


Come in passato parecchie feste liturgiche nacquero dalla viva fede della Chiesa, in vista di confutare allora alcuni errori particolari molto in voga, così in epoca contemporanea, nello stesso secolo breve, la Sede Apostolica non ha creduto poter rendere più popolare la condanna della peste del laicismo che istituendo una festa solenne e specifica del regno messianico del Cristo, in protesta, ammenda onorevole e riparazione, di fronte alle usurpazioni della statolatria, che ha riunito in una vasta congiura, reges terræ et principes ... in unum, adversus Dominum et adversus Christum ejus
È in fondo quest’errore dei tempi moderni la concretizzazione dell’antico grido dei giudei dinanzi all’Ecce Homo nel pretorio di Pilato: Nolumus hunc regnare super nos(Lc. 19, 14). Essi preferirono al Regno di Cristo quello terreno e mondano di Cesare. E cosa fece Cesare meno di quarant’anni dopo? Cinse d’assedio la Città Santa e, con la sua ferocia e tracotanza, la rase al suolo, distrusse il Tempio, abolì materialmente l’antico culto giudaico, stese l’abominio della desolazione su quel luogo, calpestato dai pagani, uccise una parte dei suoi abitanti ed un’altra parte fu deportata in schiavitù o dispersa tra le nazioni.
Proprio a Pilato, un pagano, Gesù aveva chiarito come quello del governatore non fosse altro che un piccolo, transeunte potere ed il fatto che Egli, l’Eterno, si sia degnato di stargli di fronte tenendo una lezione sul valore ed il significato dell’autentica autorità prova che la regalità rivendicata da Nostro Signore, non trae i suoi diritti da questo mondo, regnum meum non est hinc, comprende tuttavia anche questo mondo, agisce sugli uomini, su individui e nazioni e ogni elemento della natura, poiché «tutto attraverso [il Verbo] è stato fatto e senza di Lui non è stato fatto nulla di ciò che è [creato]» (Gv. 1, 3). Gesù non viene a detronizzare i sovrani della terra né a contender loro i territori sui quali esercitano il loro potere. Viene a dare, al contrario, alla società umana, l’ultima e più perfetta ordinanza, decretando nel suo Vangelo le regole supreme del vero e del giusto che devono dirigere i governanti ed i sudditi nell’esercizio dei loro doveri reciproci. Dio è il fine soprannaturale dell’uomo. Ora è il compito proprio della società civile e di quelli che la presiedono collaborare con la Chiesa ed aiutarla nel campo proprio, beninteso, all’autorità civile, affinché la Chiesa stessa possa con più facilità e sicurezza compiere la sua divina missione di illuminare, di santificare e di governare le anime, stabilendo in esse il regno del Cristo.
Questa suprema autorità della Chiesa cattolica e del Pontefice romano sugli Stati e sui loro monarchi faceva parte, nel Medioevo, del diritto internazionale dei popoli cristiani, così che parecchie volte si vide dei Papi deporre dal loro trono dei re indegni delle loro funzioni, e sciogliere i loro sudditi dal giuramento di fedeltà un tempo prestato ad essi.
Questa è l’interpretazione costantemente supportata dalla tradizione, dai Padri e dai Dottori della Chiesa, che hanno sempre considerato come eretica ogni differente ermeneutica, come quella che si è, ahimè, oggi, imposta. San Giovanni Crisostomo, ad es., affermava:
«Forse che il regno di Cristo non è di questo mondo? Certo che lo è. “Come mai allora — tu obietterai — non è?”. Non perché egli non regni anche qui, ma perché regna anche in cielo, e il suo regno non è umano, ma molto più grande e splendido. Ma se è più grande, perché lui si è fatto arrestare da quello? Perché si è consegnato spontaneamente. Veramente non tace questa verità, ma che cosa dice? “Se fossi di questo mondo, i miei servi avrebbero certo combattuto, perché io non fossi consegnato”. Con queste parole mostra la debolezza dei regni terreni, in quanto hanno bisogno del sostegno dei servi; mentre il regno dei cieli basta a se stesso, e non ha bisogno di nessuno. Prendendo occasione di qui, gli eretici affermano che egli è estraneo al Creatore. Che significa allora, quando l’Evangelista dice: “è venuto nella sua casa” (Gv 1, 1), e quando egli stesso dichiara: “essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17, 14)? Cosi dice anche che il suo regno non è di questo mondo, non per privare il mondo della sua provvidenza e della sua alta sovranità, ma per far capire, come ho già osservato, che il suo regno non è umano né effimero» (San Giovanni Crisostomo, Homilia LXXXIII, § 4, in Id., Homiliæ in Joannem, in PG 59, col. 453B).
Sostenere il contrario significherebbe d’altronde dubitare dell’onestà del Salvatore, a cui «ogni potere [...] è stato dato in cielo ed in terra» (Mt28, 18).
Non si tratta, d’altronde, di confondere i due poteri, di sovrapporre in maniera caotica la sfera spirituale a quella temporale; ma da una opportuna distinzione non si deve, per assurdo, far seguire una completa scissione o rottura, tanto da mettere i rappresentanti di un’istituzione contro quelli dell’altra. Ogni separazione, in questo campo, porta all’aberrazione, la gravità della quale si può facilmente riscontrare nella società contemporanea. Del resto, la società civile sta a Dio ed alla religione come il corpo sta all’anima. Privando il corpo dell’anima, lo stesso è morto. Analogamente, privando la società e lo Stato di Dio e della religione, essi inevitabilmente sono destinati a morire, divenendo autentici corpi morti.



Molte date furono proposte all’inizio per questa festa dai liturgisti: la domenica nell’ottava dell’Epifania, dell’Ascensione, l’ottava del Sacro Cuore, ma è parso preferibile di non fondere questa festa con alcune altre già esistenti, per darle, al contrario, un carattere tutto particolare ed un posto speciale nel Messale. Finalmente si assegnò alla nuova solennità, come già ricordato da noi, la domenica che precede la festa di Ognissanti, per metterla in relazione con l’ufficio del 1° Novembre, con l’idea che informa questa celebrazione collettiva di tutti i santi nella quale veneriamo la Gerusalemme celeste e la nobile corte del Re di gloria. È ben giusto, quindi, che la liturgia, quasi al termine del suo ciclo delle domeniche dopo la Pentecoste, che esprimono i travagli e le lotte della vita del tempo, prima di dirigere i suoi sguardi verso i differenti cori che ornano l’ecclesia primitivorum e la città del cielo, presenti la sua adorazione a Colui che è la fine e la causa di una sì grande gloria ed a cui tutti i santi offrono la loro corona ed intonano il gioioso Alleluja.
Questa è la ragione profonda per la quale, nell’ufficio di Ognissanti, il primo responsorio del Mattutino ci mostra il trono dell’Onnipotente e lo strascico della sua veste, che riempie, in segno di santificazione, tutto il Tempio: Vidi Dominum sedentem super solium excelsum et elevatum ... et ea quæ sub ipso erant replebant templum.
Purtroppo quest’alto significato è stato mutato da Paolo VI, il quale, non potendo eliminare la festa introdotta da Pio XI, ha inteso “depotenziarla”, assegnandole, in sostanza, solo un significato puramente escatologico, portandola al termine dell’anno liturgico, alla sua ultima domenica. Si ha chiara percezione quest’impostazione di fondo, tra l’altro, laddove si esaminino le tre orazioni del messale di Paolo VI e le si confrontino con quelle anteriori. Nel messale del 1970, infatti, benché si riprendano i testi anteriori, nondimeno vi sono significativi cambiamenti nella colletta, in cui non si chiede più la «sottomissione delle genti al soavissimo impero» di Cristo Re, ma che «ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine». Il mutamento di significato è sostanziale e denota la volontà del legislatore liturgico post-conciliare di confinare l’impero di Cristo solo al tempo escatologico, escludendo la signoria di Gesù sul tempo, sulla storia e su tutti gli uomini e le società umane.
Ma per quanto possa agire l’uomo, il Cristo non può essere spodestato. Se non può regnare con il suo amore e la sua misericordia a causa dell’opposizione umana, Egli regnerà con la sua temibile giustizia. Il Divino Redentore stesso, d’altronde, l’assicurò alla sua eletta discepola, santa Margherita Maria Alacoque, la cui memoria liturgica è stata celebrata alcuni giorni fa. Ella, abbattuta dalle difficoltà e dalle diffidenze che la circondavano, ebbe questo consolante incoraggiamento da Gesù stesso: «Ne crains rien, je régnerai malgré mes ennemis et tous ceux qui s’y voudront opposer!». «Ce qui meconsolait beaucoup», aggiungeva la santa nella sua autobiografia, «puisque je ne désirais que de le voir régner. Je lui remis donc le soin [de] défendre sa cause et ce pendant que je souffrirais en silence» (Santa Margherita M. Alacoque, Autobiographie écrite par elle-même, § 95, in François Léon Gauthey, Vie et œuvres de la bienheureuse Marguerite-Marie Alacoque3, t. II, Paris 1915, p. 104. Cfr. anche Ibidem., t. I, pp. 218-219; Louis-Victor-Emile Bougaud, Histoire de labienheureuse Marguerite-Marie et des origines de la Dévotion ai Cœur de Jésus6, Paris 1882, p. 339). Il medesimo pensiero, la nostra Santa lo esprimerà più volte nelle sue lettere alle consorelle ed al Padre Jean Croiset, nonché nelle sue preghiere (cfr. Santa Margherita M. Alacoque, Lettre LXV, A la mère De Saumaise, à Dijon, 1687, in François Léon Gauthey, op. cit., p. 355; Id., Lettre LXXXVIII, A la mère De Saumaise, à Dijon, 6 juin 1688, ivi, p. 402; Id., Lettre XCVII, A la mère De Saumaise, à Dijon, Fin de février 1689, ivi, p. 426; Id., Lettre C, A la mère De Saumaise, à Dijon, Après la fête du sacré Cœur, juin 1689, ivi, p. 434; Id., Lettre CVI, A Sœur F. M. De La Barge, à Moulins, De notre monastère de Paray, ce 21 août 1689, ivi, p. 454; Id., Lettre CVI, A Sœur Jeanne-Madeleine Joly, à Dijon, 28 août 1689, ivi, p. 462; Id., Lettre CXI, A la mère De Saumaise, à Dijon, 3 novembre 1689, ivi, pp. 473-474; Id., Lettre CXVIII, A Sœur Jeanne-Madeleine Joly, à Dijon, 10 avril 1690, ivi, p. 484; Id., Lettre CXXXI, 2e Lettre Au R. P. Jean Croiset, Ce 10me août 1689, ivi, pp. 526 e 533; Id., Lettre CXXXII, Au R. P. Jean Croiset, Ce 15 septembre 1689, ivi, p. 544; Id., Lettre CXXXIX, Au R. P. Jean Croiset, Du 21 août 1690, ivi, p. 616; Id., Petit livret Tout dédié à rendre hommage au Sacré Cœur de Notre-Seigneur Jésus-Christ, cap. XXIX, Pacte avec le sacré Cœur de Jésus, ivi, p. 814).



La festa odierna, dunque, vuole ricordare ai fedeli l’idea del Cristo-pontefice e Re, che riconquista – mediante la Croce – e rende al Padre il regno della creazione, allontanatosi da Lui a causa del peccato, affinché Dio sia eternamente tutto in tutti. Per questo lo stendardo del Gran Re è la Croce: Dicite in nationibus: regnavit a ligno Deus; poiché il regno di Cristo è obbedienza, umiltà e sacrificio.
Ciò spiega la feroce opposizione, specie in questi ultimi anni, di coloro che, invocando un malinteso significato di laicità, non sopportano anche solo la vista di questo vessillo regale, chiedendo a più riprese che venga rimosso da ogni luogo pubblico, preferendo addirittura al suo posto che siano messe gigantografie di autorità umane, del Cesare di turno … .

Cristo Re, Santuario della Madonna di Jasna Gora, Czestochowa



Cristo in trono tra quattro angeli, Basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna

Quando si recita il "Credo"?

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Piccola pillola sulla liturgia V.O.:

QUANDO SI RECITA IL CREDO?*

di G. Kieffer

Il simbolo è recitato:

1. Ratione mysterii: a tutte le feste del Signore (Natale, Pentecoste, Trinità, Esaltazione della Croce, Preziosissimo Sangue, Sacratissimo Cuore, Trasfigurazione, il giorno della consacrazione della chiesa e dell’altare, l’anniversario della consacrazione della chiesa), a tutte le feste della Beata Vergine e di san Giuseppe, alla messa domenicale, anche della domenica anticipata con messa e ufficio riposti, e la vigilia dell’Epifania. La messa della domenica da riassumere ha il Credo solo se si tratta di una messa della domenica da riassumere fra un’ottava privilegiata della Chiesa universale [1].
2. Ratione doctrinae: a tutte le feste primarie e secondarie degli apostoli, evangelisti e dottori della Chiesa, che siano almeno doppie minori, alle feste degli angeli, di santa Maria Maddalena (apostola degli apostoli), infine alla festa di Ognissanti.
3. Ratione celebritatis: a tutte le feste doppie [2] dei patroni principali di una chiesa, di una diocesi, di un luogo oppure di un ordine (anche del riformatore dell’ordine) entro il loro rispettivo territorio [3]: vale a dire il titolare ha il Credo nella sua chiesa [4], il patrono del luogo in tutti gli oratori pubblici del luogo o della regione sotto il suo patrocinio; il patrono dell’ordine nelle chiese del rispettivo ordine, sia alla festa principale e fra la sua ottava, sia anche alle feste secondarie. Inoltre il Credo c’è a tutte le messe votive solenni, alle feste delle reliquie, cioè le feste primarie e secondarie di un santo, una reliquia insigne del quale si conserva nella chiesa, nel caso che tale festa sia almeno doppia.

N. B. - Quando il Messale prescrive il Credo per l’anniversario dell’elezione e della consacrazione del vescovo e del sommo pontefice, ciò è da intendere limitatamente alla messa votiva solenne.

4. Per accidens: a tutte le messe delle feste di rito doppio o semidoppio fra una ottava che come tale ha il Credo[5] anche quando non si commemora l’ottava e quando si deve commemorare un ufficio prevalente (per esempio la domenica) [6].
Se si celebrano due o più differenti messe cantate o conventuali, si ha la modifica di cui si è detto sopra (§ 42, III)[7].
Nelle messe votive private, nelle messe della feria, della vigilia comune come nelle messe di rito semplice (festa semplice, giorno ottavo semplice [8], messa votiva della festa fra l’ottava semplice, messa delle rogazioni, messa della domenica da riassumere) il Credo è sempre escluso, anche se ne avrebbe diritto una delle commemorazioni occorrenti [9].

N. B. - Da quanto sopra esposto seguono le regole ben note:
1. Muc non credit (per se), cioè i martiri, le vergini, le vedove, le vigilie, i confessori non hanno il Credo - quanto meno di per sé, perché possono averlo accidentalmente, cioè in ragione della solennità o dell’ottava.
2. Dap credit, cioè il Signore (Dominus), la Madonna (Domina), la dedicazione, la domenica, i dottori, gli angeli, gli apostoli, i patroni hanno il Credo.
__________________________
Legenda - Add. Additiones et variationes in rubricis Missalis ad normam bullae “Divino afflatu”. C. R. Collectio authentica decretorum Sacrae Rituum Congregationis, Romae, 5 voll., 2 app. Tit. Rubricae generales Missalis.

* Tit. 11; Add. 7.

[1] Add. VII, 3. Esempio: quando la messa della domenica fra l’ottava dell’Ascensione è riassunta il lunedì immediatamente successivo; non invece se il 13 gennaio cade di domenica e la messa della domenica fra l’ottava dell’Epifania è da riassumere solo il 19 gennaio.
[2] Dove quindi san Giovanni Battista è patrono, anche la festa della Decollazione ha il Credo; nell’ordine di san Francesco tutte le feste doppie del serafico Padre hanno il Credo, non solo la festa principale.
[3] C. R. 4192 ad 4; Add. VII, 3; se dunque san Giovanni Battista è titolare della cattedrale, alla sua festa e fra l’ottava il Credodeve essere recitato solo in cattedrale, non nelle altre chiese.
[4] C. R. n. 2189; 4281 ad 3.
[5] C. R. n. 4386 ad 3, dunque non fra l’ottava di san Giovanni Battista e nelle ottave semplici.
[6] Esempio: il 13 dicembre, il 16 agosto, quando il 24 giugno cade di domenica oppure vi è l’adorazione perpetua.
[7] Pertanto quando sabato 16 agosto oltre alla messa di san Gioacchino si canta la messa votiva solenne dell’Assunta, la prima è senza Credo, con prefazio comune, ecc. C. R. n. 4372 ad 10.
[8] C. R. n. 4348 ad 4.
[9] Esempio: alla messa delle rogazioni se vi è una sola messa, e quindi si deve fare la commemorazione di san Marco o della domenica, nella messa della feria il 7 marzo, in quella della vigilia il 7 dicembre.

