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Dio è misericordioso ma è anche giusto. Ce lo ricorda S. Alfonso M. de' Liguori

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Qualche giorno fa riportavamo un aforismadi S. Alfonso. Ora ne riproduciamo per intero il testo da cui era tratto:


Si ha nella parabola della zizania in S. Matteo (cap. 13) che essendo cresciuta in un campo la zizania insieme col grano, volevano i servi andare ad estirparla: “Vis, imus, et colligimus ea?” Ma il padrone rispose: No, lasciatela crescere, e poi si raccoglierà e si manderà al fuoco: “In tempore messis dicam messoribus, colligite primum zizania, et alligate ea in fasciculos ad comburendum”. Da questa parabola si ricava per una parte la pazienza che il Signore usa co’ peccatori; e per l’altra il rigore che usa cogli ostinati. Dice S. Agostino che in due modi il demonio inganna gli uomini: “Desperando, et sperando”. Dopo che il peccatore ha peccato, lo tenta a disperarsi col terrore della divina giustizia; ma prima di peccare, l’anima al peccato colla speranza della divina misericordia. Perciò il santo avverte ad ognuno: “Post peccatum spera misericordiam; ante peccatum pertimesce iustitiam”. Sì, perché non merita misericordia chi si serve della misericordia di Dio per offenderlo. La misericordia si usa con chi teme Dio, non con chi si avvale di quella per non temerlo. Chi offende la giustizia, dice l’Abulense, può ricorrere alla misericordia, ma chi offende la stessa misericordia, a chi ricorrerà?
Difficilmente si trova peccatore sì disperato, che voglia proprio dannarsi. I peccatori vogliono peccare, senza perdere la speranza di salvarsi. Peccano e dicono: Dio è di misericordia; farò questo peccato, e poi me lo confesserò. “Bonus est Deus, faciam quod mihi placet”, ecco come parlano i peccatori, scrive S. Agostino (Tract. 33. in Io.). Ma oh Dio così ancora dicevano tanti, che ora sono già dannati.
Non dire, dice il Signore: Sono grandi le misericordie che usa Dio; per quanti peccati farò, con un atto di dolore sarò perdonato. “Et ne dicas: miseratio Domini magna est, multitudinis peccatorum meorum miserebitur” (Eccli. 5. 6). Nol dire, dice Dio; e perché? “Misericordia enim, et ira ab illo cito proximant, et in peccatores respicit ira illius” (Ibid.). La misericordia di Dio è infinita, ma gli atti di questa misericordia (che sono le miserazioni) sono finiti. Dio è misericordioso ma è anche giusto. “Ego sum iustus, et misericors”, disse il Signore un giorno a S. Brigida; “peccatores tantum misericordem me existimant”. I peccatori, scrive S. Basilio, vogliono considerare Dio solo per metà: “Bonus est Dominus, sed etiam iustus; nolite Deum ex dimidia parte cogitare”. Il sopportare chi si serve della misericordia di Dio per più offenderlo, diceva il P.M. Avila che non sarebbe misericordia, ma mancamento di giustizia. La misericordia sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa. “Et misericordia eius timentibus eum”, come cantò la divina Madre. Agli ostinati sta minacciata la giustizia; e siccome (dice S. Agostino) Dio non mentisce nelle promesse; così non mentisce ancora nelle minacce: “Qui verus est in promittendo, verus est in minando”.
Guardati, dice S. Gio. Grisostomo, quando il demonio (ma non Dio) ti promette la divina misericordia, affinché pecchi; “Cave ne unquam canem illum suscipias, qui misericordiam Dei pollicetur” (Hom. 50. ad Pop. Antioch.). Guai, soggiunge S. Agostino, a chi spera per peccare: “Sperat, ut peccet; vae a perversa spe” (In Ps. 144). Oh quanti ne ha ingannati e fatti perdere, dice il santo, questa vana speranza. “Dinumerari non possunt, quantos haec inanis spei umbra deceperit”. Povero chi s’abusa della pietà di Dio, per più oltraggiarlo!
Dice S. Bernardo che Lucifero perciò fu così presto castigato da Dio, perché si ribellò sperando di non riceverne castigo. Il re Manasse fu peccatore, poi si convertì, e Dio lo perdonò; Ammone suo figlio, vedendo il padre così facilmente perdonato, si diede alla mala vita colla speranza del perdono; ma per Ammone non vi fu misericordia. Perciò ancora dice S. Gio. Grisostomo che Giuda si perdé, perché peccò fidato alla benignità di Gesu-Cristo: “Fidit in lenitate magistri”. In somma Dio, se sopporta, non sopporta sempre. Se fosse che Dio sempre sopportasse, niuno si dannerebbe; ma la sentenza più comune è che la maggior parte anche de’ cristiani (parlando degli adulti) si danna: “Lata porta et spatiosa via est, quae ducit ad perditionem, et multi intrant per eam” (Matth. 7. 13).
Chi offende Dio colla speranza del perdono, “irrisor est non poenitens”, dice S. Agostino. Ma all’incontro dice S. Paolo che Dio non si fa burlare: “Deus non irridetur” (Galat. 6. 7). Sarebbe un burlare Dio seguire ad offenderlo, sempre che si vuole, e poi andare al paradiso. “Quae enim seminaverit homo, haec et metet” (Ibid. 8). Chi semina peccati, non ha ragione di sperare altro che castigo ed inferno. La rete con cui il demonio strascina all’inferno quasi tutti quei cristiani che si dannano, è quest’inganno, col quale loro dice: Peccate liberamente, perché con tutt’i peccati vi salverete. Ma Dio maledice chi pecca colla speranza del perdono. “Maledictus homo qui peccat in spe”. La speranza del peccatore dopo il peccato, quando vi è pentimento, è cara a Dio, ma la speranza degli ostinati è l’abbominio di Dio: “Et spes illorum abominatio” (Iob. 11. 20). Una tale speranza irrita Dio a castigare, siccome irriterebbe il padrone quel servo che l’offendesse, perché il padrone è buono. (cfr. op. cit., Considerazione XVII – Abuso della divina misericordia, Punto I).

Fonte: S. Alfonso M. de’ Liguori, Apparecchio alla Morte cioè Considerazioni sulle Massime Eterne Utili a tutti per meditare, ed a’ sacerdoti per predicare, in “OPERE ASCETICHE” Vol. IX, CSSR, Roma 1965

“Divíni amóris vi frequéntes patiebátur éxstases, altissimæque contemplatiónis et divínæ uniónis donum obtínuit” (Lect. V – II Noct.) - SANCTÆ GERTRUDIS MAGNÆ (ELPIDIENSIS), VIRGINIS ORDINIS SANCTI BENEDICTI

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L’arte cristiana è solita rappresentare i beati con l’emblema caratterizzante meglio l’aspetto speciale della loro santità. È per questo che santa Gertrude è rappresentata con un cuore infiammato tra le mani, perché, come ella abitò misticamente nel Sacro Cuore di Gesù, il Salvatore dimorò in lei con la fede e con l’amore.
La missione di quest’illustre vergine benedettina del XIII sec. fu molto simile a quella di santa Margherita Maria Alacoque, che, d’altronde, nella sua luce profetica, ella annunciò e conobbe. Tra le due mistiche vi è stata tuttavia una differenza: le grandi rivelazione del Cuore di Gesù alla santa benedettina sono destinate a nutrire la pietà di un gruppo scelto di anime privilegiate; mentre, quelle di Paray-le-Monial devono diventare il tesoro di tutto l’universo cattolico. Sostanzialmente, l’oggetto delle apparizioni da cui furono favorite le due veggenti è identico: è l’amore ineffabile di Gesù, di cui il Cuore è l’organo ed il segno fisico. Ma, quanto alla maniera di concepire questa devozione, la formazione differente tra le due sante vi si rivela in modo chiaro.
In un Ordine che, durante più di sette secoli, era stato il pacifico erede della tradizione patristica, e dove la liturgia cattolica era la fonte quasi esclusiva della vita spirituale, Gertrude concepiva la devozione al Sacro Cuore di Gesù non tanto come una devozione speciale, quanto come una comprensione più elevata del grande e totale mistero del Cristo, il quale rivive nella Chiesa per mezzo della liturgia cattolica. È l’amore stesso di Gesù che spiega ed illustra, nella preghiera cattolica della Chiesa, tutto il dramma della sua incarnazione, i battiti del suo Cuore.
La mistica di santa Gertrude è fondata, difatti, esclusivamente sulla vita liturgica della famiglia cattolica. Non conosce altre pratiche di devozione che l’ufficio divino e le messe solenni che Gertrude cantava ogni giorno, con la cantrix Mechtildis– santa Matilde – e con la sua comunità, nel coro dell’abbazia di Helfta. Le rivelazioni da cui fu favorita dal Signore erano generalmente in relazione con questo Ufficio divino: ora Gesù gliene spiegava il senso nascosto, ora le insegnava il modo più sublime di adattarvisi e di riviverlo.
L’atmosfera che cinge l’anima di Gertrude è generalmente luminosa e serena. Piuttosto che un abisso di dolore, è un mistero di grazia e di amore che Gesù le rivela nel suo Cuore. Non vede ancora questo Cuore divino cinto da una corona di spine, e non si sente chiamata da Gesù alla vocazione particolare di vittima di espiazione per i peccati del mondo, come più tardi sarà santa Margherita-Maria. È vero che talvolta il Divin Cuore si mostra a lei trapassato, ma questa ferita è una porta d’oro attraverso cui Gertrude si introduceva gioiosa nel santuario intimo della Divinità, nella camera nuziale dello Sposo.
A somiglianza di san Giovanni, che, nell’ultima Cena, mentre gli Apostoli si sentivano avvinti dal terrore all’annuncio del tradimento di Giuda e della morte prossima di Gesù, riposava dolcemente sul petto del Salvatore, la Benedettina di Helfta si immergeva nel Cuore del suo Amato come in un bagno purificatore, un asilo dove nessuno poteva raggiungerla per turbare la sua mistica contemplazione.
D’altro canto, ella considerava il Divin Cuore come una coppa d’oro alla quale si inebriano tutti i beati; o, meglio, vedeva una catena di oro che partiva dal Cuore del Salvatore e che rendeva il mondo prigioniero dell’amore. Talvolta il Sacro Cuore sembrava un incensiere fumante il cui incenso bruciava davanti al trono del Padre eterno, o ancora un scrigno prezioso nel quale erano conservati tutti i meriti della santa Incarnazione, meriti dai quali le anime potevano attingere liberamente.
Simbolo di dolore e di amore, il sacro Cuore, che appariva alla veggente benedettina rappresentava meno una devozione speciale, che non rifletteva quell’atteggiamento di affettuosa tenerezza verso l’umanità adorabile del Redentore che la pietà cattolica aveva assunto in Europa alla fine del Medioevo, dopo le aride disquisizioni teologiche dei bizantini.
Gertrude è una delle figure più autorevoli di questa corrente, ma non è la sola, neppure nella sua stessa abbazia di Helfta, dove, sotto la guida della santa badessa Gertrude di Hackeborn – troppo spesso confusa con la veggente omonima – vivevano e scrivevano dei lavori di mistica, santa Mechtilde (o Matilde) ed un’altra Mechtilde, pur’ella tanto insigne per i suoi meriti e per le rivelazioni celesti.
Se la devozione al Sacro Cuore di Gesù, come fu coltivata nel XIII sec. nel monastero di Helfta, riflette perfettamente l’antica spiritualità dell’ordine di San Benedetto, le grandi rivelazioni fatte a santa Margherita Maria sono più in armonia con la psicologia dei tempi nuovi, in quel momento eccezionale della vita della Chiesa all’antivigilia della Rivoluzione francese.
Gertrude stessa aveva intravisto la missione importantissima dell’umile discepola di san Francesco de Sales, un giorno che, con san Giovanni l’evangelista, era stata invitata da Gesù a riposare sul suo petto. Sentendo l’armonia dei battiti di quel Cuore adorabile, la Santa di Helfta chiese all’Apostolo dell’amore perché, nel suo Vangelo, non avesse svelato al mondo i tesori di luce e di misericordia che aveva scoperto, durante il suo mistico riposo sul petto del Salvatore nell’ultima Cena. Giovanni rispose che questa nuova e più toccante rivelazione erano state rimesse ad un’epoca più tardi, quando il mondo avrebbe toccato il fondo dell’abisso della malizia, così che per trarlo fuori Dio avrebbe dovuto ricorrere alle supreme risorse del suo invincibile amore.
Tale è il motivo per il quale, nella storia del culto del sacratissimo Cuore di Gesù, piuttosto che di parlare di nuova devozione, si deve tener conto tanto delle tradizioni mistiche dell’antica famiglia benedettina, quanto dei meriti acquistati nell’apostolato del Sacro Cuore dalle congregazioni religiose più recenti, senza opporre devozione a devozione, poiché tutto sviluppano ed illustrano l’unica pietà cattolica. Come l’Incarnazione, come l’Eucaristia, il Sacro Cuore di Gesù è un tesoro comune a tutta la Chiesa e non può dunque diventare il monopolio esclusivo di una famiglia particolare. Gertrude rassomiglia a santa Margherita Maria e le rivelazioni fatte alle veggenti benedettine di Helfta ricevettero il loro esatto compimento in quelle da cui fu favorita, quattro secoli più tardi, l’eroica figlia della Visitazione.
Gertrude nacque il 6 gennaio 1256; a cinque anni entrò nell’abbazia di Helfta; a venticinque ella fu gratificata dal carisma delle rivelazioni, ricevendo quella che ella stessa definì nei suoi scritti come “illuminazione”; verso la fine della sua vita, meritò di ricevere le stigmate e morì verso il 1302, a quarantasei anni. Il suo culto fu riconosciuto nel 1606 dal papa Paolo V. La festa fu estesa da Innocenzo X a tutto l’ordine benedettino nel 1678 ed iscritta nel martirologio romano lo stesso anno. Clemente XII ne fissò una festa doppia nel 1738 fissandola alla data del 17 novembre, poi anticipata al 15 nel 1739. La motivazione data da Dom Guréanger nel suo commento su San Gregorio Taumaturgo al 17 novembre è la seguente: «Quando Clemente XII, come abbiamo veduto, stabilì per la Chiesa universale la festa di santa Gertrude, la fissò a questo giorno, in cui continuano a celebrarla i Benedettini. Ma, dice Benedetto XIV, dato che il 17 novembre è da molti secoli dedicato al ricordo di Gregorio taumaturgo, è parso opportuno ammettere che colui che cambiava posto alle montagne, non dovesse perdere il posto per lasciarlo alla vergine e così dal 1739, che seguì la istituzione della nuova festa questa fu, per l’avvenire, celebrata il 15 dello stesso mese».
L’iscrizione nel calendario di sant’Alberto Magno ha fatto sì che la festa della Santa fosse nuovamente spostata al 16 novembre, sempre col rango doppio.
La messa Dilexistiè la stessa del 10 febbraio per Santa Scolastica, salvo la prima colletta che fa allusione alle parole che Gesù indirizzò un giorno a santa Gertrude: «In alcun altro luogo io non mi trovo così bene che nel seno del mio Padre celeste, nel sacramento dell’Eucaristia e nel tuo cuore, o mia sposa amatissima».
Racconta la Santa nel Legatus divinæ pietatis, testo suggerito da Gesù stesso, solitamente tradotto L’Araldo del divino amore, che un giorno, mentre ella, a causa delle sue infermità, non poté assistere, con le consorelle, alla conferenza spirituale (predica), Gesù le apparve e le spiegò che Egli operava così la salvezza degli uomini. Col primo battito, le disse, appagava il Padre eterno irritato contro i peccatori, scusando la loro malizia e spronandoli alla contrizione. Col secondo, si rallegrava con il Padre dell’efficacia del suo sangue versato per la salvezza dei giusti ed attirava soavemente i buoni ad agire con una perfezione sempre maggiore. E come le operazioni dei sensi non possono impedire al cuore umano di battere, così il governo di tutto l’universo non potrebbe rallentare mai nel suo Cuore quelle due pulsazioni di misericordia verso i giusti e verso i peccatori.
Riportiamo questo mirabile dialogo.
Il Signore le disse: «O mia diletta, vuoi che te la faccia io la predica?». La Santa accettò ed il Signore la avvicinò al suo Cuore, da dove intese quasi due battiti. Gesù le spiegò: «Ciascuno di questi battiti opera la salvezza degli uomini in tre modi. Col primo battito – che opera la salvezza dei peccatori – invoco incessantemente Dio Padre, lo placo e lo induco a misericordia. Poi parlo a tutti i miei santi e dopo aver perorato davanti ad essi la causa dei peccatori li eccito a pregare per loro. Infine mi rivolgo al peccatore stesso e lo invito misericordiosamente a penitenza, aspettando poi la sua conversione con un desiderio ineffabile. Col secondo battito – che opera la salvezza dei giusti – invito anzitutto Dio Padre a rallegrarsi con me per il sangue che così efficacemente ho sparso per la redenzione degli eletti, nella cui anima prendo ora le mie delizie. In secondo luogo eccito la milizia celeste a celebrare l’ammirabile vita dei giusti e a ringraziarmi per tutti i benefici che ho loro concessi e che ancora concederò. Infine mi rivolgo ai giusti stessi, attestando loro il mio amore ed eccitandoli a progredire di giorno in giorno e di ora in ora nella virtù. E come il battito del cuore umano non si interrompe mai per alcuna azione che si compia, così neppure l’azione della mia Provvidenza che governa il cielo, la terra e l’universo intero, potrà mai sospendere o rallentare per un istante questo doppio battito del mio cuore» (Cfr. Santa Gertrude la Grande, L’araldo del Divino AmoreRivelazioni, lib. III, cap. § 51).



