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“Tunc Hilárium e prælio hæreticórum reverténtem, ut inquit sanctus Hierónymus, Galliárum ecclésia compléxa est: quem ad episcopátum secútus est Martínus, qui póstea Turonénsi præfuit ecclésiæ; tantúmque illo doctóre profécit, quantum ejus póstea sánctitas declarávit” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI HILARII, EPISCOPI PICTAVIENSIS, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS

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Secondo Gregorio di Tours, nel XIX anno di regno di Costanzo II (o Costanzo il giovane), figlio di Costantino I, allorché morì l’eremita Antonio (sant’Antonio abate) all’età di 105 anni, il vescovo sant’Ilario di Poitiers, fu inviato in esilio su istigazione degli eretici (ariani). Durante il suo esilio, compose opere sulla fede cattolica, le quali, inviate all’imperatore Costanzo, fecero sì che egli permettesse che, quattro anni dopo, fosse liberato e tornasse nella sua patria. Dopo un’intesa opera di apostolato in Gallia, nel IV anno di regno di Valetiniano e Valente, presso Poitiers, il santo vescovo, pieno di santità, di fede e di ogni virtù, migrò verso il cielo, dopo aver compiuto numerosi miracoli ed anche alcune resurrezioni di morti (Cfr. Albert J. HerbertRaised from the dead-true stories of 400 resurrection miracles, trad. it. di Camilla Giacomini (a cura di), I morti resuscitati. Storie vere di 400 miracoli di resurrezione, Tavagnacco 1998, p. 45): «Nono decimo Constantii junioris anno, Antonius monachus transit, centesimo quinto aetatis suae anno. Beatissimus Hilarius Pictaviensis episcopus, suasu haereticorum exsilio deputatur: ibique libros pro fide catholica scribens, Constantio misit, qui quarto exsilii anno eum absolvi jubens, ad propria redire permisit. ... Quarto Valentiniani et Valentis anno, sanctus Hilarius apud Pictavos, pienus sanctitate et fide, multis undique virtutibus editis, migravit ad caelos. Nam et ipse legitur mortuos suscitasse» (San Gregorio di ToursHistoria Francorum, lib. I, capp. XXXV-XXXVI, in PL 71, col. 179C-180A).
Sant’Ilario di Poitiers morì il 13 gennaio 367, come attesta il martirologio geronimiano. Ma questo annuncia, in più, al 1° novembre la dedicazione a Poitiers della basilica sorta sulla sua tomba ed il martirologio di san Pietro riproduce questa menzione. Essa non sarebbe, senza dubbio, sufficiente ad attirare la celebrazione di sant’Ilario in questo giorno se, una volta di più, l’omonimia non vi avesse giocato. In effetti, si onora a Viterbo, il 3 novembre, i martiri Valentino ed Ilario, di cui i corpi riposavano presso l’abbazia di Farfa dal IX al XV sec. I loro nomi sono iscritti negli Auctaria di Usuardo e si trova parimenti la loro festa presso l’abbazia di Saint-Bertin nel Nord della Francia, nel XII sec. Ma è del vescovo di Poitiers che si tratta in questo caso.
Sempre secondo san Gregorio di Tours, la festa di sant’Ilario era già celebrata il 13 gennaio nella sede episcopale di Lemonum (l’attuale Poitiers) fin dalla fine del V sec., vale a dire sotto il governo di san Perpetuo. Si ritrova la menzione al nostro Santo, al 3 novembre, nei manoscritti fiorentini del martirologio di Usuardo del XV sec. e, al 1° novembre, nel collettario di san Anastasio così come nel messale di Città di Castello, conservato presso l’Archivio Lateranense. Questo annuncia alle calende di novembre: Omnium Sanctorum et Caesarii et Hilarii. Nella colletta e nella secreta di sant’Ilario esso evoca la sua depositio (E. De AzevedoVetus Missale romanum monasticum lateranense (Archivio lateranense Cod. 65), Romae 1752, pp. 285-287) (così ricorda Pierre JounelLe Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 303).
Il nostro Santo fu festeggiato dal XIII sec. a Roma. Ma fu molti secoli più tardi che, sotto il beato Pio IX, la festa fu inserita nel calendario romano. Lo stesso pontefice lo dichiarò dottore della Chiesa nel 1851.
Tuttavia, essendo il 13 gennaio giorno dell’Ottava dell’Epifania, l’ufficio di sant’Ilario fu rinviato all’indomani.
Roma cristiana ha dedicata a Sant’Ilario una parrocchia, nel quartiere di a Casal del Marmo, nel novembre 1977, ponendola in un ex garage ristrutturato a partire dal 1992.
La messa è tratta dal Comune dei Dottori ed è sovrapponibile, in gran parte, a quella della festa di sant’Ambrogio il 7 dicembre. Vi si trova solo qualche piccola variante.
Particolarmente attuale è il libello del nostro Santo contro l’imperatore Costanzo, il quale cercava di comprarsi il consenso dei vescovi fedeli al Credo niceno ora minacciandoli ora lusingandoli con promesse di onori, ricchezze e privilegi, purché approvassero la condanna di Atanasio sancita dal conciliabolo milanese del 355. Ilario lamenta che si tratta di una teomachia e cristomachia, una vera persecuzione più insidiosa, giacché questi privilegi sono il prezzo offerto a chi è fedele alla fede nicena in cambio della sostanziale adesione all’eresia ariana. Si tratta di un modo per distruggere la fede, insomma.
Scrive il Santo dottore: «… noi combattiamo contro un persecutore ingannevole, un nemico che lusinga, Costanzo l’anticristo: egli non percuote il dorso [col flagello, ndr.], ma accarezza il ventre, non ci confisca i beni per la vita, ma ci arricchisce per la morte, non ci sospinge col carcere verso la vera libertà ma ci riempie di incarichi nella sua reggia per la servitù, non spossa i nostri fianchi ma si impadronisce del cuore, non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro, non minaccia di bruciare pubblicamente, ma accende la geenna privatamente. Non combatte per non essere vinto ma lusinga per dominare, confessa il Cristo per rinnegarlo, favorisce l’unità per impedire la pace, reprime le eresie per sopprimere i cristiani, carica di onori i sacerdoti perché non ci siano più vescovi, costruisce le chiese per distruggere la fede. Ti porta in giro a parole, con la bocca, ma fa di tutto perché non si creda che tu [o Cristo, ndr.] sei Dio, come il Padre. … Grido a te, Costanzo, ciò che avrei detto a Nerone e ciò che Decio o Massimiano avrebbero udito da me: tu combatti contro Dio, infierisci contro la Chiesa, perseguiti i santi, hai in odio i predicatori di Cristo, sopprimi la religione, tiranno non già delle cose degli uomini ma di Dio. Ecco, secondo me, ciò che ti associa e ti accomuna a quelli. Ecco invece ora ciò che ti è proprio: menti quando dici di essere cristiano, tu che sei il nuovo nemico di Cristo; …» (Liber contra Constantium, 5 e 7, ora in Ilario di PoitiersContro l’imperatore Costanzo, trad., introduzione e note a cura di Luigi Longobardo, ed. Città Nuova, Roma, 1997, pp. 48-49, 50).
Il Cesare di turno, anche oggi, torna a sollecitare i vescovi fedeli alle sane dottrina e morale ricoprendoli di privilegi o rassicurazioni circa esenzioni da tributi, ecc., in cambio del loro placet sui suoi provvedimenti (vedi l’annosa questione delle c.d. unioni civili, che recentemente, contrariamente a quanto avvenuto anni prima, hanno, invece, riscosso il benestare del Segretario della CEI ed anche del card. Bassetti - v. quiquiquiquiqui -, trovando il plauso del mondo). Quanto hanno da imparare, pure oggi, quei pastori dal Santo vescovo Ilario, il quale preferì l’esilio in Frigia e la deposizione dalla sua sede episcopale piuttosto che accettare compromessi inquinanti la fede nicena! E quanto mancano oggi vescovi coraggiosi e fedeli come Ilario in grado di difendere, senza compromesso alcuno, la sana morale cattolica.



Franz Anton Koch, S. Ilario, 1742, Altare di S. Giovanni, parrocchiale di S. Michele, Mondsee

Bottega toscana, S. Ilario, XVI-XVII sec., museo diocesano, Firenze

Anonimo lombardo-piemontese, S. Ilario, XVII-XVIII sec., museo diocesano, Novara


Busto-reliquiario di S. Ilario, Église Saint-Hilaire, Givet


Reliquiario di S. Ilario, Cripta, Église Saint-Hilaire le Grand, Poitiers

L’Inghilterra non è più cristiana, quindi va decristianizzata

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Avevamo già segnalato come l’Inghilterra non potesse più definirsi cristiana e come si stesse realizzando un'islamizzazione a tappe forzate (v. qui). Ora anche pubblicamente ciò è ammesso. Traendone le debite conseguenze. Drammatiche. Eppure c'è la profezia di S. Edoardo il Confessore. Il fenomeno dissolutorio è evidente pure in Germania, come ricorda Giulio Meotti in un suo articolo del novembre scorso su Il Foglio (Dio è morto in Germania); in Olanda, in cui si è deciso di far fuori le feste cristiane dalle scuole per fare spazio a quelle islamiche (v. Il Foglio, 11.1.2016). Ed in Spagna, dove in luogo della sfilata dei tre re magi a Valencia son sfilate tre megere (v. qui). Non parliamo per pudore della Francia. L'Italia segue queste "nazioni civili" da vicino.
L’Europa ha dimenticato ormai le sue radici cristiane e si avvia allegramente al suo dissolvimento.

“L’Inghilterra non è più cristiana, quindi va decristianizzata”

Una Commissione suggerisce che le istituzioni devono riflettere il fatto che la religione cristiana è in declino

di Cristina Marconi 


Londra. L’incoronazione del monarca britannico, per dire, dovrebbe essere un po’ più “pluralista”. E pazienza che la regina, così come chi le succederà, è anche il capo della Chiesa anglicana. Qui è il paese tutto a non essere più anglicano, né tantomeno cristiano, avendo conosciuto un “generale declino” della sua affiliazione religiosa tradizionale negli ultimi 15 anni e un aumento della presenza di musulmani, hindu e sikh, diventati ben più numerosi degli ebrei, un tempo secondo gruppo religioso del paese. Ma ad essersi moltiplicati sono soprattutto gli atei e gli umanisti e questo, come tutto il resto, andrebbe tenuto presente nel ridisegnare il volto delle istituzioni del Regno Unito in modo da riflettere la nuova identità. Lo suggerisce la Corab, Commissione per la Religione e il Credo nella vita pubblica britannica, in un ponderoso rapporto pubblicato lunedì e intitolato ‘Vivere con la differenza. Comunità, diversità e bene comune’. Frutto di 2 anni di incontri, interviste, ricerche, il documento dell’istituzione pluralista per eccellenza – nel suo board sono rappresentate tutte le religioni e tra i patrons c’è anche l’ex arcivescovo di Canterbury Rowan Williams – giunge a conclusioni farraginose e confuse su tutto tranne su un punto: il paese non è più cristiano e quindi le sue istituzioni vanno decristianizzate di conseguenza.
Per il resto è tutto un sostituire le preghiere a scuola con momenti di riflessione collettivi, creare comitati di scambio e di dialogo per aggiustare le istituzioni del paese alla nuova realtà in barba al passato e, ancora una volta, riflessioni collettive, l’annacquamento di tutto ciò che reca tracce della religione anglicana a favore non tanto della laicité quanto delle altre religioni. Prendiamo la Camera dei Lords, dove siedono 26 ‘Lords Spirituals’, ossia vescovi. Secondo la Corab dovrebbero fare spazio ad esponenti di altre confessioni e lo stesso dovrebbe avvenire in altri organismi pubblici come, ad esempio, la commissione che vigila sulla stampa, con tanto di premio annuale per i media che raccontano meglio le realtà religiose in modo da incoraggiare il pluralismo confessionale dei mezzi d’informazione. “Il rapporto è dominato dalla visione superata che la religione tradizionale sta perdendo importanza e che la non adesione ad una religione è la stessa cosa dell’umanesimo o del secolarismo”, ha commentato la Chiesa anglicana in una nota, sottolineando come “sia importante ricordare che la maggior parte della pubblica opinione è contraria alla marginalizzazione del Cristianesimo”. Particolarmente polemica, anche da parte del governo di David Cameron, la reazione ad una delle proposte della Commissione, ossia di avviarsi verso il superamento delle scuole religiose aprendole le selezioni a criteri diversi da quelli confessionali in base ai quali sono state create. Le ‘faith schools’ sono finanziate dallo stato e quelle cristiane, nel Regno Unito, spesso offrono un livello di istruzione paragonabile a quello delle scuole private. Le scuole musulmane, in molti casi e soprattutto di recente, sono finite nel mirino di Ofsted, l’autorità che vigila sul sistema educativo del paese, per il tipo di insegnamento impartito, in contrasto anche con la più lasca delle definizioni di “valori britannici” (a Birmingham gli ispettori ne hanno trovata una in cui i membri donne del consiglio educativo partecipavano alle riunioni d’istituto rimanendo in corridoio per non essere viste), ma a farne le spese, secondo il rapporto, devono essere tutti gli istituti. La religione, tuttavia, non deve sparire dalle aule, tutt’altro: l’alfabetizzazione religiosa deve essere estesa in modo, ad esempio, da non discriminare chi non appartiene ad una religione abramitica e chi, come ad esempio i sikh, ha un credo la cui struttura è dissimile da quelle più note nel paese.