(da G. KiefferRubrizistik oder Ritus des katholischen Gottesdienstes nach den Regeln der heiligen römischen Kirche, VIII ed., Paderborn, Schöningh, 1935, pp. 126-128, § 44. Traduzione italiana di Fabio Marino pubblicata in "Una Voce Notiziario", 51-53, 2013-2014, pp. 15-16, www.unavoceitalia.org)

III Pellegrinaggio del popolo "Summorum Pontificum" - 23-26 ottobre 2014

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Pontifical Mass in St Peter’s, Celebrated by Card. Burke

BY GREGORY DIPIPPO

Yesterday, His Eminence Raymond Cardinal Burke, Prefect of the Apostolic Segnatura, celebrated a Pontifical Mass in St Peter’s Basilica for those participating in the Populus Summorum Pontificum pilgrimage. The day began with Eucharistic Adoration at the Basilica of San Lorenzo in Damaso, followed by a long procession through the streets of Rome, which crossed the bridge at the Ponte Sant’ Angelo to reach the Vatican. The Mass was the Saturday Votive Mass of the Virgin Mary, and His Eminence preached on the Virgin Mary as a model of our lives as pilgrims in this world. Music was provided by a choir of almost 20 seminarians from the North American College, conducted by Mr Leon Griesbach, accompanied by Mr Garret Ahlers on the organ. I am very grateful to Mr François Nanceau for providing us with links to these photos. (I was unable to take any myself, since I was the 2nd MC!) You can access the complete set on googleplus by clicking here, and on facebook by clicking here. He has also posted photographs of the Vespers celebrated by Archbishop Guido Pozzo at Trinità dei Pellegrini (here and here), and the Mass celebrated there on Friday for the feast of St Raphael and the 10th anniversary of the International Juventutem Federation (here and here). All photographs copyright François Pierre-Louis for Coetus Internationalis Summorum Pontificum.

The procession

The procession on the Ponte Sant’Angelo

The altar prepared for Mass

Prayers before the altar

Introit

The Collect

The Epistle

The Gospel

The Homily

The Offertory



Post-Communion


"In omnem terram exívit sonus eórum: et in fines orbis terræ verba eórum" (Ps. 18, 5) - SS. SIMONIS ET JUDÆ APOSTOLORUM

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Secondo un’antica tradizione registrata nello pseudo-Abdia, questi due Apostoli, dopo d’aver insieme evangelizzato per tredici anni l’Armenia e la Persia, avrebbero incontrato il martirio il 1° luglio 47 nella città di Suanir (per la verità, non si sa bene a quale località oggi corrisponda la città di Suanir. C’è chi ipotizza che si tratti della città a nord de Il Cairo chiamata Sannur. Cfr. W. Milton Timmons, Everything about the Bible that you never had time to look up. A Condensed Guide to Biblical Literature, Xlibris Corporation, s.l., 2003, p. 497).
Alcuni martirologi occidentali celebrano infatti la loro festa in quel giorno.
Le Chiese d’Oriente festeggiano, invece, separatamente gli apostoli Simone e Giuda: commemorano, infatti, Simone lo Zelota il 10 maggio e Giuda Taddeo il 19 giugno.
Questi due Santi esulano un po’ dalle antiche recensioni dei Sacramentari Romani; se ne ritrova però la solennità nelle edizioni meno antiche, probabilmente dal X sec.. Due secoli dopo, cioè nel XII sec. la devozione verso questi gloriosi Apostoli doveva essere alquanto diffusa nella Città Eterna, dal momento che, come riferisce Benedetto Canonico, si riteneva che i loro corpi riposassero nella basilica Vaticana sotto due speciali altari, che perciò nelle solenni vigilie notturne ricevevano l’onore della turificazione: duo altaria in mediana ad Crucifixos, ubi ab antiquis patribus audivimus requiescere apostolos Simonem et Judam(Benedetto canonico, Ordo Romanus XI, in PL 78, col. 1029B). Secondo Pietro di Mallio, nella basilica vaticana vi si dedicava ai due Santi particolare cura ut a nostris maioribus accepimus, eorum corpora pretiosa requiescunt(Pietrodi Mallio, Descriptio basilicæ vaticanæ, 10, pubblicato a cura di R. Valentini - G. Zucchetti, Codice Topografico della Città di Roma, Coll. Fonti per la Storia d’Italia, vol. 3, Roma 1946, p. 413).
Quando venne riedificata la basilica vaticana, le Reliquie dei due Apostoli il 27 dicembre 1605 furono trasferite sotto un nuovo altare eretto in loro onore, e Paolo V concesse agli intervenuti l’indulgenza plenaria. Quell’altare, sul quale oggi si ammira una tela raffigurante la crocifissione di san Pietro, è importantissimo, perché corrisponde all’incirca al punto indicato dalla tradizione – inter duas metas– come quello dove fu eretta la croce del Principe degli Apostoli.
In Roma, v’era anche un’altra chiesuola, oggi sconsacrata sin dai primi del ‘900 ed adibita ad usi civili dopo aver demolito la parte superiore della facciata (oggi è un teatro), intitolata ai santi Simone e Giuda (un tempo denominata Santa Maria in Monticellis), e si trovava presso il monte Giordano, vicino al palazzo degli Orsini, nel rione Ponte, in fondo a vicolo San Simone (Cfr. M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 404-407; C. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 349-350).
Esiste poi oggi la piccola chiesa di san Giuda Taddeo nel quartiere Trieste, in via Rovereto, con annesso istituto delle suore carmelitane di Santa Teresa di Firenze. Questo tempio fu inaugurato il 2 agosto 1931. Sempre allo stesso Apostolo è dedicata una parrocchia moderna nel quartiere Appio Latino, denominata San Giuda ai Cessati Spiriti eretta nel maggio 1960. San Giuda Taddeo è, poi, particolarmente venerato nel Santuario di San Salvatore in Lauro, che è il Santuario della Madonna di Loreto a Roma, a pochi passi da Piazza Navona, dove vi si conserva un’insigne reliquia del corpo del Santo.
Una parrocchia è dedicata ai due Santi oggi venerati nel quartiere di Torre Angela (Santi Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela).
Oltre la gloria ed il merito dell’apostolato, comune a tutti e dodici i primi discepoli del Salvatore sui quali, come osserva san Tommaso, Dio riversò le primizie dello Spirito, Giuda, di cui oggi si celebra la festa, vanta ancora una prerogativa affatto particolare. Egli dalle Sacre Scritture è detto fratello di Giacomo primo vescovo di Gerusalemme, e cugino, secondo la carne, dunque, dello stesso Divin Salvatore.
Questi vincoli strettissimi di sangue con Cristo, gli valsero da lui un amore più intenso, quale è dovuto fra congiunti, e quindi dei carismi speciali; in grazia dei quali, nella primitiva chiesa Gerosolimitana i fratres Domini godevano un credito particolare; tanto che anche Paolo nella prima Epistola ai Corinti si appella alla loro autorità (1 Cor. 9, 5). Per l’onorabilità del Salvatore innanzi agli Ebrei, era del tutto conveniente che la sua immediata parentela fosse superiore ad ogni elogio.
Di san Giuda, che il canone Romano della Messa commemora giornalmente sotto il nome di Taddeo, noi abbiamo una breve lettera canonica contro la falsa gnosi allora incipiente. Essa, a cui sembra ispirarsi anche i capp. II e III della Secunda Petri, rappresenta un modello della predicazione Evangelica del Frater Domini, e la si legge perciò, oltre che nei Divini Uffici, anche nella messa di san Silverio papa il 20 giugno.
Si rileva dalla vita di san Bernardo, che avendo egli nell’anno stesso in cui morì ricevuto da Gerusalemme alcune Reliquie dell’apostolo san Giuda, ordinò che queste venissero deposte sul suo cadavere, perché con questo prezioso tesoro sul petto fosse rinchiuso nel sepolcro. Sappiamo da Gaufrido, biografo del Santo, che il voto fu esaudito: «Sed et pectori ejus ipso tumulo capsula superposita est, in qua beati Thaddæi apostoli reliquiæ continentur, quas eodem anno ab Jerosolyma sibi missas, suo jusserat corpori superponi: eo utique fidei et devotionis intuitu, ut eidem apostolo in die communis resurrectionis adhæreat» (Gaufrido di Chiaravalle (Gaufridus Clarævallensis), Sancti Bernardi vita et res gestæ, lib. 5, cap. 2, 15, in PL 185, 360D. Cfr. anche Alano di Auxerre, Vita secunda Sancti Bernardi Abbatis, cap. 31, 88, ivi, col. 524A). La notizia della sepoltura con la reliquia di san Giuda Taddeo era riportata anche nella cronaca del monastero in occasione della morte di san Bernardo nel 1153: «… Sepultus est ante altare beatissimæ Virginis matris; ipsoque in tumulo, pectori ejus superposita est capsula reliquias continens beati Thaddæi apostoli, quas eodem anno ab Jerosolyma sibi missas, suo jusserat corpori superponi» (Autori Vari, Diatriba De Illustri Genere S. Bernardi abbatis clarevallensis, Appendix, cap. XX, ivi, col. 1538B-C. Si parla ancora di ciò pure nella lunga lettera-trattato dell’archivista-bibliotecario di Dijon, corrispondente del ministero dell’istruzione pubblica, per conto dell’Académie Française, Ph. Guignard, Lettre à M. le Comte de Montalembert, Sur les reliques de S. Bernard et de S. Malachie, et sur le premier emplacement de Clairvaux, 5 mars 1855, cap. II, ivi, col. 1674A-B, in cui si riferisce che il santo abate fu interrato «devant l’autel de la bienheureuse Vierge Marie, dont il avait été le prêtre très-dévot. Suivant sa volonté, on plaça sur sa poitrine un petit reliquaire contenant quelques os de saint Thaddée; sa foi et sa dévotion lui faisant désirer d’être uni à cet apôtre au jour de la résurrection générale».
Più ignoto di san Giuda è invece l’apostolo Simone, che san Matteo chiama Cananeo, mentre san Luca senz’altro aggiunge: qui vocatur Zelotes (Lc 6, 15).
Egli quindi, prima d’esser chiamato da Cristo all’apostolato, era entrato nel partito nazionalista degli zeloti o zelanti, di quelli cioè che, intolleranti del giogo straniero, sognavano comunque una guerra d’indipendenza. Questa circostanza della precedente carriera di Simone non venne più dimenticata; così che, anche dopo gli rimase attaccato il nomignolo derivatogli dal suo antico partito degli Zeloti.
Oltre ai due Santi oggi ricordati dal Calendario romano, i cristiani rammentano anche l'evento, forse decisivo, che mutò la storia del decadente impero romano: vale a dire il celebre sogno di Costantino e vittoria del grande imperatore, contro le truppe di Massenzio, a Ponte Milvio-Saxa Rubra, avvenuta il 28 ottobre 312 (corrispondente, nel calendario gregoriano, al 10 novembre di quell'anno).


Antoon van Dyck, S. Giuda Taddeo, 1618-20, Kunsthistorisches Museum Gemäldegalerie, Vienna

Jusepe de Ribera, S. Giuda Taddeo, 1630-35, Museo del Prado, Madrid

Anonimo, S. Giuda Taddeo, 1635-65, museo del Prado, Madrid


Lorenzo Ottoni, S. Giuda Taddeo, Basilica di S. Giovanni in Laterano, Roma


Pieter Pauwel Rubens, S. Simone, 1611, Museo del Prado, Madrid

Jusepe de Ribera, S. Simone, 1630-35, Museo del Prado, Madrid

Jusepe de Ribera, S. Simone, 1630-35 circa, Museo del Prado, Madrid

Francesco Moratti, S. Simone, 1708-09, Basilica di San Giovanni in Laterano, Roma

Il 3° Pellegrinaggio "Summorum Pontificum" nel racconto dettagliato di chi vi ha partecipato

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Abbiamo già pubblicato - in inglese - ieri le impressioni di un partecipante al III Pellegrinaggio "Summorum Pontificum" pubblicandone alcune significative fotografie ed appuntando una serie di links sull'evento del 23-26 ottobre scorsi.
Ora, su segnalazione, volentieri pubblico - in lingua italiana - un resoconto dello stesso evento da parte di un altro pellegrino.

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Summorum Pontificum, un pellegrino racconta

di Daniele Nigro

Anche quest’anno si è svolto, nei giorni dal 23 al 26 ottobre, il pellegrinaggio del popolo “Summorum Pontificum” sulla tomba del Principe degli Apostoli, giunto ormai alla sua terza edizione.
Come di consueto, la celebrazione dei vespri solenni, presieduti da Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, presso la parrocchia personale della SS.ma Trinità dei Pellegrini in Roma, ha aperto il pellegrinaggio. Dopo l’indirizzo di saluto del presule, letto in varie lingue, e la comunicazione della concessione dell’indulgenza plenaria, per i partecipanti al pellegrinaggio, alle consuete condizioni, ha avuto inizio il sacro rito. I fedeli, accorsi numerosi, si sono alternati con il coro dei seminaristi dell’Istituto del Buon Pastore, nel canto dei salmi, dando vita ad uno spettacolo inusuale per le ordinarie realtà parrocchiali non più abituate alla recita comunitaria e solenne dell’ufficio divino. Il primo giorno si è concluso con un momento di convivialità presso i locali della parrocchia.
La mattina del giorno successivo, molti pellegrini si sono ritrovati presso la Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, davanti all’effige della Madonna del Parto, tanto cara ai romani, per la recita di un santo rosario per i nascituri. In particolare hanno affidato alla Madre di Dio e nostra, tutte quelle situazioni di difficoltà e sofferenza che le famiglie cristiane devono affrontare ai giorni d’oggi ed hanno raccomandato, alla celeste Avvocata, i bambini che non hanno avuto la gioia di nascere a causa dell’aborto. Mentre, nel pomeriggio, oltre cento persone, hanno seguito le orme del Signore sofferente, sull’esempio ed in compagnia di san Leonardo da Porto Maurizio, nella via crucis sul colle Palatino, terminata con il bacio della reliquia della Santa Croce nella chiesa di San Bonaventura.
La ricca e densa giornata ha avuto termine con la Santa Messa celebrata nella parrocchia della SS.ma Trinità dei Pellegrini, per 10° anniversario della federazione “Juventutem”. Il programma prevedeva la Messa pontificale del Cardinal George Pell, Prefetto della Segreteria per l’Economia della Santa Sede, da sempre vicino all’associazione di giovani; ma, il porporato, non potendo assolvere personalmente l’impegno preso, a causa di un improvviso malore, ha inviato il suo segretario particolare, don Mark Withoos, il quale ha celebrato una Santa Messa solenne. Alla presenza di una moltitudine di fedeli che, non trovando più posto a sedere, ha seguito l’intera funzione in piedi e di un gran numero di sacerdoti che assistevano in coro, don Mark ha letto l’omelia preparata dal Cardinal Pell ed incentrata sulla figura del Papa, rimarcando così lo spirito del pellegrinaggio “ad Petri sedem” e svoltosi sempre “cum Petro et sub Petro”. Egli ha ripercorso le varie fasi storiche ed a volte difficili del papato, raccomandando in conclusione di pregare molto per il Pontefice regnante, affinché possa assolvere degnamente il supremo ufficio affidatogli dal Signore, e, parafrasando una celebre ed antica preghiera, affinché il Supremo Datore di ogni bene “non tradat eum in animam inimicorum eius”. La partecipazione al sacro rito si è svolta in una atmosfera di grande silenzio e profonda orazione, intervallata sia dal corale canto dell’ordinario della Messa (Missa de Angelis) che dalle risposte alle monizioni del celebrante, ed è culminata nell’esplosione, ad una sola voce, del canto dell’antifona mariana Salve Regina che ha fatto vibrare i cuori dei presenti e, possiamo dirlo senza paura di esagerazioni, le fondamenta del sacro tempio. Alta è stata la presenza dei giovani alla celebrazione, arrivati per l’occasione da svariate parti del mondo. Al termine della Liturgia, i giovani di “Juventutem”, hanno offerto un piccolo rinfresco nel salone parrocchiale, per festeggiare l’anniversario del loro sodalizio.
La giornata di sabato ha rappresentato senza dubbio il momento più alto di tutto il pellegrinaggio. Al mattino, i fedeli sono accorsi numerosi presso la basilica di San Lorenzo in Damaso per l’adorazione eucaristica presieduta da don Marino Neri, Segretario della “Amicizia sacerdotale Summorum Pontificum” , con il servizio musicale curato dal coro dei fedeli della Basilique Notre-Dame di Friburgo. Dopo la benedizione eucaristica, pecore e pastori, per utilizzare una espressione molto in voga di questi tempi, si sono messi in cammino alla volta della Basilica di San Pietro, al seguito dell’effige di Cristo crocifisso, cantando l’inno Vexilla Regis. La lunga processione ha percorso alcune strade del centro storico della capitale della cristianità al canto delle litanie dei santi e di altri inni e canti della tradizione, poi ha imboccato ponte Sant’Angelo e attraverso via della Conciliazione è giunta in piazza San Pietro, per entrare in fine nella Basilica papale tra ali di gente che si faceva il segno della croce e si univa alla preghiera; altri invece guardavano con stupore, o con curiosità, oppure ancora con disprezzo.
Alle ore 12, dopo aver assunto i sacri paramenti in sagrestia, i ministri in processione si sono diretti verso l’altare della cattedra: dando così inizio alla Messa Pontificale celebrata da Sua Em.za Rev.ma il Signor Cardinale Raymond Leo Burke, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Alla presenza di oltre 1500 fedeli e 250 tra sacerdoti e religiosi, e del Cardinal William Levada, Prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Cardinale ha celebrato la Messa votiva della Madonna (Missa Sancta Maria in Sabbato, n.d.r.), sottolineando, nella splendida omelia, come la Vergine Maria sia un modello per tutti noi pellegrini sulla terra e raccomandando di unire aspirazioni, affetti e sofferenze, attraverso il cuore immacolato di Maria, al cuore sacratissimo di Gesù. La folla di pellegrini, formata da famiglie numerose con bambini, giovani, uomini e donne di tutte le età, ha devotamente e profondamente partecipato alla celebrazione cantando e pregando. Il servizio liturgico è stato curato dalla Fraternità Sacerdotale San Pietro, dall’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote e dai giovani della parrocchia della SS.ma Trinità dei Pellegrini; mentre il servizio musicale è stato curato da oltre venti seminaristi del North American College sotto la guida del maestro Leon Griesbach, accompagnati all’organo dal maestro Garret Ahlers.
Mons. Pozzo ha dato lettura, prima dell’omelia, del messaggio del Papa emerito Benedetto XVI al delegato del Coetus Internationalis Summorum Pontificum, che ha organizzato il pellegrinaggio, dott. Giuseppe Capoccia, nel quale lo stesso si dichiarava «molto felice che l’Usus antiquus vive adesso in una piena pace della Chiesa, anche presso i giovani, appoggiato e celebrato da grandi cardinali», assicurando sempre la sua vicinanza spirituale; ed il messaggio del Segretario di Stato di Sua Santità Cardinal Pietro Parolin, il quale in nome del Sommo Pontefice, auspicava il conseguimento di abbondanti frutti spirituali e impartiva la benedizione.
Dopo la Messa, all’uscita della Basilica, il Cardinal Burke è stato accolto da un caloroso e spontaneo applauso di molti giovani e famiglie che lo hanno immediatamente circondato per salutarlo e dimostargli la loro vicinanza ed il loro affetto. Egli ha salutato e benedetto tutti amabilmente, accarezzando i bambini e scambiando qualche parola con i pellegrini, e solo a fatica è riuscito a riprendere il suo cammino, accompagnato dal segretario.
Il pellegrinaggio si è concluso domenica 26, solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re, con due appuntamenti carichi di significato: una Messa solenne celebrata dal Padre priore Cassian Folsom O.S.B. presso il monastero benedettino di Norcia, e con una Messa Pontificale celebrata da Sua Ecc.za Rev.ma Mons. François Bacqué, nunzio apostolico, presso la parrocchia della Santissima Trinità dei Pellegrini.
I pellegrini che si sono recati a Norcia hanno potuto assaporare la profonda spiritualità monastica, assistendo ad una celebrazione austera e lasciandosi trasportare dalla potenza mistica del canto gregoriano, che eleva il cuore e la mente a Dio; ed hanno potuto ascoltare, inoltre, l’omelia del Cardinal Walter Brandmuller che ha spiegato il vero significato della regalità di Cristo e del suo Regno, soffermandosi soprattutto sulle parole del præfatio«regno di verità e di vita; regno di santità e di grazia; regno di giustizia, amore e pace».