Lucas Valdés, Ispirazione di S. Gertrude, 1677, Chiesa del Real Monasterio de San Clemente, Siviglia

Isidoro Arredondo, Visione di S. Gertrude con S. Agostino e la Trinità, 1673 circa, The Bowes Museum, Barnard Castle, County Durham


Giovanni Battista Gaulli detto Il Baciccio, S. Gertrude riceve la comunione dalle mani di Cristo, 1690-1700, Musée du Louvre, Parigi

Miguel Cabrera, S. Gertrude, 1763, Dallas Museum of Art, Dallas

Autore peruviano, S. Gertrude, XVIII sec., collezione privata

Card. Burke: «Bisogna fermare l'abuso della Comunione in mano!»

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Abbiamo già avuto modo di pubblicare le introduzioni in francese (v. qui) ed in italiano (v. qui) del card. Burke al libro di Mons. Schneider. Adesso è disponibile, e rilanciamo, la traduzione in italiano dell’introduzione del cardinale all’edizione polacca, traendola sempre da Chiesa e postconcilio. Il testo risulta più ampio rispetto ai precedenti.
E senz’altro consigliabile nella sua lettura e meditazione, essendo un testo che proviene da una personalità come il card. Burke, del quale lo scorso mese, per i tipi Cantagalli di Siena, è stato pubblicato il testo Divino amore incarnato - La santa eucarestia, sacramento di carità, in cui il cardinale svela tutta la bellezza della santa Eucaristia alla luce dei profondi insegnamenti di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI ed, attraverso il magistero della Chiesa, accompagna il lettore in un cammino che esalta l’importanza dell’Eucaristia per la vita di ogni cristiano.
Il testo di Mons. Schneider e quello di Mons. Laise - che abbiamo ricordato alcuni giorni fa (v. qui e qui) - si può dire costituiscano una sorta di Summa contemporanea sul problema del giusto modo di accostarsi all'Eucaristia.

L’appello di un cardinale: «Bisogna fermare l’abuso della Comunione in mano!».

Il testo che segue è l’introduzione dell’edizione polacca del libro del vescovo Schneider “Corpus Christi”, tradotto da p. Jacek Bałemba SDB e presentato in Polonia nello scorso mese di agosto dallo stesso vescovo Athanasius Schneider.

Nulla è più importante nella vita di un cattolico della santa Eucaristia. Il Decreto del Concilio Vaticano II sulla vita e il ministero sacerdotale, ispirandosi ad un testo di S. Tommaso, dichiara: «nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua, lui il pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante dà vita agli uomini i quali sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create». Lo stesso testo continua così: «per questo l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione, cosicché i catecumeni sono introdotti a poco a poco a parteciparvi, e i fedeli, già segnati dal sacro battesimo e dalla confermazione, ricevendo l’eucaristia trovano il loro pieno inserimento nel corpo di Cristo».
La santa Eucaristia è il mistero per eccellenza della fede. Mediante l’azione della Santa Messa, Cristo, assiso in gloria alla destra del Padre, discende sugli altari delle chiese e delle cappelle di tutto il mondo per rendere nuovamente presente il suo sacrificio sul Calvario, sacrifico unico con il quale l’uomo è salvato dal peccato e perviene alla vita in Cristo grazie all’effusione dello Spirito Santo. È mediante la santa Eucaristia che la vita quotidiana di un cattolico riceve simultaneamente ispirazione e forza.
Unito con tutto il cuore a Cristo nel sacrificio eucaristico, il cattolico fervente non è chiamato che ad essere una cosa sola con lui in ogni istante di ognuna delle sue giornate, portando la Croce e partecipando, così, all’opera incessante e senza prezzo del suo Amore puro e generoso per tutti gli uomini, oltre ogni frontiera. Ricevendo dal cuore Eucaristico di Gesù l’alimento celeste del suo Corpo, del suo Sangue, della sua Anima e della sua Divinità, riceviamo la forza per vivere in modo straordinario le circostanze ordinarie della vita quotidiana. È per questo che, al di là dell’obbligo grave di partecipare ogni domenica al Santo Sacrificio della Messa, i cattolici sono invitati a partecipare, se possibile, alla Santa Messa tutti i giorni.

PROFONDA RIVERENZA PER LA SANTA EUCARISTIA

A partire dal momento in cui si è compresa la realtà della santa Eucaristia – cioè che si tratta del Corpo, del Sangue, dell’Anima e della Divinità di Cristo donati all’uomo come pane celeste per sostenerlo spiritualmente nel suo pellegrinaggio terreno e come pegno del suo destino alle nozze celesti dell’Agnello (Ap XIX, 9) – si comincia anche a comprendere la profonda riverenza che occorre per trattare e ricevere la santa Eucaristia. Così, lungo i secoli, i fedeli hanno fatto la genuflessione arrivando davanti al Santissimo Sacramento e si sono inginocchiati in adorazione davanti alla Presenza Reale di Nostro Signore nella santa Eucaristia. Allo stesso modo, salvo circostanze straordinarie, solo il sacerdote o il diacono toccavano la santa Ostia o il calice del Preziosissimo Sangue. Uno dei ricordi più commoventi della mia infanzia è la grande delicatezza verso il Santissimo Sacramento che mi hanno insegnato i miei genitori, il nostro parroco e le suore delle nostre scuole cattoliche. Mi ricordo in particolare le indicazioni minuziose circa la riverenza dovuta alla Presenza Reale, che mi sono state date prima di essere ammesso ad aiutare il sacerdote come chierichetto.
I segni della Fede eucaristica si manifestavano allo stesso modo nella bellezza dell’architettura e degli arredi delle chiese e delle cappelle, nella qualità degli ornamenti, dei vasi sacri e della biancheria per il sacrificio eucaristico, e nella lingua e musica speciali - o, piuttosto, sacri - utilizzati nel Culto divino.
Col riservare attenzione al corpo e al Sangue di Cristo, la Chiesa si è sempre preoccupata di imitare in primo luogo l’esempio di Maria, sorella di Lazzaro, che ha unto Gesù con oli preziosi proprio prima della sua Passione e Morte. Quando Giuda, il traditore, contestò questo gesto di profonda venerazione e d’amore, trattandolo come uno spreco di risorse che avrebbero potuto essere utilizzate per occuparsi dei poveri, Nostro Signore rispose che Maria aveva agito in modo giusto e nobile, testimoniando la riverenza per il suo Corpo, che Egli doveva sacrificare per la salvezza eterna del genere umano (Gv 12,1-8).
In questo senso, sono stato sempre molto ispirato dall’esempio di san Francesco d’Assisi, che ha praticato la massima austerità nella sua vita religiosa di consacrato, ma insistendo sempre perché si riservasse la massima cura ad onorare il Santissimo Sacramento, anche in modo sontuoso, e a non utilizzare che i materiali più preziosi per il culto eucaristico. San Francesco non ha esitato ad ammonire i sacerdoti (obbligati dal loro ufficio a rendere onore al Santissimo Sacramento) circa la loro mancanza di riguardo verso questa realtà, sacra fra tutte.

COME SI RICEVE IL CORPO DI CRISTO

Fra tutti i ricchi aspetti della Fede e della pratica eucaristiche, è certamente fondamentale il modo in cui i fedeli ricevono il Corpo di Cristo nella santa Comunione. Al momento della santa Comunione, il fedele, ben consapevole della sua indegnità e pentendosi di tutti i suoi peccati, si presenta davanti al Signore che, nel suo amore senza fine e senza misura, offre il suo Corpo come alimento celeste affinché noi lo riceviamo.
Mi ricordo bene, nella mia infanzia, la diligenza di cui davano prova i miei genitori, così come i sacerdoti e le suore della scuola cattolica, per preparare i bambini a ricevere per la prima volta la santa Comunione. Mi sovvengono anche i frequenti richiami alla riverenza e all’amore che dovevamo dimostrare ricevendo la santa Comunione e facendo il ringraziamento subito dopo la ricezione del sacramento.
All’epoca della mia prima comunione, il 13 maggio 1956, la santa Ostia si riceveva alla balaustra, sulla lingua e in ginocchio, con le mani ricoperte da una tovaglia. Questo modo di ricevere la santa Comunione mi ha sempre colpito come la più alta espressione dell’infanzia spirituale insegnata da Nostro Signore (Mt 18,1-4), e di cui santa Teresa di Lisieux è una delle figure più notevoli. Proprio in quel periodo della mia vita, mio padre era gravemente malato ed era costretto a letto in casa. Morì nel mese di luglio 1956. Ricordo la grande preparazione e l’attenzione che egli manifestava ogni volta che il sacerdote veniva a portargli la santa Comunione. Si preparava una piccola tavola di fianco al suo letto, con un crocifisso, dei ceri e una tovaglia speciale. Si accoglieva il sacerdote in silenzio alla porta con un cero acceso e, anche se mio padre non poteva alzarsi, tutti restavano in ginocchio durante la cerimonia.
Anni più tardi, nel maggio 1969, è stata autorizzata la pratica di ricevere la Comunione in mano, a discrezione delle Conferenze episcopali, in parallelo con la pratica plurisecolare di ricevere la Comunione direttamente sulla lingua. Uno degli argomenti avanzati per introdurre la seconda opzione era l’esistenza di un uso antico di ricevere la santa Comunione in mano. Nello stesso tempo, l’istruzione della Congregazione per il Culto Divino, che permetteva la pratica della ricezione della santa Comunione in mano, sottolineava il fatto che la tradizione plurisecolare di ricevere la Comunione sulla lingua doveva essere preservata a motivo del rispetto dei fedeli verso la santa Eucaristia che questa pratica esprime. In questo senso, è interessante notare che il Papa Paolo VI (durante il cui pontificato è stato dato il permesso di ricevere la santa Comunione in mano), nella sua lettera enciclica Mysterium Fidei sulla dottrina e il culto del Santissimo Sacramento, promulgata quattro anni prima della concessione del permesso, si riferisce a un costume antico dei monaci che vivevano in solitudine, nonché dei cristiani perseguitati, secondo il quale essi prendevano la santa Comunione con le loro proprie mani. Tuttavia, il Papa aggiunge subito che questo riferimento ad un uso di altri tempi non rimette in questione la disciplina che si è diffusa in seguito circa il modo di ricevere la santa Comunione.
La pratica tradizionale si comprende meglio alla luce dell’ermeneutica della riforma nella continuità, contrapposta all’ermeneutica della discontinuità e della rottura, di cui ha parlato il Papa Benedetto XVI nel suo discorso di Natale 2005 alla Curia romana. Nell’ermeneutica della continuità, l’unica Chiesa «cresce nel tempo e (…) si sviluppa, rimanendo però sempre la stessa». Così, la pratica tradizionale di ricevere la santa Comunione manifesta una crescita ed uno sviluppo tanto della Fede eucaristica, quanto delle espressioni di riverenza verso il Santissimo Sacramento. Si potrebbe dire a proposito del modo tradizionale di comunicarsi ciò che il Papa Benedetto XVI diceva a proposito dell’Adorazione eucaristica nell’Esortazione Apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis: «l’Adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della Celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa».

ABUSI LITURGICI CONTRO IL SANTISSIMO SACRAMENTO

Sfortunatamente, l’iniziativa di ristabilire l’uso antico sopraggiunse proprio in un momento in cui numerosi abusi liturgici avevano gravemente sminuito la riverenza e la devozione dovute al Santissimo Sacramento. Inoltre, il periodo conosceva una secolarizzazione e un relativismo crescenti, i cui effetti furono devastanti nella Chiesa. Per di più, la “restaurazione” di questa pratica fu incompleta, perché si limitò alla ricezione della Comunione in mano, senza però includere gli altri ricchissimi dettagli dell’uso antico. In esito a tutto ciò, la ricezione della santa Comunione è diventata l’occasione di negligenze - anzi, addirittura di vere e proprie irriverenze - e, in qualche caso particolarmente deplorevole, il Santissimo Sacramento ricevuto in mano non viene consumato, ma, al contrario, assoggettato a varie forme d’abuso, fino al caso estremo in cui qualcuno porta via il Corpo di Cristo per profanarlo più tardi nel corso di una “messa nera”. Nella mia personale esperienza pastorale, i casi in cui la santa Ostia era stata lasciata in un libro di canti o in qualche altro posto, o anche portata a casa per la devozione privata - mi spiace doverlo segnalare - non sono stati rari. È ugualmente triste aver visto abbastanza spesso alcuni comunicanti strapparmi letteralmente l’Ostia dalle mani piuttosto che ricevere il Corpo di Cristo in modo conveniente.

MONS. ATHANASIUS SCHNEIDER

Edizione polacca
Mons. Athanasius Schneider, esemplare pastore d’anime, ha affrontato con amore coraggioso l’attuale situazione della ricezione della santa Comunione nel rito romano. Prendendo spunto dalla sua personale e ricca conoscenza della fede e della pratica eucaristiche nel periodo della persecuzione nel suo paese natale, è stato spinto a studiare in profondità l’antico uso di ricevere la santa Comunione in mano, così come il suo attuale ripristino. In modo chiaro ed accurato, Mons. Schneider spiega con che cura la pratica antica intendeva evitare tutto ciò che potesse suggerire l’auto-comunione, sottolineando l’aspetto infantile della Comunione; ed impedire che anche un solo frammento andasse perduto, e, così, fosse suscettibile di profanazione. Egli descrive anche brevemente le tappe dell’introduzione dell’uso attuale, che differisce in misura rilevante dalla vecchia pratica dell’antichità.
Mons. Schneider presenta poi, accuratamente, le conseguenze più gravi dell’attuale pratica di ricezione della Comunione in mano:
1. la riduzione o la scomparsa di ogni gesto di riverenza e di adorazione;
2. l’utilizzo, per ricevere la santa Comunione, di un gesto abitualmente adibito alla consumazione degli alimenti ordinari, dal che deriva una perdita di Fede nella Presenza Reale, soprattutto tra i bambini e i giovani;
3. l’abbondante perdita di frammenti della santa Ostia e la loro conseguente profanazione, soprattutto quando nella distribuzione della santa Comunione manchi il piattello;
4. un altro fenomeno che si diffonde sempre più: il furto delle Sacre Specie.
Prendendo in considerazione tutte queste conseguenze, Mons. Schneider dice a buon diritto che la giustizia – cioè il rispetto del diritto di Cristo di essere ricevuto nella santa Comunione con la riverenza e l’amore che Gli convengono, e di quello dei fedeli di ricevere la santa Comunione in un modo che esprima al meglio l’adorazione reverenziale – esige che la pratica attuale della ricezione della Comunione nel rito romano sia seriamente studiata in vista di una riforma il cui bisogno si fa pesantemente sentire.

IL DIRITTO DI CRISTO

Edizione italiana
Un aspetto del tutto preminente della trattazione di Mons. Schneider riguarda il diritto di Cristo, lo ius Christi. Ricordandoci l’umiltà totale dell’amore di Cristo che si dona a noi nella piccola Ostia, fragile per natura, Mons. Schneider richiama la nostra attenzione sul grave obbligo di proteggere ed adorare Nostro Signore. Infatti, nella santa Comunione, Egli, a motivo del Suo amore incessante e incommensurabile per l’uomo, si fa il più piccolo, il più debole, il più delicato fra noi. Gli occhi della Fede riconoscono la Presenza Reale nei frammenti, anche nei più piccoli, della santa Ostia, e ci conducono, così, all’Adorazione amorosa.
Non mi resta che ringraziare Mons. Athanasius Schneider per il suo minuzioso studio della questione della ricezione della santa Comunione, espressione preminente della fede eucaristica. Il suo studio è pieno del più profondo amore di Gesù Eucaristia, amore nel quale egli è stato formato in un’epoca in cui la Chiesa era sotto i colpi della persecuzione nel suo paese. Spero che il contenuto di questo volume ispiri nel lettore una Fede eucaristica sempre più profonda e più ardente. Spero anche che questo libro fornisca l’occasione di rinnovare il modo di ricezione della santa Comunione, disciplina che dispone il comunicante a riconoscere pienamente il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità di Cristo e, così, a ricevere Gesù Eucaristia con una riverenza ed un’adorazione amorose. È in questa ricezione reverenziale e amorosa di Nostro Signore nella santa Comunione che dobbiamo attingere la forza di trasformare e rinnovare le nostre vite personali e la società, con la forza del vangelo, come facevano i primi cristiani.
Possa la lettura approfondita del libro di Mons. Schneider portare i fedeli, al momento della santa Comunione, a riconoscere la Presenza Reale del Signore risuscitato e a far loro le parole di San Giovanni Evangelista a San Pietro, quando il Signore risuscitato apparve ai discepoli sulle rive del lago di Tiberiade nel corso della pesca miracolosa: «È il Signore!» (Gv 21,7).

di Raymond Leo Burke, cardinale [Fonte]

L'ecumenismo cattolicamente inteso in un aforisma di Benedetto XV

“Illústrem hic a beáta Vírgine Matre favórem accépit; dormiéntibus síquidem cunctis frátribus et ad matutínas preces in pervigílio Nativitátis Deíparæ média nocte recitándas, Deo sic disponénte, non surgéntibus, Felix, de more vígilans et horas prævéniens, chorum ingréssus, réperit beátam Vírginem in médio chori, hábitu cruce órdinis insigníto indútam, ac Cælítibus simíliter indútis sociátam” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI FELICIS DE VALOIS, CONFESSORIS

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Uno dei più grandi Pontefici, che ha reso illustre il trono di san Pietro, fu certamente Innocenzo III, sotto il quale il papato raggiunse, per così dire, la vetta del potere e della gloria, realizzando nelle forme nuove ed appropriate al tempo, quel sublime ideale per il quale il papa Ildebrando era morto in esilio. Con l’opera restauratrice del giovane Lotario di Segni, coincise l’istituzione di nuovi e grandi Ordini religiosi, in modo che Innocenzo III, approvando le regole dei Minori, dei Dominicani e dei Fratelli per la redenzione degli schiavi, trasfuse effettivamente in seno alla famiglia cattolica questo fiotto di sangue giovane, di energia e di slancio soprannaturale che richiedeva oramai la nuova epoca dei Comuni e delle libertà popolari.
L’opera di san Felice di Valois entra in questo vasto piano di rinnovamento cattolico che ebbe Innocenzo per promotore, e noi amiamo a rievocare la dolce figura di questo Santo che, al Laterano, si era inginocchiato ai piedi del Pontefice con san Giovanni de Matha, ricevendo da lui la conferma dell’istituto dei fratelli redentori degli schiavi.
Oramai, i confini tradizionali della cristianità non bastavano più a questi arditi giovani, traboccanti di vita e di santità, desiderosi di sacrificarsi per l’amore del Cristo. Mentre Domenico si attardava ancora a predicare in Francia contro gli Albigesi, Francesco partiva per la Palestina. Questo movimento di emigrazione missionaria è seguito rapidamente dai due fondatori dell’ordine della Santissima Trinità per la redenzione degli schiavi; c’è tuttavia una differenza: mentre i discepoli di Francesco e di Domenico andavano direttamente verso gli infedeli per guadagnarli al Vangelo, l’opera di Felice di Valois e di Giovanni de Matha si riferiva piuttosto al bene dei cristiani che, tiranneggiati da quelli, correvano il rischio di perdere, con la loro libertà, il tesoro della fede.
La messa Justus, in onore di quest’eroe della carità fraterna (+ 4 novembre 1212), è la stessa del 31 gennaio, festa di san Pietro Nolasco, fondatore anche lui di una famiglia per il riscatto degli schiavi.
Solo le collette sono differenti.
La prima è propria; le altre due sono le stesse del 19 luglio, per la festa dei santi Vincenzo e Paolo.