“Riflessioni” al posto delle preghiere

Il Corab raccomanda che “tutti gli studenti delle scuole statali abbiano diritto ad un programma sulla religione, la filosofia e l’etica che sia rilevante per la società di oggi, e il quadro generico di questo programma deve essere concordato a livello nazionale” e il fondamento legale che permette alle scuole di svolgere atti di preghiera collettiva deve essere revocato e sostituito dalla possibilità di avere “tempi inclusivi per la riflessione”. Il fatto che, come sottolineato da un dirigente della Bbc intervenuto nella ricerca, oggi la maggioranza dei cittadini britannici non abbia gli strumenti neppure per capire l’ironia dissacrante di un film come ‘Brian di Nazareth’ dei Monty Python perché non conoscono la Bibbia va messo sullo stesso piano del fatto che il dio sikh Waheguru sia spesso indicato come maschio, mentre non ha genere. Nella lotta al radicalismo, tema trattato in maniera decisamente corriva, la soluzione migliore è quella di permettere a tutti di esprimere apertamente le proprie opinioni, anche quelle considerate inaccettabili, senza porre gli studenti davanti al rischio di essere denunciati alla polizia, in modo da rendere tutto oggetto di dibattito e dialogo. Sulla questione della giustizia, nel rapporto, subentra finalmente un po’ di pragmatismo. Occorre, secondo la commissione guidata dall’ex giudice baronessa Butler-Sloss, valutare se “i matrimoni tra membri dei gruppi religiosi di minoranza devono essere registrati prima o contemporaneamente in base alla legge britannica”, visto che il numero di unioni musulmane non registrate è altissimo, con gravi conseguenze per le donne in caso di divorzio. Il ministero della Giustizia dovrebbe poi emettere delle linee guida sul rispetto degli standard britannici in termini di pari opportunità e indipendenza giudiziaria da parte dei tribunali religiosi e culturali come le corti ecclesiastiche, i Beit Din e i consigli della Shari’a. L’idea di società che c’è dietro il testo, spiega la commissione, è quella in cui “ciascuno è consapevole che la sua cultura, religione e credo è rispettata e apprezzata in quanto parte di un processo continuo di arricchimento reciproco e che il suo contributo alla trama della vita nazionale è valutato positivamente”. Senza filtro critico, e con un unico caveat: il paese non è più cristiano.


“Post corvi discéssum, Eja, inquit Paulus, Dóminus nobis prándium misit, vere pius, vere miséricors. Sexagínta jam anni sunt, cum accípio quotídie dimédii panis fragméntum, nunc ad advéntum tuum milítibus suis Christus duplicávit annónam. Quare cum gratiárum actióne ad fontem capiéntes cibum, ubi tantísper recreáti sunt, íterum grátiis de more Deo actis, noctem in divínis láudibus consumpsérunt” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI PAULI, PRIMI EREMITÆ, CONFESSORIS

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La festa di questo patriarca dell’ascesi monastica orientale è entrata molto tardi nel calendario romano, giacché fu soltanto sotto l’influenza di una Congregazione religiosa che portava il suo nome. In effetti, fu inserita nell’Ordo del Laterano, ed apparve a Roma nell’XI sec., con il calendario dell’Aventino, il lezionario di San Gregorio, il passionario dei Santi Giovanni e Paolo, i martirologi di San Pietro e di San Ciriaco. Si trova il nome del santo nella litania pasquale (del sabato santo) dell’Epistolario di San Saba (L’Epistolario di san Saba è un lezionario dell’XI sec. su pergamena, che nel XVII sec. è stato rivestito di cuoio e denominato Lectionnarius vetus: cfr. Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 33).
I Copti festeggiano san Paolo di Tebe il 27 gennaio ed i Bizantini il 15 dello stesso mese, mentre il calendario di Napoli l’iscrive al 19. Beda introdusse la sua menzione al 10 gennaio nel suo martirologio. La festa era celebrata a San Gallo dalla metà del IX sec., ma nel XII, essa era ancora poco diffusa in Francia ed in Italia (così ricorda G. de ValousLe Monachisme clunisien des origines au XVe siècle, Coll. Archives de la France monastique, tomo 39, Paris 1935, p. 399) (cfr. sul punto P. Jounel, op. cit., p. 212).
Dopo il XIV sec., la festa aveva preso in Occidente uno sviluppo considerevole, tanto che Innocenzo XIII elevò la festa di san Paolo eremita al rito doppio per la Chiesa universale. Roma stessa, nel XVI sec., sul colle Viminale, nel rione Monti, aveva un tempio in onore di questo ammirevole figlio del deserto. Oggi quest’edificio è confiscato e profanato dallo Stato italiano (Cfr. Mariano ArmelliniLe chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 190).
L’insegna degli eremiti di San Paolo era la palma. Da lì vengono, nella messa, le graziose e frequenti allusioni a quest’albero provvidenziale che fornì al nostro santo cibo e vestiti (i suoi abiti erano, infatti, intrecciati con le foglie di palma) e che, per l’estensione dei suoi rami, simbolizza molto bene nelle Scritture l’attività soprannaturale dei giusti.
La storia di san Paolo, primo eremita, fu scritta verso il 376 da san Girolamo. La sua identità con il monaco Paolo, che due preti luciferiani (i luciferiani erano un gruppo di seguaci di san Lucifero di Cagliari, i quali erano noti per il loro rigorismo ed intransigentismo, tanto da far dubitare molti – anche nell’antichità – della santità dello stesso san Lucifero), Marcellino e Faustino, i quali, essendo stati espulsi da Roma da papa Damaso, presentarono una petizione, una lettera (Libellus Precum Adversus Damasum) agli imperatori Valentiniano, Teodosio ed Arcadio (tra il 383 ed il 384), nella quale, tra l’altro, ci descrivono come un invincibile campione dell’ortodossia di Nicea ad Ossirinco (Faustinus et Marcellinus presbyterorum partis Ursini, Adversus Damasum, Libellus Precum Ad Imperatores Valentinianum, Theodosium et Arcadim, § 26, in PL 13, col. 101), non è interamente dimostrata. Nel documento, che fa parte della Collectio Avellana, racconta quello che vi è era capitato poco prima ad Ossirinco. Il vescovo di questa città, certo Teodoro, aveva, per la sua indegna condotta, provocato uno scisma nella sua chiesa. Una parte del clero e dei fedeli si erano separati da lui e restavano legati strettamente all’ortodossia exemplo et monitu beatissimi Pauli qui iisdem fuit temporibus quibus et famosissimus ille Antonius, non minori vita neque studio, neque divina gratia, quam fuit sanctus Antonius. Novit et hoc ipsa civitas Oxyrinchus, quæ hodieque sanctam Pauli memoriam devotissime célébrâtQuesto beato Paolo, che viveva nella Tebaide, che fu contemporaneo ed emulo del grande sant’Antonio e di cui la memoria era celebrata dagli abitanti di Ossirinco come quella di un santo, non sarebbe altro, evidentemente, che Paolo di Tebe. A differenza della Vita Pauli di Girolamo, da cui emerge la figura di un anacoreta, che viveva nascosto nel deserto e sconosciuto a tutti, tanto che solo una rivelazione lo fa conoscere ad Antonio, questo testo, al contrario, ci informa della sua grande notorietà e che è coinvolto attivamente negli affari interni della chiesa di Ossirinco.
Se il Paolo di questo secondo documento (cioè oltre la fonte girolamina) sarebbe lo stesso di quello di cui san Girolamo tesse l’elogio, il primo eremita ci sarebbe mostrato in un aspetto completamente nuovo. I bisogni della fede l’avrebbero temporaneamente trasformato in un coraggioso apostolo. Il documento in questione aggiunge che la festa di san Paolo era da allora celebrata ogni anno dal popolo di Ossirinco (Cfr. H. DelehayeLa personnalité historique de saint Paul de Thèbes, in Analect. Bolland., t. XLIV, 1926, pp. 64-69. Contra F. CavalleraPaul de Thebes et Paul de Oxyrhynque, in Revue d’ascétique et de mystique, t. VII, 1926, p. 302-305, per il quale il Paolo menzionato nel Libellus Precum sarebbe un omonimo del santo eremita, da non confondere con quest’ultimo. Infatti, si argomenta che il Paolo di Ossirinco sarebbe stato attivo all’epoca di Giorgio, vescovo di Alessandria, vale a dire tra il 357 ed il 361 e doveva essere noto quanto Antonio e non inferiore a lui per santità di vita, zelo e grazia divina).
La messa, tranne un verso d'Osea, non ha alcun elemento proprio, ma desume le sue parti da altre messe del comune dei semplici confessori. Un autore sacro riferisce una bella definizione di un santo. Un santo, egli dice, è un cristiano che prende sul serio gli obblighi del suo battesimo, e la natura delle relazioni che corrono fra il Creatore e la creatura. Così si spiega come san Paolo eremita, per esempio abbia potuto sostenere quasi un secolo di vita, a solitaria e penitente, credendo ancora di dare troppo poco per conquistare il paradiso e Dio.





Daniel de Vos, S. Paolo eremita, XVII sec., collezione privata

Diego Rodriguez de Silva y Velázquez, SS. Antonio abate e Paolo eremita, 1634 circa, Museo del Prado, Madrid

Jusepe de Ribera, S. Paolo eremita, 1635-40, museo del Prado, Madrid

Jusepe de Ribera, S. Paolo eremita, 1640 circa, museo del Prado, Madrid

Carlo Dolci, S. Paolo eremita riceve il pane dal corvo, prima del 1648, Muzeum Narodowe w Warszawie, Varsavia

Carlo Dolci, S. Paolo eremita riceve il pane dal corvo, 1648

Francisco Camilo, Morte di S. Paolo eremita, 1649 circa, museo del Prado, Madrid

Mattia Preti, S. Paolo eremita, 1656-60, Art Gallery of Ontario, Toronto

Luca Giordano, S. Paolo eremita, 1685-90, collezione privata

Alexandre Cabanel, S. Paolo eremita, 1841-45, Musée Fabre, Montpellier

Coppia omosessuale, coppia eterosessuale, figli, oscuramento della ragione in un aforisma del Card. Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna

Messa, sacerdoti e selfie in un aforisma del card. Sarah

Raymond Leo card. Burke: “Al Sinodo era come se Giovanni Paolo II non fosse mai esistito” et alia

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Qualche giorno fa pubblicavamo una sintesi dal network LifeSiteNews di un’intervista rilasciata dal card. Burke a The Wanderer (v. qui). In quella circostanza, il cardinale ricordava come la relazione finale del Sinodo – di cui è disponibile, da circa un mese, la traduzione inglese – fosse seriamente ingannevole.
Ora di quella stessa intervista è possibile avere tra traduzione italiana. Nella festa di S. Antonio abate rilancio questo contributo tratto dall’immancabile Chiesa e postconcilio.

Icona di S. Antonio abate con scene della sua vita

Icona di S. Antonio abate

Mosaico di S. Antonio abate, Monastero Pammakaristos (Fethiye camii), Costantinopoli

Anonimo maestro del 1416, SS. Antonio abate e Francesco d'Assisi, 1416, collezione privata

Annibale Carracci, Tentazioni di S. Antonio abate, 1598 circa, National Gallery, Londra

Andrea Sacchi, SS. Antonio abate e Francesco d'Assisi, 1627 circa, National Gallery, Londra

Francesco Guarino, S. Antonio abate ed il centauro, 1642, collezione privata

Giovanni Battista Tiepolo, Tentazioni di S. Antonio abate, 1725

Henri Pierre Picou, La Tentazione di S. Antonio abate, 1892

Raymond Leo card. Burke: “Al Sinodo era come se Giovanni Paolo II non fosse mai esistito” et alia


Attraverso una lunga intervista a The Wanderer Sua Eminenza Raymond Leo Burke, Cardinale Patronus del Sovrano Militare Ordine di Malta, ha approfondito vari argomenti sulla situazione della Chiesa.
Sul rapporto finale del recente Sinodo sulla famiglia Burke dice che 
«è un documento complesso ed è scritto in un modo in cui non è sempre facile comprendere il contenuto esatto di ciò che viene affermato. Ad esempio, tre paragrafi (nn. 84-86) sono poco chiari […] per questo ho scritto un breve commento su quei paragrafi per chiarire ciò che la Chiesa insegna realmente».
«Siamo consapevoli che i tempi cambiano, e ci troviamo di fronte nuovi sviluppi, ma ci rendiamo anche conto che la sostanza delle cose rimane la stessa. C’è una verità contro cui dobbiamo misurare i cambiamenti che incontriamo nel tempo. Questo non è chiaro nel documento finale del Sinodo», dice il Card. Burke che ammette che ci sono buoni frutti del Sinodo, «come la sua enfasi sulla preparazione al matrimonio». Documenti come Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II e Humanae vitae di di Paolo VI «devono essere accuratamente studiati nelle parrocchie». La cultura, dice Burke, «è completamente opposta all’insegnamento contenuto in questi due documenti» e «molti fedeli non sono ben catechizzati». La casa, dice il cardinale, è «il luogo primario dell’evangelizzazione sul matrimonio e la famiglia. Dobbiamo aiutare coloro che si sforzano di vivere la verità del loro impegno matrimonio, per perseverare e diventare più forti». I Padri sinodali, nel citare parte del punto 84 dellaFamiliaris Consortio, non hanno incluso una frase importante: “La Chiesa ribadisce la sua pratica, che si basa su Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati”. Burke sottolinea che questo «paragrafo della relazione finale su questo argomento è ingannevole in modo molto serio. Dà la falsa impressione di presentare l’insegnamento di Familiaris consortio ma non lo fa in pieno» e questa citazione incompleta è stata «utilizzata da individui come padre Spadaro e gli altri per dire che la Chiesa ha cambiato il suo insegnamento a questo proposito, ma, di fatto, non è vero». «Io credo – continua Burke – che tutto l’insegnamento di Familiaris consortio avrebbe dovuto essere inserito nel documento finale del Sinodo ma ho notato che durante la mia esperienza del 2014 al Sinodo era come se il Papa Giovanni Paolo II non fosse mai esistito».