Tante sono state le sensazioni e le emozioni vissute in questi giorni di grazia, raccoglimento e fraternità, ma penso che l’immagine che possa racchiuderli tutti sia quella del piccolo e biondo chierichetto in talare rossa che, con sguardo limpido e trasognato, incedeva gioioso nell’immensa e maestosa Basilica di San Pietro, davanti alla solenne processione del clero, perché fa ritornare alla mente le parole di ammonimento che Gesù rivolse ai suoi discepoli: «se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18, 3-4). Esse richiamano inoltre l’atteggiamento da tenere davanti al grande mistero che si fa presente nella Sacra Liturgia: quello dello stupore, nei confronti di quanto l’Onnipotente opera attraverso delle misere creature, la transustanziazione; della purezza, che sola permette l’intima unione con Colui che è l’Agnello senza macchia; dell’umiltà, che, allontanando la tentazione sempre viva di disobbedire alla Parola del Creatore, ci permette di raggiungere e farci possedere dalla Verità. Allora, e solo allora, saremo veramente capaci di far agire in noi la potenza della grazia di Dio, che sola ci può infondere la forza per affrontare le fatiche e le sofferenze di ogni giorno e ci può far giungere, dopo la strada stretta, a cantare le lodi del Salvatore nella Liturgia del Cielo.

Surprise! No Vatican III!

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Surprise! No Vatican III!


The recent session of the Synod on the Family has been likened not a few times by commentators as an attempt at a mini-Vatican III.  And this appellation has some validity, for the past year or more has seen the re-appearance of such personages as Hans Küng (albeit not in vigorous form),  Gustavo Gutierrez, and, at least in spirit, Karl Rahner, and, in the flesh,  the indefagitable Cardinal Kasper, all examples of those who seemed to be disappointed that Vatican III did not follow closely after Vatican II to accomplish unfinished business: to get the Church firmly on the same tracks as the choo-choo train of post-Enlightenment, modern, and post-modern secularism, whose fuel is anti-dogmatism and radical individualism.
It would seem that Kasper and his cohorts—and Kasper certainly believed that the Pope supported them—thought that while there might have been some bumps in the road, what they wanted in terms of changing pastoral practice with respect to divorced and remarried Catholics and with respect to civil unions and gay unions would in the end win over the day.  On what did they base their optimism?  Perhaps their cockeyed optimism was based to some extent on their belief that they had Pope Francis behind them. But even if this were not true, they were banking on the tactics used at the Second Vatican Council where the major fruits of that Council were brought about by the cleverness of the “stage-managers”, those in charge of procedural matters, who gleefully spoke about their accomplishments after the Council.  And once those fruits had been incorporated into official documents with built-in ambiguity, they were disseminated through a press that at that time—like the press of every time—rejoices in the thought that the Catholic Church has seen the light of the modern liberal world.  Those of us who are of a certain age remember the series of articles in the New Yorker during Vatican II that were written by a priest who signed himself as Xavier Rynne, a classy pseudonym for a Redemptorist priest who carefully filtered what was going on at the Council through his own lens, a lens that would refract the facts in a way he knew would please the readership of that sophisticated and worldly periodical.  He is credited with first using the terms “conservative” and ”liberal” to define those opposing forces in the Church that were evident in the debates.  That is not a good legacy to leave behind.
So it seemed evident to Kasper et al. that they could do the same sort of thing with the Synod.  They had the stage-managers, but they turned out not to be as zealous and crafty as those at what Cardinal Marx called “the Council”.  But there are three important differences between the Church and the world of 1968 and that of 2014, that they did not take into account, and they did not do so because of their severe myopia that shuts out reality, even within the Church.
The first differentiating factor is that most of the bishops and Cardinals present at the Synod  were the offspring of St. John Paul II.  They were molded in the image of the Polish Pope who was determined to return, after the post-conciliar confusion, to doctrinal continuity and to clear teaching, at least on the part of the Papacy, within the Church, a task that was co-shouldered by his Prefect for the Congregation for the Doctrine of Faith, Joseph Ratzinger.  The stage-managers and Kasper himself, through their peculiar vision of reality, assumed that the bishops were all chafing under the stern hands of John Paul II and Benedict XVI and were just waiting for an opportunity to show their true Council Colors and finish what Vatican II had started. But in many cases, perhaps even most cases, that was obviously not true. Many of these men really believe in the teaching of the Church as embodied in her Tradition. And they pushed back, and hard. But, as has been correctly pointed out by a number of commentators on the Synod, there remains the depressing fact that over 50 percent of the bishops did not stand up to the attempt to change Church teaching by the pastoral back door.
The second factor that the managers failed to take account of is the ubiquitous presence today of the Internet. Gone are the days when secrecy could be strictly imposed by edict, when information could be meted out in carefully controlled dribbles, when one had to wait for days or even weeks to find out what is going on.  We certainly know that the Internet is used all too often negatively for reprehensible purposes.  But it is also the source of instantaneous information and seemingly endless debate about every issue under the sun.  We did not have to wait for the next issue of the New Yorker to let sophisticated men and women know, even Catholics, what is really going on at Councils and Synods.  The Internet is also making the Vatican Press Office more and more irrelevant except as where one hears the particular spin that those in charge want to put on a piece of information.
The other differentiating factor is less obvious to many Catholics, for most Catholics live in a post-conciliar world that assumes that whatever happened in the years after “the Council”, including and especially the liturgical life of the Church, must be the will of God, an attitude engendered by the ever-encroaching growth of hyper-papalism that exceeds even the Ultramontanist dreams of Cardinal Manning in the 19th century, and by the long standing tradition of a non-thinking laity.  This second factor is that most young priests and most young men who are in seminary today, and most young women and men who are in the Religious Orders that are growing, want to know and love the Tradition ever more deeply.  They are quite different from the priests who were ready to adopt every (non-Council-mandated) liturgical change of the post-conciliar era.  They would never tear down reredoses and high altars. They would never rip out communion rails.  They long for something to sing at Mass that is not some sappy retread of 1970s sacro-pop.  And—this is the heart of the matter—so many of them have discovered the Traditional Roman Rite of Mass, a.k.a. the Extraordinary Form.  Bugnini says somewhere that to complete the liturgical revolution the Traditional Mass had to be blotted out for two whole generations.  That did not happen, thanks to Benedict XVI.
The rediscovery of Catholic Tradition by young priests and by young men and women as a whole especially by means of the Traditional Mass and by the beauty in art, architecture and music that it gave birth to has gone nearly unnoticed by not only those of Kasper’s generation and their contemporary stage-managers but also by the great majority of ordinary Catholics, who have been kept in a time bubble for the past fifty years.   But it is real, and it is there, and this despite opposition from bishops who are willfully blind to the power of the Traditional Mass and its necessary role in the New Evangelization of the Church and of the world.  This is not, as detractors would have us believe, mere aestheticism or romanticism or conservatism.  For a love for the Tradition always gets down to the bed-rock of doctrine, praxis and faith, gets down to a real love for the person of Jesus Christ that then enables the person, priest or lay, to practice his faith with love and mercy towards his neighbor.
Cardinal Burke celebrated a Pontifical Solemn Mass in the Traditional Latin Rite in St. Peter’s just last week on October 25 as part of the Summorum Pontificum Pilgrimage.  There are photos of the Mass on many sites on the Internet.  I suggest that everyone look at those photos.  You will see so many young priests and seminarians present, some serving the Mass.  The choir that sang the chant for the Mass was made up of seminarians from the North American College, which is quasi-amazing.  These priests and seminarians have found a pearl of great price and, with the help of God, they will give all that they have to make that pearl their own in their ministry in the Catholic Church.

***

The Traditional Mass cannot be stage-managed.  This is the heart of the opposition to it among bishops, especially in Europe.  It is Tradition itself that manages the Mass of the Ages, and whoever celebrates this Mass, Cardinal, bishop or priest, must submit himself to the Mass, must submit himself to the Sacrifice that he is offering, and in that submission realizes his ministry as a priest of God.

Fr. Richard G. Cipolla, DPhil


L’ecumenismo secondo il Cardinale Martini

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Rilancio un interessante contributo del domenicano P. Cavalcoli sull’ideologia ecumenista del defunto card. Martini.

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L’ecumenismo secondo il Cardinale Martini