Denys Calvaert, Apparizione della Vergine col Bambino ai SS. Felice di Valois e Giovanni de Matha, 1580 circa, museo del Prado, Madrid

Vicente Carducho, Incontro tra S. Giovanni de Matha e S. Felice di Valois, XVI-XVII sec., museo del Prado, Madrid

Parigi e la caduta di Roma

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Parigi è prossima a cadere. Non è necessario essere profeti o figli di profeti per prevederlo con ragionevole sicurezza. No. Basta ri-leggere la storia passata, che senz'altro getta luce su quella a venire. Gli uomini, evidentemente, non imparano quasi mai dai propri errori passati. Spesso li ripropongono, sia pur in forme diverse. Si tratta, tuttavia, sempre dei medesimi errori. 
Ed in effetti la Parigi laicista odierna preferisce inneggiare la Marsigliese, anche nella Cattedrale di Notre Dame (v. qui), o innalzare "altari laici", cioè atei (v. qui e qui), piuttosto che tornare a Dio. 
Questo avviene mentre la Chiesa irenista pensa di frenare la dissoluzione occidentale proponendo messaggi buonisti di "fratellanza" universale, dimenticando che una vera fratellanza, non effimera, si può ottenere solo in Cristo, cioè con l'adesione degli uomini a Lui.
Ma tutto ciò sono solo dei segni che accompagnano e preannunciano la prossima caduta: la sicurezza di se stesso, da parte dell'Occidente, la presunzione e la boria di trovare meramente in se stesso la forza di rivaleggiare contro un pensiero forte, giustapponendo a questo il proprio pensiero debole e laicista (v. qui). In fondo, questa sicurezza di se ricorda molto da vicino le motivazioni culturali e morali, che portarono alla sconfitta di Roma ed alla sua caduta!
Per cui, la caduta di Parigi, e con essa dell'ideologia occidentale, non sembra essere molto diversa da quella di Roma del 410 d.C. sotto le truppe di Alarico, che, pur generale romano (era infatti magister militumdell’Illyricum) e di fatto governatore dell’Epiro, non esitò, per una serie di vicende politiche del tempo, a saccheggiare Roma (24 agosto 410 d.C.). Si trattò di un evento che sconvolse l’intero mondo antico e che ispirò il De Civitate Dei di S. Agostino, in cui il Dottore d’Ippona rammenta:
«Fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, caelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui. Denique illa in se ipsa, haec in Domino gloriatur. Illa enim quaerit ab hominibus gloriam; huic autem Deus conscientiae testis maxima est gloria. Illa in gloria sua exaltat caput suum; haec dicit Deo suo: Gloria mea et exaltans caput meum (Ps 3, 4). Illi in principibus eius vel in eis quas subiugat nationibus dominandi libido dominatur; in hac serviunt invicem in caritate et praepositi consulendo et subditi obtemperando. Illa in suis potentibus diligit virtutem suam; haec dicit Deo suo: Diligam te, Domine, virtus mea (Ps 17, 2). Ideoque in illa sapientes eius secundum hominem viventes aut corporis aut animi sui bona aut utriusque sectati sunt, aut qui potuerunt cognoscere Deum, non ut Deum honoraverunt aut gratias egerunt, sed evanuerunt in cogitationibus suis, et obscuratum est insipiens cor eorum; dicentes se esse sapientes, id est dominante sibi superbia in sua sapientia sese extollentes, stulti facti sunt et immutaverunt gloriam incorruptibilis Dei in similitudinem imaginis corruptibilis hominis et volucrum et quadrupedum et serpentium: ad huiuscemodi enim simulacra adoranda vel duces populorum vel sectatores fuerunt: et coluerunt atque servierunt creaturae potius quam Creatori, qui est benedictus in saecula (Rom 1, 21-23.25). In hac autem nulla est hominis sapientia nisi pietas, qua recte colitur verus Deus, id exspectans praemium in societate sanctorum non solum hominum, verum etiam angelorum, ut sit Deus omnia in omnibus (1 Cor 15, 28)»; 
«L’amore di sé portato fino al disprezzo di Dio genera la città terrena; l’amore di Dio portato fino al disprezzo di sé genera la città celeste. Quella aspira alla gloria degli uomini, questa mette al di sopra di tutto la gloria di Dio. [...] I cittadini della città terrena son dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della città celeste si offrono l’uno all’altro in servizio con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale» (De Civitate Dei, lib. XIV, cap. 28).
Nella descrizione del celebre Padre della Chiesa sembra poter leggere profeticamente la descrizione dell'attuale nostra società.
Una situazione non diversa, dunque, vive il nostro mondo occidentale, un tempo cristiano.
Anche oggi i “neo barbari”, forti della debolezza culturale, morale e religiosa, tentano di conquistare il “ricco” ed opulento Occidente, dimentico di Dio, scristianizzato, ateo e vizioso. E ci riusciranno, in quanto i sani anticorpi per resistere a quell’impatto, che non è solo militaresco o terroristico, ma anche ideologico, sono ormai stati deliberatamente disciolti.
Evidentemente, la storia, che pure è maestra di vita, non ha insegnato nulla. Anzi continuano i deliri di chi vuole ancor più indebolire il pensiero già debole e debosciato occidentale (v. qui).

Parigi e la caduta di Roma

Propongo il testo che segue, segnalato da Rosa Roccaforte e tradotto al volo dalla Redazione. Si tratta di osservazioni da non ignorare per arricchire le nostre chiavi di lettura di quanto sta accadendo. Se non si riflette a fondo, non si possono affrontare con la dovuta consapevolezza e responsabilità gli eventi che incombono nella intricata e complessa correlazione dei molteplici elementi in campo. Autore dell’articolo: Niall Ferguson – 16 novembre 2015 sul Boston Globe [qui]. Ferguson è professore di Storia all’università di Harvard, membro anziano della Hoover Institution e autore del libro “Kissinger, 1923-1968: The Idealist.’’
Sto elaborando riflessioni anche in relazione ai mantra ricorrenti, dopo aver riscontrato sui media (stampa e TV) una informazione sbilanciata la cui problematicità si innesta in questo discorso.

Parigi e la caduta di Roma

Saccheggio di Roma ad opera dei Visigoti
Non ripeterò quanto avete già letto o ascoltato in questi giorni. Non vi dirò che ciò che è successo a Parigi venerdì sera è di un orrore senza precedenti, perché non è vero. Non solleverò appelli perché il mondo si schieri al fianco della Francia, perché si tratterebbe di una frase vuota. Non applaudirò l’impegno del presidente Hollande a esercitare una vendetta “senza pietà”, perché non ci credo. Piuttosto, vi dirò che è proprio in questo modo che una civiltà crolla.


Così Edward Gibbon descrisse il saccheggio di Roma da parte dei Goti nel mese di agosto dell’anno 410 d.C.:
“Nell’ora della licenza selvaggia, in un’epoca in cui ogni passione era infiammata e ogni freno morale era rimosso … uno sterminatore crudele venne inflitto ai Romani; […] le strade della città erano piene di cadaveri. […] Ogni volta che si cercava di opporsi ai barbari, questi, sentendosi provocati, estendevano il massacro ai più deboli, agli innocenti, alle persone indifese [...]”
Ora, ciò non sembra forse la descrizione delle scene di Parigi di venerdì sera, di cui siamo stati spettatori?
È vero, la Storia del declino e della caduta dell’impero Romano di Gibbon rappresentava il decesso di Roma come un processo che si è sviluppato lentamente nel córso di più di un millennio. Ma una nuova generazione di storici, come Bryan Ward-Perkins e Peter Heather, ha sollevato l’ipotesi che il processo di declino dell’impero Romano sia stato in realtà improvviso – e sanguinoso – piuttosto che graduale: una “conquista violenta […] da parte di barbari invasori” che distrusse una civilizzazione complessa nell’arco di una singola generazione.

Processi misteriosamente simili stanno distruggendo oggi l’Unione Europea, anche se molti di noi non vogliono riconoscerli per quel che sono.

Dobbiamo essere chiari su ciò che sta accadendo. Come l’impero Romano nei primi anni del quinto secolo, l’Europa ha permesso che le sue difese si affloscino. Di pari passo con l’aumento della sua ricchezza, le sue capacità militari e la sua autostima si sono ridotte. È diventata una civiltà decadente rinchiusa in centri commerciali e stadi di calcio. Allo stesso tempo, ha aperto le sue porte a estranei che desiderano possedere la sua ricchezza senza rinunciare alla loro fede ancestrale.
Il colpo a distanza a questo edificio barcollante è stata la guerra civile siriana, che è stata il catalizzatore e una causa diretta della grande Völkerwanderung [esodo di popoli, NdT] del 2015. Come era successo precedentemente, sono arrivati in tanti da tutte le parti della periferia imperiale – dal Nordafrica, dal Levante, dall’Asia del Sud – ma questa volta ne sono arrivati milioni.
Certo, molti sono venuti solo perché speravano di trovare una vita migliore. La situazione economica nei loro paesi è diventata sufficientemente buona per permettergli di viaggiare all’estero, e quella politica è diventata sufficientemente negativa per spingerli a rischiare di lasciare la propria terra. Ma non è possibile che tutte queste persone sciamino in direzione settentrionale e occidentale senza recare con sé il proprio malessere politico. Come Gibbon aveva visto, i monoteisti convinti rappresentano una grave minaccia per un impero secolare.
È ormai diventata un’abitudine affermare che la gran maggioranza dei musulmani che vivono in Europa non sono violenti, e questo è senza dubbio vero. Ma è anche vero che la maggioranza dei musulmani in Europa nutrono dei punti di vista che non possono conciliarsi facilmente con i principi delle nostre democrazie liberali moderne, ivi compresi quelli recentemente raggiunti a proposito dell’uguaglianza dei sessi e della tolleranza non solo della diversità religiosa ma anche di quasi tutte le tendenze sessuali. Ed è incredibilmente facile, per un gruppo minoritario di queste comunità che presuntamente amano la pace, acquistare delle armi e preparare attentati contro una civiltà.
Non ho nozioni abbastanza approfondite del quinto secolo per poter citare le fonti Romane che descrivevano ogni nuovo atto di barbarie come un atto senza precedenti, anche se in realtà erano drammi che si erano già verificati molte volte in epoche anteriori; o che sollevavano pii inviti alla solidarietà dopo la caduta di Roma, persino quando rimanere in piedi l’uno a fianco dell’altro significava in pratica cadere insieme; o che emettevano sterili minacce di vendetta senza pietà, anche se in realtà l’unica cosa che volevano era di richiamare l’attenzione con le loro pose melodrammatiche.
Quel che so bene, invece, è che l’Europa del XXI secolo non solo deve biasimare se stessa per il pasticcio in cui si trova in questo momento, perché non c’è alcun altro luogo del mondo che abbia dedicato più risorse allo studio allo studio della storia che l’Europa moderna. Quando sono andato ad Oxford più di trent’anni fa, davo per scontato che già dai primi córsi del mio primo anno di studi avrei studiato Gibbon. Non è servito a nulla. Non abbiamo imparato nulla che avesse realmente a che vedere con la storia, ma un mucchio di sciocchezze che avevano come fondamento il presupposto che il nazionalismo fosse una realtà negativa, gli stati-nazione ancóra peggio, e gli imperi la cosa peggiore di tutte.
Nel suo libro La caduta di Roma, Ward-Perkins ha scritto: “Prima della caduta, i Romani erano tanto sicuri che il loro mondo sarebbe rimasto per sempre sostanzialmente immutato quanto lo siamo noi oggi. Si sbagliavano. Faremmo bene a non ripetere il loro atteggiamento di sufficienza”.
Povera Parigi. Uccisa da un atteggiamento di sufficienza.

"Dal divorzio al gender" - Conferenza al Santuario del Divino Amore, 28 novembre 2015

Festa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci a Tabgha nel II sabato di Novembre

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La festa di Cristo Re nella storia, nella liturgia, nella teologia. Cosa c'è da sapere su Cristo Universorum Rex

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Riproponiamo quest’interessante contributo, pubblicato nel 2010 su Chiesa e postconcilio.
La liturgia tradizionale – che noi seguiamo - celebra Cristo Re dell’Universo l’ultima domenica di ottobre, per rimarcare – secondo le intenzioni di papa Pio XI, che la istituì – la regalità sociale del Divin Redentore, Re dei re e Signore dei signori. La liturgia riformata attuale ha, invece, confinato la festa all’ultima domenica dell’anno liturgico, attribuendole una valenza esclusivamente escatologica. Significativo è peraltro notare che nella liturgia delle ore riformate, compaia curiosamente nelle ore minori – a sottolineare il carattere solo escatologico della festa – l’inno del Dies Irae (scomparso dalla liturgia esequiale), sebbene frammentato. Con quest’operazione, da un lato, si è eliminato nella celebrazione dei defunti il richiamo ai Novissimi; dall’altro, nella festa di Cristo Re se n’è sottolineato il carattere meramente escatologico, privandolo del suo carattere anche sociale, come rimedio all’ateismo ed alla peste del laicismo.
Per cui, in quest’ottica può essere utile ribadire che le origini della festa di Cristo Re non sono quelle che la liturgia attuale vorrebbe imporre ai cattolici, in nome della “laicità”. L’intento di papa Ratti era ben altro! Era quello di additare ai popoli ed alle Nazioni la regalità di Cristo quale unico rimedio ai mali della modernità. Del resto, gli effetti del rifiuto di questa regalità sono ben evidenti sotto gli occhi di chiunque. Solo tornando a Cristo e riconoscendo, pure pubblicamente, quella regalità si potrà rimediare al disastro che incombe.
A questo riguardo possono tornare utili le parole di un grande e santo pontefice, san Pio X, che, nel 1910, contro gli errori del Sillon (il Solco) fondato in Francia nel 1902 – sulla scia di una precedente associazione, la Crypte, nata nel 1894 – da Marc Sangnier. Si trattava di un movimento analogo alla Democrazia Cristiana (che, originariamente, si chiamava Lega DemocraticaNazionale) del sacerdote marchigiano apostata, modernista e scomunicato don Romolo Murri, che fu, peraltro, amico e collaboratore di don Luigi Sturzo. In questa Lettera Apostolica il Santo Pontefice ribadì la dottrina cattolica secondo la quale la società umana non può sostenersi se non si pone a sua base Dio e la Chiesa. Ricordava quel papa, inoltre, che non si tratterebbe di inventare qualcosa di nuovo e di mai esistito, giacché la società cristiana è esistita storicamente: «Non, Vénérables Frères - il faut rappeler énergiquement dans ces temps d’anarchie sociale et intellectuelle, où chacun se pose en docteur et législateur - on ne bâtira pas la cité autrement que Dieu ne l’a bâtie; on n’édifiera pas la société, si l’Église n’en jette les bases et ne dirige les travaux; non, la civilisation n’est plus à inventer ni la cité nouvelle à bâtir dans les nuées. Elle a été, elle est; c’est la civilisation chrétienne, c’est la cité catholique. Il ne s’agit que de l’instaurer et la restaurer sans cesse sur ses fondements naturels et divins contre les attaques toujours renaissantes de l’utopie malsaine, de la révolte et de l’impiété: omnia instaurare in Christo» (S. Pio X, Lett. Ap. Notre charge apostolique agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi sulla concezione secolarizzata della democrazia, 25 agosto 1910, § 11).
Ecco la ricetta proposta da sempre: omnia instaurare in Christo, che era il motto anche del grande papa Sarto.
Solo restaurando, in Cristo, anche la res publica, potrà aversi la pace all’interno ed all’esterno delle Nazioni. Diversamente, il Redentore, che non può essere detronizzato, regnerà mediante la sua giustizia, abbandonando i popoli alle loro depravazioni ed ai loro istinti animaleschi. Del resto, anche la Vergine a Fatima l’aveva sottolineato nell’apparizione del 13 luglio 1917, dopo aver mostrato ai Tre Pastorelli l’Inferno, preannunciando, all’epoca, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale: «Se gli uomini non cesseranno di offendere Dio, scoppierà un’altra e più terribile guerra durante il Pontificato di Pio XI. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che e il grande segnale che Dio vi dà del fatto che si appresta a punire il mondo per i suoi delitti, per mezzo della guerra, della fame e di persecuzioni alla Chiesa e al santo Padre». Cosa direbbe oggi???
L’uomo dovrebbe imparare dagli errori del passato.
I giudei, dinanzi a Pilato, allorché questi pose dinanzi a loro Gesù o Barabba, preferirono il secondo, esclamando il drammatico Nolumus hunc regnare super nos (Luc. XIX, 14) e scacciando il loro Re al di fuori della Città Santa. Gli preferirono sciaguratamente Cesare: Non habemus Regem nisi Caesarem. Crucifige, crucifige eum! E cosa fece Cesare? Non passò quella generazione che Cesare distrusse Gerusalemme, il Tempio, sterminò molti giudei e disperse gli altri per il mondo, con la Diaspora. Ecco dunque gli effetti nefasti del rifiuto di quella regalità!