A proposito dell’“inviolabilità della coscienza” che a sproposito viene richiamata riguardo a tematiche sensibili eticamente, Burke spiega che la coscienza è, 
«la voce di Dio che parla al nostro cuore fin dal primo momento della creazione su ciò che è giusto e sbagliato, ciò che è bene e il male, ciò che è in accordo con il suo piano per il mondo e ciò che non lo è». Ma «deve essere formata secondo la verità. La coscienza non è una sorta di facoltà soggettiva dove la vostra coscienza vi dice una cosa e la mia coscienza mi dice il contrario. È qualcosa che ci unisce perché le nostre coscienze, se sono conformi alla verità, stanno andando a dirci la stessa cosa». Citando il Beato John Henry Newman il card. Burke ricorda che «il Signore istruisce la nostra coscienza attraverso la fede e la ragione e attraverso i Suoi rappresentanti visibili sulla terra (i papi e i vescovi in comunione con lui, cioè, il Magistero). Quindi non è una cosa personale affatto. Dobbiamo agire secondo la nostra coscienza, ma può essere una guida infallibile per noi solo se è costituita sia dalla ragione stessa che dalle verità della nostra fede, che sono sempre in accordo tra loro».

Circa il contesto in cui viviamo la verità, spiega il card. Burke che 
«dobbiamo seguire Cristo per fare la volontà del Padre in ogni ambito della vita. Non si può giudicare verità morali sulla base del contesto – questo è quello che viene definito classicamente come proporzionalismo o consequenzialismo. Questo modo di pensare, dice, per esempio che, anche se è sempre sbagliato abortire, se si è in una situazione in cui si è sotto una grande pressione, potrebbe essere ammissibile in quella particolare circostanza. Questo è semplicemente falso. Siamo chiamati a vivere la nostra fede cattolica eroicamente. Anche la persona più debole riceve la grazia di Cristo, per vivere la verità nella carità […] la moralità obiettivo dell’azione non è in alcun modo modificata dal contesto vissuto. È la verità oggettiva che chiama il “contesto vissuto” ad una trasformazione radicale».

Il decentramento di governo della Chiesa viene giudicato dal cardinale come «un pericolo reale». Decentralizzazione è un termine 
«non appropriato per conversazioni sulla Chiesa. Ciò che è necessario è quello di tornare al Vangelo e alla Chiesa come Cristo l’ha costituita. Fin dall’inizio del suo ministero pubblico, chiamò i Dodici, Egli li preparò ad esercitare il suo governo pastorale della Chiesa in ogni tempo e in ogni luogo. Per adempiere a questa responsabilità, Cristo ha costituito Pietro come capo del collegio apostolico, come il principio di unità fra tutti i vescovi e tra tutti i fedeli. […] Questo è il dono divino concesso; questo è ciò che è Legge Divina nella Chiesa: è il ministero apostolico del Romano Pontefice e dei Vescovi in comunione con lui. Essi hanno la responsabilità di governo. La Conferenza dei Vescovi è un costrutto artificiale per aiutare a coordinare l’attività pastorale e per promuovere la comunione tra i vescovi. Nostro Signore non ha mai insegnato nulla al riguardo, né vi è nulla nella tradizione della Chiesa che darebbe alle Conferenze Episcopali l’autorità di prendere decisioni circa le pratiche pastorali che comporterebbero un cambiamento nell’insegnamento della Chiesa. Ricordiamo che ogni pratica pastorale è legato ad una verità dottrinale. Padre Antonio Spadaro dice in un suo articolo che una pratica pastorale in Germania potrebbe essere radicalmente diverso da una pratica pastorale in Guinea. Come può essere, se ci si riferisce alla stessa dottrina e la stessa verità di Cristo? Trovo tutta questa nozione molto preoccupante. I vescovi diocesani sono gli insegnanti della fede nelle loro diocesi. Tuttavia, i vescovi – e ancora di più il Romano Pontefice – sono tenuti al più alto livello di obbedienza a Cristo e alla tradizione vivente con la quale Cristo viene a noi nella Sua Chiesa. Non possiamo fare la Chiesa in ogni epoca e secondo le idee locali. Dalla mia esperienza per quanto riguarda le Conferenze Episcopali, posso dire che esse possono essere molto utili, ma possono anche avere un effetto molto dannoso, nel senso che il singolo vescovo non prende più sul serio, come dovrebbe, la propria responsabilità di insegnare la Fede e di governare in conformità a tale insegnamento».

Per esempio, 
«la pratica pastorale per coloro che vivono in unioni matrimoniali irregolari non può essere a discrezione della Conferenza episcopale o del singolo vescovo diocesano, altrimenti we would end up with another Protestant denomination (noi dovremmo cercare un altro nome protestante per la Chiesa). Siamo una Chiesa in tutto il mondo: una, santa, cattolica e apostolica. Questi quattro segni devono essere fortemente sottolineati nei tempi in cui viviamo».

Circa i recenti motu proprio sulla dichiarazione di nullità del processo matrimoniale, il cardinale ricorda che 
«la maggior parte delle richieste di nullità matrimoniale sono molto complesse […] Un certo numero di vescovi, molto onestamente e non per colpa loro, mi hanno detto: “Io non sono pronto a giudicare i casi di nullità del matrimonio”. […] Penso che tutta questa questione della riforma del processo di nullità matrimoniale ha bisogno di una gravissima revisione, soprattutto per quanto riguarda alcune delle questioni più critiche […] abbiamo una situazione in cui una richiesta di nullità del matrimonio può essere giudicata affermativamente da un uomo solo, senza alcun controllo obbligatorio sul suo giudizio. Non è giusto; non è un processo serio per giudicare una toccante questione a fondamento della vita, della società e della Chiesa!».

Infine, il cardinal Burke riflette su misericordia e falsa compassione. 
«La misericordia di Dio è una risposta al pentimento e un fermo proposito di correzione. Il figliol prodigo è tornato a suo padre dopo essersi pentito per quello che aveva fatto. Ha detto a suo padre che non era più degno di essere suo figlio e ha chiesto di essere accettato indietro come uno schiavo. Capiva ciò che aveva fatto ed era pentito. La misericordia del padre era una risposta a questo. Vide che suo figlio aveva avuto una conversione del cuore.
Così, anche se le persone vivono in situazioni gravemente peccaminose e vengono alla Chiesa, li abbracciamo con amore. Abbiamo sempre amore per il peccatore, ma dobbiamo vedere che la persona riconosca il peccato e sta cercando di superarlo, che si è pentito e vuole riparare al danno che il peccato ha causato. In caso contrario, la misericordia viene sminuita ed è senza senso. Ho paura che la gente dica “misericordia, pietà, misericordia” senza capirlo. Sì, Dio è il Dio della misericordia. Ma la misericordia è un concetto molto importante, ha a che fare con il nostro rapporto con Dio e il nostro riconoscimento della infinita bontà di Dio, del nostro peccato, e del nostro bisogno di confessione e il pentimento. [Gesù…] è molto compassionevole, ma lui è sempre molto chiaro con i peccatori. Ha detto […] di non peccare più».


Sant’Antonio Abate. Meditiamo dai suoi scritti

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Rilancio volentieri questo contributo di Chiesa e postconcilio.

Luca Della Robbia (attrib.), S. Antonio abate, XV sec., Pieve, Fabbrica



Nanni Di Bartolo, S. Antonio abate, 1450 circa, Oratorio del Crocifisso, Borgo a Mozzano, Lucca

Sant’Antonio Abate. 
Meditiamo dai suoi scritti

Oggi è Sant’Antonio Abate. Attingiamo con gratitudine da uno dei tesori della Chiesa e meditiamo.

Dagli scritti

… L’anima in possesso della sapienza pura e della vita autentica si manifesta nel modo di guardare, di comportarsi, di parlare, di sorridere, di conversare e di agire della parte fisica. Tutto in lei è trasformato e positivamente buono. La sua parte mentale, fertile per l’amore divino, è simile ad un vigilante guardiano che non permette l’ingresso a pensieri di male e di passionalità.

… La mente che attraverso l’amore diviene una sola realtà con Dio, è una benedizione invisibile per tutti gli esseri, offerta da Dio stesso per condurre alla vita pura chi ne è degno.

… Sappi che il male fisico è inevitabile al corpo, essendo materiale e corruttibile. In casi di malattia, l’anima che ha raggiunto la conoscenza, invece di lamentarsi con Dio perché ha siffattamente costruito il corpo, mostra graziosamente coraggio e pazienza. Chiunque desidera raggiungere la pienezza della perfezione in Dio, insegni la purità alla sua anima, non soltanto in relazione alle passionalità carnali, ma tenendosi lontano dall’avidità di guadagni, dalle brame di possedere ciò che non gli appartiene, dal l’invidia, dall’amore dei piaceri, dalla vana gloria; sappia rimanere distaccato davanti alle dicerie sul suo conto e imperturbabile nei rischi mortali.

… La mente non è l’anima, ma un dono di Dio che conduce l’anima alla liberazione. Quando la mente è in una comunione di vita con Dio trascina volando l’anima, e le consegna quelle parole che la mantengono intatta da ciò che è corruttibile e pesante nel tempo; facendo fluire in lei l’amore per le realtà non legate all’esistenza, al disfacimento ed alla gravezza della materia, l’introduce nella sfera della santità, dove l’uomo diviene creatura di benedizione. L’anima continuando a vivere nella carne, entra in un rapporto di conoscenza contemplante con le realtà dell’Alto e divine; per questo la mente trasfigurata dall’amore di Dio è un dono di pace e di salvezza alla coscienza umana.

… Dio è la pienezza del bene, immune da passione e da mutamento. Se accettiamo come verità giusta l’immutabilità divina, rimaniamo perplessi di fronte alle raffigurazioni umane di Dio che Lo presentano gioioso del bene compiuto dall’uomo, sdegnoso col malvagio, irritato con i peccatori e misericordioso con chi si pente. La risposta a tali perplessità la troviamo nel pensiero che Dio non gioisce e non si irrita; gioia e ira sono passioni e quindi mutamenti.

... Dio è la pienezza del bene, e le sue opere non sono che bene, non reca male a nessuno ed è sempre se stesso. Quando noi riusciamo ad esser buoni entriamo in comunione con Lui attraverso la somiglianza nel bene; ‘quando siamo malvagi, ci separiamo da Lui, perdendo la somiglianza nel bene. Vivendo con purità di vita siamo uniti a Lui, vivendo malvagiamente ci stacchiamo da Lui. Non possiamo dire, in quest’ultimo caso, propriamente che Dio è irritato con noi, ma piuttosto che i nostri peccati non lasciano passare in noi la chiarità luminosa di Dio. Sono i peccati che ci sottomettono alle fustigazioni dei demoni. Quando mediante la preghiera e le azioni pure, otteniamo il perdono, non è Dio che cambia, ma noi. Col pentimento e la purificazione curiamo il male nel nostro essere, e ritroviamo la partecipazione alla bontà perfetta di Dio.

Sul giusto modo di vivere di un cristiano in un aforisma di S. Antonio abate


La musica sacra cattolica: alzare il tono

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L’articolo che segue è un po’ datato – risale infatti all’agosto 2014 – ma conserva tutt’oggi la sua attualità nella descrizione dell’odierna situazione della musica sacra.
Nella memoria dei Santi Mario, Marta, Audiface e Abaco – famiglia persiana vissuta nel III sec. e che subì il martirio a Roma, modello delle famiglie cristiane martirizzate anche ai nostri giorni in terra di Persia – e Canuto IV, re di Danimarca e martire, rilancio questo contributo.