di Giovanni Cavalcoli

Uno degli equivoci più gravi e diffusi che oggi affliggono la Chiesa è un certo concetto dell’ecumenismo, che si vorrebbe far risalire al Concilio Vaticano II, ma che in realtà ne è una falsificazione relativista e indifferentista.
Esso suppone la negazione del primato del cattolicesimo sulle altre confessioni cristiane, secondo quanto era già stato definito dal Concilio di Firenze del 1442 (Denz. 1351), per cui l’ecumenismo si esaurirebbe in un’amichevole reciprocità tra le varie confessioni cristiane su di un piede di parità, senz’alcun obbligo dei
non cattolici di entrare nella Chiesa cattolica ai fini della salvezza.
Dunque, quel cattolico che volesse persuadere un protestante o un ortodosso a farsi cattolico, assomiglierebbe a un francescano che volesse persuadere tutti i domenicani a farsi francescani. Un francescano del genere sarebbe come chi pensasse che essere francescano o domenicano non fossero semplicemente due modi diversi ugualmente legittimi di essere cattolico, ma come se il cattolico veramente completo e totalmente genuino fosse solo il francescano, mentre il domenicano fosse un cattolico incompleto o fuori strada, bisognoso di correzione o d’integrazione.
Ma una siffatta idea del rapporto tra i cattolici e i non-cattolici, almeno per quanto riguarda il protestantesimo, e si può immaginare che valga anche per l’ortodossia e per ogni altra formazione non-cattolica, è già stata esclusa dal Beato Pio IX nel Sillabo, quando il Pontefice condanna la seguente proposizione: “Il protestantesimo non è altro che una diversa forma della medesima vera religione cristiana, nella quale forma è dato di piacere a Dio come nella Chiesa cattolica” (D. 2918). Così pure Pio IX condanna sempre nel Sillabo sia il liberalismo che l’indifferentismo. Per quanto riguarda il primo:“C’è libertà per ognuno di abbracciare e professare quella religione, che egli, condotto dal lume della ragione, giudica essere vera” (D. 2915) e il secondo: “Gli uomini possono trovare la via dell’eterna salvezza e la stessa eterna salvezza nel culto di qualunque religione” (D.  2916).
In nome della diversità e del pluralismo, ogni confessione cristiana, compresa la cattolica, avrebbe un valore relativo all’insieme del cristianesimo, ossia alla collezione di tutte le confessioni cristiane (relativismo) e quindi un valore solo particolare all’interno della più ampia Chiesa di Cristo, la quale comprenderebbe parimenti non solo i cattolici, ma anche le altre confessioni non cattoliche. 
Per salvarsi, quindi, non farebbe alcuna differenza (indifferentismo) appartenere a questa o a quella confessione, perché tutte, benché diverse tra di loro, hanno lo stesso valore e tutte sono vie sufficienti di salvezza: basta che uno faccia liberamente e con convinzione la propria scelta e vi resti  fedele (liberalismo). Non c’è nessun obbligo di scegliere il cattolicesimo, ma ognuno è libero di scegliere la religione che preferisce, come in un supermercato ognuno può scegliere i prodotti che preferisce. È quella che oggi alcuni chiamano la “religione-fai-da-te”.
L’individuo, da solo o in gruppo (sètta) mette assieme, magari in seguito ad esperienze di autoesaltazione (carismatismo) elementi di varie religioni a suo arbitrio e si costruisce una religione per conto proprio (sincretismo). Da qui sorge la molteplicità delle sètte, che in fin dei conti nascono proprio dalle formazioni classiche uscite dalla Chiesa cattolica come loro atteggiamenti estremistici facilmente squilibrati anche dal punto di vista psicologico.
Detto tra parentesi, ci sarebbe qui anche la cosiddetta “libertà religiosa”, concetto anche questo sostenuto dal Concilio nella Dichiarazione Dignitatis humanae, ma anche in questo caso si ha uno stravolgimento di quanto il Concilio intende dire. In realtà l’idea liberale, che qui è in gioco, di libertà religiosa, è ben diversa dall’idea cattolica sostenuta dal Concilio, anche se l’espressione verbale è la stessa. 
Infatti, mentre nel caso del liberalismo, già condannato a suo tempo dal Beato Pio IX, non si ammette, in materia religiosa, una verità universale e oggettiva e quindi vincolante per tutti (soggettivismo), questa invece è affermata dalla fede cattolica e ancor prima dalla sana ragione naturale (oggettivismo), per cui la coscienza soggettiva è legittima regola di condotta solo nel caso dell’errore in buona fede e non come regola assoluta della verità.
Ciò vuol dire, in altre parole, che per la sana ragione e quindi per la fede la coscienza del soggetto deve regolarsi sulla verità oggettiva, ma capita che se senza volere non ci riesca, in tal caso ma solo in tal caso la coscienza soggettiva, benché errata, può essere regola per l’agire morale del soggetto e quindi per la scelta di una religione, anche se non è quella cattolica.
Occorre d’altra parte osservare che il modo stesso col quale si sono formate le Chiese e le comunità dei fratelli separati è ben diverso dal modo col quale sono nate nel corso di secoli all’interno della Chiesa le diverse famiglie religiose, come per esempio quelle dei domenicani e dei francescani. Mentre infatti le prime, come nota il documento conciliare, “si sono staccate dalla piena comunione della Chiesa cattolica” (n.3), gli istituti religiosi cattolici sorgono sì a volte da un’ansia riformatrice e da una certa critica alla Chiesa ufficiale, ma sempre dal seno della Chiesa, restando nel seno della Chiesa, alla quale vogliono servire, consapevoli che Cristo ci è dato dalla Chiesa cattolica e senza pretese arroganti di costruire una Chiesa migliore più conforme alla volontà di Cristo, ma anzi con la volontà di realizzare con lei una comunione più profonda.
Mentre infatti il Concilio a proposito dell’origine storica delle formazioni non-cattoliche (non degli attuali fratelli separati) parla di “peccato della separazione”, è chiaro che il sorgere di nuove famiglie religiose all’interno della Chiesa è sempre stato da lei approvato e lodato e se un istituto si allontana dalla sua originaria ispirazione cattolica, la Chiesa si sforza di ricondurlo con opportune riforme alla sua natura originaria. E se sul momento non vi riesce, non si rassegna a tale situazione anomala e neppure la legalizza, magari con la scusa dell’ecumenismo, ma va in cerca della pecorella smarrita, e si adopera maternamente per ricondurla a sé come sta avvenendo per esempio con la Fraternità S. Pio X di Mons. Lefèbvre.
C’è da notare inoltre che il documento conciliare presenta la divisione tra i cristiani non come se la Chiesa, al sorgere di quelle formazioni scismatiche o ereticali, si sia per così dire disintegrata e abbia perduto la sua unità come un vaso che va in frantumi. Chi intendesse le cose in questo senso, sarebbe completante fuori strada. Un conto sono infatti i contrasti fra i singoli cristiani, dove può esserci torto e peccato contro l’unità da ambo le parti e un conto è il rapporto fra Chiesa cattolica a e formazioni cristiane anticattoliche. Chi infrange la carità o spezza l’unità dei cristiani sono quei contrasti, mentre la Chiesa cattolica mantiene la propria unità. Il Concilio in un’infinità di luoghi ribadisce la tradizionale dottrina secondo la quale il sorgere delle eresie e degli scismi non ha affatto compromesso la sostanziale ed indefettibile unità della Chiesa, che, come sappiamo bene, è una delle sue note essenziali.
D’altra parte bisogna distinguere l’unità della carità dall’unità della fede. Nella Chiesa può a volte mancare la carità reciproca, ma questo non implica necessariamente la corruzione della fede. Il guaio serio è invece quando vien meno l’unità della fede attorno al Vicario di Cristo. È a questo punto che il singolo o il gruppo eretico si separa dalla Chiesa, anche se magari continua a restarci solo esteriormente, ma la Chiesa in se stessa conserva sempre l’unità della fede. 
Per questo l’ecumenismo non chiede affatto di ricomporre l’unità della Chiesa, perché essa esiste già infallibilmente garantita dallo Spirito Santo, e quindi non verrà mai meno; e neppure si tratta di legittimare le divisioni scambiandole per “diversità”, come fossero quasi un valore, secondo la mentalità liberale, relativistica e indifferentistica, che abbiamo visto e secondo una falsa concezione della diversità nel modo di essere cristiani. 
L’ecumenismo non è la riconciliazione tra le dottrine, ossia tra il dogma e l’eresia, ché questo non ha senso, ma, fra i cristiani; e questa è ben altra cosa e preziosissima, un affare di grande carità, giustizia e reciproca comprensione. Qui sta il gran pregio, la provvidenziale novità, l’invitta speranza, la benedizione celeste dell’ecumenismo, del vero ecumenismo, non della sua contraffazione modernista: ritrovare i valori comuni che sono rimasti dopo i drammi delle divisioni e su quella base deve attuarsi l’opera dei cattolici per condurre i fratelli alla piena comunione con Roma. L’ecumenismo, dice sempre il documento, tende appunto al “superamento” di questi “impedimenti che si oppongono alla piena comunione ecclesiastica” (ibid.).
Dovere quindi dei fratelli separati non è quello di ostinarsi orgogliosamente nei loro errori, quasi fossero l’ultimo ritrovato della scienza biblica o teologica più avanzata, ma di porsi in umile atteggiamento di ascolto e di accoglienza della pienezza della verità. Un ecumenismo dove i fratelli separati, gonfi di se stessi, fanno da padroni e da maestri e i cattolici raccolgono le briciole che cadono dal tavolo dei padroni, soffrendo di un complesso di inferiorità e crogiolandosi in esso col credere di essere “progressisti”, è una tragica buffonata escogitata dal demonio.
Si noti bene il linguaggio del Concilio: esso non parla di frantumazione della Chiesa, ma di formazioni che si sono staccate dalla Chiesa. L’immagine dunque non è quella di un organismo che si decompone o entri conflitto con se stesso, ma è l’immagine evangelica della vite, dalla quale si staccano dei tralci. Qual è quel vignaiolo, il quale, per rispettare un tralcio o un ramo semistaccato nella sua diversità dalla vite, invece di sforzarsi di reinserirlo, se gli è possibile, nella vite, lo lascia per conto suo come segno del pluralismo delle forme vitali della sua vigna?
Ora, proprio il Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II, nella linea dei suddetti insegnamenti di Pio IX e del Concilio di Firenze, ricorda che “le comunità separate hanno delle carenze” (n.3) e che “la pienezza della grazia e della verità è stata affidata alla Chiesa cattolica” (ibid.). “I fratelli da noi separati … non godono di quella unità, che Gesù Cristo ha voluto elargire a tutti quelli che ha rigenerato e vivificato… Infatti, solo per mezzo della Chiesa cattolica di Cristo, che è lo strumento generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà al solo collegio apostolico con a capo Pietro crediamo che il Signore ha affidato tutti i beni della nuova Alleanza, per costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo appartengono al popolo di Dio” (ibid.).
Se dunque le cose stanno così, appare evidente la conseguenza pratica che il cattolico deve trarre, per quanto sta in lui e con l’aiuto dello Spirito Santo: adoperarsi continuamente e in ogni occasione favorevole, opportune et importune, con ogni diligenza, costanza e prudenza a che i fratelli separati, la cui Chiesa o comunità non possiede la pienezza della verità e della grazia, ma al contrario, è soggetta a carenze, possa eliminare queste carenze, aggiungere ciò che manca, togliere ciò che è spurio, correggere ciò che è errato, per poter giungere a quella pienezza di grazia e di verità che solo la Chiesa cattolica possiede. 
Con ciò il Concilio non fa che ricongiungersi con la tradizionale opera che tanti Santi cattolici, pensiamo per i secoli passati come un S. Domenico, un S. Ignazio di Loyola, un S. Pietro Canisio, un S. Giovanni di Colonia, un S. Francesco di Sales, un S. Giosafat o un Beato Marco d’Aviano, si sono adoperati, con grande zelo e coraggio, alcuni sino al martirio, per condurre o ricondurre a Roma i fratelli dissidenti o anche gli stessi eretici.
Ora, se tutto ciò è il vero ecumenismo, così come risulta dal documento del Concilio appena esaminato, si rimane amareggiati nel constatare come purtroppo questi saggi insegnamenti siano spesso disattesi. Si è passati da un atteggiamento di esagerata e sbrigativa condanna, precedente al Concilio, all’attuale clima di equivoci, cedimenti e inganni, nel quale gli errori dei non-cattolici sono taciuti; e magari ci si fermasse anche solo a ciò. Il fatto è che tali errori a volte sono esaltati quasi fossero le ultime conquiste della teologia e dell’esegesi biblica, con la conseguenza che invece di essere gli acattolici ad avvicinarsi a Roma, sono i cattolici che cadono nella rete, perdono la fede cattolica, pur mantenendo l’etichetta di cattolici e conservando posti d’insegnamento anche accademico
E purtroppo questa falsa visione dell’ecumenismo si incontra a volte anche in certi prelati, come per esempio fu nel Card. Carlo Maria Martini, il quale sostiene  che la nuova evangelizzazione promossa dal Beato Giovanni Paolo II “non è una ricattolicizzazione, nel senso temuto da protestanti e ortodossi in Europa. Recentemente ho partecipato all’assemblea degli ortodossi e dei protestanti europei, che si è tenuta a Praga, e ho sentito espresso fortemente il timore che la chiesa cattolica voglia una ricattolicizzazione, oscurando e quindi in qualche modo contrastando la loro opera e la loro presenza in Europa” (Intervento alla tavola rotonda del XIV convegno europeo promosso a Varese nel 1992 dalla Fondazione Paolo VI, in Sogno un’Europa dello Spirito, Ed. Piemme 1999, p.235).
Possiamo osservare che effettivamente la nuova evangelizzazione può e deve essere intesa, per certi aspetti, opera comune con i fratelli separati; ma se il Concilio insegna a chiare lettere che essi mancano di alcuni aspetti essenziali alla verità cristiana – per esempio il primato del Sommo Pontefice o il concetto di Chiesa o i dogmi mariani o l’indissolubilità del matrimonio –, come la nuova evangelizzazione non dovrà anche trovare il modo di condurre quei fratelli ad una piena accettazione del Vangelo e quindi ad una piena comunione con la Chiesa cattolica?
Se questi fratelli temono che noi cattolici ci proponiamo di convincerli ad accogliere i dogmi che in loro sono assenti o negati, con la conseguente piena obbedienza a Roma, quale dovrà essere l’atteggiamento giusto di noi cattolici? Dobbiamo rassegnarci supinamente e per rispetto umano e forse anche una punta di relativismo o scetticismo a questo loro vano timore o non sarà meglio forse far loro capire, con ogni mezzo e non senza pregare il Signore, che quel timore è assolutamente irragionevole e che non hanno nulla da perdere ma tutto da guadagnare a entrare in comunione con Roma?
Il fatto che si tratti di formazioni cristiane ormai con secoli di storia alle spalle, con loro tradizioni e istituzioni, magari solide e venerande, una loro teologia, a volte eccellente, una loro vita morale elevata, un’organizzazione ecclesiale o comunitaria magari sapiente ed efficace e una ricca e svariata spiritualità, non ci deve intimidire al punto da provocare in noi una specie di blocco psicologico o un inopportuno senso reverenziale, che paralizzi ogni iniziativa tesa a portare loro ulteriori luce, iniziativa, incitamento, sostegno, forza e conforto nell’acquisizione e nell’esperienza del Vangelo. 
È ovvio che è nostro sacro dovere, come dice il Concilio, riconoscere tutti gli elementi di verità e di santificazione che sono in essi presenti, ma ciò non impedisce, anzi implica la ferma volontà, con l’aiuto del Signore di adoperarci con generosità, carità, fermezza e prudenza, affinché quando Dio vorrà, essi gradualmente, fiduciosamente, liberamente e gioiosamente vogliano lasciarsi accogliere dall’abbraccio materno e universale della Chiesa cattolica, dove soltanto c’è la pienezza della verità e della grazia, nonché  la via completa della salvezza.

III PELLEGRINAGGIO INTERNAZIONALE DEL POPULUS SUMMORUM PONTIFICUM: le riflessioni del CNSP

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Ad una settimana dalla conclusione del III Pellegrinaggio “Summorum Pontificum”, ecco le riflessioni del CNSP:

III PELLEGRINAGGIO INTERNAZIONALE DEL POPULUS SUMMORUM PONTIFICUM: le riflessioni del CNSP


Tentare il bilancio di un’esperienza spirituale così intensa come il Pellegrinaggio del Populus Summorum Pontificumè un’impresa ardita. Le grazie e le benedizioni che il Signore ci elargisce per l’intercessione di Maria Santissima e dei suoi Santi, come San Filippo Neri (patrono del pellegrinaggio), non si misurano in termini numerici, in base ai fedeli presenti, alla lunghezza delle processioni, alla potenza dei canti. Ma quando un pellegrinaggio è segnato da una partecipazione così viva ed attiva di pellegrini provenienti davvero da tutta la cattolicità, è difficile sottrarsi alla tentazione di far leva anche sul successo esteriore; e se poi si è avuta la ventura di concorrere all’organizzazione, come ha potuto fare il CNSP, si rischia di compiacersi con se stessi di un risultato che è solo un dono della Provvidenza.
In rete sono già apparsi diversi commenti, e i vari eventi sono stati illustrati, spesso in tempo reale, con l’ausilio delle immagini, da chi ha avuto la grazia di parteciparvi: per cui è forse superfluo ripetere che tutti gli appuntamenti, a Roma e a Norcia, hanno visto una corale e massiccia presenza dei fedeli. Non basta mai, invece, ricordare con commozione la sincera pietà, il fervore e il profondo coinvolgimento spirituale con cui tutti hanno partecipato, davvero attivamente, alle celebrazioni liturgiche. Lo ha notato anche padre Cassian Folsom al termine della S. Messa di domenica a Norcia: non è frequente sentire la chiesa vibrare dei canti e delle risposte dei fedeli, e percepire così quasi concretamente l’intensità della loro preghiera, come è accaduto in occasione della festa di Cristo Re.
Poiché la cronaca vera e propria del Pellegrinaggio 2014 è già comparsa in rete in questi giorni, vorremmo ora concentrarci solo su alcuni aspetti che ci sembrano particolarmente significativi.
La prima considerazione da fare è che con questo suo terzo Pellegrinaggio internazionale il Populus Summorum Pontificum, una vera famiglia di “normali” sacerdoti e di “normali” laici, ha dimostrato di essere una realtà ormai più che consolidata, diffusa ovunque, che sa attraversare senza scoraggiarsi le difficoltà dei tempi correnti, ben risoluta ad affrontare ogni avversità e ogni turbamento: è consolante osservare quale forza spirituale riesca a dare la S. Messa tradizionale, e come davvero essa rappresenti il principale baluardo dell’intangibilità della dottrina. È questa la vera pace in cui vive la liturgia tradizionale: una pace che non riesce ad essere scalfita da nessuna contrarietà e da nessuna opposizione, per quanto efficaci esse possano apparire.
Un altro aspetto che ha colpito, nel pellegrinaggio di quest’anno, è stata la massiccia, probabilmente maggioritaria presenza di giovani. Anche il particolare coinvolgimento della Federazione Juventutem, che ha celebrato proprio al pellegrinaggio il suo decennale, ha confermato con particolare evidenza che la liturgia “antica” è cosa per giovani. Giovani assolutamente normali, semplici, vorremmo dire ordinari: vedendo i quali proprio non si può pensare che si siano sobbarcati il disagio – e il costo – di un viaggio talora addirittura transoceanico solo per inseguire una moda passeggera.
Accanto ai giovani c’erano le famiglie: anch’esse famiglie normali, semplici, ordinarie. Quelle di cui forse non si è occupato il recente sinodo, la cui bellezza è trascurata e che non fanno notizia, ma sulle quali poggia ancora la trasmissione della fede, e che – come ha dichiarato recentemente il Card. Burke – trovano nella liturgia tradizionale un insostituibile alimento spirituale per affrontare e superare le difficoltà e i problemi della vita famigliare.
Questa terza edizione del Pellegrinaggio, poi, è stata connotata più delle precedenti dalla massiccia partecipazione di fedeli provenienti da tutto il mondo: si è trattato davvero di un pellegrinaggio internazionale, animato in primo luogo dai fedeli nordamericani, che si sono stretti con grande affetto attorno al Cardinal Raymond Leo Burke; ma anche da tanti fedeli sudamericani, specialmente brasiliani, e, fra gli europei, da nutriti gruppi di ungheresi, polacchi, francesi, tedeschi.
Questa concreta ed esemplare manifestazione di vera universalità, che è così connaturata alla perenne liturgia tradizionale, è un prezioso dono anche per i fedeli italiani, che potranno e dovranno derivarne un rinnovato incitamento alla presenza attiva e visibile nelle loro realtà parrocchiali e diocesane, e ne saranno certo stimolati a partecipare ancor più numerosi al prossimo pellegrinaggio (già fissato dal 22 al 25 ottobre 2015), specie come Coetus Fidelium, e non solo come singoli fedeli. In questa prospettiva, si sono segnalati, quest’anno, soprattutto i Coetus della Puglia, che si sono riuniti per raggiungere tutti insieme Roma e Norcia con una rappresentanza di decine di fedeli. Sempre fattivamente presente il Coetus di Castel San Giovanni (diocesi di Piacenza), uno dei pochi Coetus italiani che è sorto e vive interamente in ambito parrocchiale, dimostrando, così, che è possibile, nonostante tutto, realizzare uno degli obiettivi del Motu Proprio: portare la S. Messa tradizionale in ogni parrocchia.
Rispetto all’anno scorso, era sensibilmente accresciuta pure la presenza dei sacerdoti e dei religiosi, anch’essi provenienti da diverse parti del mondo. Se ci ha dato gioia incontrare alcune Suore Francescane dell’Immacolata, ci ha però addolorato non poter vedere nemmeno quest’anno fra il clero i Frati Francescani dell’Immacolata, ai quali tutti i pellegrini si sentono particolarmente vicini.
Il CNSP ha avuto anche quest’anno il privilegio di collaborare con il CISP nell’organizzazione del pellegrinaggio, assumendo la cura dell’Adorazione Eucaristica, presieduta da don Marino Neri, che ha preceduto la processione e il Pontificale di sabato 25 ottobre: ci sia permesso, quindi, ringraziare di cuore i tanti ministranti che, aderendo al nostro invito, e provenendo da varie parti d’Italia, hanno offerto il loro prezioso servizio nella basilica di S. Lorenzo in Damasoe per le vie di Roma. Tutti i pellegrini, poi, devono indirizzare un ringraziamento particolarmente vivo, fra tutti gli organizzatori, a Guillaume Ferluc, infaticabile Segretario Generale del CISP, senza il cui costante impegno né questa, né le precedenti edizioni del pellegrinaggio avrebbero potuto tenersi.
Non si possono chiudere queste note senza ricordare le parole di fede indirizzate ai pellegrini da Mons. Pozzo, dal Card. Pell (purtroppo colpito da un attacco influenzale, sicché la sua omelia è stata letta da don Mark Whitoos, che ha celebrato in sua sostituzione la S. Messa), dal Card. Burke e, a Norcia, dal Card. Brandmüller, che ha anche impartito la benedizione papale. Soprattutto, non si può non ricordare la commozione con cui è stata accolta la lettura della lettera indirizzata al Delegato Generale del CISP, Giuseppe Capoccia, da Benedetto XVI, per dire la Sua vicinanza spirituale ai pellegrini ed ai “grandi cardinali” che appoggiano e celebrano il rito antico. Ed è ancora con le parole che Benedetto XVI, il Papa del Motu Proprio, ebbe a dire proprio in occasione della Sua elezione, che il CNSP vuole suggellare le sue riflessioni sul Pellegrinaggio 2014 del Populus Summorum Pontificum: “nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto permanente, andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria sua Santissima Madre starà dalla nostra parte”.

La Chiesa cattolica in Germania: ovvero il dilemma tra Dio e mammona!