Cosa c'è da sapere su Cristo Universorum Rex

Nell’Ordinamento Liturgico riformato oggi si celebra Cristo Re.
Riproponiamo un testo da rivisitare per i lettori abituali e da meditare per i nuovi per meglio comprendere ciò che sta avvenendo della Tradizione, ma soprattutto della Regalità di Nostro Signore, universorum Rex = Re di tutti e di tutte le cose. E non soltanto genericamente Re dell’universo, come l’ha declassato la Festa di Cristo Re del NO, che indebolisce la dimensione storica, immanente del Regno...
Può essere interessante riprendere anche questo testo, ponendo attenzione all’Inno Te sæculórum Príncipem, e all’indicazione delle strofe inopinatamente soppresse (nel Mattutino e nelle Lodi) e quindi non più né pregate né meditate sui nuovi breviari... Poi dicono che non è cambiato nulla!

La festa di Cristo Re nella storia, 
nella liturgia, nella teologia

di Daniele Di Sorco

1. Uno spostamento apparentemente irrilevante.

Col motu proprio Summorum Pontificum il Papa Benedetto XVI ha definitivamente chiarito che il Messale romano tradizionale, detto di S. Pio V, non è mai stato abolito e che pertanto qualunque sacerdote può utilizzarlo nella sua integralità. La Pontificia Commissione Ecclesia Dei, in una risposta del 20 ottobre 2008, ha ribadito che “l’uso legittimo dei libri liturgici in vigore nel 1962 comprende il diritto di usare il calendario proprio dei medesimi libri liturgici”. Com’è noto, nel calendario universale del rito romano antico la festa di Cristo Re è assegnata all’ultima domenica di ottobre, mentre il Messale romano riformato, approvato da Paolo VI nel 1969, la colloca all’ultima domenica dell’anno liturgico.
Non mancano coloro che, in nome di una maggiore uniformità tra le “due forme dell’unico rito romano”, insistono per una revisione del calendario che garantisca per lo meno la coincidenza delle feste maggiori (revisione che de facto è stata già compiuta per il rito ambrosiano antico, non però de iure, visto che le norme del diritto richiedono per qualunque modifica liturgica, anche relativa a riti diversi dal romano, l’espressa approvazione della Santa Sede). I più, tuttavia, considerano questo spostamento della festa di Cristo Re come irrilevante: dopo tutto, la ricorrenza è rimasta, anche se leggermente modificata nel titolo (non più “Cristo Re” simpliciter, ma “Cristo Re dell’universo”), e il fatto che sia assegnata ad una data piuttosto che ad un’altra non ne altera la sostanza. Alcuni, sebbene legati al rito antico, giungono a preferire la scelta del nuovo calendario: la festa della regalità di Cristo, infatti, costituisce il perfetto coronamento dell’anno liturgico, mentre non si vede il motivo di collocarla in una posizione apparentemente priva di significato come la fine del mese di ottobre.
Di fronte a tanta variabilità di opinioni, cercheremo, in questo articolo, di ricostruire la genesi storica della festa di Cristo Re, di delinearne - per quanto ci è possibile, in qualità di non specialisti - la portata teologica, e infine di dimostrare perché, a nostro avviso, lo spostamento in questione è tutt’altro che irrilevante.

2. Istituzione della festa.

La festa di Cristo Re fu istituita da Pio XI l’11 dicembre 1925 mediante l’enciclica Quas primas. Si trattava di una festa del tutto nuova, priva - al contrario di altre feste, per esempio quella del Sacro Cuore - di precedenti nei calendari locali o religiosi. D’altronde, se nuova era la festa, non nuova era l’idea della regalità attribuita alla figura di Cristo, che non soltanto la Scrittura, i Padri e i teologi, ma anche l’arte sacra e il senso comune dei fedeli concordemente affermano. Perché il Papa abbia avvertito il bisogno di istituire una ricorrenza specifica dedicata a questo mistero, risulta chiaro dal testo della stessa enciclica: “Se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società”.
Quale peste? Quella - risponde il Papa nel paragrafo successivo - del laicismo: “La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso”.
Quindi, se il fine generico della festa - nelle intenzioni del Pontefice - era quello di divulgare nel popolo cristiano “la cognizione della regale dignità di nostro Signore” (regalità in senso lato), il fine specifico era quello di porre l’accento proprio su quella specificazione della regalità che il laicismo nega, vale a dire la regalità sociale. Che sia questo l’autentica ratio della festa, emerge non soltanto dal contenuto dell’enciclica, ma anche da una semplice constatazione di carattere liturgico: tutte le feste, infatti, celebrano - direttamente o indirettamente - la regalità, genericamente intesa, di nostro Signore; ma non esisteva, fino al 1925, alcuna ricorrenza espressamente dedicata al suo regno sulle società di questo mondo.
Tale conclusione è confermata dall’indole dei testi liturgici della festa, promulgati dalla S. Congregazione dei Riti il 12 dicembre dello stesso anno.
Nel Breviario, l’inno dei Vespri afferma: “Te nationum praesides / Honore tollant publico, / Colant magistri, iudices, / Leges et artes exprimant. // Submissa regum fulgeant / Tibi dicata insignia: / Mitique sceptro patriam / Domosque subde civium” (traduzione nostra: “Te i governanti delle nazioni esaltino con pubblici onori, te onorino i maestri, i giudici, te esprimano le leggi e le arti. Risplendano, a te dedicate e sottomesse, le insegne dei re: sottometti al tuo mite scettro la patria e le dimore dei cittadini”).
Nell’inno del Mattutino si legge: “Cui iure sceptrum gentium / Pater supremum credidit” (“A te [Redentore] il Padre ha consegnato, per diritto, lo scettro dei popoli”). E ancora: “Iesu, tibi sit gloria, qui sceptra mundi temperas” (“A te, o Gesù, sia gloria, che regoli gli scettri [= le autorità] del mondo”).
Stessi concetti ribaditi dall’inno delle Lodi: “O ter beata civitas / Cui rite Christus imperat, / Quae iussa pergit exsequi / Edicta mundo caelitus!” (“O tre volte beata la società, cui Cristo legittimamente comanda, che esegue gli ordini che il cielo ha impartito al mondo!”).
Così pure nell’orazione, dove Cristo viene definito “universorum Rege” (non Re di un generico e imprecisato universo, come afferma la nuova liturgia nelle traduzioni volgari, ma Re di tutti, ossia di tutti gli uomini), si dice che il Padre ha voluto in lui instaurare ogni cosa (ivi compreso l’ordinamento sociale), e si auspica che “cunctae familiae gentium” (diremmo, in linguaggio moderno, “ogni società umana”) si sottomettano al suo soavissimo impero.
Dei testi della Messa, ci limiteremo a ricordare le letture scritturistiche. Nell’epistola, S. Paolo insegna l’assoluta e completa dipendenza di ogni cosa, nessuna esclusa, da Cristo “in omnibus primatum tenens” (Col. 1, 18). Dal vangelo, poi, apprendiamo che il regno del Signore dev’essere inteso non solo in senso trascendente (regalità spirituale) ma anche immanente (regalità temporale o sociale). Quando infatti Pilato pone a Gesù la fondamentale domanda: “Ergo rex es tu?” si riferisce senza dubbio al concetto di regalità che egli, come romano e come pagano, possedeva, vale a dire al regno su questo mondo.

3. Regalità spirituale e regalità temporale.

Né deve trarre in inganno il fatto che Gesù risponda che il suo regno non è di questo mondo. Si noti, anzitutto, la scelta dei termini: il regno non è “di questo mondo”, ossia non è secondo le modalità dei regni terreni, come Gesù stesso precisa nello stesso passo: “Se il mio regno fosse di questo mondo, le mie guardie avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei: ma il mio regno non è di questo mondo”, e come la Chiesa ha sempre interpretato. Ma ciò non significa che che non sia un regno su questo mondo. È ancora Gesù che, poco dopo, lo specifica: “Tu lo dici: io sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è per la verità, ascolta la mia voce” (Gv. 18, 33-37). La differenza, quindi, sta nel modo, non nell’oggetto. Gesù dichiara di essere venuto nel mondo per regnare su di esso, non però al modo dei monarchi terreni, che regnano per autorità delegata, direttamente e valendosi (in modo legittimo) della forza, ma al modo del Monarca eterno ed universale, che regna per autorità propria, indirettamente e pacificamente (“Rex pacificus vocabitur”, come ricorda la prima antifona dei Vespri, tratta da Isaia). “L’origine di questa regalità è celeste e spirituale, anche sei poteri regali sono esercitati nel mondo” (S. Garofalo, Commento al Vangelo di Giovanni, in La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali e commentata, Torino, Marietti, 1960, vol. III, p. 273).
Lo scopo della festa, vale a dire la celebrazione della regalità sociale di Cristo, ne illumina anche la collocazione nel calendario. Esistono diversi motivi per cui essa fu assegnata all’ultima domenica di ottobre. Il primo e più importante è quello delineato dal Papa nell’enciclica: “Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti”. In altre parole, la festa di tutti i Santi, che regnano per partecipazione, viene fatta precedere dalla festa di Cristo, che regna per diritto proprio. La ricorrenza della regalità di Cristo, inoltre, costituisce il coronamento di tutto l’anno liturgico, e pertanto viene posta verso la sua fine. È lecito domandarsi: perché non proprio alla fine? Probabilmente - è l’unica spiegazione veramente plausibile - per non confondere la regalità escatologica (di ordine spirituale), che la liturgia tradizionale ricorda nell’ultima domenica dell’anno liturgico mediante la pericope evangelica sulla fine del mondo, con la regalità sociale, che costituiva l’oggetto specifico della nuova festa. Vi è poi un altra ragione, non esplicitata nell’enciclica, ma ragionevolmente presumibile. Il mese ottobre era il mese dedicato alle missioni e nella sua penultima domenica si pregava specialmente per la propagazione della Fede tra i pagani. Quale modo migliore, per concluderlo, che ricordare il fine ultimo delle missioni, vale a dire il regno sociale di Cristo su tutti i popoli?
L’intenzione del Pontefice espressa nell’enciclica, l’indole dei testi liturgici, la collocazione originaria della festa: tutti questi elementi consentono di concludere in modo sicuro che la ricorrenza di Cristo Re fu istituita al preciso scopo di ricordare la regalità sociale di nostro Signore e di costituire così un efficace antidoto al laicismo dilagante. Occorre, a questo punto, vedere che cosa si intenda per “regalità sociale di Cristo”. Cercheremo di farlo senza esorbitare dai limiti di una trattazione che non è e non intende essere specialistica.
Il fondamento dogmatico della regalità di Cristo genericamente intesa è l’unione ipostatica, “per mezzo della quale la natura assunta dagli uomini è unita alla seconda Persona della SS. Trinità: per tale ragione, dunque, Egli non solo è stato costituito Mediatore dal primo momento della sua Incarnazione, ma è anche divenuto, per questo ammirabile avvenimento, Re di tutta la creazione, in ragione della propria divinità” (P. Radó, Enchiridion liturgicum, Romae-Friburgi-Barcinone, 1961, vol. II, p. 1309). Lo afferma chiaramente il Papa nella citata enciclica: “In questo medesimo anno, con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli”. L’origine della regalità di Cristo in quanto uomo - prosegue Pio XI - è duplice: egli infatti è re non solo per diritto (nativo) di natura, poiché la sua umanità appartiene alla Persona del Verbo divino, ma anche per diritto (acquisito) di conquista, “in forza della Redenzione”, cioè per aver riscattato col suo Sangue il genere umano dal peccato. “Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature”.
L’estensione del Regno del Verbo incarnato è universale, come universali sono la creazione e la redenzione donde esso promana. Perciò si estende indiscriminatamente a tutte le cose.
Quanto alla sua natura, poiché il mondo consta di realtà trascendenti e di realtà immanenti, è invalso l’uso di distinguere tra regalità spirituale e regalità temporale. Delle due, è la prima ad avere la preminenza, poiché il temporale è per sua natura ordinato allo spirituale. Si legge infatti nell’enciclica: “Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire”. Tuttavia - prosegue il Sommo Pontefice - “sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio”. Ora, se la regalità temporale di Cristo, al pari di quella spirituale, si esercita su tutte le cose, essa riguarda non soltanto l’individuo (regalità individuale), ma anche l’insieme degli individui, vale a dire la società (regalità sociale). Ne consegue che le istituzioni sociali hanno nei confronti di Cristo gli stessi doveri dell’individuo singolarmente considerato: devono riconoscerlo, adorarlo e sottomettersi alla sua santa Legge. “Né v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli”, precisa l’enciclica. Sarebbe dunque in errore chi pensasse che l’obbligo morale di aderire alla divina Rivelazione riguardi soltanto il singolo, mentre la società, nelle sue istituzioni, potrebbe e dovrebbe limitarsi al solo diritto naturale (o addirittura ai soli cosiddetti “diritti umani”). Di qui l’esortazione, rivolta dal Papa ai capi delle nazioni, “di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli”.

4. La “nuova” festa di Cristo Re dell’universo.

Uno dei capisaldi del pensiero moderno è la riduzione della religione alla sola dimensione privata, senza alcuna influenza diretta sulla vita pubblica. Si tratta del “laicismo” (che oggi molti preferiscono chiamare “laicità”) di cui parla l’enciclica, già individuato e condannato dai Pontefici precedenti. La festa di Cristo Re - nelle intenzioni di Pio XI - doveva fungere da rimedio a questa pericolosa tendenza e ricordare al popolo cristiano che la regalità di Cristo si estende anche alle realtà temporali. Ci domandiamo: tali concetti emergono con la stessa chiarezza anche nella versione attuale, riformata nel 1969, della festa?
Procederemo, anche in questo caso, con l’analisi dei testi liturgici e della collocazione del calendario.
Nella Liturgia delle Ore, l’inno dei Vespri è lo stesso (Te saeculorum Principem), ma da esso sono state soppresse proprio quelle strofe, citate sopra in questo articolo, che parlano esplicitamente della regalità sociale (“Te nationum praesides...” e “Submissa regum fulgeant...”). Nella seconda strofa, inoltre, il riferimento al laicismo (“Scelesta turba clamitat: / Regnare Christum nolumus” = “La folla empia grida: Non vogliamo che Cristo regni”) è stato rimpiazzato da una frase generica e indefinita (“Quem prona adorant agmina / hymnisque laudant cælitum” = “Ti adorano prone le schiere celesti e ti lodano con inni”).
Completamente diverso l’inno dell’Ufficio delle Letture (il vecchio Mattutino), privo anch’esso di qualunque riferimento alla dimensione sociale e temporale del Regno di Cristo. Le letture tratte dall’enciclica Quas primas, che il Breviario antico assegnava al secondo Notturno, sono state rimpiazzate da un brano di Origene, di carattere marcatamente spirituale.
Così pure si cercherebbe invano un’allusione o un accenno alla necessità che Cristo regni sulla società civile nel nuovo inno delle Lodi mattutine.
La nuova orazione ricalca lo schema della vecchia, modificandone però completamente il senso. Non si domanda più che la società umana, disgregata dalla ferita del peccato, si sottometta al soavissimo impero di Cristo, ma che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, serva e lodi Dio senza fine. La regalità sociale e temporale dell’antica formula, resa necessaria dalla disgregazione del peccato, lascia il posto alla regalità individuale e spirituale della nuova, nella quale peraltro non vi è alcun accenno esplicito all’impero di Cristo. Inoltre, sebbene l’originale latino parli ancora di Cristo “universorum Rex”, le versioni moderne hanno tradotto questa espressione con “Re dell’Universo” (cfr. inglese “King of the Universe”, francese “Roi de l’Universe”, spagnolo “Rey del Universo”), indebolmente ulteriormente la dimensione immanente, concreta, storica del suo Regno. Le stesse considerazioni valgono a proposito del nuovo titolo della festa (“Cristo Re dell’Universo”) nei libri liturgici in lingua moderna.
La Messa si articola, come di consueto nel nuovo rito, in tre cicli scritturistici. Il primo (anno A) ha carattere eminentemente escatologico, è incentrata cioè sulla pienezza del regno spirituale di Cristo alla fine dei tempi e non contiene alcun cenno alla regalità sociale. Il secondo (anno B) prevede il vangelo del formulario tradizionale, ma nella seconda lettura l’epistola di S. Paolo è stata sostituita da un brano dell’Apocalisse che ribadisce la natura spirituale del Regno di Cristo. Il terzo (anno C) denota una situazione simile ma inversa: l’epistola è quella del formulario antico, mentre il vangelo parla del regno ultraterreno e spirituale che Gesù assicura al buon ladrone. Nel secondo e terzo ciclo scritturistico, quindi, la regalità sociale è presente, ma in misura meno esplicita, e diremmo quasi irriconoscibile, che nel formulario tradizionale.
Del tutto scomparso il testo dell’antico graduale, tratto dal salmo 71, che, alludendo al Messia, affermava: “Dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum” (espressioni ebraiche che denotano l’interezza del mondo immanente). E ancora: “Et adorabunt eum omnes reges terrae, omnes gentes servient ei” (altro chiaro riferimento all’ossequio dei governanti e della società).
Lo spostamento della festa di Cristo Re verso una dimensione essenzialmente spirituale e trascendente è confermato dalla sua nuova posizione nel calendario. Essa non è più posta in riferimento ai Santi che regnano con Cristo e alle missioni che diffondono il suo regno temporale, ma si trova alla fine dell’anno liturgico, nella posizione che la liturgia romana assegna tradizionalmente al ricordo della fine del mondo e del giudizio universale. Il che, se da un lato spiega l’indole del ciclo scritturistico A, dall’altro rafforza l’idea che nella nuova liturgia il Regno di Cristo a cui si allude con la corrispondente festa non è primariamente, come intendeva Pio XI, quello sociale, storico, temporale, che del resto avrà fine con la sua venuta escatologica, ma piuttosto quello trascendente, spirituale, eterno, che troverà il suo perfetto compimento nella Parusia.