Bartolomeo Colombo, Decapitazione di San Mario, Marta, Audiface e Abaco, XVII sec., Cappella dei Martiri Persiani, Duomo, Tivoli


Corrado Giaquinto, Martirio dei SS. Mario, Marta e dei loro figli, 1750 circa, Musée Fesch, Ajaccio




La musica sacra cattolica: alzare il tono

Il noto compositore James MacMillan, cattolico scozzese, guida un movimento per ridare bellezza alla musica liturgica

James MacMillan, CBE è uno dei compositori di maggior successo e direttore d’orchestra di fama mondiale. Il suo primo riconoscimento internazionale risale al 1990, e da allora si è esibito o le sue esibizioni sono state trasmesse in tutto il pianeta. Dal 2000 al 2009 è stato compositore e direttore d’orchestra della BBC Philharmonic, e fino al 2013 è stato primo direttore d’orchestra ospite della Netherlands Radio Kamer Filharmonie.
La musica di MacMillan riflette la sua eredità scozzese, la fede cattolica, la coscienza sociale e lo stretto legame con la musica folk celtica. È anche un noto critico di musica ecclesiastica cattolica contemporanea, e di recente ha rilasciato un’intervista esclusiva a Regina Magazine per esporre il suo punto di vista.

In primo luogo, ci parli di Musica Sacra Scotland…
Nell’ultimo anno ho istituito una nuova organizzazione dedicata a rivitalizzare la pratica del canto in chiesa, Musica Sacra Scotland. Si basa su una serie di persone impegnate in varie diocesi scozzesi e finora ha organizzato una conferenza nazionale a Glasgow nel novembre 2013; ne sta preparando una seconda a Dundee per il novembre 2014.

Cosa trova di tanto allettante in questo progetto?
Il canto gregoriano è il vero suono del cattolicesimo, e ci sono stati tentativi recenti di adattare questa musica alle traduzioni inglesi. Gli anglicani lo hanno fatto per quattrocento anni, per cui quando è stato stabilito l’Ordinariato un’importantissima applicazione pratica dei principi cattolici è tornata alla Chiesa. Gli americani sembrano poi essere avanti e stanno producendo nuove pubblicazioni che permettono di cantare in lingua volgare i testi propri e trascurati per l’ingresso, l’offertorio e la Comunione.

Cosa pensa di questo sviluppo negli Stati Uniti?
Gli ideatori di questa musica sono curatori della tradizione più che “compositori”, con tutte le questioni relative a individualità, stile ed estetica che accompagnano il termine. Ma quello che stanno facendo questi curatori è notevole. Prendendo la forma e il suono del canto cattolico, stanno creando un autentico repertorio tradizionale per la liturgia della Chiesa. Stanno adattando una musica semplice, funzionale e che si può cantare alla natura del rituale ecclesiale per una Chiesa che ha attraversato varie convulsioni dopo il Concilio Vaticano II.

Cosa sta accadendo nel Regno Unito?
La versione britannica di tutto ciò è ancora più intrigante. L’Istituto di Musica Liturgica Beato John Henry Newman è stato creato sulla scia della visita di papa Benedetto nel regno Unito nel 2010 da padre Guy Nicholls, un sacerdote oratoriano di Birmingham. Il suo Graduale Parvum è una forma assai promettente di canti propri, basata sull’opera pioneristica di László Dobszay. Anziché contare su canti nuovi semplici, il lavoro si è basato sulla constatazione che la Chiesa ha già una vasta gamma di melodie gregoriane più semplici, le antifone all’Officio Divino. Possono essere affiancate al testo proprio per formare una nuova unità, con l’autenticità di una melodia gregoriana vera e antica.
È un progetto pensato in modo brillante, e facile e gradevole da cantare. Negli ultimi 35 anni la cattedrale di Westminster ha sviluppato la sua musica basata su canti per l’officio e la Messa, nell’uso quotidiano, ma in particolare per i primi Vespri e la preghiera mattutina della domenica nel corso dell’anno – l’officio è cantato da tutti senza l’ausilio di un coro.

Perché ha assunto una posizione di leadership al riguardo?
I miei incontri con queste iniziative mi hanno convinto che è la via più autentica per la musica cattolica, combinando l’ethos partecipativo del Vaticano II con la storia e le tradizioni profonde della musica ecclesiale. È uno sviluppo incoraggiante dopo decenni di sperimentazione che hanno promosso musica di una banalità deprimente. Molti dei motivi nuovi sono “illetterati” a livello musicale, come se fossero stati scritti da adolescenti semiformati. Lo stile e pesante e sentimentale, bloccato a livello di tono e ritmo e melodicamente vuoto.

Che tipo di risposta ha ricevuto da cantanti, parrocchie e diocesi?
Finora la risposte sono state molto positive. I vescovi scozzesi hanno offerto il proprio sostegno, e infatti il vescovo di Aberdeen, Hugh Gilbert, è diventato il nostro patrocinatore.
Penso che ci sia una sete reale di ciò che stiamo facendo dopo decenni di deriva e inevitabile confusione quando la Chiesa ha abbracciato le lingue volgari.

C’è grande resistenza nei confronti di questo tipo di musica?
Ai cattolici scozzesi va ricordato continuamente quando sia importante la questione della nostra liturgia. È una vergogna che la discussione a volte scada in un paragone tra il nuovo rito e la forma straordinaria.
Nessuno afferma che il nuovo rito dovrebbe essere sostituito, ma la ricomparsa dell’antico rito latino, per ora a livello marginale, non può non essere un elemento positivo a lungo termine per la Chiesa universale. La constatazione che ci sono queste considerazioni per quanto riguarda pratiche positive e negative, approcci autentici e non autentici, attributi di santità, bontà della forma e universalità è la svolta in cui molti di noi speravano. Queste considerazioni dovrebbero essere sempre in prima linea nella mente di chiunque sia responsabile della liturgia, clero o fedeli.

Qual è l’aspetto importante di tutto questo?
Credo che ci sia una questione più ampia che affrontiamo tutti noi. In questo Paese c’è sempre stata una spinta fortemente antiestetica verso il cattolicesimo scozzese. La domanda è: “Si può dimostrare la bellezza oggettiva nella liturgia della Chiesa nel XXI secolo?”
Sì, bellezza. Quando è stata l’ultima volta che abbiamo ascoltato un’omelia sulla questione? Sentiamo parlare molto di verità, di bontà, ma la bellezza?
Il bello, il vero e il buono – sono questi i valori fondamentali riconosciuti fin dall’antichità come qualità intrinseche dalle quali derivano essenzialmente tutti i valori. Come dai tre colori primari può scaturire un milione di sfumature, così anche un milione di sfumature di qualità può essere ricondotto a questi tre valori primari.
Verità, bontà e bellezza formano una triade di termini che sono stati ampiamente discussi nella tradizione del pensiero occidentale. Sono stati definiti “trascendenti” sulla base del fatto che tutto ciò che esiste è in qualche misura o in qualche modo soggetto ad essere definito vero o falso, buono o cattivo, bello o brutto. Oltre ai filosofi, agli scienziati e ai politici, anche molti mistici e maestri spirituali hanno sostenuto l’idea di queste tre fondamentali “finestre sul divino”.

Cosa c’è, a suo avviso, di tipicamente scozzese in questo dibattito?
Per un uomo scozzese come me, cresciuto in una cultura machista e della working class ad Ayrshire, è difficile ricordare di aver mai sentito la parola “bellezza” negli anni della formazione. Penso che molti maschi della working class avrebbero una reale difficoltà anche a pronunciarla!
E tuttavia la bellezza è alla base della nostra fede cristiana. Dovrebbe essere di primaria importanza nella nostra attenzione quando approcciamo il Trono di ogni Bellezza per le nostre lodi divine. Lodi divine che in questo Paese nel corso degli anni sono state concepite prevalentemente da maschi machisti della working class scozzese.

Prospettiva interessante. Perché pensa che quella della bellezza sia una questione così scottante oggi in Scozia e nella Chiesa universale?
In questa difficile situazione entra la domanda: “Cos’è la bellezza?”. Non è solo negli occhi dello spettatore? La mia bellezza può essere la tua bruttezza, eccetera. La bellezza può mai essere oggettiva? Il concetto di bellezza assoluta non è distante e separato dalla maggior parte delle persone? Non è molto “inclusivo”, vero? Questa è stata un’argomentazione utile per quanti sono stati determinati a rimandare a casa l’agenda consistente nell’abbassare il livello, dentro e fuori la Chiesa. Per quanto riguarda questa discussione, è stata utile per chi desidera trattare la liturgia come “autoespressione” o una tela sulla quale poter gettare i valori, i sentimenti (ovviamente) e le “preoccupazioni” della “comunità”. Questa è una distorsione del concetto cattolico di liturgia, che sposta l’obiettivo dal suo orientamento essenziale verso Dio ponendolo invece sul NOI.
È parte della svolta verso il “sé” che l’oratoriano canadese Jonathon Robinson descrive “come un adolescente preoccupato di sé che vede il mondo nei termini del suo punto di vista”.
Il risultato di tutto questo è che “il centro di interesse nella liturgia, che dovrebbe essere il mistero di Cristo e l’adorazione del Dio vivente, è stato spostato verso un forum per la riflessione ideologica o sociologica”. E non è bello.
A volte parte dell’ansia e della resistenza in Scozia può derivare da questo. Non è un dibattito o/o sul latino e il volgare, e sicuramente ha poco a che vedere con la Messa tridentina.

Cosa fa sì che tanta gente sia sulla difensiva o arrabbiata per un commento critico sulla liturgia contemporanea?
Potrebbe avere molto a che fare con il parlarsi addosso che caratterizza una forma “auto-preoccupata” di adorazione – che rischia di far ripiegare la comunità su se stessa. Le disposizioni spaziali nella liturgia moderna meritano qui la nostra riflessione.
Papa Benedetto ha affermato che il fatto di far rivolgere il sacerdote verso il popolo ha reso la comunità un cerchio chiuso in sé. Nella sua forma esteriore, non si apre più su ciò che sta oltre e sopra, ma è chiusa su se stessa. In precedenza, ha osservato, era una questione relativa al fatto che il sacerdote e il popolo guardavano nella stessa direzione, sapendo di essere insieme in processione verso Dio. Guardavano a Oriente, al Cristo che viene a incontrarci.
È bellissimo. In contrasto con questo, il “focus comunitario” narcisistico attuale non rende necessariamente la Chiesa un migliore organo di salvezza e carità. Robinson indica che “questa concentrazione sulla comunità non ha portato a un’evangelizzazione più efficace o a una maggiore influenza della Chiesa nel mondo moderno (…) Ha invece portato a una crescente inefficacia della Chiesa, almeno in Occidente”.

Come caratterizzerebbe quindi la questione alla base di questo dibattito in Scozia?
Papa Benedetto ci ha ricordato che la liturgia non è un’espressione della consapevolezza di una comunità, in ogni caso diffusa e mutevole, ma rivelazione ricevuta nella fede e nella preghiera. La sua misura è quindi la fede della Chiesa in cui la rivelazione è accolta.
Noi scozzesi siamo onestamente a nostro agio con le banalità sciatte, compiacenti e sentimentali praticate in molte delle nostre chiese?
O possiamo essere ispirati a raggiungere la bellezza oggettiva di una lode cattolica senza tempo e archetipica?
Ecco un’intervista di James MacMillan alla prima Conferenza di Musica Sacra Scotland nel novembre 2013.
[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

Fonte: Aleteia, 6.8.2014. L'articolo è anche riprodotto in Una casa sulla roccia, 20.8.2014.