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L'avreste mai detto che, dietro le recenti prese di posizione “di apertura” – in sede sinodale – da parte di illustri prelati tedeschi, si nascondano motivazioni economiche?
Come notato, in effetti, anche da Sandro Magister nel suo blog “Settimo Cielo”, in un puntuale recente articolo, nell’epoca della Chiesa “della misericordia”, le alte gerarchie ecclesiastiche si mostrano poco …. misericordiose …. . Paradossi di questi nostri tempi “misericordiosi”!!!
Ricorda Magister che il sistema di finanziamento delle Chiese in Germania è talmente spietato che spinge la Chiesa cattolica a scomunicare – di fatto è così – chiunque, cattolico, si rifiuti di versare il cospicuo obolo alla Chiesa “misericordiosa” germanica. In effetti, un decreto della Conferenza episcopale tedesca del 2012 priva dei sacramenti e di ogni ufficio, e persino delle esequie ecclesiastiche, chiunque non versi il suddetto obolo, a prescindere dalle motivazioni per le quali ciò sia fatto. Non solo. Ma addirittura, prima delle sanzioni, per ricondurre il reprobo a più miti consigli, è previsto un colloquio col parroco del posto: se questo dovesse fallire, ecco che la Chiesa considererà scismatico, eretico ed apostata, chiunque non voglia pagare il suddetto obolo. Insomma, si fa dipendere l’appartenenza alla Chiesa ed il diritto di ricevere dalla stessa i sacramenti, a prescindere dalle motivazioni, da … mere ragioni economiche-simoniache, … cioè dal versamento dell’obolo! La misericordia lo impone!
Comprensibili sono dunque le “aperture” sinodali della maggioranza dei prelati della Chiesa germanica: esse sono dettate da motivazioni, diciamo, di … marketing … ovverosia dal fatto di favorire il più possibile i cattolici tedeschi …, che abbiano situazioni familiari irregolari, … nel versamento dell’obolo … . Un “irrigidimento” sarebbe visto da questi cattolici come un motivo in più per non versare l’obolo ed uno sprono a corrisponderlo nelle casse di confessioni religiose acattoliche.
Se, dunque, essi non versassero più, la Chiesa tedesca vedrebbe ridotte le proprie entrate. Un danno da evitare nella maniera più assoluta! L'importante è corrispondere la Kirchensteuer. Le questioni dogmatiche o la pratica religiosa in questo contesto sono secondarie o marginali.
Forse è bene rammentare a tal riguardo ciò che diceva l'ottimo Padre domenicano Garrigou-Lagrange riguardo ai misericordiosi e tolleranti, oggi molto in auge, riprendendo le parole di san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Miséricorde et fermeté doctrinale ne peuvent subsister qu'en s'unissant; séparées l'une de l'autre elles meurent et ne laissent plus que deux cadavres: le libéralisme humanitaire avec sa fausse sérénité et le fanatisme avec son faux zèle. On a dit: "L'Eglise est intransigeante en principe parce qu'elle croit, elle est tolérante en pratique parce qu'elle aime". Les ennemis de l'Eglise sont tolérants en principe parce qu'ils ne croient pas, et intransigeants en pratique parce qu'ils n'aiment pas» (Padre R. Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature, Paris 1923, p. 725). Onde offrire utili spunti di riflessione sul tema, oltre a rinviare al già citato contributo di Magister, pubblico un articolo di Simone Varisco, rilanciato in inglese dall'immancabile ed ottimo Rorate caeli.


La Chiesa ricca, la chiesa vuota


di Simone Varisco

Protagonista del recente Sinodo, il confronto fra i principali esponenti della Chiesa cattolica tedesca, da Müller a Kasper, da Brandmüller a Marx, si è misurato anche su diverse visioni della crisi della Chiesa in Germania e delle sue possibili soluzioni.
Stando agli ultimi dati resi noti dalla Conferenza episcopale tedesca, nel 2013 si contavano in Germania 24,2 milioni di cattolici (per questi e i successivi dati statistici: Katholische Kirche in Deutschland. Zahlen und Fakten. 2013/14, Segreteria della Conferenza episcopale tedesca, Bonn), in calo rispetto all’anno precedente (erano 24,3 milioni), attestandosi al 29,9% della popolazione (erano il 42,7% prima della riunificazione della Germania, nel 1990), ancora distribuiti in percentuali maggiori nei Länder meridionali, come il Saarland (dove i cattolici toccano il 62%) e la Baviera (54%).
Significativo altresì come fra coloro che si dichiarano cattolici la percentuale dei fedeli che frequentano regolarmente almeno la messa domenicale si diriga da anni verso numeri a cifra singola. Non è quindi un caso che rispetto all’anno precedente parrocchie ed altri luoghi di cura pastorale siano diminuiti di 137 unità (11.085 nel 2013, per una popolazione totale di oltre 83 milioni di tedeschi. In Italia le sole parrocchie sono 25.677 (Archivio dell’Istituto Centrale per il sostentamento clero), per una popolazione di circa 60 milioni di abitanti). Sempre meno sono anche i battesimi, i bambini nati in famiglie in cui sia presente almeno un genitore cattolico e i matrimoni celebrati con rito cattolico.
Anche i sacerdoti diocesani e religiosi registrano nel 2013 un ulteriore calo rispetto al già difficile 2012. Migliori, ma in via di peggioramento, i dati riferiti al diaconato permanente che, pur registrando un aumento numerico su base nazionale (+66 diaconi rispetto all’anno precedente), si sta avviando da anni verso una progressiva stagnazione, specialmente fra coloro che assumono l’incarico come occupazione esclusiva (+15 diaconi rispetto al 2012).
All’interno di un quadro piuttosto sconfortante, si distingue invece la fortuna degli indicatori economici. Con 5,5 miliardi di euro di entrate nette nel 2013, in continua crescita dal 2005, la Chiesa cattolica in Germania è fra le più ricche al mondo (al secondo posto nel Paese la Chiesa evangelica, con 4,8 milioni di introito netto nel 2013).
Vale la pena ricordare che in base alla tassa sulle religioni (Kirchensteuer) attualmente vigente in Germania, lo Stato non si rende diretto protagonista del finanziamento delle comunità religiose (e filosofiche) esistenti sul proprio territorio, ma si fa tramite tra esse e i rispettivi fedeli per la raccolta dell’imposta fra gli iscritti agli elenchi delle rispettive comunità, in possesso dello Stato. Pagando la Kirchensteuer, i fedeli acquisiscono il diritto ad una serie di “servizi religiosi”, alcuni dei quali altrimenti noti come Sacramenti.
La cancellazione dall’elenco implica per il cittadino l’esonero dal pagamento della tassa, ma anche la cessazione dell’ottenimento dei “servizi religiosi”(salvo in caso di immediato pericolo di morte) e l’impossibilità a ricoprire determinati ruoli, come l’essere padrino o madrina o il venire impiegati in uffici ecclesiastici. Con tali implicazioni, quello che potrebbe apparire soltanto come un atto amministrativo nei rapporti fra cittadino, Stato e sistema contributivo, assume a tutti gli effetti i connotati di una defezione dalla Chiesa, con la dura presa di posizione della Conferenza episcopale tedesca, nell’ottica di «preservare la fede e l’educazione cattolica dei bambini» (Allgemeines Dekret der Deutschen Bischofskonferenz zum Kirchenaustritt, II, 2).
La prosperità economica che alimenta il Paese e la grande macchina della Chiesa cattolica tedesca è la stessa prosperità materiale che ne svuota le chiese, al punto che molte delle grandi cattedrali del Paese sono oggi più visitate dai turisti che dai fedeli.
Ancora sostenuta dal successo economico che distingue vaste aree della Germania dalla maggior parte delle economie dell’Europa occidentale, il sempre più fragile equilibrio fra l’aumento della ricchezza pro-capite dei cittadini tedeschi e il calo dei fedeli ha finora retto. Non è però difficile prevedere che se l’emorragia di fedeli proseguirà come negli ultimi anni, nel prossimo futuro della Chiesa cattolica tedesca si profilerà anche l’ombra del dissesto finanziario.
Tenere conto di questo fattore è imprescindibile nella considerazione del confronto mostrato recentemente al Sinodo, non fosse altro che per l’ingenerato senso di urgenza nell’inversione di tendenza. Al Sinodo la Chiesa cattolica tedesca si è confermata fra le più inclini alle richieste del mondo contemporaneo, una Chiesa che i media non hanno esitato a definire «aperta»; eppure una Chiesa «malata», secondo una terminologia cara all’attuale Pontefice, «chiusa» in una società prospera sempre più tentata dall’inutilità della fede ed erosa da alcune di quelle stesse forze che spingono in direzione del cambiamento.
C’è da scommettere che nel dibattito, in corso da tempo tanto all’interno alla Chiesa tedesca quanto in quella universale, i principali protagonisti del Sinodo appena concluso siano ben intenzionati a non ritagliarsi ruoli di semplici spettatori. Tanto nell’una quanto nell’altra partita.

Fonte: Caffè Storia, 24.10.2014. L'articolo è anche pubblicato su Il Timone, 31.10.2014

Il falso profetismo del clero mondano - Editoriale di novembre di "Radicati nella fede"

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IL FALSO PROFETISMO DEL CLERO MONDANO

Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VII n° 11 - Novembre 2014


Scoppia la guerra in qualche parte del mondo e il clero, alto o basso che sia, esprime solidarietà con le vittime e le popolazioni colpite. C'è un'alluvione o un terremoto, ed esprime vicinanza nella preghiera, aggiungendo un'invettiva contro le autorità civili che non hanno saputo prevenire il disastro o sono state insufficienti nei soccorsi. Siamo in crisi economica e questo clero insegna agli economisti cosa bisogna fare per affrontarla, propinando allo stato o agli industriali la propria ricetta ricordando i diritti dei lavoratori.
Ci siamo ormai abituati a questi immancabili e scontati bollettini ecclesiastici sulla situazione, partoriti nelle altrettanto immancabili riunioni delle conferenze ecclesiastiche.
Ma tutto questo è compito davvero del sacerdozio cattolico? E se lo è in qualche misura, è tutto qui il suo compito?
Dopo aver tanto parlato di Chiesa profetica, manca la profezia, quella vera, quella cattolica secondo Dio. Manca il richiamo del ritorno a Dio.
No, questo richiamo non lo sentirete più! Non sentirete più quelle parole che tornavano fedelmente in ogni tempo e stagione della vita cristiana e specialmente nei momenti difficili e di dolore: “Cari fratelli, questa sofferenza, questa calamità, questa crisi ci richiamano a tornare a Dio, perché non ci capiti qualcosa di peggio!”.
Mai dai pulpiti di oggi si è alzata una voce chiara. Mai si è ricordato che nel dolore Dio ci parla, non soltanto della sua tenerezza, ma anche della nostra conversione. “Fratelli, è perché abbiamo abbandonato il Signore che tutto questo ci viene addosso; facciamo penitenza e torniamo all'osservanza dei comandamenti.”
Qualcuno dirà che qui si fa terrorismo spirituale; che anche il giusto soffre, che la Croce non è sempre conseguenza del peccato personale. È vero.
Sì è vero, ma il giusto chiamato alla Croce pesante, lo è in riparazione del peccato di tutto il popolo, e quindi non toglie nulla, anzi conferma la verità che le calamità hanno un legame col peccato.
Un testo del grande domenicano P. Calmel (1914-1975) è molto eloquente al riguardo. Scritto nel 1968 (“le pretre et la révolution, 1914-1968”, Itineraire n. 127, novembre 1968, p. 37), denuncia la variazione operata dal clero mondano nello sguardo cristiano sulla storia umana. Un clero mondano che già nella prima metà del '900 passava ad un falso profetismo, ad una falsa lettura della realtà:
“Il clero mondano fece soprattutto delle variazioni sulla pace perpetua, il disarmo e la promozione sociale”, vantava i soldati morti al fronte (si era alla fine della I guerra mondiale) per “l'emancipazione umana secondo la dichiarazione dei diritti dell'uomo” - Invece di parlare di Dio al mondo sofferente per la guerra, lavorava come i socialisti perché i morti della grande guerra fossero utili alla promozione umana; al posto della salvezza eterna questo clero si preoccupava dei diritti dell'uomo!
Ma riprendiamo P. Calmel: “...i preti con il gusto del mondo sono arrivati progressivamente a voler fondere il messianismo soprannaturale del Regno che non è di questo mondo con il messianismo rivoluzionario della massoneria o del comunismo. Questi preti sono entrati nel gioco di Cesare che, dopo la rivoluzione del 1789, aspira più che mai a sostituirsi a Dio, eliminando il peccato originale e le sue conseguenze...”. Terribile! È la scomparsa della vita soprannaturale, del Regno che non è di questo mondo, della vita eterna. Questi preti con il gusto del mondo sono diventati i sacerdoti del Naturalismo, della religione che non parla più del peccato e della grazia. Sono preoccupati dei diritti dell'uomo, ma non che gli uomini si salvino dall'Inferno e possano giungere, dopo una vita cristianamente vissuta, in Paradiso. È scomparso il Regno di Dio per fare spazio al regno dell'O.N.U. Sempre Calmel: “I preti con il gusto della rivoluzione insegnano con crescente insistenza da più di vent'anni che la pace di Cristo si confonde con la politica secondo l'O.N.U., e si riassume in essa”. “Il prete con il gusto del mondo, il prete “mondano” (…) si è trasformato fino a divenire l'uomo del messianismo terreno (…), si fa complice del Cesare moderno.”
Qualcuno dirà che oggi nella Chiesa si è meno propensi al sociale e alle tentazioni della lettura marxista della storia; che questo pericolo fu quello dei preti degli anni '70, tentati dal dialogo coi marxisti. Sì, in un certo senso è vero, il comunismo è crollato, ci si è “imborghesiti” un po' tutti. Ma alla rivoluzione anni '70, quella della solidarietà con gli operai, si è sostituita la rivoluzione borghese, quella della solidarietà con le lotte per i diritti individuali: i diritti alle coppie di fatto, dell'omosessualità, dei divorziati risposati che vogliono la comunione; della libera contraccezione, della libera adozione... e chi più ne ha più ne metta. Si tratta sempre qui della medesima Rivoluzione dettata dal laicismo massonico, che sia di destra o di sinistra poco importa, ...sempre sotto la bandiera dei diritti dell'uomo. Del problema di Dio e della salvezza eterna nemmeno l'ombra!
“Più di un milione e mezzo di giovani cristiani di Francia doneranno la loro vita dal 1914 al 1918, e i preti secondo il mondo, testimoni ebeti di questa ecatombe senza precedenti, non avranno la capacità di cogliere il significato, di comprendere che, se non facciamo ritorno a Dio, delle ondate ancora peggiori ci attendono...”
“Se non facciamo ritorno a Dio” ...non lo diranno mai questi preti mondani, non lo diranno mai perché hanno sposato le vecchie rivoluzioni socialiste o le nuove rivoluzioni borghesi e liberali.
E quanti preti, discepoli di questi “testimoni ebeti” hanno fatto carriera, fino a giungere ai gradi alti della gerarchia. Tutti questi li senti parlare: di fronte ai dolori, alle calamità, alle guerre, agli omicidi ...non ricordano mai che occorre tornare a Dio. Esprimono solidarietà, noiosamente e vuotamente ...e il mondo fa finta di ascoltare questi appelli che rispondono al solito copione già scritto.
L'unico stupore sarebbe possibile per la Verità, l'unica Verità. 
Se un prete, anche del più umile borgo del mondo, si alzasse a dire “Fratelli, se non torniamo a Dio, ci capiterà di peggio”, allora il mondo potrebbe fare davvero silenzio e pensare.

Avviso sacro

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COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI

Domenica, 2 novembre 2014

Chiesa di S. Francesco d’Assisi - Monopoli (BA)

ore 18

Celebrazione della S. Messa in forma straordinaria.

Al termine, “rito dell’Assoluzione al drappo” per suffragare i defunti
  

"Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium" (Intr.) - IN FESTO OMNIUM SANCTORUM

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L’autunno avanzato, la caduta delle foglie ingiallite, il lungo ciclo di domeniche dopo la Pentecoste, accompagnato da quel sentimento di melanconica stanchezza che ne compenetra l’ultimo periodo, ricordano all’anima i pensieri solenni dell’eternità e del mondo dell’oltretomba, a cui i giorni e gli anni che passano ci avvicinano. Il Veggente di Patmos ci fa per così dire anticipare la chiusura di questo lungo ciclo, dove è simboleggiata la dura vita della Chiesa militante: oggi solleva per noi un po’ il velo e ci mostra la Chiesa trionfante in tutto lo splendore della sua gloria.
All’inizio di questo periodo liturgico che va dalla Pentecoste all’Avvento, si annunciava che lo Spirito Paraclito avrebbe glorificato Gesù: Ille me clarificabit. Oggi si vede che ha tenuto fede alla sua promessa, spargendo sul corpo mistico del Salvatore una così grande santità che è stata il germe di una sì grande gloria.