5. Conclusione.

Sulla base di tutti questi elementi, è possibile affermare che, nel nuovo rito, la festa di Cristo Re ha subito un sorprendente allontanamento dal significato voluto al momento della sua istituzione. E non ci sembra azzardato ravvisare, in questo, un certo influsso del pensiero moderno, penetrato negli ultimi decenni anche in ambiente ecclesiastico, che se da un lato accetta - come espressione del pluralismo - la regalità di Cristo sui singoli, dall’altro la rifiuta sulle istituzioni sociali.
C’è da auspicare, pertanto, che almeno nel rito antico alla festa di Cristo Re siano mantenuti, non soltanto il suo formulario, ma anche la sua collocazione originaria. Spostarla al termine dell’anno liturgico, infatti, ne accentuerebbe la dimensione escatologica a discapito di quella sociale, e finirebbe in qualche modo per alimentare la credenza, oggi assai diffusa anche nel mondo cattolico, secondo cui la società civile - intesa nel suo complesso e nelle sue istituzioni - avrebbe il diritto e persino il dovere di prescindere dal soavissimo giogo del Regno di Cristo. “Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l’intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l’autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza” (Pio XI, enciclica Quas primas).
Domenica 24 ottobre 2010

Per ricordare il vero senso della festa di Cristo Re, l'inno spagnolo "Tu Reinarás" sulle note di "Vogliam Dio!"

“Clemens, Románus, Faustíni fílius, de regióne Cælii montis, discípulus beáti Petri, cujus méminit Paulus scribens ad Philippénses: Etiam rogo et te, germáne compar, ádjuva illas quæ mecum laboravérunt in Evangélio, cum Cleménte et céteris adjutóribus meis, quorum nómina sunt in libro vitæ. Hic septem Urbis regiónes divísit septem notáriis, síngulas síngulis attríbuens, qui passiónes Mártyrum et res ab eis gestas, diligentíssime conquisítas, lítteris mandárent” (Lect. IV – II Noct.) - SANCTI CLEMENTIS I, PAPÆ ET MARTYRIS

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Il Titulus Clementis, ai piedi dell’Esquilino, presso cui oggi si celebra la divina liturgia, e dove si venerava la memoria di san Clemente, onorato come martire, è già menzionato, alla fine del IV sec., da san Girolamo: Nomini ejus memoriam usque hodie Romæ extructa ecclesia custodit(San Girolamo, LiberDe viris illustribus, cap. XV, in PL 23, ed. 1845, col. 631B-634A; ed. 1883 col. 663B-666A; partic. ed. 1845, col. 633A-634A; ed. 1883, col. 665A-666A, ora trad. it, Introduzione e note di Enrico Camisani (a cura di), Gli uomini illustri di Girolamo, Roma 2000, p. 101); il titolo si rapporta molto probabilmente ad un ricordo domestico del suo titolare di cui il Liber Pontificalisci dice, in effetti, che era de regione Cæliomonte (L. Duchesne, Le Liber Pontificalis, tomo I, Paris 1886, p. 123). E presso il portico di questo Titolo giacque elemosinando quel beato Servolo il paralitico di cui parla san Gregorio Magno (san Gregorio Magno, Dialogorum Libri IV De Vita et Miraculis Patrum Italicorum, lib. IV, cap. XIV, De transitu Servuli paralytici, in PL 77, col. 341B-344B. Il Santo Pontefice parla di san Servolo anche in una delle sue Omelie sui Vangeli, narrandone l’ammirabile pazienza, avendolo conosciuto personalmente. L’Omelia è quella da lui tenuta nella Basilica di san Paolo una Domenica in Sessagesima, allorché ebbe modo di commentare il brano di Lc 8, 4-15. Cfr. San Gregorio Magno, Homilia XV, § 15, in XL Homiliarum in Evangelia libri duo, lib. I, in PL 76, col. 1133C-1134C).
Se la Depositio Martyrum dà il nome di Clemente in testa ai Quattro Coronati in una notizia che è, evidentemente, alterata, il martirologio geronimiano annuncia il suo nataleal 23 novembre. Il sacramentario di Verona propone questo giorno quattro formulari per la messa di san Clemente sacerdos et martyr. Questo è anche il giorno in cui si commemora in Africa e nelle liturgie gallicane (Missale gothicum, pubblicato a cura di L.C. Mohlberg, Roma 1961, p. 34) ed ispaniche, mentre è festeggiato con san Pietro d’Alessandria nel rito bizantino. Nel VII sec., il nome di Clemente è iscritto nel canone romano ed il suo natale è attestato anche dall’evangeliario del 645, nonché dai sacramentari gregoriano e gelasiano (Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 314).
Gli Atti di Clemente (Martyrium S. Clementis Papæ romani, in PG 2, col. 617A ss.) sono, è vero, apocrifi; ma il suo martirio era indiscusso, a Roma, nel IV sec., tanto che Rufino, il papa Zosimo ed il Sacramentario Leoniano ne danno testimonianza. Non c’è dunque alcuna ragione seria per dubitarne. Secondo gli Atti sarebbe stato sepolto a Cherson, in Crimea, ed, in effetti, il pellegrino Teodosio ci dice nel suo Itinerario che ibi domnus Clemens martyrizatus est(cfr. Paul Geyer, Itinera hierosolymitana sæcvli IIII-VIII, Pragæ-Vindobonæ-Lipsiæ 1898, p. 143).
Un gran numero di archeologi pensa che qualche confusione si sarà prodotta tra Clemente romano ed un martire omonimo, di Sebastopoli.
Quando, nell’868, il due fratelli Cirillo e Metodo, apostoli degli slavi, andarono a Roma per giustificare la loro missione davanti ad Adriano I, portarono con loro, per farne dono al Papa, le reliquie di san Clemente ritrovate da loro a Cherson. Una pittura dell’antica basilica sotterranea di San Clemente a Roma riproduce il corteo trionfale del Papa, del popolo e del clero romano che accompagnò il corpo da San Pietro fino all’antico titolo del Monte Celio:

HVC A VATICANO FERTUR PP. NICOLAO
IMNIS DIVINIS QD AROMATIB SEPELIVIT.

Traslazione del corpo di S. Clemente dal Vaticano sino al Titolo di Clemente 

Il dominicum Clementis, come si trova nominato su una medaglia d’identità di uno schiavo di epoca costantiniana, menzionata dal Baronio (cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 124-135; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 238), che si innalza al di sotto di tutta una serie di edifici antichi sovrapposti. Al livello primitivo, si riconosceva un muro in opus quadratum del V o del VI sec. di Roma, e che Giovanni Battista De Rossi stimava essere appartenuto ad una fabbrica di moneta; la seconda stratificazione è rappresentata da una ricca casa del I sec., che può corrispondere molto bene al luogo dove Clemente riuniva i suoi discepoli. Accanto a questa casa, si è ritrovata una tana degli adoratori dell’idolo Mitra. Su questi edifici si elevò, nella prima metà dell’IV sec., il dominicum Clementis, che rimase in piedi fino al 1084, epoca in cui Roberto Guiscardo, nella sua lotta contro Enrico IV, mise a ferro e fuoco tutta questa regione del monte Celio intorno al Laterano.
Infine, all’inizio del XII sec., un cardinale titolare del nome di Anastasio fu incaricato da Pasquale II di ricostruire la basilica – quella che vediamo attualmente – ed egli conservò gli amboni e l’altare della chiesa precedente.
Le reliquie del papa Clemente e quelle di Ignazio di Antiochia, che un’antica tradizione afferma essere conservate in questa chiesa, sono menzionate nei versi seguenti:

IMPIVS • INSANO • TE • MERSIT • IN • AEQVORA • CAESAR
HIS • POSITIS • ARIS • NVNC • PIA • ROMA • COLIT
VICINVM • TIBI • PROBRA • TVLIT • NVMEROSA • THEATRUM
HIC • TIBI • DELATVS • PROBRA • REPENDIT • HONOS.

Un empio, Cesare, ebbe l’insensata idea di annegarti nel mare;
adesso Roma prosternata davanti a questi altari Ti venera.
Nell’anfiteatro vicino, (o Ignazio) fosti prostrato da ingiurie
che vogliono compensare il culto onorifico che ti è reso ora.

La Roma cristiana ha dedicato a san Clemente, oltre al celebre Titolo, anche una chiesa moderna nel quartiere di Monte Sacro, la cui costruzione è iniziata nella seconda metà degli anni ‘50 del XX sec. Esisteva poi un’altra chiesa, oggi sconsacrata ed in decadenza, sulla via Casillina, San Clemente al Castello di Torrenova risalente al XVI sec.
L’introito sembra formato da differenti passi di Isaia (59, 21; 56, 7): «Il Signore dice: “La mia parola non farà difetto sulle tue labbra, perché il tuo nome mi è caro; ed i tuoi sacrifici saranno graditi sul mio altare”» (Questo testo è quello del Graduale, secondo l’edizione Vaticana, e non quello del Messale). Adest enim nomen tuum, ciò che comporta un programma di clemenza e di misericordia. Segue il primo versettodel Sal. 112 (111): Beatus vir qui timet Dominum, etc.
Tutti i cristiani sono dunque predestinati al martirio, giacché la Chiesa, nella prima colletta di oggi, nella versione anteriore al 1940, domanda in generale, virtutem passionis imitemur?
No. Non tutti sono chiamati alla grazia di versare il loro sangue per la fede; ma la vita cristiana stessa, col freno che impone alle passioni, con la mortificazione che esige, con la rinuncia a se stessi affinché il Cristo viva in noi, è paragonata dai Padri ad un duro e lento martirio.
La prima lettura, tratta dall’epistola ai Filippesi (3, 17-21; 4, 1-3), è la stessa della XXIII domenica dopo la Pentecoste. Questo passo è stato scelto perché l’Apostolo, dopo aver parlato dei cristiani ridondanti dei piaceri del mondo che sono un’ironia per la Croce del Cristo, ed opponendo loro la vita tutta di umiltà e di mortificazione dei veri fedeli, menziona tra i suoi collaboratori nella predicazione del vangelo un Clemente il cui il nome è registrato nel libro di vita. Questi è lo stesso Papa che portava quel nome?
Molti lo suppongono e non ci sono delle serie ragioni per negarlo: ce lo conferma, del resto, anche san Girolamo, op. cit., ed. 1845, col. 631B-632B; ed. 1883, col. 663B-664B, ora in Camisani, op. cit., p. 100. Pure Origene (Commentariorum In Evangelium Johannis, t. VI, § 36, in PG 14, col. 293B-294B) ed Eusebio(Hist. eccl., lib. III, cap. 15, in PG 20, col. 249A-250A, ora trad. it. e note di Salvatore Borzì (a cura di), Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, Libri I-V, con Introduzione di Franzo Migliore, vol. I, Roma 20052, p. 159) ne danno conferma. Quando, durante la sua prima prigionia a Roma (61-62), san Paolo scrisse l’epistola ai Filippesi, Clemente poteva essere ancora giovane. Morì sotto Traiano, verso l’inizio del II sec., in modo che, malgrado la sua veneranda età, il discepolo di san Paolo non avrebbe superato per questa la media comune della vita umana.
Verso la fine del I sec., il nome di Clemente riappare nella prima parte del Ποιμήν, che Erma, fratello di colui che dové divenire il futuro papa Pio I, redasse a Roma sulla questione, allora molto controversa, della penitenza. Clemente fu incaricato di diffondere degli esemplari di quel piccolo libro nelle città straniere, poiché quello era il suo ufficio, κείνγρπιτέτραπται: «... λθενπρεσβυτέρακαρώτησένμεεδητβιβλίονδέδωκατοςπρεσβυτέροις. ρνησάμηνδεδωκέναι. Καλς, φησίν, πεποίηκας· χωγρήματαπροσθεναι. τανονποτελέσωτήματαπάντα, δισογνωρισθήσεταιτοςκλεκτοςπσιν. γράψειςονδύοβιβλαρίδιακαπέμψειςνΚλήμεντικανΓραπτ. πέμψειονΚλήμηςεςτςξωπόλεις, κείνγρπιτέτραπται. Γραπτδνουθετήσειτςχήραςκατοςρφανούς»; «Scribes ergo duos libellos, et mittes unum Clementi, ed unum Graptæ. Mittet autem Clemens in exteras civitates; illi enim permissum est: Grapte autem commonebit viduas et orphanos. Tu autem leges in hac civitate cum senioribus qui præsunt Ecclesiæ» (Sant’Erma, Pastor, lib. I, VisioII, cap. 4, § 3, in PG 2, col. 899A-900A, ora trad. it., introduzione e note di Antonio Quaquarelli (a cura di), I Padri Apostolici, Roma 19989, p. 249; ed in trad. Id., Il Pastore di Erma, con Introduzione di Dag Tessore, Roma 2007, p. 23).
Vediamo qui una nuova prova della sollecitudine universale che nutrivano fin da allora i primi Pontefici per il governo della Chiesa cattolica tutta intera.
La lettura evangelica, secondo l’elenco di Würzburg, contiene la parabola dei talenti divisi tra i servitori; mentre il Messale di san Pio V assegna un altro passo di san Matteo (24, 42-47), utilizzato dal Comune dei Confessori Pontefici: Vigilate.
La missione di vegliare è imposta particolarmente ai vescovi; tanto che il loro stesso nome esprime in greco la sorveglianza che devono esercitare senza tregua sul loro gregge.
San Guido, che viveva nell’XI sec., e che, dopo essere stato monaco a Farfa, diventò abate di San Clemente di Casauria, in provincia di Pescara, morì, nell’anno 1045, in questo giorno, dedicato al santo Titolare della sua abbazia. Questo beato trapasso avvenne nel momento in cui il diacono cantava in chiesa il testo evangelico concernente il fedele servitore che distribuiva il frumento ai suoi al tempo opportuno.
Quasi tutti i prefazi romani per la festa di san Clemente, con l’allusione ai suoi genitori, che perse e poi ritrovò, s’ispirano ai libri pseudo-clementini, detti Recognitiones(Pseudo-Clemente,Recognitiones, in PG 1, col. 1206 ss. Per il testo, in lingua italiana, v. Id., I ritrovamenti, trad. introduzione e note di Silvano Cola (a cura di), Roma 1993, passim). In questo testo si narra, in maniera romanzesca, la storia della famiglia di Clemente, composta dal padre Faustino, dalla madre Mattidia e dai figli gemelli Fausto e Faustino e dal più giovane Clemente. Varie circostanza, portano i membri del nucleo familiare a disperdersi finché, sempre avventurosamente, grazie ai viaggi missionari di Pietro, tutti quanto si ritrovano e si riconoscono. Da qui il titolo dell’opera (così ricorda Cola, Introduzione a Pseudo-Clemente, I ritrovamenti, cit., p. 17). 

Bernardino Fungai, Miracolo di S. Clemente, 1498-1501, City Art Gallery, New York

Bernardino Fungai, Martirio di S. Clemente, 1498-1501, City Art Gallery, New York


Domenico Ghirlandaio, Madonna in trono con Bambino e Santi (SS. Clemente papa, Pietro, Paolo e Sebastiano), 1479 circa, Duomo San Martino, Lucca



Martirio di S. Clemente, Refettorio, Basilica di S. Clemente al Laterano, Roma


Pier Leone Ghezzi, Martirio di S. Clemente, 1726, Pinacoteca vaticana, Roma

Giovanni Battista Tiepolo, Visione di S. Clemente, 1730-35, National Gallery, Londra

Giovanni Battista Tiepolo, Papa S. Clemente I adorante la Trinità, 1737-38, Alte Pinakothek, Monaco




Tomba di S. Clemente e busto-reliquiario di S. Flavio Clemente, Basilica di S. Clemente, Roma


Giuliano Finelli, Busto-reliquiario di S. Clemente papa, 1632-39, musei diocesano, Velletri

don Nicola Bux: "Per il giubileo deve essere chiaro l'invito alla conversione!"

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Nella memoria di S. Giovanni della Croce, rilanciamo volentieri quest’intervento-appello di don Nicola Bux, affinché il prossimo “Giubileo” non si trasformi in un’esaltazione della misericordia senza conversione … .


José Joaquín Magón, Imposizione dell'abito carmelitano a S. Giovanni della Croce, XVIII sec., Cappella di S. Giovanni della Croce, Templo Conventual de Nuestra Señora del Carmen, Puebla

José Joaquín Magón, Messa di S. Giovanni della Croce, XVIII sec., Cappella di S. Giovanni della Croce, Templo Conventual de Nuestra Señora del Carmen, Puebla

José Joaquín Magón, S. Giovanni della Croce lotta contro i demoni, XVIII sec., Cappella di S. Giovanni della Croce, Templo Conventual de Nuestra Señora del Carmen, Puebla



José García Hidalgo, Levitazione o Estasi dei SS. Teresa d'Avila e Giovanni della Croce nel Monastero dell'Incarnazione ad Avila, 1675 circa, Museo de Segovia, Segovia 

Giubileo, appello a papa Francesco: «Deve essere un chiaro invito alla conversione»

di Nicola Bux

Mentre i politici occidentali parlano di strategia di lungo periodo per fronteggiare il terrorismo islamista, e ricorrono all’armamentario dei valori della convivenza, della solidarietà, della tolleranza, del dialogo, ormai mummificati, i giovani europei muoiono nel corpo e nell’anima; anche tra i cattolici non si vuol risalire alle cause che inducono tanti ragazzi, in cerca di idee forti, ad arruolarsi nelle file dei musulmani, ed altri, succubi del pensiero debole, a inseguire i miti progressisti, al punto che, quando uno di loro muore, non si sa dire altro che ‘era solare’ – che significa? -, spegnendo l’interrogativo sulle condizioni dell’anima al momento della morte.