“Itaque paulo post confirmáta valetúdine, Diocletiáno óbviam factus, ejus impietátem libérius accusávit. Cujus aspéctu cum ille primum obstupuísset, quod mórtuum créderet; rei novitáte et acri Sebastiáni reprehensióne excandéscens, eum támdiu virgis cædi imperávit, donec ánimam Deo rédderet. Ejus corpus in cloácam dejéctum Lucína, a Sebastiáno in somnis admónita ubi esset et quo loco humári vellet, ad Catacúmbas sepelívit, ubi sancti Sebastiáni nómine célebris ecclésia est ædificáta” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTORUM FABIANI PAPÆ et SEBASTIANI MARTYRUM

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Quando ancora la disciplina della politurgia era in vigore a Roma, perciò, si celebrava oggi una doppia messa, con due stazioni distinte, l’una nel cimitero di Callisto, presso la tomba di papa Fabiano, l’altra nel cimitero vicino ad Catacumbas, presso il sepolcro di Sebastiano. Tale è la disciplina rappresentata dal Feriale Filocaliano e dalla Depositio Martyrumdel 354: XIII kal. Febr. Fabiani in Callisti et Sebastiani in Catacumbas. Una cinquantina di anni separa il martirio del papa Fabiano (250 d.C.) e quello di Sebastiano (303 d.C.).
Gli antichi sacramentari mantengono questa distinzione di messe, attribuendo tuttavia a san Sebastiano, in ragione della popolarità del suo culto, la prevalenza sul papa Fabiano. Le feste dei martiri, in effetti, entrarono nelle basiliche urbane, i libri liturgici continuarono a proporre due formulari propri, ad eccezione dell’epistolario che non conosceva che la festa di san Sebastiano. Ora san Fabiano era piazzato al primo posto, nella sua qualità di papa, ora si dava la priorità a san Sebastiano, molto popolare come protettore contro la peste. Fu così a Roma sino a metà del XII sec. Dei cinque documenti che si considerano solitamente per stabilire il calendario del XII sec., tre danno il passo a san Fabiano e due a san Sebastiano. Ora, nella seconda metà di quel secolo, tanto al Laterano quanto al Vaticano, si riunirono le due celebrazioni in una sola. Sfogliando i libri si assiste a questa fusione. Il messale del Laterano contiene la messa Intret dal proprio di più Martiri, ma con due orazioni, che sono dette sub una clausula, precisa l’Ordo. Quest’ultimo espone il cambiamento poggiandosi su un manoscritto che prende a torto per testimonianza autentica del sacramentario gregoriano, imitantes videlicet beatum Gregorium, qui in sacramentario officium missae huius diei utrisque commune instituit.
Per quanto concerne l’ufficio, deplora che questo sia ancora tutto intero di san Sebastiano: quia iam multum praevaluit, ideo consuetudini ratio cedit.
Nel Vaticano, l’ufficio è ugualmente di san Sebastiano, ma totum tertium Nocturnum facimus de sancto Fabiano, di cui si fa ugualmente memorie nelle Lodi. Questo fatto non è senza interesse, perché permette di percepire i primi indici di una mutazione della liturgia romana, che sarà sempre meno legata alle condizioni locali della Città apostolica. Si passa dalla liturgia cimiteriale e basilicale di Roma alla liturgia della Curia romana (Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, pp. 215-216).
Gli antichi si accordarono per attribuire all’intercessione del soldato martire, difensore della Chiesa, un gran numero di prodigi, che gli valsero la rinomanza di taumaturgo, tanto che, nella lettura del Vangelo quanto nell’antifona per la comunione, è a lui che si ricollegano oggi le parole di san Luca secondo cui una grande moltitudine di infermi accorrevano al Salvatore perché da Lui usciva una potenza che guariva tutti.
Nel Medioevo, si invocava specialmente san Sebastiano contro la peste. Paolo Diacono racconta che nel 670, la peste cessò a Roma quando si dedicò un altare al Santo nella Basilica di San Pietro in Vincoli (Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, lib. VI, cap. 5), con una celebre effigie del Santo in mosaico, con sembianze senili e barbuto, risalente ad un decennio dopo (cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 209).



San Sebastiano, 680 circa, Basilica di San Pietro in Vincoli, Roma

I testi storici più antichi, con riferimento a san Sebastiano, si trovano in un passaggio della spiegazione dei salmi di sant’Ambrogio: «Lasciateci proporvi l’esempio del santo martire Sebastiano. Egli era milanese di ascita. Forse il persecutore dei cristiani aveva lasciato Milano, ovvero non vi era mani venuto, oppure era più tenero. Sebastiano vide non vi era alcuna occasione di combattimento o che si rammolliva. Partì, dunque, per Roma dove, a causa dello zelo dei cristiani per la loro fede, la lotta era calda. Vi soffrì e vi fu coronato». Per questo, Ambrogio definisce il santo come: «Sebastianus vir Christianissimus Mediolanensium» (AmbrosiusIn psalm CXVIII, sermo XXII).
I testi liturgici in uso nel Messale tradizionale – che celebrano i due santi insieme con Messa doppia – sono quelli dell’antica messa stazionale di san Sebastiano, salvo un piccolo numero di modifiche. In effetti, numerosi manoscritti omettono interamente san Fabiano ed il più antico lezionario romano, quello del VII sec., come ce lo fa conoscere un manoscritto di Würzburg, indica per questo giorno non soltanto l’epistola, ma anche la lezione profetica dell’Antico testamento, secondo l’uso romano nelle più grandi solennità dell’anno (24: IN NAT SCI SEBASTIANI lec epis beati pauli apos ad ebreos FF sci per fidem uicerunt regna usq. testimonium fidei probati inuenti sunt in xpo ihu dno25: IN NAT UBI SUPRA lec lib sapi salo. reddidit ds mercidem laboris scorum usq. manuum tuam laudauerunt partier dne ds noster).
È inutile aggiungere che la messa di san Sebastiano, come tutte le altre, ha sempre nei sacramentari un prefazio speciale. Il fatto di aver soppresso tutte gli antichi prefazi propri di ciascuna domenica e di ogni festa dell’anno, che sono così belli e che caratterizzavano così bene la liturgia romana, è stato un vero impoverimento imposto al nostro Messale ed una gran perdita per la pietà ecclesiastica. Forse si può sperare in una correzione del Messale juxta codicum fidem (così come vi è già stato per l’antifonario gregoriano da parte di san Pio X), in cui gli antichi prefazi del sacramentario di san Gregorio riprenderanno il loro spazio nella liturgia?
Originariamente le due messe, quella di san Sebastiano come quella di san Fabiano, avevano le collette proprie; quando si fusero queste due stazioni, ci si accontentò di aggiungere il nome di Sebastiano a quello di Fabiano nelle collette del Comune dei martiri pontefici.
La lettura odierna, tratta dall’Epistola agli Ebrei, già assegnata nel Lezionario di Würzburg alla messa di san Sebastiano, descrive sotto dei vivi colori tutte le sofferenze sopportate dai giusti dell’Antico Testamento a causa della loro fede. Non è semplicemente, in effetti, il fatto di soffrire che ci rende graditi a Dio, ma, come insegna l’Apostolo, è la confessione della fede in mezzo ad opere virtuose ed alle sofferenze, che ci merita la corona: Hi omnes testimonio fidei probati inventi sunt. Per questo la Chiesa canta nell’ufficio di Terza:
Os, lingua, mens, sensus vigor
Confessionem personent,
affinché ogni momento confessiamo il nome di Gesù Salvatore, cioè avanziamo a grandi passi nella via della salvezza.
Nel Comes di Würzburg, la seconda lettura dell’Antico Testamento per la sinassi di questo giorno ad catacumbas, è tratta dal Libro della Sapienza (10, 17-20), laddove è celebrata la vittoria degli Israeliti sugli Egiziani, allorché Jahvé fu il vendicatore del suo popolo e sua guida attraverso il deserto.
Il responsorio è tratto dal celebre cantico di Mosé nell’Esodo (15, 2, 6), dopo il passaggio del mar Rosso ed in origine era in relazione con la pericope precedente del libro della Sapienza. Il mar Rosso nel quale Satana è stato abbattuto è il martirio, nel mezzo del quale gli eroici atleti del Cristo hanno trionfato dei loro persecutori. Questi ultimi li hanno posti sui cavalletti e sui roghi, per strappare la fede dal loro cuore; ma l’anima invincibile dei martiri è giunta sana e salva alla riva dell’eternità ed i boia hanno compreso tutta la vergogna della loro disfatta.
Il vangelo (Lc 6, 17 -23), dove si parla dell’intervento di Gesù a profitto dei malati, si adatta molto bene a san Sebastiano, che l’antichità cristiana venerava come protettore speciale contro le epidemie. Nella basilica esquilina di San Pietro in Vincoli, si conserva ancora l’altare con l’immagine in mosaico del grande martire che fece erigere il papa Agatone per liberare Roma dalla peste che l’affliggeva. Questa devozione popolare verso san Sebastiano era generale in Italia, e specialmente a Roma, dove si contano almeno nove antiche chiese in onore del santo. Oltre la basilica costantiniana ad Catacumbas (su quest’antica basilica, cfr. Mariano Armelliniop. cit., pp. 896-900; Ch. HuelsenLe Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 460), nel quartiere Ardeatino, denominata Basilica di San Sebastiano fuori le mura, e le cui catacombe erano veneratissime da San Filippo Neri, il quale proprio qui ricevette, nel 1544, dallo Spirito Santo il dono di un’ardente carità che fece dilatare il suo cuore (cfr. Armelliniop. cit., p. 898), ce n’era una – in verità un oratorio - nel Patriarchium del Laterano, eretta dal papa Teodoro (chiesa di San Sebastiano in Laterano) (ibidem, p. 106); un’altra si elevava sul Palatino, vicino all’ippodromo dove san Sebastiano aveva sofferto il martirio, e che sorge accanto al Foro Romano ed al Colosseo, nell'area dell'antico tempio inizialmente dedicato al Sol Invictus Elagabal (c.d. Elagabalium), eretto dall'Imperatore Eliogabalo all'inizio del I sec. d.C. e di cui si vedono ancora tracce delle fondamenta nello spiazzo adiacente la chiesa, ed in seguito a Giove, e che custodiva diversi oggetti sacri, tra cui il Palladio di Atena, portato da Troia (Chiesa di San Sebastiano alla Polveriera o al Palatino, o di Santa Maria in Pallara o in Pallaria) (ibidem, pp. 524-525; Ch. Huelsenop. cit., pp. 353-355); un’altra si trovava vicino al Tevere, nella regione Arenula, rione Regola (chiesa di San Sebastiano de Arenula) (cfr. Armelliniop. cit., p. 398); una quarta (chiesa di San Sebastiano a Scossacavalli) (ibidem, p. 778), una quinta (chiesa di San Sebastiano in via Pontificum) (ibidem) ed una sesta tuttora esistente, eretta da papa San Pio V nel 1568, e non lontana dal Colonnato del Bernini (Chiesa dei Santi Martino e Sebastiano degli Svizzeri) (ibidem, p. 783) nel quartiere di Borgo, vicino a San Pietro; ce n’era infine una sesta sulla c.d. via papale, laddove, secondo la tradizione, il corpo di san Sebastiano sarebbe stato gettato in una cloaca e recuperato da santa Lucina, serva della matrona sant’Irene di Roma (cfr. Armelliniop. cit., p. 455; Ch. HuelsenLe Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 460-461).
Nel Medioevo, il capo di san Sebastiano fu trasportato da Gregorio IV sul monte Celio, nella basilica dei Quattro Santi Coronati (cfr. Armelliniop. cit., pp. 499-500); quasi nello stesso tempo, una parte importante delle sue reliquie passò all’abbazia di San Medardo di Soissons. In quest’occasione una piccola fiala, contenente alcune gocce del suo sangue, rimase nell’abbazia imperiale di Farfa in Sabinia, dove le reliquie avevano ricevuto l’ospitalità la notte seguente la partenza da Roma del gruppo dei monaci di Soissons.
Roma cristiana ha dedicato a papa Fabiano una chiesa nel quartiere Tuscolano, in piazza Villa Fiorelli. Essa, eretta a parrocchia nel 1933, fu costruita nel 1936 (Chiesa dei Santi Fabiano e Venanzio). Fu istituita come titolo cardinalizio nel 1973 (titolo dei Santi Fabiano e Venanzio a Villa Fiorelli).
Il frutto eterno menzionato nella preghiera prima dell’anafora è la grazia, cioè il dono di Dio, che, per sua natura, non è soggetto a revocazione né a ripensamento. Questo dono, al contrario, nel disegno magnifico di Dio, vuole svilupparsi continuamente nell’anima, cioè donarsi sempre più all’uomo, affinché lo renda gradualmente capace del possesso beatifico di Dio nel paradiso.
Dio ha congiunto dei tesori di grazie e di meriti ai modesti atti del nostro culto, e noi, al contrario, languiamo in una moltitudine di miserie e di mali fisici e spirituali, unicamente perché non abbiamo una fede sufficiente per ricorrere ai rimedi che ci offre la bontà divina (Lc 6, 17 e 19). Questa salutare virtù del Salvatore non è venuta meno dopo l’Ascensione. Ancora oggi, entriamo in contatto con Gesù nei Sacramenti, le ispirazioni, le predicazioni, le tribolazioni della vita stesse, e se in tutte queste circostanze ci avvicinassimo a Lui con fede, sgorgherebbe da Lui una virtù in grado di guarire tutte le nostre infermità.
Ecco quello che è il mondo agli occhi della fede: Multitudo languentium, una moltitudine di persone che languiscono, tanto più degni di compassione che, tra esse, ben poco numerose sono quelle che, a somiglianza degli infermi di cui parla oggi il Vangelo, vanno dal celeste medico Gesù.
Alla tomba primitiva di san Sebastiano, ritrovata tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 apud vestigia Apostolorum sulla via Appia, si rapporta un frammento della balaustra o transenna di marmo con quest’iscrizione del V sec., risalente all’epoca di papa Sant’Innocenzo I:
TEMPORIBUS • SANCTI
INNOCENTI • EPISCOPI
PROCLINVS • ET • VRSVS • PRAESBB
TITVLI • BYZANTI
SANCTO • MARTYRI
SEBASTIANO • EX • VOTO • FECERVNT
Questo monumento si trova oggi al museo del Laterano (cfr. Armelliniop. cit., p. 896).