Una festa collettiva di tutti i martiri, in relazione col trionfo pasquale del Redentore, appare in Siria fin dal IV sec.: in effetti, secondo la testimonianza di san Efrem, si celebrava in questo stesso giorno presso i siriaci una memoria di tutti i Martiri dell’universo (così ricorda D. Bickell, Sancti Ephræmi Syri carmina Nisibena, 6, Leipzig 1866, p. 23). Le solennità pasquali sembravano aver ricordato un po’ ovunque una commemorazione dei martiri. Il martirologio di Nicomedia degli anni intorno al 365 annuncia il venerdì di Pasqua una «memoria di tutti i confessori» (B. Mariani, Breviarium syriacum, Coll. Rerum ecclesiasticarum documenta, Series minor 3, Roma 1956, p. 34), memoria che è sempre iscritta il medesimo giorno nel calendario siriano (V. Grumel, La Chronologie, in P. Lemerle(a cura di), Traité d’études byzantines, tomo 1, Bibliothèque byzantine, Paris 1958, p. 338).
I bizantini la celebravano, al contrario, la domenica dopo la Pentecoste, detta Domenica di Tutti i Santi. La festa risaliva almeno all’inizio del V sec. La scelta di tale giorno aveva un profondo significato teologico, volendo esprimere l’idea che la santità è opera dello Spirito Santo. Detta festività era già nota a san Giovanni Crisostomo, il quale la conosceva come festa di tutti i Martiri e parlava di Εγκώμιονειςτουςαγίουςπάντας, τουενόλωτωνκόσμωμαρτυρήσαντες. In tale circostanza, infatti, vi pronunciò un sermone in onore di «tutti i santi martiri del mondo» (cfr. San Giovanni Crisostomo, Laudatio SS. Omnium qui Martyrum toto terrarum orbe sunt passi, in PG 50, col. 705C-712).
Nel VII sec., pure certe Chiese d’Occidente, e senza dubbio la stessa Chiesa romana per un breve periodo, avevano fatto dello stesso giorno la Dominica in natale Sanctorum (Cfr. per quanto riguarda la Gallia, v. il Messale di Bobbio dell’VIII sec., in PL 72, col. 524).
Vi si leggeva un passo dell’Apocalisse: Vidi turbam magnam ed anche il Vangelo delle Beatitudini. Per Roma, in particolare, si ha la testimonianza dell’Epistolario di Würzburg (in G. Morin, Le plus ancient Comes ou lectionnaire de l’Eglise romaine, in Revue bénédictine, 27 (1910), p. 58). Dom G. Morin pensa che questa festa potrebbe essere stata introdotta a Roma nel corso del VI sec. ed abolita da papa san Gregorio Magno con un certo numero di altre usanze greche.
Nella settimana dopo la Pentecoste, tuttavia, un’antica tradizione imponeva ai Romani il digiuno solenne dei Quattro Tempi con la grande veglia domenicale a San Pietro. Era impossibile, dopo la stanchezza di quella notte, celebrare ancora, nella mattinata, la solennità di tutti i Santi. Si rinunciò dunque all’uso bizantino e bisognò accontentarsi della festa del 13 maggio in onore dei martiri, un tempo istituita da Bonifacio IV (608-615). Questi, infatti, domandò all’imperatore Foca (602-610) «il tempio che si chiama Pantheon, nel quale egli fece la Chiesa della beata Maria sempre Vergine e di tutti i martiri» (L. Duchesne, Le Liber Pontificalis, Coll. Bibliothèque des Ecoles Françaises d’Athènes et de Rome, tomo 1, Paris 1886, p. 317), che consacrò il 13 maggio 609 o 610 al culto cristiano, dedicando l’antico tempio pagano, dov’erano venerati tutti gli dèi, alla Vergine Maria ed a tutti i Martiri, facendovi riporre le ossa di numerosi martiri prelevati dalle catacombe e lì trasportate su ben ventotto carri.
L’anniversario di questa dedicazione fu iscritta, da allora, nei sacramentari, al 13 maggio, ma il lezionario precisa che semper in die dominico celebratur ipsa sollemnitas (Th. Klauser, Das römische Capitulare Evangeliorum, Coll. Liturgiegeschichtliche Quellen und Forschungen 28, Münster in Westf, 1935, n. 132, p. 73).
Già nel 645, cioè una trentina di anni dopo la dedicazione, però, la stazione del venerdì di Pasqua, prevista dal Messale romano, era ad sanctam Mariam ad Martyres (Ibidem, n. 97, p. 24). Questo a riprova dell’antichità del culto di quella chiesa.
Tuttavia il pensiero di una solennità collettiva di tutti i santi, e non semplicemente dei martiri, guadagnava sempre più campo. Mentre in Oriente gli Iconoclasti distruggevano immagini e reliquie, ed in Italia, in pieno Latium, i cimiteri dei martiri giacevano nell’abbandono a causa delle continue incursioni dei longobardi nella campagna romana, Gregorio III (731-741) istituì, nella basilica vaticana, una speciale commemorazione quotidiana dei Santi di cui le diverse chiese della cattolicità celebravano il natale ed eresse, a tale scopo, in San Pietro, un oratorio espiatorio in onore, appunto, di tutti i Santi, Martiri e Confessori, «in honorem Salvatoris sanctæqua ejus Genitricis reliquias, sanctorumque apostolorum vel omnium sanctorum martyrum ac confessorum, perfectorumque justorum toto in orbe terrarum requiescentium» (Vita Operaque, Notitia historica in S. Gregorium papam III, in PL 89, col. 563A), cioè «in onore del Salvatore, della sua santa Madre, di tutti gli apostoli, dei martiri e di tutti i giusti pervenuti alla perfezione, che si sono addormentati sulla terra intera», ordinando ai monaci dei tre monasteri officianti la basilica di recarvisi ogni sera, dopo i Vespri, per celebrare un breve ufficio votivo in loro onore (L. Duchesne, op. cit., p. 421).
Allorché Roma celebrava da molto tempo una festa collettiva dei martiri nel tempo pasquale in accordo con numerose chiese, dalla Siria all’Irlanda, ecco che intorno all’anno 800 una nuova festa di Tutti i Santi cominciò a diffondersi in Inghilterra e nell’Impero carolingio (Si troveranno tutte i riferimenti che comporta lo studio delle origini della festa del 1° novembre nel commentario storico del Martyrologium romanum redatto da H. Delehayee pubblicato come Propylaeum ad Acta Sanctorum decembris, Bruxelles 1940, pp. 488-489). Come però Roma venne a celebrare alle calende di novembre la festa di tutti i Santi, non è del tutto chiaro, come si dirà.
Un sinodo di Riesbach (concilium Rispacense), presieduto dal vescovo Arnone di Salisburgo, la incluse tra le feste non lavorative (nell’anno 798?) (MGH, Concilia, 2, pars 1, p. 197); Alcuino di York la qualificò sollemnitas sanctissima, precisando che essa doveva essere preceduta da un digiuno di tre giorni. È innegabile che quello che era l’ascoltatissimo consigliere di Carlo Magno prese a cuore la diffusione di questa festa. Se si presta fede ad Adone di Vienne, l’imperatore Ludovico il Pio (814-840), nell’834, avrebbe fissato la celebrazione di Tutti i Santi per tutti i suoi Stati il 1° novembre su domanda del papa Gregorio IV (827-844) e con il consenso dei vescovi (non è, tuttavia,  assolutamente certo che l’iniziativa venisse dal Papa anziché dallo stesso imperatore. Cfr. sul punto Michael Kunzler, Die Liturgie der Kirche, Paderborn 1995, trad. it. di Liborio Asciutto, La liturgia della Chiesa2, Milano 2003, p. 591, il quale ritiene che fu il papa a spingere l’imperatore Ludovico il Pio ad estendere la festa, nell’838, a tutto l’impero).
Evidentemente, Adone ha dalla sua di essere un contemporaneo della decisione che ricorda, ma il suo spirito fabulistico ci mantiene sulla riserva, atteso che alcun altro documento dell’epoca fa allusione a tale provvedimento.
Ad ogni modo è certo che la nuova solennità si diffuse assai rapidamente nel corso del IX sec. È, dunque, verosimile che essa raggiungesse alcune chiese di Roma, se non la loro totalità, a quell’epoca. Il Codice Barberini 637 attesta, infatti, la sua celebrazione nel X sec. nell’Urbe o suoi dintorni. Essa si presentava immediatamente come una festa solenne, poiché dotata di una vigilia al 31 ottobre, che fu soppressa solo nel 1955, e che aveva sino alla nostra epoca carattere penitenziale.
È certo, dunque, che l’antichità cristiana aveva inserito una commemorazione dei martiri e di tutti i santi nel tempo pasquale. Era chiaro il collegamento tra questo periodo e la festa dei santi come inizialmente fissata. Ma cosa poté portare a fare la scelta del 1° novembre per questa festa?
Non si potranno che formulare delle ipotesi. È certo che il 1° novembre contrassegnava, tanto a Roma quanto nei Paesi franchi o anglosassoni, l’inizio dell’inverno: Hiemis tempore, id est a kalendis novembris usque ad Pascha, recitava la Regola di san Benedetto nel cap. VIII, e, presso i Celti era un giorno di festa. «Bisogna concluderne che Ognissanti fu istituita per cristianizzare delle cerimonie care agli Anglosassoni o ai Franchi? Sebbene quest’idea non ripugna, occorrerebbe avere un principio di prova per sostenerla» (così riporta Jules Léon BaudotLéon Chaussin, Vies des Saints et des Bienheureux selon l’ordre du calendrier avec l’historique des fêtes par les RR. PP. Bénédictins de Paris, tomo XI, Paris 1954, p. 21, trad. mia). L’autore di quest’osservazione, J. Dubois, aggiunge: «È curioso osservare che in Gallia si aveva tentato, dal VI all’VIII sec., di mettere una festa dei santi al 1° novembre assegnandole dei personaggi il cui anniversario era sconosciuto: san Benigno di Digione, san Ludro di Déols, san Maturino di Larchant, sant’Austremonio dell’Alvernia, san Vigore di Bayeux, ecc.» (ibidem). Cfr. sulle tradizioni religiose della Gallia relative al 1° novembre, v. E. Renardet, Vie et croyances des Gaulois avant la conquête romaine, Paris 1975, pp. 186-187.
A noi è sufficiente aver percepito nella solennità di Tutti i Santi l’espressione più completa del culto collettivo dei martiri, che le traslazioni delle reliquie aveva messo in onore tra l’VIII ed il IX sec.
Allorché il culto delle reliquie poteva suscitare delle forme aberranti della religione e condurre alla superstizione, i papi hanno costantemente sottolineato a Roma l’esigenza spirituale di questo culto ed il suo orientamento essenzialmente cristologico. Il Cristo, del resto, non è il martyrum maximus præsul, secondo la magnifica espressione di un’iscrizione di san Lorenzo in Lucina contemporanea di Adriano I (O. Marruchi, Basiliques et églises de Rome, Paris 1902, tomo 3, p. 408)?
La Chiesa celebra gli anniversari dei martiri offrendo il sacrificio eucaristico de quo martyrium sumpsit omne principium(J. Deshusses, Le Sacramentaire grégorien, Coll. Spicilegium Friburgense, 16, Fribourg/Suisse, 1971, n. 245, p. 151. Il formulario data all’VIII sec.). L’ufficio che essa canta presso le loro reliquie glorifica il Padre di tutte le meraviglie che ha compiute in loro il Figlio nello Spirito Santo.
Secoli dopo, papa Sisto IV aggiunse un’ottava alla festa.
Gli altri giorni, la liturgia celebre la memoria di uno o di più santi in particolare. Oggi, al contrario, il Signore multiplicavit gentem et magnificavit lætitiam, secondo la parola di Isaia; perciò la glorificazione del Cristo e della Chiesa in questo giorno è completa.
Lo Spirito del Signore, come una misteriosa unzione di olio aromatico di cui parla il Salmista, si è sparsa su tutto il corpo mistico del Cristo, santificando tutti i suoi membri umili che siano, e preparandoli, per tale mezzo, ad una gloria sublime. Sono gli Apostoli, i martiri, i membri della gerarchia ecclesiastica, il laicato cattolico, i laboriosi operai, fino ai poveri schiavi su cui sono scesi il Paraclito, che li ha innalzati ad una santità eroica. Questo è il bel pensiero espresso in questo giorno dall’antifona di ingresso. La celebrazione annuale di Tutti i Santi invita, dunque, i cristiani a fissare i loro occhi, al di là dei loro umili resti, sul mondo invisibile in cui essi sono entrati seguendo la strada tracciata dalle Beatitudini. Per riferimenti adoperati, rinviamo a Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, pp. 103-106.
Notiamo oggi l’espressione così profonda con la quale la liturgia designa la Chiesa militante: il popolo fedele, cioè il popolo che va diritto davanti a sé verso l’eternità, con gli occhi e la luce della fede. Qual è la ricompensa di questa fede cattolica cresciuta, e continuamente vissuta, senza la quale nessuno può arrogarsi legittimamente il titolo di fedele? Fides quid tibi præstat? domanda ancora oggi la Chiesa ai catecumeni. – E questi rispondono: vitam æternam.
Siamo lieti di riportare oggi, in onore di tutti i Santi, la bella iscrizione composta da papa Damaso in memoria di tutti i giusti sepolti nel cimitero di Callisto:


HIC • CONGESTA • IACET • QVAERIS • SI • TVRBA • PIORVM
CORPORA • SANCTORVM • RETINENT • VENERANDA • SEPVLCHRA
SVBLIMES • ANIMAS • RAPVIT • SIBI • REGIA • CAELI
HIC • COMITES • XYSTI • PORTANT • QVI • EX • HOSTE • TROPHAEA
HIC • NVMERVS • PROCERVM • SERVAT • QVI • ALTARIA • CHRISTI
HIC • POSITVS • LONGA • QVI • VIXIT • IN • PACE • SACERDOS
HIC • CONFESSORES • SANCTI • QVOS • GRAECIA • MISIT
HIC • IVVENES • PVERIQVE • SENES • CASTIQVE • NEPOTES
QVIS • MAGE • VIRGINEVM • PLACVIT • RETINERE • PVDOREM
HIC • FATEOR • DAMASVS • VOLVI • MEA • CONDERE • MEMBRA
SED • CINERES • TIMVI • SANCTOS • VEXARE • PIORVM.

Qui, sappi che giace raccolta una schiera di giusti.
I sepolcri venerandi conservano i corpi dei Santi,
ma la reggia del cielo ha rapito a sé le anime elette.
Qui sono i compagni di Sisto, che innalzano i trofei riportati sul nemico;
Qui il gruppo degli anziani (Papi), che custodisce gli altari di Cristo;
Qui è deposto il Vescovo che visse nella lunga pace;
Qui i santi confessori (della fede) inviati dalla Grecia;
Qui giovani, ragazzi e vegliardi e le loro caste discendenze,
che vollero conservare la loro purezza verginale.
Qui, anch’io, Damaso, lo confesso, avrei voluto che le mie membra riposassero,
ma ebbi timore di disturbare il riposo delle ceneri sante dei Beati

(San Damaso I, Carmen XXXIII, De sepulcro suo, in PL 13, col. 407A-408A. Cfr. Antonio Baruffa, Le catacombe di San Callisto. Storia-Archeologia-Fede5, Città del Vaticano 2004, pp. 83-84; FabrizioBisconti- DaniloMazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma. Origini, sviluppo apparati decorativi, documentazione epigrafica, Regesburg 1998, pp. 175-176).
Quest’iscrizione si trovava nell’ipogeo dei Pontefici del III sec., nel luogo in cui, con Sisto II, erano sepolti quattro dei suoi diaconi, decapitati con lui, il Comites Xysti.
Il numerus procerum del quinto verso si riporta alla serie dei Pontefici sepolti nel cimitero di Callisto, da Zefirino sino a Milziade (salvo Callisto, Marcellino e Marcello).
Il Sacerdos che passò i suoi giorni in una lunga pace è generalmente identificato con il papa Milziade, che vide finalmente la pace della Chiesa sotto Costantino il Grande (Cfr. Henry Preston Vaughan Nunn, Christian Inscriptions, London 1920, p. 41; Mariano Armellini, Le catacombe romane, Roma 1880, p. 259; Orazio Marucchi, Éléments d’archéologie chrétienne2, vol. II, Paris-Rome 1903, p. 146. È stata anche avanzata la tesi, però, contrariamente a questa generale identificazione, che riterrebbe essere questo Sacerdos– termine che indicava propriamente il vescovo – il papa Marco).
I Confessores Sancti quos Græcia misitsono certamente i martiri Ippolito, Neone, Maria, Adria, Paolina, ecc., sepolti nel luogo chiamato l’arenario di Ippolito, mentre tra gli iuvenes, castique pueri, che conservarono intatto il giglio della loro verginità, deve essere contato dapprima l’accolito Tarcisio e la martire Cecilia, che riposava nelle vicinanze.
Con umiltà, Damaso declinò l’onore di essere sepolto in mezzo ai suoi predecessori nell’ipogeo papale; tuttavia, per essere vicino ai martiri, imitò il gesto del papa Marco e si fece costruire, a poca distanza, una cripta speciale, dove depose anche il corpo di sua madre Lorenza e di sua sorella Irene, vergine consacrata a Dio (Si tratta, per l’esattezza, dei martiri Ippolito, Adriano, Eusebio, Maria, Marta, Paolina, Valeria e Marcella: cfr. Agostino Amore, Eusebio, Marcella, Ippolito, Adria, Paolina, Neone, Maria. Martana e Aurelio, in Bibliotheca Sanctorum, vol. V, Roma 1991, coll. 272-274).




Carlo Saraceni, Il Paradiso, 1598, Metropolitan Museum of Art, New York

Pieter Pawel Rubens, I SS. intercedono per placare l'ira divina sul mondo, 1618-19, Musée des beaux-arts de Lyon, Lione


Pedro Atanasio Bocanegra, Vergine col Bambino venerata dagli angeli e dai Santi, 1667-74, Museo de Bellas Artes, Granada

José de Páez, La gloria del Cielo, 1771-72, Mission Carmel, Diocese of Monterey, Monterey

Proclamazione del dogma dell'Assunzione il 1° novembre 1950

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Il 1° novembre 1950, il venerabile Pio XII proclamò il dogma dell'Assunzione, in anima e corpo, della Beata Vergine Maria: l'ultimo dogma sinora proclamato e sancito dalla Chiesa. Davvero giorno assai adatto questo per la definizione dogmatica!