La Chiesa cattolica, “vessillo issato tra le nazioni e strumento di salvezza per tutti i popoli” a cosa è chiamata? Seguendo l’Omelia di un autore del II secolo, riprendo questo appello: “Fratelli, prendiamo questa bella occasione per far penitenza, e mentre ne abbiamo tempo, convertiamoci a Dio che ci ha chiamati e che è pronto ad accoglierci. Se lasceremo tutte le voluttà e non permetteremo che la nostra anima rimanga preda dei cattivi desideri, saremo partecipi della misericordia di Gesù”.

Giovanni Paolo II richiamava le visioni di santa Faustina, che dinanzi al purgatorio, esclama: “una prigione di dolore”, della quale il Signore le fece intendere: “La mia misericordia non vuole questo, ma lo esige la giustizia”.

Sembra, quindi, che non si possa ottenere misericordia senza conversione, altrimenti Dio non sarebbe giusto, né in questo mondo né, soprattutto, nell’altro: “La Misericordia esige, prima di inondarci della sua benevolenza, la verità, la giustizia e il pentimento. In Dio la misericordia si fa perdono” (R. Sarah, Dio o niente,Siena 2015, p. 266). È il Vangelo di Gesù Cristo!

Gli avvenimenti tragici di Parigi, con le minacce a Roma, portano a rivolgere l’appello al suo Vescovo, il Papa, che il Giubileo dichiari meglio l’intento per il quale fu istituito: l’invito alla conversione di tutti gli uomini per ottenere indulgenza, ossia misericordia dal Signore; un invito supplice, innanzitutto ai cristiani, affinché rinnovino la rinuncia battesimale ad ogni connivenza col mondo e guardino a Gesù Cristo, l’unica “porta santa” attraverso cui entrare nella vita eterna, come egli stesso ha detto. Bisogna che tale annuncio evangelico non escluda alcun uomo, perché è l’unico ‘dialogo’ che il Signore vuole - lo attestano i vangeli - e che Egli stesso ha intessuto con uomini e donne di ogni tipo: giusti e peccatori, ebrei e samaritani, romani e greci. È il dialogo che dichiara la necessità della conversione di tutto il mondo al Signore Gesù, per la salvezza dell’anima in terra e soprattutto in Cielo.

Che Gesù Cristo sia il principio e il fine del rapporto col mondo, lo dichiarò Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II: «Il grande problema posto davanti al mondo, dopo quasi due millenni, resta immutato. Il Cristo, sempre splendente al centro della storia e della vita; gli uomini o sono con Lui e con la Chiesa sua e allora godono della luce, della bontà, dell’ordine e della pace; oppure sono senza di Lui, o contro di Lui, e deliberatamente contro la sua Chiesa: divengono motivo di confusione, causando asprezza di umani rapporti e persistenti pericoli di guerre fratricide».

La Chiesa di Gesù Cristo, che sussiste nella Chiesa cattolica,è stata costituita e inviata ad attuare questo dialogo che consiste nel proclamare che l’uomo si salva solo se crede nel Signore Gesù: ebrei e pagani, musulmani e buddisti, atei e agnostici: nessuno può essere esentato dalla conversione. È l’invito che scaturisce dal Cuore di Cristo, affinché tutti si salvino e giungano alla conoscenza della verità. Se il parlare della misericordia - che è un aspetto della carità – non fosse finalizzato alla conversione, non servirebbe a nulla, come ha ricordato san Paolo nel celebre “inno alla carità”. Se la Chiesa non fa questo annuncio, tradisce il mandato del suo Fondatore.

Non serve discettare se vi siano musulmani moderati o fondamentalisti o fanatici, e sociologismi simili: chi conosce il Corano e gli hadithdi Muhammad sa bene cos’è l’islam; né serve ricorrere alla teoria rahneriana dei cristiani anonimi, stigmatizzata da Hans Urs von Balthasar, per sostenere la necessità del dialogo senza alcun intento di conversione: sarebbe alimentare l’insipienza di tanta parte della cristianità, come amava dire il cardinal Giacomo Biffi. Decenni di dialogo da parte cattolica, sostituendo la missione di annunciare Gesù Cristo, non evita la persecuzione, perché questo è lo statuto ordinario dei cristiani: «Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi»; senza dimenticare che la persecuzione è una beatitudine proclamata da Cristo. Invece, sta accadendo ciò che descrive il cardinal Sarah: «Mentre i cristiani muoiono per la fede e la loro fedeltà a Gesù, in Occidente, degli uomini di Chiesa cercano di ridurre al minimo le esigenze del Vangelo» (ibidem, p. 369). 

Il Giubileo veda i vescovi e i sacerdoti spiegare che la misericordia del Signore e il Suo perdono, si può sperare di ottenerli solo osservando i Comandamenti, abbandonando ogni condotta malvagia, scisma ed eresia. Dio si è fatto vicino, abita in mezzo a noi, non è un Essere lontano e impersonale; il cattolico non professa un vago deismo: dopo l’Incarnazione, sarebbe imperdonabile. Non si può mescolare al giusto culto da dare a Dio - è anche il primo comandamento della carità, insegnato da Gesù -, forme che imitino gli spettacoli mondani. Si deve difendere la famiglia da contraffazioni di cui ci si deve solo vergognare. Non si deve uccidere il prossimo per poter possedere; profittare dei poveri - che saranno sempre con noi - per risuscitare il pauperismo; mistificare con la menzogna la verità, il male col bene; spadroneggiare su persone e cose altrui. Senza la conversione, la misericordia non fa scomparire vizi e peccati, specie quelli capitali, nei quali molti stabilmente vivono. 

Bisogna che il Giubileo rilanci l’esercizio delle virtù teologali e cardinali fino al grado eroico, cioè esorti alla santità, e per questo inviti a ritornare ai Sacramenti che sono lo strumento ordinario della Grazia divina. Bisogna praticare le opere di misericordia corporale senza omettere - anzi, di questi tempi, anteponendole -, quelle spirituali a cominciare dalle prime tre: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori.

Nel giorno del Giudizio, da quello particolare dopo la morte a quello universale, ci sarà chiesto se avremo osservato tutti i Comandamenti e i precetti della Chiesa, in primis se saremo andati a Messa,fons et culmen del giusto culto a Dio, che è appunto l’Eucaristia, il vero atto di carità verso Colui che si è fatto povero per renderci ricchi. Memori di Colui che ha detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna, ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(Gv 6,54).

Dunque:“Non anteponiamo assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna” (San Benedetto, Reg. n. 72).

Messa, liturgia, riforma liturgica in un aforisma di Aldo Fabrizi

Storia di fede e massacri. Il peccato mortale di essere cristiani

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Nella memoria liturgica di S. Silvestro Guzzolini, abate, e S. Pietro Alessandrino, vescovo, e compagni, martiri, rilancio quest’articolo sullo sterminio silenzioso dei cristiani in terra islamica … (v. anche, dello stesso autore, La bomba durante la messa, la fede che resiste. Cronaca da Aleppo, in Il Foglio, 23.11.2015 e lo Speciale dedicato allo Sterminio dei cristiani). A dimostrazione come non possa parlarsi di un islam integralista ed un islam moderato ...., ma semplicemente dell'islam, come affermato di recente dal presidente turco Erdogan (v. qui e qui).

Apparizione di Cristo con la veste strappata a S. Pietro di Alessandria

Icona di S. Pietro d'Alessandria

Storia di fede e massacri. Il peccato mortale di essere cristiani

Inchiesta su uno sterminio silenzioso

di Matteo Matzuzzi

In Nigeria, solo a Maiduguri, centomila cristiani costretti alla fuga nell'ultimo biennio

“Nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 2014, dei pick-up muniti di altoparlante circolavano nei quartieri di Mosul annunciando un ultimatum e distribuendo un volantino in cui si leggeva: i cristiani devono convertirsi all’islam, pagare la tassa, lasciare la città senza prendere nulla con sé entro il mezzogiorno del giorno seguente. O saranno decapitati. ‘Fra voi e noi non ci sarà che la spada’, precisava il volantino. Il risultato? Sono partiti tutti”.
Louis Raphaël I Sako,
Patriarca di Babilonia dei caldei

È un genocidio, punto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome”. Bashar Warda, vescovo caldeo di Erbil, Kurdistan, primo punto d’approdo per i cristiani e yazidi cacciati dalle loro case nella piana di Ninive, sfrattati dall’avanzare dell’orda nera del Califfato islamico, scandisce e ripete ogni volta che può quella parola che imbarazza gli storici e pure tanti uomini di chiesa. Definizione controversa, quella di genocidio, basti pensare all’eterna disputa su quel che accadde nell’Impero ottomano in via di disfacimento un secolo fa, quando gli armeni furono condotti a tappe forzate da un capo all’altro dell’Anatolia, con i turchi che ancora oggi negano tutto e parlano di semplici “trasferimenti”. Per Warda “ci sono tutti gli elementi, gli eventi, le storie e le esperienze che soddisfano la definizione di genocidio”, e solo usando la corretta definizione “queste esperienze non saranno dimenticate, i sacrifici di questa gente non saranno dimenticati. Non si aspettino altri vent’anni per guardarsi indietro e dire ‘mi dispiace se non abbiamo fatto qualcosa di veramente decisivo’”, prosegue citando implicitamente la vergogna di Srebrenica e delle sue fosse comuni. Il patriarca di Baghdad, mar Louis Raphaël I Sako, nel suo ultimo libro “Più forti del terrore” (Emi), aveva chiarito perché a suo giudizio è corretto parlare di genocidio: “Se si confrontano gli avvenimenti passati con ciò che accade oggi, è l’ampiezza del dramma che cambia. Decine di migliaia di cristiani sono stati scacciati dalla piana di Ninive in un colpo solo. Nelle guerre precedenti, alcuni individui erano uccisi, oggi tutta la popolazione è colpita”. Questo, aggiungeva Sako, “è un attacco di massa il cui scopo è di far partire tutti i cristiani. Qui si può veramente parlare di epurazione religiosa e addirittura di genocidio”.
Fare stime è difficile, i numeri ballano e i censimenti non sono sempre possibili, data la situazione sul terreno sconvolto da anni di guerre e tensioni etniche e religiose. Quel che si può dire, è che rispetto a un paio d’anni fa il numero di paesi dove la persecuzione nei confronti dei cristiani è considerata estrema (cioè a livello massimo) è passato da sei a dieci, ha scritto di recente in un rapporto la Fondazione di diritto pontificio Aiuto alla chiesa che soffre. A Cina, Eritrea, Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Corea del nord si sono infatti aggiunti Iraq, Nigeria, Sudan e Siria. Certo, a Pechino le croci vengono rimosse dalle chiese perché considerate “troppo vistose”; i cristiani non allineati ai vescovi di nomina governativa pregano nella clandestinità, come i loro precursori duemila anni fa nelle catacombe. Nell’ultimo anno, nel solo Zhejiang, il restyling delle chiese (che è nient’altro che la rimozione della croce) ha coinvolto 425 edifici. “Ci sono troppe croci”, ha detto il segretario locale del Partito, preoccupato dalla poca armonia nello skyline cittadino. “La croce è il simbolo della nostra fede. Rimuovendo le croci, le autorità insultano la nostra fede, violano i nostri diritti che pure sono garantiti dalla Costituzione cinese”, diceva qualche tempo fa il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, arcivescovo emerito di Hong Kong. “All’inizio pensavo che la campagna derivasse da una decisione del governo locale. Poi sono giunto alla conclusione che la linea è quella dello Stato centrale. Ciò è una terribile regressione della politica religiosa” della Cina, chiosava.
Dal rapporto, però, balza subito all’occhio che “le nuove entrate sono tutte segnate dall’ascesa dell’estremismo islamico, che si conferma come una delle principali minacce alla comunità cristiana”. Emblematico è il caso dell’Iraq, dove le case dei cristiani sono state marchiate con la “N” di nazareno. Qui oltre centoventimila cristiani sono stati obbligati a scegliere se convertirsi o morire passati per la spada dei jihadisti. Le immagini diffuse nei mesi scorsi dai network del Califfato hanno testimoniato il ritorno delle enclave di dhimmi, dove i non musulmani tollerati sono chiamati a firmare contratti e a pagare tasse per aver salva la vita, a patto di non suonare le campane e di non costruire nuove chiese. In Nigeria, nella sola diocesi di Maiduguri centomila cristiani sono stati costretti alla fuga nell’ultimo biennio. Trecentocinquanta le chiese distrutte, date alle fiamme o rase al suolo. È di martedì sera l’ultimo attacco per mano di Boko Haram, a Yola, capitale dello stato di Adamawa, nel martoriato nord-est del paese. Quarantanove morti secondo gli ultimi bollettini della Croce Rossa (in continuo aggiornamento), cento feriti, dopo che un attentatore suicida si è fatto esplodere in una stazione di servizio, vicino a un mercato di frutta e verdura. L’arcivescovo di Jos, mons. Ignatius Kaigama, presidente della Conferenza episcopale nigeriana, diceva la scorsa estate che per i combattenti di Boko Haram “la vita è niente; non gli importa nulla della loro vita: è inutile. Prendono, però, altre vite, questo è il problema. Vanno in chiesa, vanno al ristorante, vanno al mercato, vanno a scuola e mettono le bombe. Ciò significa che la loro filosofia di vita è irrazionale”. Il cardinale John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, chiedeva anche l’uso delle armi per proteggere il popolo. Il governo “finora ha fatto poco. Ora dicono che lo faranno. Ci spero, ma sono un po’ scettico. A ogni modo, non basta condannare Boko Haram, perché che cosa insegna l’islam nelle sue scuole in Nigeria? A non rispettare le altre religioni. Se questo è il discorso normale, se i bambini crescono così, poi è chiaro che si crea un terreno fertile per l’emergere di Boko Haram o dell’Isis o di al Qaida”.
Davanti all’inferno sulla terra, tra i cadaveri bruciati che riempiono le strade, rimane la speranza che solo la fede può dare. Può sembrare paradossale, ma tutte le testimonianze dai luoghi della persecuzione narrano di una fede che si fa sempre più forte, nonché di una volontà ferma e sempre più convinta di rimanere nelle proprie terre, se necessario fino al martirio. “Nella mia diocesi di Aleppo, nel nord della Siria, siamo sulla linea del fronte di questa sofferenza. La mia cattedrale è stata bombardata sei volte e ora è inagibile. La mia casa è stata colpita più di dieci volte. Stiamo affrontando la furia di un jihad estremista. Potremmo scomparire presto”, ha scritto Jean-Clément Jeanbart, arcivescovo greco-melkita di Aleppo. Noi, aggiungeva, “siamo il primo obiettivo della campagna di pulizia religiosa del cosiddetto Califfato. Veniamo massacrati quotidianamente e anche altri cristiani subiscono lo stesso trattamento”.
I mesi tra il 2013 e il 2015 sono stati catastrofici per i cristiani in diverse regioni del mondo. Non sono gli unici ad aver sofferto, certo. Ma tutti i dati mostrano come essi siano stati quelli più colpiti rispetto ai fedeli di altre religioni. L’International Society for Human Rights, con base a Francoforte, già nel 2012 sosteneva che l’ottanta per cento di tutti gli attacchi di discriminazione religiosa aveva come bersaglio proprio i cristiani. L’Unione europea – non certo entità d’emanazione pontificia – aggiustava la cifra, ma neanche più di tanto: settantacinque per cento. David Brooks, sul New York Times di martedì scorso, snocciolava qualche numero per dare l’idea del massacro silenzioso e spesso tollerato: “Nel novembre del 2014, prendendo un mese a caso, ci sono stati 664 attacchi jihadisti in quattordici paesi, che hanno causato la morte di 5.042 persone. Dal 1984 – aggiungeva Brooks – si stima che un milione e mezzo di cristiani sia stato ucciso dalle milizie islamiste in Sudan”. Una mappa del terrore che già un anno e mezzo fa, a Pasqua, aveva fatto dire al premier britannico David Cameron che “la cristianità è oggi la religione più perseguitata nel mondo”.

Il silenzio del Carmelo, pegno di vittoria

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In un momento di forte crisi e scandali, che hanno attinto pure l’ordine del Carmelo nell’Urbe, va ribadita quella che è la spiritualità carmelitana, fatta di silenzio, di preghiera e di clausura, tanto da far chiamare i carmelitani, che non hanno ceduto alle lusinghe della modernità e son rimasti fedeli alla regola originaria della riforma dei SS. Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, “alunni della morte” (cfr. qui).
Nella festa della Manifestazione della Beata Vergine Maria Immacolata della Medaglia Miracolosa, rilancio questo contributo tratto da Chiesa e postconcilio.