Ambito senese, Madonna con Gesù Bambino in gloria con angeli tra i SS. Sebastiano e Fabiano, 1620 circa, chiesa di S. Giorgio, Montemerano

Scuola lunigianese, SS. Fabiano e Sebastiano, XVII sec., museo diocesano, Massa Carrara-Pontremoli

Giuseppe Marchesi, SS. Fabiano e Sebastiano, XIX sec., museo diocesano, Trento

Ambito romano, Madonna con Bambino tra i SS. Fabiano e Sebastiano, XVII-XVIII sec., museo diocesano, Rieti 

Pietro Perugino, S. Fabiano, 1481-83, Cappella Sistina, Città del Vaticano, Roma

Pietro Perugino, SS. Irene e Sebastiano, Polittico di S. Agostino, 1502-12, Museo di Grenoble, Grenoble


Raffaello Sanzio, Ritratto (del pittore) come S. Sebastiano, 1503, Collezione Lochis, Accademia Carrara, Bergamo

Ambito di Carlo Dolci, S. Sebastiano, XVII sec., collezione privata

Josse Lieferinxe, S. Sebastiano curato Irene, 1497 circa, Philadelphia Museum of Art, Philadelphia 


Josse Lieferinxe, Pellegrini alla tomba di S. Sebastiano, 1497 circa, Galleria Nazionale d'Arte Antica, Roma

Ludovico Carracci, S. Sebastiano gettato nella Cloaca Massima, 1612, Getty Museum, Los Angeles

Dirck van Baburen, S. Irene recupera S. Sebastiano, 1615, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid

Gerrit van Honthorst (Gherardo delle Notti), Martirio di S Sebastiano, 1623 circa, National Gallery, Londra

Jan Van Bijlert, S. Sebastiano assistito da S. Irene, XVII sec., collezione privata

Carlo Dolci, S. Sebastiano curato da S. Irene, XVII sec., collezione privata

Pierre Jérôme Lordon, Sepoltura di S. Sebastiano, XIX sec., Fondation Calvet, Avignone

Lorenzo Vaccaro - Domenico Antonio Ferro, Busto argenteo di S. Sebastiano, 1709, museo diocesano della Cattedrale di S. Paolo, Aversa



Francesco Papaleo, S. Fabiano ed angeli, XVIII sec., Cappella Albani, Basilica di S. Sebastiano fuori le mura, Roma.
Sotto la statua di San Fabiano si conserva la reliquia del suo cranio.





Tomba di S. Sebastiano, Basilica di S. Sebastiano fuori le mura, Roma





Antonio Giorgetti, Martirio di S. Sebastiano, Basilica di S. Sebastiano fuori le mura. Roma


Reliquie di S. Sebastiano (copia di una delle frecce e frammento della colonna del martirio) Basilica di S. Sebastiano fuori le mura. Roma

“Veni, Sponsa Christi, áccipe corónam, quam tibi Dóminus præparávit in ætérnum: pro cujus amóre sánguinem tuum fudísti” (Tractus) - SANCTÆ AGNETIS, VIRGINIS ET MARTYRIS

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Oggi, nell’antichità, la stazione era nella basilica della santa martire sulla via Nomentana, dove, in quest’occasione, san Gregorio Magno pronunciò una delle sue quaranta celebri omelie sul Vangelo. I Padri della Chiesa latina, Girolamo, Ambrogio, Damaso, Prudenzio, formano un concerto di elogi di questa «agnella» verginale che, prodiga del suo proprio sangue verso Colui che l’aveva consacrata con il suo Sangue, affronta intrepida i fuochi e le spade della Roma idolatra.Omnium gentium litteris atque linguis, præcipue in Ecclesiis, Agnes (γν) vita laudata est, quæ et ætatem vicit et tyrannum, et titulum castitatis martyrio consecravit, «Con gli scritti e con le lingue di tutte le genti, specialmente nelle chiese, fu lodata la vita di Agnese; la quale vinse e l’età e il tiranno, e col martirio consacrò la gloria della castità» (Hieron. Epist. CXX ad Demetriadem, in PL 22, col. 1123).
Il culto della vergine martire sant’Agnese risale al IV sec., ove è attestato, oltre che dai suddetti autori, anche dalla Depositio Martyrum del 354. A partire dal VII sec., lezionari e sacramentari donano i formulari della sua messa. Nel XII sec., tanto al Laterano quanto al Vaticano, nell’Ufficio omnia habentur propria. La festa di sant’Agnese è iscritta ugualmente nel calendario bizantino (cfr. Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 216).
Il nome della santa è greco (γν, hagne, la pura, la casta), non viene dal latina agna, cioè agnella. Tuttavia, l’interpretazione latina ha prevalso nella Chiesa primitiva (Agnese, infatti, otto giorni dopo apparve ai suoi genitori, circondata da un gruppo di vergini, con un agnello bianco presso di lei). Sant’Agostino conosceva le due interpretazioni: «Agnes significa in latino agnella ed in greco la pura».
Il corpo della Santa fu originariamente deposto in una piccola proprietà sulla via Nomentana in agello suo, a poca distanza dal cimitero Maggiore, dove antiche tradizioni romane vogliono che san Pietro abbia battezzato.
Quando la pace fu donata alla Chiesa, Costanza (o Costantina), figlia del grande Costantino e sorella di Costante I, Costantino II e Costanzo II imperatori, fece erigere su questa tomba una sontuosa basilica presso la quale furono sepolti molti membri di questa famiglia imperiale. In questa basilica, in effetti, sarebbero state sepolte la stessa Costanza e la sorella Elena. Lo storico romano Ammiano Marcellino, che descrive l’Augusta, come «una specie di megera mortale, costante eccitatrice del crudele, avida di sangue umano non meno del marito» (Ammianus Marcellinus, XIV, 1, pp. 1 ss.: «Megæra quædam mortalis, inflammatrix sævientis adsidua, humani cruoris avida nihil mitius quam maritus»), morta in Bitinia tra il settembre e l’ottobre del 354 (F. Savio, Costantina: figlia dell’imperatore Costantino Magno e la basilica di S. Agnese a Roma, Clausen, 1907, p. 316) per febbre, mentre si stava recando dal fratello Costanzo per intercedere in favore del marito, sarebbe stata trasportata a Roma nel 360, e sepolta nel mausoleo costruito nel suo suburbanum sulla via Nomentana insieme alla sorella Elena (Ammianus Marcellinus, XXI, 1, 5, p. 217: «Inter quæ Helenæ coniugis defunctæ suprema miserat Romam in suburabano viæ Nomentanæ condenda ubi uxor quoque Galli quondam (soror ejus) sepulta est Constantina»).
È molto probabile che da allora si elevò qui un monastero di vergini, che sarebbe del tipo più antico della Città eterna. Noi abbiamo ancora l’epigrafe acrostica di questa primitiva costruzione costantiniana:
CONSTANTINA DM VENERANS XPOQVE D1CATA
OMNIBVS IMPENSIS DEVOTA MENTE PARATIS
NOMINE DIVINO MVLTVMQVE XPO IVBANTE
SACRAVI TEMPLVM VICTRICIS VIRGINIS AGNES
TEMPLORVM QVOD VINCIT OPVS TERRENAQVE CVNCTA
AVREIOVE RVTILANS SVVIMI FASTIGIA TECTI
NOMEN ENIM XFÌ CELEBRATVR SEDIBVS ISTIS
TARTAREA SOLVS POTVIT QVI VINCERE MORTEM
INVICTVSQVE CAELO SOLVS FERRE TRIVMPHVM
NOMEN ADDE REFERENS ET CORPVS ET OMNIA MEMBRA
AMORTIS TENEBRIS ET CAECA NOCTE LEVATA
DIGNVM IGITVR MVNVS MARTYR DEVOTAQVE XPO
EX OPIBVS MS PER SAECVLA LONG A TENEBIS
OFILEX VIRGO MEMORANDI NOMINIS AGNES.
La qual lezione potrebbe essere corretta e interpretata in questo modo:
CONSTANTINA • DEVM • VENERANS • CHRISTOQVE • DICATA
OMNIBVS • IMPENSIS • DEVOTA • MENTE • PARATIS
NVMINE • DIVINO • MVLTVM • CHRISTO • QVE • IVVANTE
SACRAVIT • TEMPLVM • VICTRICIS • VIRGINIS • AGNES
TEMPLORVM • QVOD • VICIT • OPVS • TERRENAQVE • CVNCTA
AVREA • QVAE • RVTILANT • SVMMI • FASTIGIA • TECTI
NOMEN • ENIM • CHRISTI • CELEBRATVR • SEDIBVS • ISTIS
TARTAREAM • SOLVS • POTVIT • QUI • VINCERE • MORTEM
INVECTVS • CAELO • SOLVS • QVE • INFERRE • TRIVMPHVM
NOMEN • ADAE • REFERENS • ET • CORPVS • ET • OMNIA • MEMBRA
A• MORTIS • TENEBRIS • ET • CAECA • NOCTE • LEVATA
DIGNVM • IGITVR • MVNVS • MARTYR • DEVOTA • QVE • CHRISTO
EX • OPIBVS • NOSTRIS • PER • SAECVLA • LONGA • TENEBIS
O• FELIX • VIRGO • MEMORANDI • NOMINIS • AGNES
(Cfr. G. B. De Rossi, Inscriptiones Christianæ urbis Romæ septimo sæculo antìquiores, Romæ, 1888, II, p. 44). Questo carme viene da alcuni attribuito alla stessa Costantina (cfr. Savio, op. cit., p. 311), mentre altri vorrebbero che fosse di Papa Damaso (R. Garrucci, Storia dell’arte cristiana nei primo otto secoli della Chiesa, Prato, 1881, vol. I, p. 448).
È da rilevare come leggendo le lettere iniziali dei versi di questo carme in verticale, si formi l’elegante acrostico iniziale CONSTANTINADEO (Costantina a Dio). Trad.: «Costantina, adoratrice di Dio e convertita a Cristo, avendo provveduto con cuore devoto a tutte le spese, aiutata assai dal volere divino e da Cristo, dedicò il tempio della vittoriosa vergine Agnese, il quale supera le strutture dei templi e tutte le profane costruzioni, i cui fastigi degli alti tetti sono rutilanti d’oro. Il nome di Cristo infatti si celebra in questa sede, il quale solo vinse la tartarea morte e, levato al cielo, solo trionfò; portando il nome di Adamo, il corpo e tutte le membra tolse dalle tenebre della morte e dalla cieca notte. Il degno dono, dunque, o martire devota a Cristo, costituito dalle nostre sostanze, conserverai per lunghi secoli, o vergine felice, dal memorando nome di Agnese».
Da questa epigrafe nonché dagli Atti di Sant’Agnese (in Acta Sanct. Ianuarii, II, p. 714 ss.) si comprende la grande devozione che aveva Costanza nei confronti della Vergine Agnese. In base alla leggenda si narra che la vergine Costanza, figlia dell’imperatore Costantino, essendo stata miracolosamente guarita da Agnese si rivolse al padre ed ai fratelli affinché facessero erigere un edificio basilicale alla santa, e lì vicino volle far innalzare il proprio mausoleo. È detto inoltre che Costantina volle consacrarsi a Dio ad imitazione della sua benefattrice, e che in tal modo «trasse al proprio esempio molte giovani di varie condizioni sociali». Anche nel Liber Pontificalis(Liber Pontificalis, I, p. 180) si afferma che la basilica di S. Agnese fu fatta erigere da Costantino ex rogatu filiæ suæ. È evidente che la fonte più autorevole è senza dubbio l’acrostico sopra riportato poiché, pur nell’escludere che fosse composto dalla stessa Costantina (come molti hanno affermato, a cominciare dal De Rossi, Inscriptiones, cit., II, p. 44.), è certamente il documento più antico che abbiamo riguardo a questo monumento. Del resto non vi possono essere dubbi sul fatto che l’iscrizione metrica stesse nella suddetta basilica, dal momento che il Baronio (Baronio, Annales, III, p. 218 ss.) ci assicura che ai suoi tempi esisteva ancora un frammento di tale iscrizione all’ingresso della chiesa attuale, né è pensabile che, prima del VI secolo, quando fu vista e copiata dall’abside, esistesse a Roma un’altra basilica eretta in onore di Sant’Agnese, ad eccezione di quella sulla Nomentana.
Benché questa basilica fosse restaurata più volte, essa conserva ancora sufficientemente l’impianto architettonico dei tempi di Simmaco e di Onorio I. Come il Titolo dei Quattro Coronati al Celio, le navate minori sono divise in due gallerie sovrapposte; la più elevata, o matroneum, era riservata una volta alle donne dell’alta aristocrazia e dalle vergini consacrate. La basilica si trova ad un livello molto inferiore a quello stradale ed essa è parallela al piano del cimitero, perché, all’epoca di Costantino, per non togliere la martire dal suo sepolcro primitivo, si scavò il campo su cui far sorgere il tempio, distruggendo peraltro le gallerie cimiteriali contigue, precisamente come si fece in un caso simile a San Lorenzo e nella basilica dei martiri Nereo ed Achilleo sulla via Ardeatina.
Oltre l’ipogeo della via Nomentana, a Roma, durante l’Alto medioevo, molte altre chiese si elevarono in onore di sant’Agnese: ricordiamo soltanto le più celebri come quella in Agone sulle rovine della strada di Alessandro Severo dove, probabilmente, ella fu esposta nel lupanare; un’altra presso il Pantheon, ed un’altra ancora ad duo furna presso Santa Prassede.
La messa in onore di sant’Agnese è stata il prototipo di quella che è divenuta in seguito la Comune a tutte le vergini. Essa ha un carattere di antichità, solenne e molto sobrio, a differenza dell’Ufficio che è di un’epoca più tardiva e che si fonda su dei testi apocrifi. A quest’elogio liturgico fa magnifica eco l’epigrafe del papa Damaso in onore di Agnese. Oggi, ancora, nel marmo originale, essa orna la scala monumentale che, dalla via Nomentana, discende alla basilica della martire:
FAMA • REFERT • SANCTOS • DVDVM • RETVLISSE • PARENTES
AGNEN • CVM • LVGVBRES • CANTVS • TVBA • CONCREPVISSET
NVTRICIS • GREMIVM • SVBITO • LIQVISSE • PVELLAM
SPONTE • TRVCIS • CALCASSE • MINAS • RABIEM • QVE • TYRAMNI
VRERE • CVM • FLAMMIS • VOLVISSET • NOBILE • CORPVS
VIRIBVS • IMMENSVM • PARVIS • SVPERASSE • TIMOREM
NVDA • QVE • PROFVSVM • CRINEM • PER • MEMBRA • DEDISSE
NE • DOMINI • TEMPLVM • FACIES • PERITVRA • VIDERET
O • VENERANDA • MIHI • SANCTVM • DECVS • ALMA • PVDORIS
VT • DAMASI • PRECIBVS • FAVEAS - PRECOR • INCLITA • MARTYR
«Narra la fama che Agnese - come già riferirono i suoi santi genitori - ancora fanciulla, mentre infieriva la persecuzione, si staccò dal seno della nutrice, e, sprezzando le minacce e la rabbia del crudele tiranno; offrì spontaneamente alle fiamme il suo nobile corpo: ella con le sue deboli forze seppe vincere un’immane terrore e le nude membra lasciò che fossero protette dalle disciolte chiome, affinché sguardo mortale non si fissasse su quel tempio del Signore. Io ti prego, o alma ed inclita martire, santo decoro del pudore, sii propizia alle preci di Damaso!».
La messa è in rito doppio e ruota intorno al passo evangelico delle vergine sagge e di quelle stolte (Mt. 25, 1-13) ed al Salmo de virginitate 45 (44), esprimendo quasi l’idea che la martire abbia sposato Cristo distendendosi come lui sulla croce come sul letto nuziale e lo Sposo divino, il quale avrebbe disposto che Egli stesso fosse la corona della sua Sposa.
È questa l’idea a cui si ispira la celebre iscrizione composta dal papa Onorio I e che, ricopiata sulla tomba di sant’Agnese, entrò nella raccolta epigrafica del medioevo:
INCLITA • VOTA • SVIS • ADQVIR[VNT] • PRAEMIA • LAVDIS
DVM • PERFECTA • MICANT • MENTE • FIDE • MERITIS
VIRGINIS • HOC • AGNAE • CLAVDVNTVR • MEMBRA • SEPVLCHRO
QVAE • INCORRVPTA • TAMEN • VITA • SEPVLTA • TENET
HOC • OPVS • ARGENTO • CONSTRVXIT • HONORIVS • AMPLO
MARTYRIS • ET • SANCTAE • VIRGINIS • OB • MERITVM.