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Proclamation du dogme de l’Assomption le 1er novembre 1950

La Dormition (la mort paisible, tel un sommeil) et l’Assomption (la non corruption du corps et sa montée au ciel) de la Sainte Vierge sont unanimement célébrées dès l’époque patristique dans toutes les Eglises d’Orient & d’Occident. L’Église catholique a considéré que les traditions anciennes sur lesquelles ont été établies la célébration liturgique (outre le fait objectif qu’il n’y a jamais eu mention de reliques du corps de la Vierge Marie qu’une église aurait détenu) étaient conforme au dépôt de la Foi.
A partir du XIXème siècle, des pétitions commencent à affluer à Rome pour que soit officiellement défini le dogme de l’Assomption. De 1854 à 1945, huit millions de fidèles écriront à Rome en ce sens ! Chiffre auquel il faut ajouter les pétitions de 1 332 évêques (représentant 80 % des sièges épiscopaux) et 83 000 prêtres, religieux et religieuses. Face à ces demandes répétées, Pie XII, par l’encyclique Deiparae Virginis, publiée en mai 1946, demande à tous les évêques du monde de se prononcer sur la question. La réponse est quasi unanime : 90 % des évêques y sont favorables. La plupart des 10 % restant s’interrogent sur l’opportunité d’une telle déclaration, seulement six évêques émettant des doutes sur le caractère « révélé » de l’Assomption de Marie. A la suite de ces réponse, le Pape décide de proclamer solennellement le dogme de l’Assomption en 1950 au cours de célébrations magnifiques & grandioses, dont voici ci-dessous quelques photographies d’époque.
Notons que la proclamation dogmatique de l’Assomption reste à ce jour le seul & unique cas où l’infaillibilité pontificale, telle que définie au Concile de Vatican I, a été mise en oeuvre ; infaillibilité assise du reste sur la collégialité : tous les évêques du monde s’étaient prononcés sur la question, & la présence de 800 évêques autour du Pape lors de la proclamation ressemble à s’y méprendre à un concile.
D’une tradition enseignée par la liturgie & professée par les Pères & Docteurs des premiers siècles (dès saint Ephrem au IVème siècle), et paisiblement continuée durant l’histoire de l’Eglise, l’Assomption devint donc dès lors un dogme de foi que doivent tenir les catholiques. C’est un avis tout à fait personnel, mais il est possible que l’apparition croissante au cours du XXème siècle de pseudo-théologies contestataires & modernistes, de plus en plus irrespectueuses de la grande Tradition de l’Eglise, ait joué un rôle dans cette prise de décision du vénérable Pie XII, finalement prophétique…
La proclamation dogmatique ne se fit pas – comme on aurait pu s’y attendre – un 15 août mais le 1er novembre de l’Année Sainte 1950, jour de la Toussaint, situant ainsi Marie dans la communion de tous les saints.
Plus discutable fut la refonte des textes liturgiques de la fête du 15 août qui fut alors décidée. On trouvait que ces textes liturgiques, pourtant vénérables (ils avaient traversés les siècles depuis l’institution de la fête de l’Assomption à Rome par le Pape Théodore (642 † 649), d’origine constantinopolitaine), n’exprimaient pas suffisamment le mystère célébré. A dire vrai, c’était surtout l’évangile de la messe qui étonnait les mentalités contemporaines. En effet, on y chantait Luc 10, 38-42, soit le Christ chez Marthe & Marie. Ce passage pourtant était appliqué à la Sainte Vierge dans l’exégèse patristique et est utilisé également dans les rits byzantin & mozarabe pour la fête du 15 août, il s’agissait donc d’un patrimoine vraiment antique. Quant aux nouvelles pièces du chant liturgique qui furent élaborées en place des anciennes, on peut même noter une régression dans l’affirmation du mystère célébré (comparez ainsi l’antique offertoire : « Assumpta est Maria in cœlum : gaudent Angeli, collaudantes benedicunt Dominum, alleluia » avec le moderne composé en 1950 pour prendre sa place : « Inimitias ponam inter te et mulierem, et semen tuum et semen illius »).
Avant de laisser la place aux belles images des glorieuses cérémonies de 1950, rappelons que l’Assomption de la Vierge réaffirme « le caractère provisoire de notre mort corporelle qui, en style chrétien, prend le nom de sommeil et de dormition » (R.P. Martin Jugie (1878 † 1954), in « La mort et l’Assomption de la Sainte Vierge », chapitre « Opportunité et avantage de la définition solennelle de la doctrine de l’Assomption »), affirmation non négligeable à notre époque alors que ce développe une civilisation matérialiste qui nie le sens ultime de l’existence humaine.


1er novembre 1950 – Le chœur de Saint-Pierre de Rome durant la messe papale de la proclamation du dogme de l’Assomption de la Sainte Vierge. Le vénérable Pie XII se tient au fond de l’abside de la basilique Saint-Pierre, juste sous le reliquaire de la Chaire, lequel contient les restes de la chaire utilisée par l’Apôtre saint Pierre lorsqu’il enseignait à Rome.

« Le Ier novembre 1950, à l’exceptionnelle cérémonie, le monde catholique entier était en union de pensée avec ceux qui avaient pu venir. Huit cents évêques étaient autour du Souverain Pontife pendant la Messe Papale, offrant dans l’abside de Saint-Pierre le spectacle d’un concile œcuménique. »Mgr Pfister, Rome éternelle. Arthaud, 1954.

Les noms des 800 évêques présents lors de la proclamation du dogme de l’Assomption ont été gravés sur des grandes tables de marbres qui sont placées sur les portes d’entrée du narthex de la basilique Saint-Pierre. Les pèlerins peuvent toujours les voir.


« Vision vertigineuse prise du chemin de ronde de la coupole. Les proportions gigantesques, comme l’immensité de la foule sont ici manifestes. »Mgr Pfister, Rome éternelle.


« En ce matin de l’extraordinaire Toussaint de 1950, aucun mouvement de foule n’était possible durant la cérémonie. L’affluence dépassait le demi-million. La plupart avait préféré assister au rite de la définition du dogme à l’extérieur de la basilique. Ceux qui remplissaient l’intérieur, assistèrent à l’entrée du Saint Père et de son cortège, puis à cette Messe dans ce cadre aussi émouvant que grandiose. C’est l’instant si bouleversant de la Consécration. Tous sont à genoux, les Gardes Nobles et les Suisses font en outre le salut militaire. »Mgr Pfister, Rome éternelle.


Le Pape proclame la définition dogmatique de l’Assomption :
« Nous proclamons, déclarons et définissons que c’est un dogme divinement révélé que Marie, l’Immaculée Mère de Dieu toujours Vierge, à la fin du cours de sa vie terrestre, a été élevée en âme et en corps à la gloire céleste. »
Cette proclamation est faite selon les critères exprimés au Concile de Vatican I de 1870, à savoir ex cathedra, « c’est-à-dire lorsque, remplissant sa charge de pasteur et de docteur de tous les chrétiens, il définit, en vertu de sa suprême autorité apostolique, qu’une doctrine, en matière de foi ou de morale, doit être admise par toute l’Église, jouit par l’assistance divine à lui promise en la personne de saint Pierre, de cette infaillibilité dont le divin Rédempteur a voulu que fût pourvue l’Église, lorsqu’elle définit la doctrine sur la foi ou la morale. » (Saint Concile Vatican I).


5 novembre 1950. – Le vénérable Pape Pie XII salue S.E. Francis, cardinal Spellman, archevêque de New-York, à l’issue de l’audience spéciale accordée par le Saint Père aux très nombreux membres de la hiérarchie catholique qui ont assisté aux cérémonies solennelles de la proclamation du dogme de l’Assomption.


13 novembre 1950. – Le vénérable Pape Pie XII signe la bulle de la proclamation du dogme de l’Assomption de la Sainte Vierge dans son bureau privé, au Palais Apostolique.


Parmi les nombreux témoignages & souvenirs commémoratifs de la proclamation dogmatique, voici un timbre émis par la Poste Vaticane pour l’occasion.



Nella valle di Giosafat

"Chiesa senza timone" e "No a capriole dottrinali"

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Nell'odierna commemorazione dei fedeli defunti (spostata alla data odierna, nel calendario tradizionale, a causa della domenica), volentieri pubblico quest'articolo dell'ottimo Matzuzzi.


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Chiesa senza timone, dice Burke. No a capriole dottrinali, dice Pell

di Matteo Matzuzzi

Roma. “C’è la forte sensazione che la chiesa sia come una nave senza timone”, dice il cardinale Raymond Leo Burke, prefetto della Segnatura apostolica e capofila dello schieramento conservatore che al Sinodo s’è opposto – con successo, almeno nella prima fase – alla ratifica delle tesi novatrici su divorziati risposati e omosessuali proposte da Walter Kasper lo scorso febbraio e fatte proprie in assemblea dal segretario speciale, mons. Bruno Forte. È proprio Kasper a finire nel mirino del porporato americano, uno di quei cardinali “che appoggiano e celebrano” la messa antica in latino e coram Deo che il Papa emerito Benedetto XVI, “monaco in clausura”, ha definito “grandi” in un recente messaggio spedito al delegato generale del Coetus Summorum Pontificum
“Da quando Kasper ha iniziato a diffondere la sua opinione – dice Burke in un’intervista apparsa sul sito Vida Nova – una parte della stampa ha fatto passare l’idea che la chiesa abbia intenzione di cambiare la sua disciplina. E questo ha creato gravi difficoltà pastorali. Il cardine della chiesa è il matrimonio. Se non insegniamo e viviamo bene questa realtà, siamo perduti. Finiamo di essere la chiesa”. Non ce l’ha con il Papa, assicura Burke, che però osserva come “ci siano persone che soffrono un po’ di mal di mare, perché sembra loro che la nave della chiesa abbia perso la bussola”. È la confusione “diabolica” di cui parlava il vescovo pellerossa di Philadelphia Charles Chaput dopo la disputa teologica aspra e serrata nell’Aula sinodale.
Una confusione che a giudizio del cardinale australiano George Pell, segretario per l’Economia, va eliminata al più presto, “entro i prossimi dodici mesi”, quelli che separano la chiesa dal Sinodo ordinario (e decisivo) sulla famiglia. Lo ha scritto nell’omelia letta dal suo segretario durante la messa in rito antico che s’è svolta qualche giorno fa alla Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini. Pell era assente, bloccato da un malanno di stagione – “unico motivo per il quale non sono lì”, ha scritto per tacitare le voci maliziose su una  presa di distanza dal mondo tradizionalista decisa per motivi d’opportunità “politica”. Niente di tutto questo,  visto che il cardinale già arcivescovo di Sydney ha spronato, attraverso un lungo messaggio, i cattolici a organizzarsi, a prepararsi per la battaglia nelle diocesi tra chi vorrà ampliare e rendere definitive le aperture dei novatori e chi vorrà frenare, ribadendo che al mistero divino non appartiene solo la misericordia, ma anche santità e giustizia, come ha ripetuto il cardinale prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller. Pell ha scelto di tornare sui temi sinodali durante l’annuale pellegrinaggio che ogni ottobre ricorda il motu proprio promulgato nel 2007 da Joseph Ratzinger che rendeva lecito e celebrabile il rito previsto dal messale di Pio V rivisto da san Giovanni XXIII, il Papa del Concilio.
Quest’anno, l’evento s’è concluso con il solenne pontificale celebrato all’altare della Cattedra, in San Pietro, dal cardinale Burke, al termine della lunga e lenta processione partita da Ponte Sisto. “Prima del prossimo ottobre, i cattolici devono lavorare per costruire un consenso che superi le divisioni correnti”, dice il porporato australiano, aggiungendo che “la pratica pastorale e gli insegnamenti possono essere cambiati solo attraverso il consenso”. Certo, osserva Pell, “la dottrina si sviluppa, nel senso che si comprende la verità più profondamente, ma nella storia cattolica non ci sono capriole dottrinali”. E questo perché “la tradizione apostolica annunciata innanzitutto da Cristo e fondata nelle Scritture è la pietra di paragone per la verità e la genuina pratica pastorale”. Il Papa, in tutto questo, ha una funzione fondamentale: “Il ruolo del successore di san Pietro è sempre stato vitale per la vita cristiana e cattolica, soprattutto perché è pietra di paragone della fedeltà dottrinale ed è risolutore delle dispute, sia dottrinali sia pastorali. La chiesa non è fondata sulla roccia della fede di Pietro”, ha chiarito Pell: “È fondata su Pietro stesso”.

"O grappoli umani della vite di Dio, il vostro vino inebria la Chiesa, .... gloria alla potenza che vi ha assistito quando combatteste!" (Rabbula di Edessa, Inno ai martiri) . In onore dei neomartiri pakistani

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Oggi, memoria di S. Carlo Borromeo, nonché dei SS. martiri Vitale ed Agricola, nell'Ottava di Tutti i Santi, la Gerusalemme celeste si arricchisce di due nuovi neo-martiri, assunti alla gloria di Dio dalla tribolazione di questo mondo. Col loro martirio, essi hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello, avendolo seguito da vicino e testimoniato, sino all'effusione del sangue, la loro fede nell'Invincibile, di Colui che ha vinto la morte. 
Si tratta di una coppia di giovani sposi pakistani, bruciati vivi in una fornace, dove si cuociono mattoni, perché blasfemi nei riguardi della religione islamica!
La notizia, riferita per prima dall'Agenzia Fides, è riportata dalle principali testate giornalistiche nazionali come Corriere della Sera, Repubblica, Il Giornale, La StampaLeggo,Il Foglio, ed internazionali come Pakistan Today, Pakistan Christian Post. Persino Avvenirel'ha rilanciata.
Emblematicamente la notizia è stata ignorata dall'Osservatore romano del 5.11.2014!!!
Che i neomartiri, Shahzad Masih (il marito) e Shama Bibi (la moglie), da ritenersi già vicini a Dio, nel loro giorno natalizio, preghino per noi e per la Chiesa!

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Pakistan. Due cristiani accusati di blasfemia arsi vivi in una fornace dove si cuociono i mattoni

Lahore – Una coppia di cristiani, lui il 26enne Shahzad e lei, la 24enne Shama, sono stati arsi vivi da una folla di musulmani, provenienti da cinque villaggi a Sud di Lahore , che li accusavano di aver commesso blasfemia, per aver bruciato delle pagine del Corano. Lo comunica all’Agenzia Fides l’avvocato cristiano Sardar Mushtaq Gill, difensore dei diritti umani, che è stato chiamato da altri cristiani e si è recato sul luogo del tragico avvenimento, il villaggio “Chak 59”, nei pressi della cittadina di Kot Radha Kishan, a sud di Lahore. I due, che lavoravano in una fabbrica di argilla, sono stati sequestrati e tenuti in ostaggio per due giorni, a partire dal 2 novembre, all’interno della fabbrica. Questa mattina alle ore 7.00 sono stati spinti nella fornace dove si cuociono i mattoni.
Come spiegato a Fides dall’avvocato Gill, l’episodio incriminato, cioè la supposta blasfemia, è relativo alla recente morte del padre di Shahzad. Due giorni fa Shama, ripulendo l’abitazione dell’uomo, aveva preso alcuni oggetti personali, carte e fogli dell’uomo, ritenuti inservibili, facendone un piccolo rogo. Secondo un uomo musulmano che ha assistito alla scena, in quel rogo vi sarebbero state delle pagine del Corano. L’uomo ha quindi sparso la voce nei villaggi circostanti e una folla di oltre 100 persone ha preso in ostaggio i due giovani. Stamane il tragico epilogo. La polizia, avvisata da altri cristiani, è intervenuta constatando il decesso e arrestando, per un primo interrogatorio, 35 persone. L’avvocato Gill dice a Fides: “E’ una vera tragedia, è un atto barbarico e disumano. Il mondo intero deve condannare fermamente questo episodio che dimostra come sia aumentata in Pakistan l’insicurezza tra i cristiani. Basta un’accusa per essere vittime di esecuzioni extragiudiziali. Vedremo se qualcuno sarà punito per questo omicidio”.

Fonte: Tempi, 4.11.2014.  

Messaggio del card. segretario di Stato in occasione del III Pellegrinaggio Summorum Pontificum

Card. Brandmüller: "All'Europa in crisi serve una 'rivoluzione' cattolica!"

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Oggi, memoria liturgica tradizionale dei SS. Zaccaria ed Elisabetta, genitori del Precursore, su segnalazione, ben volentieri rilancio sul blog questo magistrale intervento del card. Brandmüller tenuto lo scorso 25 ottobre a Norcia.

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ALL’EUROPA IN CRISI SERVE UNA «RIVOLUZIONE» CATTOLICA. IL CARDINALE BRANDMÜLLER SPIEGA PERCHÉ

Pubblichiamo lo splendido intervento del cardinale Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, alla giornata di commemorazione del 50° anniversario della proclamazione di san Benedetto patrono d’Europa, che si è tenuta sabato 25 ottobre a Norcia. Intervento sul tema «Il contributo della Chiesa al futuro dell’Europa».

di Walter Brandmüller

Da quando - avviato dai grandi europeisti e cattolici Adenauer, De Gasperi e Schumann - si è messo in moto il processo di unificazione europea, nelle conferenze, nelle pubblicazioni e così via, si evocano le radici cristiane dell’Europa, di quell’Europa la cui identità spirituale e culturale, cresciuta in questi due millenni, risale a un’eredità garantita dai nomi Atene, Gerusalemme e Roma. Di Mecca e Medina non si parlerà nel presente contesto.
Ma non è di questo che ci occuperemo oggi. Il nostro sguardo si volge piuttosto verso il futuro e domandiamo: che contributo può dare la Chiesa cattolica - che ci ha trasmesso questa eredità e continua a tramandarla ancora oggi - per plasmare l’Europa del futuro, affinché diventi degna dell’uomo, umana e quindi anche corrispondente alla volontà del Creatore?
Non dimentichiamo, poi, che la Chiesa non è solo annunciatrice del Vangelo di Gesù Cristo, ma si è sempre compresa anche come custode del patrimonio spirituale naturale, del vero, del buono e del bello. La grazia presuppone la natura. Perciò, ancor prima dell’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo, il contributo della Chiesa al futuro dell’Europa consiste nel ripristino - per così dire - delle basi naturali della vita umana, della società umana.