Il silenzio del Carmelo, pegno di vittoria

Tu che conosci colui che in questo istante sta peccando, colpisci me per lui, e così forte che possa pentirsi”. (Una monaca carmelitana, tratto dal radio-documentario Clausura di Sergio Zavoli, 1958)

Chi non crede alla preghiera non può considerarci che impostori o parassiti della società. Se lo dicessimo più francamente al mondo ci faremmo capire meglio”.
(I dialoghi delle carmelitane, George Bernanos)

In questi giorni di fragore e desolazione, le nostre anime non possono che essere intorbidite e soffocate dal livore mediatico e dalle propaggini di odio indiretto verso la Chiesa e la Fede cattolica. Dedurne i motivi è piuttosto facile: dove non abbiamo letto le accuse sommarie, le presunte condanne infallibili verso le crociate e verso il passato militante della cristianità? 
Dove non abbiamo letto, con sguardo perplesso, considerazioni storiche sull’evoluzione del ‘sentimento della violenza’ nel mondo cristiano, il quale con l’avvento dei Lumi – dal chiarore opaco – è stato ricondotto nei ranghi di una giusta morale? Abbiamo esitato, abbiamo provato vergogna, spesso per viltà non ci siamo saputi difendere. Molto più spesso, e cosa ancor più grave, non abbiamo avuto prìncipi e generali degni per poterci difendere. Esiste, tuttavia, nel cuore della Chiesa, anche durante questa tempesta devastatrice, un luogo di speranza, un esercito orante di intrepide anime senza paura. La sua storia ha origini lontane, così lontane da indurre a pensare che esso sia sempre esistito. È l’ordine dei fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo; l’intera famiglia carmelitana che con la grande riforma teresiana del 1500 si è imposto come uno dei pilastri portanti della Santa Chiesa.
Sul modello del profeta Elia – considerato dai suoi figli padre dell’ordine – ben presto i monaci eremiti si ritirarono nei primi secoli della cristianità sul monte Carmelo, in Palestina, per onorare in modo tutto particolare la Beata Vergine Maria. Nel 1251, il 16 luglio, la Regina degli Angeli concesse a coloro che già si degnavano dell’onore dell’appellativo di ‘fratelli della Beata Vergine’, un pegno di amore : lo scapolare, conosciuto anche come ‘abitino della Madonna’. Esso è costituito da due rettangoli in lana bruna uniti da due cordicelle; il suo nome che deriva dal latino scapula (“spalla”) ne indica le modalità di vestizione – sulle spalle appunto. Si tratta in effetti di una riduzione del grande scapolare portato dagli stessi frati. A questo semplice oggetto, la Santa Vergine ha annesso la promessa della salvezza eterna per coloro che ne saranno rivestiti al momento della morte. Da sempre per secoli e secoli la Cristianità, nell’espressione autorevole dei Sommi Pontefici, si è affidata a quest’arma potente al pari del Santo Rosario offerto dalla Madre del Cielo all’ordine domenicano[1].
Nonostante la fiorente diffusione e solidità dell’ordine, che nello scapolare aveva trovato un segno di protezione celeste e di elezione mariana, dopo lunghi secoli i frati eremiti furono costretti a spostarsi in Europa. Essi dovettero abbandonare la vita solitaria e la meditazione costante della legge divina a causa dell’invasione maomettana in Oriente. Giunsero, così, in Europa dove col passare del tempo e in seguito ai grandi sconvolgimenti storici che colpirono la Cristianità tra il Basso Medioevo e l’inizio dell’età moderna, i religiosi invocarono la necessità di mitigare la regola dell’ordine al fine di consacrarsi più efficacemente alla vita apostolica. Nel 1431, SS. papa Eugenio IV accordò all’ordine una revisione degli statuti (detta anche “regola mitigata”).
Quando nel 1535 Térésa de Ahumada (la futura santa Teresa D’Avila) entra nel monastero della sua città, obbedisce, appunto, a questa regola. Dopo venti anni di vita monastica, sollecitata da grazie mistiche e vinta in una lunga battaglia interiore dalla volontà del Signore, la grande mistica spagnola, sostenuta da San Giovanni della Croce, opera finalmente l’imponente opera di riforma dell’ordine che ci donerà il Carmelo tale quale noi lo conosciamo oggi. Da allora, l’ordine non ha conosciuto crisi (se si eccettuano alcune deviazioni degli ultimi cinquant’anni), ma ha anzi moltiplicato il numero di anime sante offerte alla Chiesa: Teresa di Lisieux, le martiri carmelitane di Compiègne, Elisabetta della Trinità, Maria di Gesù Crocifisso, Edith Stein per citare solo alcuni nomi.
Al di là delle ricostruzioni storiche, sarà forse di più utile sostegno spirituale definire le finalità proprie del Carmelo. La gravità del momento storico sembra imporcelo e – quasi – suggerircelo, persi come siamo nel chiasso del mondo secolare e della tragicità degli eventi.
Il Carmelo (il cui significato in ebraico è ‘giardino di Dio’) è sostanzialmente l’ordine di Maria. Esso non potrebbe esistere senza la Sua materna protezione e possiamo dire – non senza audacia – che l’ordine trovi anzitutto in Lei la Sua fondatrice. Questa consustanzialità nella vita religiosa non si manifesta nella pratica devozionale (che di per sé è molto semplice e spoglia, piuttosto dissimile dall’amore liturgico tipico dell’ordine benedettino ad esempio), ma in un’attitudine diffusa e aleggiante nella vita di ogni membro dell’ordine. Maria è la più grande orante, la più coraggiosa penitente, la più profonda contemplativa, la più fine teologa: queste quattro finalità sono racchiuse nella vita del Carmelo. Esse devono essere perseguite e offerte per la Chiesa. I sacrifici e le orazioni dell’ordine trovano, infatti, nei sacerdoti e nel corpo apostolico (teologi, predicatori, pontefici) il proprio fine ultimo. I figli del Carmelo non fanno altro che perpetuare la Passione di Maria ai piedi della Croce : come la Santa Madre vide nel sangue e nell’acqua sgorgati dal costato di Nostro Signore Gesù Cristo, il senso e l’oggetto della Sua missione – ovvero la Chiesa, sposa mistica di Suo Figlio – accettandone la proposta di maternità divina, così ogni figlio e figlia del Carmelo rivive nella propria anima questa particolare forma di oblazione e donazione di tutte le facoltà personali.
La vita del Carmelo è semplice quale lo scapolare che ne contraddistingue i membri. La grande austerità richiesta dalla regola (il silenzio è obbligatorio ad eccezione di due ricreazioni quotidiane in cui è concesso parlare, il digiuno monastico – che prevede l’astinenza perpetua dalle carni – si protrae per otto mesi l’anno, le doppie grate e il velo nero – che simboleggiano la clausura nel ramo femminile – impongono il distacco dal mondo esterno) è vissuta nella gioia e nella semplicità di giornate sempre uguali che prefigurano l’ineffabile Eternità. Nel ramo femminile dell’ordine questo aspetto è sensibilmente evidente, pur nei limiti di ciò che è concesso di vedere al mondo al di qua delle grate. Nel grande giardino degli ordini religiosi, la fisionomia del Carmelo si staglia proprio per la sua semplicità, che è una caratteristica da sempre attribuitagli: esso richiama l’infinita e imperscrutabile semplicità di Dio nella Santissima Trinità.
L’unicità della vita al Carmelo risiede particolarmente nell’orazione. Le costituzioni prescrivono due ore al giorno di orazione silenziosa. Si tratta di un pio esercizio o, per usare le parole di Santa Teresa d’Avila, di un “dolce commercio dell’anima, con Colui dal quale si sa di essere amati” : l’orazione è, in effetti, una meditazione prolungata in cui l’anima si rivolge con la libertà propria dei cristiani al suo Creatore. Essa con la mortificazione dello spirito e con una pratica eroica dell’obbedienza (definita da San Giovanni della Croce “la penitenza della ragione”) definisce i tratti essenziali della vita carmelitana. Il suo scopo è non solo la santificazione personale, ma, soprattutto, la salvezza delle anime e la libertà della Chiesa. Per un solo dialogo d’amore, per il sospiro di una singola monaca, per la consolazione di un solo istante, il Divin Prigioniero trova riposo e pace nelle anime rinchiuse nel sacro giardino.
Nel 1958, il giornalista Sergio Zavoli con il suo radio-documentario Clausura dà voce al Carmelo nei mezzi di comunicazione dell’epoca [2] (o è piuttosto il Carmelo a raggiungere, attraverso i misteri della Provvidenza divina, il mondo moderno). Per la prima volta gli ingombranti macchinari radiofonici valicano le mura di un monastero di clausura attraverso grate e ruote, mentre le religiose si occupano della registrazione e del commento delle consuetudini della vita monastica. Anche i frutti delle orazioni sono catturati dalla ripresa audio. La citazione in esergo a questo scritto ne è una prova. Essa riassume tutto lo spirito del Carmelo. Tra le chiacchiere mondane, tra il fracasso mediatico, tra l’inutilità degli sproloqui di politici e uomini dotti, il silenzio delle monache carmelitane brilla per eloquenza e nobiltà. Non vi è altra aspirazione per una monaca carmelitana se non di offrire se stessa a Dio per la salvezza del genere umano, sul modello di Cristo e della Sua Madre. Una preghiera silenziosa, che sboccia come un fiore all’interno di una vita tutta interiore, il vero giardino di Dio nelle nostre anime. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente (Lc, I, 49): nessuno potrà mai sondare in modo perfetto e profondo cosa ha operato il Creatore nell’anima della più amata fra tutte le creature, la Vergine Maria. Ciononostante, la Vergine ci indica una via regale di santità che sta nel nascondimento e nella lode costante del creatore. Per una carmelitana conformarsi a questa verità rivelataci dalle Scritture è la più santa e ammirabile delle ambizioni, poiché ha come modello la vita della Madre di Dio. Ciò ci permette altresì di capire quanto Dio si compiaccia, in ragione della Sua somma bontà, della preghiera silenziosa, della dichiarazione di amore spontanea, semplice e sincera di ciascuno di noi. La vita interiore intesa come unione perfetta nell’orazione costituisce la bellezza e la forza stessa del Carmelo. Nel racconto della sua vita, Santa Teresa D’Avila riporta che durante un dialogo col Signore, Egli disgustato dai disordini della società, dall’eresia e dalla tiepidezza degli uomini di Chiesa abbia detto: “Avrei distrutto il mondo, se non fosse per otto tue consorelle che sono sante”. A quali vette di carità e fede fossero arrivate queste otto prigioniere di Dio (spesso anche chiamate, a causa della reclusione, alunne della morte) non ci è dato sapere. Tuttavia, possiamo trarre da quest’episodio un grande insegnamento: Dio elargisce grazie con infinita generosità a coloro che – anche se pochi in numero – si affidano a lui con fiducia. Sostenuto dall’amore di Maria, il Carmelo e i suoi figli continuano la loro silenziosa battaglia e la loro esistenza è per noi pegno e sicurezza di vittoria in questa epoca infame, giacché Dio mai rifiuterà la preghiera di coloro che hanno compreso in profondità che tra le Sue più grandi consolazioni vi è quella di vedere la Sua Santa Madre amata, onorata e servita come fece Suo Figlio su questa terra.
Zelo zelatus sum pro Domino, Deo exercituum, quia dereliquerunt pactum tuum filii Israel, altaria tua destruxerunt et prophetas tuos occiderunt gladio; et derelictus sum ego solus, et quaerunt animam meam, ut auferant eam. (Liber Regum I, 19, 10-11)
“Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita” (motto dell’Ordine dei fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo)
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[1] Congiuntamente al ‘privilegio sabatino’ (la promessa della Vergine di liberare il sabato successivo alla morte chiunque portasse lo scapolare – le cui condizioni furono stabilite dai pontefici), lo scapolare è stato da sempre largamente consigliato dai papi. Lo scapolare e il privilegio sabatino non sono una prerogativa dei religiosi carmelitani. La Vergine stessa a Fatima ha suggerito e fortemente esortato i fedeli a questa particolare devozione, tra i cui frutti vi è quello di beneficare delle preghiere e dei sacrifici dell’intera famiglia carmelitana. Esiste inoltre un terz’ordine secolare carmelitano, in cui i laici si impegnano in una più intensa vita di orazione e di preghiera (che prevede ad esempio la recitazione del Piccolo Ufficio della Vergine). Per maggiori informazioni http://www.unavox.it/ScapolareDelCarmelo.htm.

[2] Due versioni del radio-documentario (del 1958 e del 1988) sono reperibili su Youtube : https://www.youtube.com/watch?v=jJSNp4Ax26Y, https://www.youtube.com/watch?v=_CWn05mQR8o.



Un messaggio mariano per il nostro tempo

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Rilanciamo volentieri, nella festa della Medaglia Miracolosa, questo contributo di Cristina Siccardi.


Effigie della Madonna del Miracolo presso cui Alphonse Ratisbonne si convertì il 20 gennaio 1842, portando la medaglia miracolosa, Chiesa di S. Andrea delle Fratte, Roma

Un messaggio mariano per il nostro tempo

di Cristina Siccardi

Maria Santissima apparve nel 1830 in Francia, in rue du Bac per annunciare, con le lacrime che le scendevano dal candido volto, l’arrivo di sciagure e per dare consolazione e spargere grazie ai credenti: I tempi sono cattivi. Gravi sciagure stanno per abbattersi sulla Francia. Il trono sarà rovesciato. Tutto il mondo sarà sconvolto da disgrazie d’ogni specie. Ma venite ai piedi di questo altare. Qui le grazie saranno sparse sopra tutte le persone che le chiederanno con fiducia e fervore: grandi e piccoli. Le grazie da allora si spargono a tutti coloro che, con fede, indossano la Medaglia miracolosa, la cui festa liturgica ricorre il 27 novembre.
La Madonna, nelle sue apparizioni, non ha mai richiesto di pregare insieme ai valdesi, ai luterani, ai musulmani, ai buddisti, agli induisti… non ha mai richiesto di dialogare con loro e di piegarsi ai loro errori religiosi, perché mai, né Dio nell’Antico Testamento, né Gesù nel Nuovo hanno dato modo di intendere che il sincretismo sia un valore religioso e che lo svendere il proprio credo sia il prezzo da pagare per conquistare la simpatia degli uomini.
Dalla religione del popolo eletto, quello ebraico, si è passati alla religione della Rivelazione, quando Cristo ha ordinato di convertire nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo tutte le popolazioni del mondo, anche a prezzo di enormi sacrifici, rinunce, persecuzioni e martiri cruenti o incruenti. La Trinità non si contraddice come spesso usano fare, invece, gli uomini. «In principio era il Verbo (Logos), / il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio. / Egli era in principio presso Dio: / tutto è stato fatto per mezzo di lui, / e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. / In lui era la vita / e la vita era la luce degli uomini; / la luce splende nelle tenebre, / ma le tenebre non l’hanno accolta.» (Gv 1, 1-5).
La «luce» continua a non essere accolta e per tale ragione si rinnova il Santo Sacrificio dell’Altare ogni giorno, fino alla fine del mondo, perché continuano ad essere indispensabili la Passione e la Crocifissione di Nostro Signore a causa dei peccati. La Salvezza, portata attraverso il Verbo che si fece carne e attraverso i buoni e incontaminati insegnamenti della Tradizione della Chiesa, passa solo attraverso la Croce di Cristo e la propria croce, quella portata con amore e con «perfetta letizia», come usava dire san Francesco d’Assisi.
L’attuale teologo di riferimento, Walter Kasper, sulla scia della teologia rivoluzionaria francese e tedesca, è sostenitore della forma aperta dell’argomentazione teologica, alla quale fa parte «anche l’ascolto di quel che lo Spirito dice oggi alle comunità. Bisogna perciò interpretare la fede tramandata una volta per sempre nell’oggi e per l’oggi. Questo non significa che l’oggi, la mentalità odierna e quel che si suole denominare “segni dei tempi” possono essere un’istanza teologica accanto o addirittura contro la fede, però significa che essi devono essere un punto di riferimento nel senso che il messaggio cristiano va interpretato in ordine al rispettivo proprio tempo e in un confronto costruttivo con esso. Non esistono perciò solo delle deviazioni e delle eresie dovute alla mancanza di considerazione della tradizione e all’adattamento dello spirito del tempo. Esistono anche delle eresie provocate dal rifiuto caparbio di essere teologo nel qui e nell’oggi, di fare teologia come trasmissione viva della tradizione e di vanificare così il rispettivo kairós. Chi vuole parlare per tutti i tempi finisce per non parlare per alcun tempo» (Chiesa cattolica. Essenza-realtà-missione, Queriniana, Brescia 2012, p. 93).
Proprio per tali ragioni esposte abbiamo sentito il Papa (durante la sua visita nella chiesa evangelica luterana dello scorso 15 novembre) rispondere in una maniera da “segni dei tempi” (tempi questi confusi e luciferini) alla signora Anke de Bernardinis, moglie di un cattolico, che non può partecipare, insieme al coniuge, «alla Cena del Signore», la quale ha chiesto direttamente a papa Bergoglio: «Che cosa possiamo fare per raggiungere, finalmente, la comunione su questo punto?»: «Alla domanda sul condividere la Cena del Signore non è facile per me risponderLe, soprattutto davanti a un teologo come il cardinale Kasper! Ho paura! Io penso che il Signore ci ha detto quando ha dato questo mandato: “Fate questo in memoria di me”. E quando condividiamo la Cena del Signore, ricordiamo e imitiamo, facciamo la stessa cosa che ha fatto il Signore Gesù. E la Cena del Signore ci sarà, il banchetto finale nella Nuova Gerusalemme ci sarà, ma questa sarà l’ultima. Invece nel cammino, mi domando – e non so come rispondere, ma la sua domanda la faccio mia – io mi domando: condividere la Cena del Signore è il fine di un cammino o è il viatico per camminare insieme? Lascio la domanda ai teologi, a quelli che capiscono. È vero che in un certo senso condividere è dire che non ci sono differenze fra noi, che abbiamo la stessa dottrina – sottolineo la parola, parola difficile da capire – ma io mi domando: ma non abbiamo lo stesso Battesimo? E se abbiamo lo stesso Battesimo dobbiamo camminare insieme. (…) Ci sono domande alle quali soltanto se uno è sincero con sé stesso e con le poche “luci” teologiche che io ho, si deve rispondere lo stesso, vedete voi» .
Trema nelle vene la fede dei cattolici, mentre si compiace il cardinale Kasper che afferma di andare incontro ai dubbi di tutti e di non offrire nessun tipo di certezza perché: «Non è possibile dimostrare in maniera pura e semplice che il cristianesimo è la vera religione e che la chiesa cattolica è la vera chiesa» e questa volontaria apostasia è sostenuta dal fatto che: «A ogni argomento, anche al migliore, è infatti possibile contrapporre, da un altro punto di vista, altri argomenti» (Chiesa cattolica… op.cit., pp. 96-97).
Insomma, un gran calderone nel quale si annaspa e si denuncia la propria insoddisfazione, ben rappresentata dai coniugi cattolico-luterani de Bernardinis. Il Papa attuale, chiamato a custodire il depositum fidei, non è più in grado di offrire certezze, ma solo moltiplicazioni di dubbi irrisolti. A che cosa serve, allora, essere ancora cattolici? Il pastore valdese Ricca, durante lo scorso agostano Sinodo mondiale di Torre Pellice aveva detto, a proposito della richiesta di perdono del Papa nei loro confronti: «È l’inizio di una storia nuova: perdonare vicariamente al posto delle vittime è impossibile ma si può invece accettare la volontà della chiesa cattolica di dissociarsi radicalmente dal passato». È proprio ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi.
La Madonna credette nella Verità sempre, dall’annuncio dell’Arcangelo Gabriele, fino alla Resurrezione. E non ebbe mai dubbi: fu fedele solo a Dio. A santa Caterina Labouré (1806-1876) ordinò di far coniare una Medaglia con simboli ben precisi, che non hanno bisogno né di commento, né di interpretazioni speculative: Maria Santissima è raffigurata nell’atto di schiacciare la testa del serpente (il demonio). L’immagine era stata preannunciata nella Bibbia, con le parole: «Io porrò inimicizia tra te e la donna (…) questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen3,15).
In tal modo, Dio dichiarò iniziata la lotta tra il bene e il male. Questa lotta è vinta da Gesù Cristo, il nuovo Adamo, insieme a Maria, la nuova Eva. I raggi di luce simboleggiando le grazie. La santa vide tali figure incorniciate dall’invocazione «O Marie, conçue sans péché, priez pour nous qui avons recours à vous». Poi Caterina vide il retro della medaglia con altri simboli: 12 stelle (le 12 tribù d’Israele e i 12 apostoli: Antico e Nuovo Testamento, nonché le 12 stelle della Vergine, secondo l’Apocalisse); il Cuore coronato di spine, che rappresenta il Sacro Cuore di Gesù e il cuore trafitto da una spada, ovvero il Cuore Immacolato di Maria (Lc 2,33-35), due Cuori inseparabili: anche nei momenti più tragici della Passione e della morte in Croce, Maria era lì per condividere tutto.
Inoltre sono presenti ancora delle lettere, M: Maria. La M sostiene una traversa che regge la Croce, che rappresenta la prova. Questo simbolismo indica lo stretto rapporto di Maria e di Gesù nella storia della salvezza. I : Jesus. Il monogramma composto dalla I di Gesù intersecata dalla M di Maria e la Croce, rappresenta Gesù Salvatore e la Madonna, corredentrice, è in assoluto legata a Lui nell’opera di redenzione.
Il Consiglio d’Europa, nel 1950, bandì un concorso per realizzare la bandiera della futura Europa unita, quella che ripudierà le sue radici cristiane, non facendone cenno nella sua Carta costituzionale. Arrivarono 101 bozzetti e nel 1955 venne scelto quello di un grafico alsaziano, il cattolico Arsène Heitz (1908-1989). Subito scoppiò lo scandalo, la bandiera era un perfetto simbolo mariano: 12 stelle in cerchio su campo blu celeste. L’Europa (scherzi della Provvidenza) ha per stendardo il simbolo mariano per antonomasia. Arsène Heitz, rivelerà che, nel momento in cui conobbe il bando di concorso per la bandiera europea, stava leggendo la storia della Medaglia miracolosa.