Frank Cadogan Cowper, S. Agnese riceve in prigione da un angelo una veste bianca, 1905, Tate Gallery, Londra


S. Agnese, Cripta, Basilica di S. Cecilia in Trastevere, Roma






Altare dell’urna del capo di S. Agnese, Basilica di S. Agnese in Agone, Roma

Intervento radiofonico di don Nicola Bux, Chiesa e Liturgia - Il rapporto tra liturgia e musica sacra: i principi di massima nella crisi del presente, 12.1.2016

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(cliccare sull'immagine per l'audio della lezione)

Lo scempio dell’arte sacra contemporanea

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Un’interessante riflessione del prof. De Mattei sul decadimento dell’arte sacra contemporanea. È notizia di qualche giorno fa, peraltro, quella della realizzazione di una chiesa (non si sa di che confessione) o sala per …. matrimoni a Taiwan avente per forma la scarpetta di cristallo di Cenerentola …. (v. qui, qui, qui e qui).




Quantomeno interessante è perciò il contributo del prof. De Mattei.

Lo scempio dell’arte sacra contemporanea

di Roberto de Mattei

Riportiamo l’editoriale del prof. Roberto de Mattei che apparirà sul numero 111 del mensile Radici Cristiane(febbraio 2016).

La nuova cattedrale di Créteil, in Val di Marna, inaugurata il 20 settembre 2015, si aggiunge al lungo elenco delle brutture architettoniche degli ultimi decenni. Ciò che rende più grave lo scempio è che si tratta di architettura sacra, cioè di un’espressione artistica che dovrebbe aiutare l’uomo ad elevarsi verso il Cielo.

La prima caratteristica di queste chiese come di altri templi della liturgia postmoderna, è invece il fatto che esse distolgono da Dio. Sono chiese brutte perché chi le progetta snatura intenzionalmente la loro funzione di luogo di celebrazione del culto divino. È bello ciò che è vero ed è vero ciò che realizza se stesso, ciò che non tradisce il proprio fine e la propria natura. In questo senso, come osservava Mario Palmaro, la bellezza ha un carattere «normativo» insito in sé, rimanda alla natura umana, che non muta, in ogni tempo e sotto ogni latitudine. E poiché l’uomo ha una natura razionale, «nelle cose umane – afferma san Tommaso d’Aquino – il bello si ha quando qualcosa è ordinato secondo ragione» (Summa Theologica, II-IIae, q. 142, a. 2).

Gli architetti moderni seguono le proprie deformi costruzioni mentali e non le leggi immutabili che regolano l’universo. Eppure tutto ciò che è prodotto dall’uomo ha una sua perfezione e una sua bellezza solo in quanto corrisponde al fine che gli è proprio. E se Dio è il fine ultimo di tutte le cose, ogni essere creato ha un fine specifico che corrisponde alla propria natura ed essenza. Il fine è anche una “funzione”, una specifica attività diretta a uno scopo.

La bellezza di un’opera d’arte deriva dalla sua funzionalità cioè dalla capacità di raggiungere il proprio fine. San Tommaso lo spiega con un esempio eloquente. «Qualsiasi artefice tende a dare alla sua opera la forma migliore non in senso assoluto, ma in relazione a un fine. E l’artefice non si cura se tale disposizione porta con sé una certa mancanza. Così come l’artefice che fabbrica una sega per segare la fa di ferro perché sia idonea alla sua funzione; né gl’importa di farla di vetro, materia più bella, perché tale bellezza sarebbe d’impedimento al raggiungimento del fine» (Summa Theologica, I, q. 91, a. 3).

Una sega di vetro non sarebbe bella perché sarebbe inutile, come sarebbe priva di bellezza una spada che non tagliasse. Una cattedrale è costruita per celebrare il Santo Sacrificio della Messa e riunire i fedeli in adorazione e preghiera. Essa è ben riuscita, cioè è vera cattedrale, se aiuta i fedeli a pregare e adorare. Se non raggiungesse questo fine sarebbe irrimediabilmente brutta come le chiese moderne, che sembrano svolgere la funzione di garage o magazzini piuttosto che di luoghi di preghiera.

Le quattro cattedrali di Chartres, Amiens, Orvieto e San Marco, dette le quattro Bibbie nel marmo, per la loro capacità di riprodurre nella pietra i testi sacri del Cristianesimo, sono, al contrario, un luminoso esempio della corrispondenza tra il mezzo e il fine. Ciò che le rende belle è il fatto che sono state pensate per elevare l’uomo verso il Cielo e raggiungono perfettamente il loro scopo.

Oggi il numero dei turisti in visita alle cattedrali d’Europa è maggiore di quello dei fedeli che le affollano. Eppure quelle cattedrali furono costruite per pregare, e non per essere ammirate come opere d’arte. La loro bellezza è una conseguenza della verità che trasmettono e che pochi colgono. Il compito della Chiesa, piuttosto che incoraggiare la costruzione di orride chiese, dovrebbe essere quello di accompagnare ogni visita ad una cattedrale, con un’adeguata catechesi che dal bello faccia risalire al vero.

L’opera d’arte non è solo una combinazione di superfici, forme e colori, ma la visualizzazione di un pensiero. Uomini e donne di tutti i Paesi e di ogni provenienza ideologica ammirano la bellezza delle opere d’arte cristiane, dimenticando che queste opere non sarebbero state realizzate se non fossero state prima concepite secondo un modo di pensare che era la filosofia del Vangelo. Le cattedrali, gli affreschi, gli oggetti che fanno parte del nostro patrimonio culturale hanno alle spalle una visione del mondo che va ritrovata, un significato che va riscoperto. Nessuna evangelizzazione potrebbe oggi essere più efficace di questa.

La cattedrale di Créteil, come la chiesa realizzata da Massimiliano Fuksas a Foligno e il nuovo santuario di padre Pio edificato da Renzo Piano a San Giovanni Rotondo sono raccapriccianti perché rinnegano la propria identità di luoghi sacri. Questi edifici sono brutti, anzi orrendi, perché non sono funzionali, ovvero non corrispondono allo scopo per il quale sono stati edificati. Chi visita le nuove chiese di Créteil, di Foligno o di San Giovanni Rotondo non contempla il bello e non conosce il vero, ma si trova in un ambiente opposto al proprio desiderio di raccoglimento e di elevazione a Dio. La filosofia di vita che ha ispirato queste costruzioni è quella degli architetti imbevuti di spirito agnostico e relativista che le hanno ideate.

Chiesa si S. Paolo, Foligno, opera di Fuksas
È la visione del mondo dell’Occidente nichilista e opulento, estraneo a Dio, chiuso nella conchiglia del proprio orgoglio, immerso nel cubo del proprio egoismo. Non c’è spazio in questi templi neo-pagani per la liturgia millenaria della Chiesa, per le melodie del gregoriano o del polifonico, per la tenera devozione dei fedeli alla Madonna ed ai santi. C’è l’invito semmai a indirizzarsi verso la Kaaba islamica, come a Foligno, o verso la religiosità massonica, come a San Giovanni Rotondo. Il messaggio di Créteil è altrettanto distruttivo: l’impressione è quella di una effimera e illusoria Disneyland della fede.

Le radici cristiane della società vengono estirpate ogni volta che viene eretto un tempio come quelli realizzati dai divi dell’architettura contemporanea. Le radici cristiane vengono impiantate ogni volta che si costruiscono e si arredano chiese, secondo le regole dettate dalla ragione, dalla fede e dalla Tradizione. Le radici cristiane si difendono anche combattendo l’arte contemporanea e tendendo l’orecchio al messaggio dolente che, attraverso le antiche cattedrali sfigurate, ci trasmette il passato. Radici Cristiane è nata, dieci anni fa, per farsi eco di questa voce.

I profanatori della famiglia non avranno pace; solo la famiglia cristiana, ossequiente alla legge del Creatore e del Redentore, aiutata dalla grazia, è garanzia di pace

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La famiglia, ed in special modo quella cristiana, da alcuni secoli è costantemente sotto attacco. Dapprima con l’introduzione del matrimonio civile e la riduzione del vincolo coniugale a mero contratto (quasi che questo possa scindersi e separarsi dal sacramento) disciplinato dal diritto civile, poi con il divorzio ed oggi con l’introduzione di modelli negoziali alternativi al matrimonio mediante i quali i legislatori secolari pretenderebbero far scaturire vincoli familiari o parafamiliaridimentichi che solo dal matrimonio tra un uomo ed una donna può scaturire un’autentica e vera famiglia, conforme all’ordine di natura come disposto dal Creatore. Allontanandosi da quel modello, si profana quell’ordine e ciò che ne scaturisce è soltanto una vile e mera unione concubinaria, fondata sugli istinti e sulle disordinate passioni umane e non sulla retta ragione. Per questo, all’inizio del Tempo di Settuagesima nove domeniche prima della Pasqua ed all’indomani della celebrazione della festa dello Sposalizio della B. V. Maria, Madre di Dio, e di S. Giuseppe, vero modello dell’autentico matrimonio, le parole del Venerabile Pontefice Pio XII, che rilanciamo, benché risalenti al 1939, appaiono, ancor oggi, profondamente attuali e profetiche per il nostro tempo travagliato.