LA REALTÀ SOCIALE ATTUALE

Per comprendere che si tratta di una necessità vitale è sufficiente uno sguardo anche solo superficiale alla realtà sociale attuale. Essa mostra, in tempi preindustriali, inaridimenti morali inimmaginabili.
Possiamo citare qualche esempio. La vita e la salute della popolazione vengono messe in pericolo attraverso la produzione e la distribuzione di generi alimentari avariati. Imprenditori edili utilizzano materiali scadenti con il rischio che gli edifici crollino. Operatori economici causano, attraverso speculazioni sconsiderate, il caos dei mercati finanziari. Bambini vengono rapiti, mutilati, uccisi, per commerciare i loro organi in tutto il mondo. Dietro a discutibili ricerche di biotecnologia si nascondono grandi interessi finanziari. A ciò si aggiunge il decennale scandalo dell’aborto, al quale corrisponde in maniera sempre crescente l’eutanasia. E qui mi fermo.
Tutte queste cose, che fanno ormai parte del quotidiano e quindi vengono sempre meno percepite, sono indizi di una decadenza dell’umanità e della cultura - un ritorno alla barbarie - di dimensioni quasi impensabili. É possibile - ed è questa una domanda inquietante - è possibile costruire su queste basi un’Europa in cui valga la pena vivere? Un’Europa che possiamo augurare alle generazioni future?

LA LEGGE MORALE NATURALE

È dunque arrivata l’ora della Chiesa, dei cattolici.
Al centro c’è in primo luogo la legge morale naturale, della quale la Chiesa cattolica si considera e si dimostra da sempre protagonista. La legge morale naturale non è affatto una specialità cattolica, una norma che esiste solo per i cattolici. Per questo l’annuncio etico dei pontefici si rivolge “a tutti gli uomini di buona volontà”, giacché le norme e i principi indicati non risultano solo dalla rivelazione biblica, bensì dall’essenza dell’uomo e del inondo, dalla loro natura. È in questo senso che parliamo anche di legge naturale. Contro di essa si solleva naturalmente l’energica protesta della scuola giuspositivista, che vuole riconoscere come diritto soltanto ciò che è stato dichiarato norma e legge da una autorità legislativa legittimata, qualunque essa sia.
Così, però, si spiana la strada a un relativismo incontrollabile del diritto, le cui conseguenze non possono che far fallire detta teoria.
Il dilemma del giuspositivismo diventa eclatante se si prendono per esempio i processi di Norimberga. Non può esservi alcun dubbio sul fatto che il violento regime nazionalsocialista sia giunto al potere in maniera legale. Gli organi costituzionali da esso creati avevano pertanto un potere anche legislativo -legittimo. Dunque, le leggi da essi promulgate, che vietavano i cosiddetti matrimoni misti, che ordinavano la sterilizzazione forzata dì persone affette da presunte tare ereditarie e l’uccisione di persone con disabilità mentale, e tante altre ancora, secondo il giuspositivismo erano indubbiamente norma vigente.
Era dunque legittimo processare e punire quanti avevano applicato quelle leggi? O erano solo vittime innocenti di una giustizia vendicativa delle potenze vincitrici? In sintesi, lo spunto giuspositivista porta fuori strada e conduce al caos.
Quel che rimane è la legge morale naturale, che risulta dall’ordine metafisico che abita l’intero creato ed è riconoscibile con la ragione. È ciò che la Chiesa ha annunciato sin dalle sue origini, e che è stato sviluppato e spiegato dalla filosofia e dalla teologia scolastica- t l’unica base solida della vita morale individuale e sociale.
Non era possibile non aspettarsi che la Chiesa, annunciando questa legge morale, riscontrasse una forte opposizione da parte dei diversi sistemi filosofici dell’epoca moderna, e nemmeno in futuro le cose cambieranno.
Bisogna però ricordare che, così come la natura umana è la stessa nello spazio e nel tempo, se la vita individuale e sociale deve funzionare, anche l’agire morale dell’uomo deve orientarsi a principi e norme che attraversano lo spazio e il tempo, risultanti dalla natura-persona dell’uomo.
Nell’enciclica Veritatis splendor Papa Giovanni Paolo Il osserva a tale proposito: “solo nell’obbedienza alle norme morali universali l’uomo trova piena conferma della sua unicità di persona e possibilità di vera crescita morale [...]. Queste norme costituiscono, infatti, il fondamento incrollabile e la solida garanzia di una giusta e pacifica convivenza umana, e quindi di una vera democrazia” (n. 96).
“Così, solo una morale che riconosce delle norme valide sempre e per tutti, senza alcuna eccezione, può garantire il fondamento etico della convivenza sociale, sia nazionale che internazionale” (n. 97).
Si tratta qui di un complesso di principi e di norme che - è bene ripeterlo - esisteva già molto prima di qualunque legislazione, poiché è radicato nell’ordine dell’essere stesso, e al quale ogni legislazione deve misurarsi se vuole avanzare la pretesa di essere giusta. Già Graziano affermava: “Ius autem dictum, quia iustum est”, ovvero “è diritto ciò che è giusto”, e non il contrario: “è giusto ciò che è diritto”.

LA VERITÀ

Se il primo contributo che la Chiesa può dare è il riferimento alla fondamentale importanza della legge naturale per il futuro dell’Europa, il secondo consiste nel far comprendere’ alla società che cosa significa per lei la verità.
Che la sola menzione di questo termine susciterà una tempesta di obiezioni, lo accettiamo tranquillamente. Pilato ha trovato molti successori sia nell’antichità, sia più recenti. E non c’è fine alle definizioni della verità.
Tuttavia: le - chiamiamole - correnti di pensiero filosofico ostili alla verità - poiché di sistemi non si può certo parlare - che si sono fatte sentire soprattutto a partire dal tardo XVII secolo, dovranno pure accettare che si domandi loro quali frutti sociali, culturali e politici ha dato la loro dimenticanza della verità.
Ci sono anzitutto gli utilitaristi come Thomas Hobbes, John Stewart Mill o Auguste Conte, per i quali iI criterio decisivo dell’azione umana è la sua utilità, ovvero il successo. Un esempio classico di utilitarismo applicato è il sommo sacerdote Caifa, che, tra le altre cose, giustifica la condanna a morte di Gesù dicendo che è meglio che muoia una persona sola piuttosto che soffra l’intero popolo. Che le accuse che vengono rivolte siano vere o meno non ha nessuna importanza per l’utilitarista.
Poi c’è il pragmatismo - prodotto tipicamente americano del XIX secolo -, il quale insegna che la verità non ha un significato proprio, ma risulta dall’utilità di un pensiero per affrontare le questioni pratiche. Il criterio della verità è la fattibilità. Qui va ricordato Ponzio Pilato, che crea pace e ordine a Gerusalemme, cede al popolo, libera l’idolo della folla Barabba e fa crocifiggere Gesù. Anche lui non si pone la questione della verità.
Ancor più radicale è il relativismo, che annuncia con enfasi che una verità assoluta, completa, e quindi anche norme morali generalmente valide, non esistono, che non possono esistere, poiché ogni riconoscimento dipende dalle circostanze individuali o storico-culturali, che sono in costante mutamento. Chi invece afferma di aver riconosciuto la verità, e così soggetto eo ipso al giudizio di condanna e alla dura intolleranza dei relativisti, che però, assolutizzando il loro relativismo in questo modo, lo portano all’assurdo.
Non dovrebbe essere troppo sbagliata la constatazione che le cause delle grandi catastrofi politico-culturali del XX secolo, come anche dei fenomeni attuali di decadenza appena citati, risiedono - forse anche in maniera prevalente - in questo atteggiamento mentale molto diffuso, per il quale la verità non è rilevante.
Occorre quindi porre grande enfasi sulla riscoperta dell’importanza della verità per il nostro pensiero e la nostra azione. Le domande decisive non devono essere “a che serve” o “è fattibile?”, bensì: “è vero?”, “corrisponde a verità?”. Porre questi interrogativi anche solo in relazione alla vita ecclesiale significherebbe dare un primo contributo a ciò che Benedetto XVI ha definito “liberazione dalle forme di mondanità” e che Papa Francesco esige.
La risposta presuppone necessariamente l’esistenza e la riconoscibilità di una verità sovrasoggettiva. Senza di essa, la comunicazione tra le persone o le comunità è impossibile. Senza di essa si giunge all’atomizzazione della società, nella quale poi i singoli “atomi”, ovvero le persone, stanno l’uno accanto o contro l’altro, il che non può che produrre il bellum omnium contra omnes e il homo homini lupus di Thomas Hobbes.
Le suddette correnti di pensiero dell’utilitarismo e del pragmatismo non vanno però rifiutate solo per le loro devastanti conseguenze pratiche, ma devono essere considerate insostenibili anche, e ancor più, per le loro contraddizioni interne. La verità della ragione, che nessuno mette in dubbio, sarebbe assurda senza l’esistenza e la riconoscibilità della verità. A che cosa servirebbe la ragione? Solo per dimostrare che la verità non esiste? Senza verità la ragione è inconsistente e quindi inutile.
In modo analogo, il fatto che esistono occhi e orecchie presuppone anche l’esistenza di forme e di colori, o di suoni e di rumori, se non vogliamo considerare gli occhi e le orecchie solo degli inutili capricci dell’evoluzione. Similmente, anche il relativismo porta se stesso all’assurdo. Se tutti hanno una verità individuale, è inevitabile che tante di queste verità si scontrino, si contraddicano. Ma poiché nel relativismo non esiste un criterio vincolante per il vero e il falso, ovvero il bene e il male, la conseguenza non può che essere la paralisi totale o il caos. Il relativismo si dimostra - anche per altre ragioni - una strada sbagliata del pensiero.
Di fatto esiste però l’esperienza diretta della verità, che viene confermata dalla realtà. La verità di una teoria medica viene confermata quando la sua applicazione porta alla guarigione. Se - tanto per indicare un altro esempio - è possibile, attraverso calcoli tisici-matematici, fare atterrare gli astronauti in un determinato quadrante della superficie lunare, è solo perché le leggi della fisica sulle quali poggia l’impresa e i calcoli che si basano su di esse sono veri. Poter toccare con mano, come in questi casi, l’adaequatio intellectus et rei, è un’esperienza intellettuale straordinaria!
A prescindere dal fatto che né la ragione umana, né l’universo possono essere spiegati da se stessi, ma solo come realtà creata, la cosa più sorprendente in ciò è la perfetta armonia, l’intrecciarsi, il riferimento reciproco del pensare e dell’essere, della verità e della realtà. Ciò però rimanda inevitabilmente a un’istanza che sovrasta e abbraccia tutto il pensare e l’essere, ovvero il Creator Spiritus.

LA TRASCENDENZA DI DIO

Se finora si è parlato dell’importanza fondamentale per il futuro dell’Europa - e del mondo - di una riscoperta della legge morale naturale e della verità, il riferimento appena fatto al Creatore del mondo e dell’uomo solleva il tema decisivo per antonomasia, ovvero “Dio”.
Proprio come la vita umana non può riuscire senza la legge morale naturale e il radicamento nella verità, così anche l’esistenza del inondo e dell’uomo non può essere concepita senza Dio. Si tratta dunque di rendere consapevole la società europea di oggi e di domani dei suo fondamentale riferimento trascendente.
Un individuo, una società, che non riconosce o che addirittura nega volutamente questo rapporto essenziale con la trascendenza, si preclude la dimensione decisiva dell’esistenza umana. Il fatto che a questo sia collegata, per principio, una rinuncia a ciò che è vero, buono, bello e santo, appare evidente se si tiene conto che la fonte di tutto il verumbonumpulchrum e sacrum finiti è il Creatore infinito ed eterno di ogni essere.
In sostanza, il contributo decisivo della Chiesa al futuro dell’Europa consiste nel tenere aperto l’accesso alla trascendenza.

IL METODO: “HUMANUM

Forse adesso qualcuno si stupirà che, pur spiegando il contributo della Chiesa al futuro dell’Europa, finora non è stata detta una sola parola sulla fede cristiana, la rivelazione e il Vangelo, quando in fondo la nuova evangelizzazione del nostro continente è una grande preoccupazione della Chiesa.
Che non c’è stata nessuna omissione ce lo dice Papa Benedetto XVI quando parla di un “cortile dei gentili”, alludendo allo spazio davanti all’antico tempio di Gerusalemme nel quale poteva entrare anche chi non era ebreo.
Prima ancora di qualsiasi annuncio del Vangelo, infatti, la Chiesa comprende se stessa anche come avvocata dell’uomo, dell’humanum. Per questo considera come suo compito anche la riparazione delle fondamenta umane. Si muove dunque in uno spazio pre-religioso e perciò può parlare con ogni interlocutore che sia privo di pregiudizi e aperto a un dibattito razionale. In tal anodo si possono creare i presupposti per l’annuncio e l’accoglimento del Vangelo. Cercando di riportare nella coscienza della società la legge morale naturale, l’importanza della verità e il riferimento a Dio del mondo e dell’uomo, essa prepara il terreno inaridito e avvelenato dalle ideologie del XX secolo per la semina del Vangelo.

LA FORZA DELL’ARGOMENTAZIONE

La domanda che si pone ora, però, è se un tale sforzo è destinato ad aver successo. Di certo c’è che la misura dell’influenza esercitata dalla Chiesa su una società che s’intende laica è determinata prima di tutto dal numero dei fedeli e dal loro peso sociale e politico. La Chiesa ha solo l’influenza e il potere che la società è disposta a concederle, Ciò però significa anche - e vorrei qui aprire una parentesi - che i fenomeni negativi nella storia più recente dell’Europa non sono nati dalla attuazione di principi cristiani, ma piuttosto dall’allontanamento da essi. t bene ricordare anche che i politici di oggi e di domani, diversamente da quelli del tardo XIX secolo e del periodo dopo la seconda guerra mondiale, non dispongono più di un braccio politico come quello rappresentato dai partiti cristiani del passato. A ciò sì aggiunge poi che i media, che determinano l’opinione pubblica, fatte sempre più rare eccezioni, si trovano in mani che certamente non sono disposte ad aiutare la missione della Chiesa.
Che possibilità hanno, dunque, la Chiesa e i cattolici di dare il contributo appena descritto al futuro dell’Europa?
Resta loro solo la forza dell’argomentazione. E questa argomentazione - a prescindere da tutto il resto - è una domanda, per di più utopistica: che aspetto potrebbe avere questa Europa, che genere di società potrebbe nascere, che cultura verrebbe creata, se l’Europa del domani, almeno nei suoi strati pensanti, si decidesse a porre alla base del modellamento di questo continente, che si sta sempre più unificando, la Magna Charta della comprensione cattolica dell’uomo e del mondo?
Significherebbe soltanto che sarebbero la legge naturale secondo la comprensione classica, il decalogo dell’Antico Testamento e il discorso della montagna del Nuovo Testamento a costituire il metro sul quale misurare le norme per la vita sia privata sia sociale. Non c’è alcun dubbio che una tale società sarebbe di gran lunga più umana di quella dove il potere del più forte riesce a spianare la strada allo sconfinato egoismo dell’individuo, dove il più debole non ha alcuna possibilità, e dove il danaro, il potere e il piacere sono considerati gli obiettivi massimi della vita.
Se, d’altro canto, all’intoccabilità della persona, alla responsabilità del singolo per il tutto, al rispetto verso il creatore e le creature, alla dignità del matrimonio e della famiglia, si attribuisse il “rango di costituzione”, certamente non ne conseguirebbe il paradiso in terra. Tuttavia, su queste fondamenta, nonostante la fragilità delle realizzazioni terrene, potrebbe nascere una società molto più umana rispetto a quella in cui viviamo oggi. Si tratta di un’utopia come quella della “pace perpetua” di Kant? Come dimostra l’utopia marxista di una società priva dì classi, le utopie dispiegano la propria forza, che nel caso di Marx è distruttiva. Allora perché anche l’utopia di un’Europa cristiana non dovrebbe dare prova della sua dinamica modellante, costruttiva?
Intanto l’Europa può guardare indietro a un secolo di catastrofi, nate come ultime conseguenze delle ideologie nazionalsocialista e marxista, il cui errore, così ostile all’uomo, si è dimostrato in maniera tanto perentoria. Nella tragica situazione storico-culturale attuale, si pone in effetti la domanda se questa Europa scossa dalle crisi non voglia tirare fuori la curiosità e il coraggio per osare l’ “esperimento cattolico”.
Tale domanda è un appello a tutte le persone che, per la loro preparazione e posizione sociale, possono influenzare la formazione di una coscienza pubblica che perlomeno non si chiuda al messaggio cristiano. Ciò significa che ognuno di noi, nel proprio ambito di vita, deve sostenere questo obiettivo con consapevolezza e tenacia.

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