Sulla legittima difesa dal punto di vista della morale cattolica

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Nella Vigilia (anticipata) di S. Andrea e nella memoria di S. Giacomo della Marca, confessore, ricevuto, pubblichiamo questo sintetico saggio sulla legittima difesa dal punto di vista della morale cattolica.

Filippo Vitale, S. Andrea condotto al martirio, XVII sec.

Jusepe de Ribera, S. Andrea in preghiera dinanzi alla sua croce, 1615-18, Quadreria dei Girolamini, Napoli

Jusepe de Ribera, S. Andrea, 1616, Quadreria dei Girolamini, Napoli

Francisco de Zurbarán, S. Giacomo della Marca, 1659-60, museo del Prado, Madrid

Sulla legittima difesa

di Vincenzo Sasso

P - Recentemente mi è capitato che “Qualcuno” mi dicesse, forte delle sue personalissime impressioni e delle sue poche conoscenze della Dottrina della Chiesa, che io avrei le “idee confuse” nel momento in cui ipotizzo che sarebbe moralmente lecito (e dovrebbe essere legalmente lecito) per un uomo difendersi con un’arma da fuoco nel caso di un’effrazione anche quando l’aggressore non ha ancora dato segno di essere armato. Affronterò le affermazioni una per una, anche se molto sinteticamente.

1 - PRIMA: “La vita è sacra”. “Cosa direbbe il mio confessore di questo?”, la provocazione. Cosa direbbe non lo so, ma so cosa insegna la Chiesa. La Chiesa dice che è omicidio uccidere un INNOCENTE, non chiunque in qualunque caso: sono esclusi la guerra, la legittima difesa e la pena di morte. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (promulgato nel 1992; d’ora in poi CCC) al par. n. 2267 afferma la legittimità morale della stessa pena di morte, come anche il Catechismo Maggiore di San Pio X del 1905 al n. 413. Non è certo questo il momento di affrontare questo tema; chi vuole verificare, basta che cerchi su Internet. È anche vero che l’autorità ecclesiastica è oggi impegnata a far cessare l’uso della pena di morte nel mondo. Ma questo atteggiamento non contraddice necessariamente l’insegnamento richiamato: una cosa è la legittimità morale come principio universale e sovratemporale, un’altra è la decisione, che ha carattere contingente ed è legata alla situazione e alla prudenza personale. Infatti, nel corso di una valutazione, alla considerazione di un principio di ordine più generale si possono aggiungere altre osservazioni (cfr. S.Th. I-II, q. 97, a. 2).

2 - SECONDA: “Se spari, spari per uccidere”. È un’affermazione assolutamente gratuita. In guerra soltanto si spara per uccidere, in tutti gli altri casi non si dovrebbe. Il CCC 2263 recita: “Nulla impedisce che vi siano due effetti di uno stesso atto, dei quali uno sia intenzionale e l’altro preterintenzionale”; e al 2264: “un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui”. Sono citazioni di S.Th. II-II, q. 64, a. 7 co..

3 - TERZA: Starei dicendo “un mare di sciocchezze” quando porto come argomento il fatto che un tempo c’erano maglie molto più larghe nella legittima difesa, mentre dopo lo Stato ha avocato a sé maggiori prerogative. Innanzitutto, non si tratta di un’opinione, ma di verità storica: in passato era più facile armarsi e che un’uccisione o una lesione venisse giustificata, mentre in seguito la legge (almeno nei Paesi occidentali) ha ristretto sempre più queste prerogative.
Il motivo per cui si porta questo argomento è che esistono due piani della legge: il diritto naturale e quello civile. È di diritto naturale il diritto (e l’obbligo, in alcuni casi) alla legittima difesa e alla difesa dei propri sottoposti (ad es. il capofamiglia o lo Stato nei confronti dei loro sottoposti); è di diritto naturale che ogni delitto va punito con pene proporzionate. È di diritto civile la determinazione di quali facoltà vanno riconosciute ai soggetti perché possano esercitare la difesa propria e dei propri sottoposti; è di diritto civile l’esatta determinazione di quali pene siano da considerarsi proporzionate al delitto commesso. Il diritto naturale è universale, sovratemporale e immutabile e deve obbligatoriamente essere riconosciuto dall’autorità; il diritto civile è mutabile e corrisponde alla valutazione prudenziale dell’autorità in un certo dato momento e considerati determinati mezzi; da cui anche la possibilità di ripudiare la pena di morte, come spiega il CCC (cfr. Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, ed. 2005(d’ora in poi CDS), nn. 397-398; S.Th. I-II, q. 94, aa. 4-6 riguardo alla legge naturale; S.Th. I-II, q. 95, a. 2 riguardo alla legge civile o positiva).
Ne consegue che è del tutto razionalmente fondato pensare e supportare un cambiamento in direzione di una maggiore libertà all’autodifesa.
Il fatto che una legge dice questo o quest’altro non significa che debba per forza rimanere così. Tantomeno si può compiere un salto logico dal piano della legalità a quello della moralità, altrimenti sotto le leggi razziali tutti avrebbero dovuto rispettarle; mentre è vero che la prima obbedienza spetta alla coscienza e solo dopo all’autorità, proprio per la distinzione tra diritto naturale e diritto civile. Ciò comporta la proibizione (morale, non legale!) di fare il male solo perché te lo ordina l’autorità (cfr. CDS 400-401; S.Th. I-II, q. 96, a. 4).
Volendo aprire una parentesi, si potrebbe aggiungere che un tempo (non occorre indicare un’epoca storica precisa) c’erano pochi mezzi per assicurare la giustizia e si conduceva una vita povera, con un’economia piuttosto orientata alla sussistenza. Di conseguenza, sparare o comunque combattere e forse uccidere un ladro assumeva un valore molto diverso. Personalmente ritengo (per una valutazione prudenziale, appunto) che fosse del tutto lecito, in certe condizioni, difendersi e difendere la proprietà con ogni mezzo. E infatti anche la legge lo ammetteva pienamente. E puniva atrocemente quelle violazioni della proprietà altrui a cui oggi si dà un valore molto minimo.

4 - QUARTO: “Legittima difesa è quando c’è proporzione...”. Esatto. Ma per determinare la proporzione non basta considerare solo un aspetto: se l’aggressore è armato e quale arma utilizza. Vi immaginate un paraplegico (o anche un anziano o anche una persona qualunque) che deve fare a botte con un omaccione che gli entra in casa? Non ce la farà mai a difendere un bel fico secco, ma può riuscirci con un’arma da fuoco. E siccome: A) “se [uno] reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita” (CCC 2264); B) la moderazione è il giusto mezzo tra due estremi non in astratto, ma in una situazione storica (spazio-tempo) precisa, considerati quindi i rischi, i benefici e i mezzi; C) allora l’uso di un mezzo tecnologicamente superiore e molto probabilmente letale è lecito.
Naturalmente ciò non toglie un’altra considerazione: se l’aggressore si arrende, è immobile e disarmato, sparargli sarebbe più un’esecuzione che legittima difesa. Ben diverso dal caso considerato prima, cioè di un aggressore disarmato, ma determinato a dartele di santa ragione (cfr. S.Th. II-II, q. 64, a. 7).

5 - Naturalmente questo ragionamento non comporta un’autorizzazione a fare tutto ciò che si crede giusto solo per una propria personale valutazione.
Quindi, per quanto concerne l’argomento in questione, il fatto di poter fare questa riflessione personale a livello morale non significa necessariamente che uno deve con leggerezza fare qualcosa che per legge non è consentito, né deve dare un peso eccessivo a quelle che sono impressioni personali (benché in questo non si tratti di impressioni personali, ma di un pensiero scientificamente fondato), ma certamente può mantenere le riserve della propria coscienza rispetto alla legge. La legge sovrana per la coscienza è quella morale (cioè quella di Dio), non quella di pinco palla o del Parlamento (cfr. CDS 399; S.Th. I-II, q. 93, a. 6).

6 - Se c’è un moralista (filosofo o teologo) che vuole dimostrarmi la fallacia del mio ragionamento (quando i nessi logici sono solo apparenti) o la falsità di una premessa (Aristotele: la verità delle conclusioni dipende dalla verità delle premesse), si faccia avanti senza paura. Io sono sempre disposto a rivedere quelle che sono le conclusioni sì di ragionamenti fondati, ma pur sempre personali.

7 – “Qualcuno” dovrebbe riflettere sul fatto che il dialogo non è solo una bandiera ideologica che serve a dire che le religioni sono tutte uguali e per affermare il relativismo morale (prostituzione, aborto, eutanasia...), ma è soprattutto (è solo) un impegno concreto: quando si parla, non si danno giudizi all’interlocutore, ma si usano argomenti.

8 - Spiego le cose una sola volta, perché distinguo le persone in ragionevoli e oneste da una parte e ideologiche, fideiste e sofiste dall’altra.

Per sorridere e ..... riflettere: sulla Presepefobia francese

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Inizia l'Avvento e la repubblica francese è terrorizzata dai presepi

La ricetta per combattere il fanatismo islamico? Togliere i presepi ed i simboli cristiani

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È assurdo ed irrazionale che, per fronteggiare l’impatto forte e violento dell’islam, alcune nazioni europee – quelle più coinvolte col terrorismo di matrice islamica e non solo (v. Islam e integrazione, dal Belgio un’idea nuova: «Vietare tutti i simboli religiosi», in Tempi, 26.11.2015) – e persino talune amministrazioni nostrane (v. la vicenda del preside di Rozzano, qui, qui, qui, qui, qui e qui) pensino bene non già di riaffermare con forza le proprie radici cristiane, bensì di indebolire ulteriormente il loro già fragile tessuto socio-culturale, mostrandosi debole. Ad un contenuto – di per sé inaccettabile – che si presenta forte e coeso, cosa si giustappone? Il nulla. Il vuoto. E questo senza alcun senso di vergogna e di ritegno (cfr. R. Casadei, Nulla contro nulla. O dell’impossibilità di opporsi a un nemico che non sappiamo nemmeno chiamare per nome, in Tempi, 28.11.2015). Si tratta di un ennesimo inchino, come ha affermato Mauro Zanon su Il Foglio del 26.11.2015. In fondo il laicismo è il miglior alleato del fanatismo islamico, come ricorda Leone Grotti su Tempi, 24.11.2015!
Come abbiamo lamentato già in altre occasioni, quest'indebolimento non sarà scevro di conseguenze! Come osserva un attento nostro amico, "Una classe dirigente miope ed ottusa ha trascinato il vecchio continente nella sfida ciclopica dell’immigrazione di massa proprio nel momento di maggior debolezza, dopo aver ottenuto l’espulsione dalla società di quegli anticorpi rappresentati dalle peculiarità culturali che costituiscono, al contrario, la marcia in più dei nuovi arrivati. Proprio in trincee interculturali ..., gli ultimi scampoli di gloria dello stile di vita occidentale subentrato agli autoctoni valori millenari, improntato sull’edonismo e sul libertinismo e che trova nell'”Imagine” di Lennon (no religion too) il suo inno più efficace, rischiano di soccombere di fronte alla prorompente vitalità del modello esistenziale testimoniato dagli immigrati islamici. Solo l’apertura immediata di una stagione di risveglio spirituale e di riscoperta delle proprie radici originarie, sulla linea di quanto avvenuto in Russia dopo lo sbriciolamento dell’Urss, potrebbe impedire all’Europa un prevedibile processo di conformazione culturale a questo modello" (così N. Spuntoni, Il vicino di casa islamico: pungolo o spauracchio?, Opinione pubblica, 27.11.2015).

I sindaci francesi si rivoltano contro il divieto di esporre il presepe in municipio

di Ivan Francese

Tre primi cittadini del Front National rifiutano di rimuovere la Natività dai propri Comuni: “Non è censurando le nostre radici che si difende la laicità”.


Il fondamentalismo religioso e il terrorismo si combattono davvero censurando la propria identità e le proprie radici? Secondo una certa tradizione francese, apparentemente sì.
Nella Francia ancora scossa dagli attentati del 13 novembre scorso, fa discutere il gesto di tre sindaci del Front National, che si sono opposti al diktat dell’Associazione nazionale dei sindaci (l’equivalente della nostra Anci) che voleva imporre loro la rimozione del presepe da tutti i municipi del Paese.
I tre primi cittadini, che per amor di cronaca governano i Comuni di Cogolin, Fréjus e Luc-en-Provence, hanno preso carta e penna e scritto una lettera di protesta con cui annunciano le proprie dimissioni dall’associazione: “Protestiamo contro l’abbandono di tutte le nostre tradizioni e delle nostre radici culturali - scrivono gli amministratori locali - Non desideriamo più prendere parte a un’associazione che, con il pretesto di difendere la laicità, calpesta cultura e tradizioni del nostro Paese.”
Il divieto all’esposizione del Presepe nei municipi scaturisce dalla pubblicazione di un “vademecumsulla laicità” promosso dall’Associazione nazionale dei sindaci francesi, che spiega di rifarsi alla famosa legge del 1905 sulla separazione tra le confessioni religiose e lo Stato. “Non si tratta di un diktat, ma di un vademecum - spiega la vicepresidente dell’associazione, Anès Lebrun - La stessa giurisprudenza francese è contraddittoria in materia, divisa tra chi ritiene che il presepe rappresenti una manifestazione del culto e chi lo intende come fenomeno esclusivamente culturale.”
Il Front National però, che pure è famoso per la propria difesa della laicità repubblicana, rigetta queste tesi come pretestuose: “A quanto il divieto delle processioni votive? - domanda polemico il movimento di Marine Le Pen - I rappresentanti del Front National difendono con fermezza il principio di laicità, ma non ignorano la storia. È incontestabile che il Cristianesimo sia un’espressione della cultura francese”.

Fonte: Il Giornale, 26.11.2015. Lo stesso articolo è anche su Il Timone.

Dominica Prima Adventus

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Jucundare Filia Sion; ecce Dominus Veniet et stillabunt montes dulcedinem

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