Sebastian Lopez de Arteaga, Sposalizio della Vergine, XVII sec., Museo Nacional de Arte (MUNAL), Città del Messico

Cristóbal de Villalpando, Sposalizio della Vergine, 1700 circa, Museo Nacional de Arte (MUNAL), Città del Messico


Matrimonio di S. Giuseppe e della Vergine, Cappella delle Nozze, Cattedrale di S. Matteo Apostolo, Washington

I profanatori della famiglia non avranno pace; solo la famiglia cristiana, ossequiente alla legge del Creatore e del Redentore, aiutata dalla grazia, è garanzia di pace

Magistero del Venerabile Papa Pio XII


PIO XII

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 19 luglio 1939

I tesori dell’intima unione con Dio

L’augurio che si suol ripetere agli sposi novelli è sempre e ovunque il medesimo: augurio di felicità. Esso vuol essere la espressione prima ed intera dei sentimenti e dei desideri dei genitori, dei parenti, degli amici e di quanti partecipano alla loro gioia.
E anche la preghiera colla quale la Chiesa termina la Messa per gli sposi: «quos legitima societate connectis, longaeva pace custodias» — Dio onnipotente, custodisci, te ne preghiamo, con una pace di lunga durata coloro che hai unito con legittimo vincolo.
Ed è pure il voto paterno che Noi siamo soliti di rivolgere agli sposi i quali convengono a Roma per implorare la Benedizione Apostolica; benedizione che è il pegno di favori celesti, di pace e di felicità per tutti quei carissimi figli.
Nell’indirizzarlo oggi anche a voi, Ci piace di farvi rilevare l’alto significato di questo augurio profondamente cristiano, preziosa eredità lasciataci dal divino Maestro : Pax vobis.
La pace, fonte di vera felicità, non può venire che da Dio, non può trovarsi che in Dio : « O Signore, tu ci hai fatti per Te e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te ». Per questo la quiete assoluta, la felicità completa e perfetta non si avrà che in cielo nella visione della divina essenza. Ma anche durante la vita terrena la condizione fondamentale della pace vera e della sana letizia è la dipendenza amorosa e filiale dalla volontà di Dio : tutto ciò che indebolisce, che rompe, che spezza questa conformità e unione di volontà, è in opposizione colla pace: prima di tutto e sopra tutto il peccato. Il peccato è rottura e disunione, disordine e turbamento, rimorso e timore, e coloro che resistono alla volontà di Dio non hanno, non possono avere la pace: « Quis restitit Ei et pacem habuit? » (Iob, IX, 4), mentre la pace è la felice eredità di quelli che osservano le legge di Dio : « Pax multa diligentibus legem Tuam» (Ps., CXVIII, 165).
Sopra questa base solidamente stabilita gli sposi cristiani, i genitori cristiani trovano il principio generatore di felicità e il sostegno della pace nella famiglia. La famiglia cristiana infatti, rifuggendo dall’egoismo e dalla ricerca delle proprie soddisfazioni, è tutta impregnata di amore e di carità; e allora, si dileguino pure le fugaci attrattive dei sensi, cadano pure appassiti l’uno dopo l’altro i fiori della giovanile bellezza, svaniscano pure i fallaci fantasmi dell’immaginazione : rimarrà sempre negli sposi tra loro, nei figli verso i genitori, saldo il vincolo dei cuori, resterà immutato l’amore, il grande animatore di tutta la vita domestica, e con esso la felicità e la pace.
Chi, invece, il sacro rito delle nozze cristiane stima una semplice cerimonia esteriore da osservarsi per seguire una consuetudine, chi vi apporta un’anima in disgrazia di Dio, profanando così il Sacramento di Cristo, inaridisce la sorgente di grazie soprannaturali, che nel disegno mirabile della Provvidenza sono destinate a fecondare il giardino della famiglia e a farvi germogliare insieme ai fiori delle virtù i frutti della vera pace e della gioia più pura.
Famiglie inaugurate nella colpa; alla prima bufera daranno negli scogli, ovvero andranno, come nave abbandonata in balìa delle onde, alla deriva di dottrine che nella proclamata libertà o licenza, preparano il più duro servaggio. I profanatori della famiglia non avranno pace; solo la famiglia cristiana, ossequiente alla legge del Creatore e del Redentore, aiutata dalla grazia, è garanzia di pace. Ecco, o dilettissimi sposi novelli, la portata dell’augurio paterno che Ci erompe fervido e sincero dal cuore : pace con Dio nella dipendenza della Sua Volontà, pace con gli uomini nell’amore della verità, pace con se stessi nella vittoria delle passioni : triplice pace che è la sola vera felicità di cui è possibile godere durante il pellegrinaggio terreno. Auspicio di tanto bene sia la paterna benedizione, che di tutto cuore vi impartiamo.
Parlando ai novelli sposi, a coloro che sono da Dio chiamati quasi a presiedere alle fonti stesse della vita e ne avviano il corso, il pensiero e il Nostro cuore andavano naturalmente al vivace gruppo di bambini, venuti da ogni parte d’Italia a recarCi i frutti del loro primo apostolato ed a raccogliere il premio delle loro vittorie catechistiche e della fedeltà ai loro doveri. Sono i bravi vincitori del Premio di Roma; ma dietro ad essi è tutto un esercito di fanciulli, devoti come loro al Vicario di Gesù Cristo; felici di sentirsi stretti per lui, coi loro compagni che li rappresentano, in una pacifica crociata di preghiere e di fioretti spirituali; anelanti di offrirgli quei loro doni, di prepararsi ad essere nel mondo araldi della sua parola e campioni di vita cristiana.
A questi cari fanciulli, speranze Nostre, come sono della famiglia e della società, Noi vogliamo aprire il Nostro cuore, ricolmo di gratitudine e di affetto, ma sopra tutto pieno di quel desiderio che Gesù espresse un giorno, quando, collocato un bambino in mezzo ai suoi discepoli, sentenziò : « Se non diventerete come questo fanciullo, non entrerete nel Regno dei Cieli » (Matth., XVIII, 3). Il bambino è dunque il modello di tutti i seguaci di Cristo; e il desiderio che pungeva il suo cuore divino era che le virtù del fanciullo rimangano nella vita di tutti, indistintamente.
Intendete bene, cari piccoli, voi, come gli altri, diventerete adulti, progredendo a traverso le varie età dell’uomo, negli anni, nella statura, nel sapere : diventerete colti, ciascuno nel campo della sua vocazione, per dare alla società quello che oggi dalla società ricevete : le vostre forze fisiche, le vostre forze intellettuali, l’ingegno con le sue cognizioni e con la sua dottrina, la volontà con le sue iniziative e coi suoi ardimenti. Ebbene, con tutto questo voi non sarete veramente cristiani, se non in quanto farete così vostre le virtù particolarmente proprie dei piccoli, da non lasciarle più nella vita. Voi amerete l’ubbidienza e la disciplina sempre, anche se altri v’insegnerà che l’uomo è padrone assoluto di se stesso. Vi terrete cara la vostra semplicità, anche se vedrete intorno a voi trionfare l’astuzia e l’inganno. Sarete sinceri con tutti, come adesso con la vostra mamma, anche se vedrete onorati i finti e i bugiardi. Manterrete il vostro cuore come oggi, aperto alla compassione, pieno di dolcezza e di amore per tutti, pronto a dimenticare le offese, anche se vi capiterà di sentire che il male si ripaga col male. Sopra tutto custodirete gelosamente la vostra innocenza, anche se intorno a voi vedrete, forse nelle sue più penose manifestazioni, il peccato, e dentro e fuori di voi sentirete dirvi che la felicità dell’uomo sta nel piacere. Ecco come dovete conservarvi sempre simili ai piccoli per entrare nel Regno dei cieli. E così sarete al tempo stesso nella vita terrena uomini schietti, puri, forti, utili a voi stessi, alla famiglia, alla patria : fedeli al dovere, rotti al sacrificio, capaci di tutti gli eroismi. Tali vi vuole Gesù Cristo. E tali voi volete essere, cari fanciulli, come chiaramente lo dice qui la vostra presenza, e lo conferma il vostro amore della dottrina cristiana, i vostri sforzi per segnalarvi nella scienza della Religione, i vostri fioretti spirituali, l’obolo della vostra carità.
Affinché tali rimaniate sempre, degni figli della Chiesa e della società, e regni ognora nel vostro cuore vivace e piena la vostra candida gioia, Noi chiediamo per voi la particolare assistenza dello Spirito di Amore, e con paterno affetto, memori di quel Gesù che vi predilesse e v’impose le mani, nel nome di Lui vi benediciamo con tutti i vostri compagni qui presenti in spirito, con le vostre e con le loro famiglie, e con tutti coloro che si occupano della vostra formazione cristiana — Delegate, Sacerdoti, membri del Consiglio superiore — ai quali Ci è sommamente grato di esprimere qui la Nostra paterna riconoscenza.
Essi compiono in nome di Gesù Cristo una ben alta missione, irta d’incomodi, di rinunzie, di sacrifizi, e perciò non di minor merito innanzi a Dio che quella a cui consacrano la vita le avanguardie del Vangelo, i Missionari propriamente detti. Con questi Noi li associamo volentieri nel ringraziamento e nella preghiera; e siamo ben lieti che il Capitolo Generale dell’Istituto missionario della Consolata Ci offra qui stesso la simpatica opportunità di vedere in presenza l’uno dell’altro come gli Stati maggiori di due eserciti, i quali, ma in così diverso campo e con armi tanto diverse, combattono con lo stesso spirito, nello stesso augusto Nome, la stessa battaglia.
Salutati e incoraggiati gli uni, Ci è caro esprimere agli altri i sensi della Nostra particolare gratitudine e del Nostro affetto. Nel lavoro pazientemente compiuto per dare nuovo impulso alle loro Missioni secondo le moderne esigenze del tempo e dei luoghi, i membri del Capitolo generale della Consolata Ci danno la prova tangibile della non attenuata vitalità del loro Istituto, della sua ferma volontà di adeguare ai bisogni la sua azione, e del controllo sempre vigile che esso intende esercitare su tutte le forme della propria attività, per assicurare a questa, con maggiore aderenza alle direttive superiori, il maggior rendimento. Dando impulso alle sue Missioni, dove è pur così grande il bene che esso ha fin qui realizzato e va realizzando con tanto onore, l’Istituto della Consolata, oltre che rispondere egregiamente ai suoi santi fini, provvede nel miglior modo al suo più sicuro incremento e alla conservazione di quello spirito di apostolato che esso porta con sé fin dalla cuna e nel quale è la certa garanzia della sua ben fondata esistenza, largamente redditizia nel mistico campo del Padre di Famiglia.
Così, mentre vi ringraziamo, diletti Figli, dei rinnovati propositi di lavoro nell’arduo terreno assegnatovi dalla divina Provvidenza, e Ci congratuliamo col vostro Superiore Generale che, riconfermato in carica, riconferma egli stesso la sua intelligente, amorosa, feconda dedizione all’Istituto, a Dio rivolgiamo la lode e il ringraziamento per il gran bene che da voi tutti si compie e si raccoglie nelle regioni dove le campagne già biancheggiano per la messe (Io., IV, 35) e in quelle dove già miete la falce. Confortati dall’unanime fervore che ha animato il vostro Capitolo generale e dall’esperienza di un passato così produttivo, Noi abbiamo ragione di aspettarCi moltissimo dalla vostra attività a servizio della Chiesa e delle anime. Per essa Ci è grato formare oggi tutti i Nostri voti, chiedendo a Dio che accresca il vostro numero, ma più ancora mantenga integro e puro il vostro spirito; vi dia a tutti un’alta coscienza della vostra sublime vocazione, faccia fiorire in mezzo a voi, a edificazione degli uomini e a gloria di Dio, nelle anime le più belle virtù del Vangelo.
Con questi sentimenti salutiamo il nuovo periodo di lavoro che si apre dinanzi pieno di speranze e di promesse; e nella ferma fiducia che, sotto l’egida della Madre di Dio, da voi teneramente onorata e fatta onorare, tutte le vostre opere continueranno a prosperare e la vostra Famiglia religiosa a santificarsi nel bene, v’impartiamo a tutti, ma con particolare affetto, ai vostri degni e valorosi Vescovi e Prefetti Apostolici qui presenti, al Vostro Superiore Generale, ai vostri confratelli vicini e lontani, a quanti sopra tutto consacrano generosamente nelle Missioni estere le forze e la vita, la paterna propiziatrice Apostolica Benedizione.
Ma ad una terza e speciale classe di missionari, condotti qui dalla amabile Provvidenza, è dovuta altresì la Nostra Benedizione. Sono gli araldi del Vangelo in quello dei suoi settori che tanto meritò le raccomandazioni del divino Maestro : il settore della misericordia corporale (Matth., XXV, 31 e segg.). Colui che in linea di carità fraterna garantì la ricompensa perfino al bicchiere d’acqua fresca dato in suo nome (Matth., X, 42), con la esaltazione delle opere di misericordia conchiuse la sua predicazione propriamente detta (Matth., XXVI, 1), e della assistenza agli infermi fece una delle note discriminatrici della ammissione nel Regno eterno. « Fui infermo — dirà Egli un giorno agli eletti — e veniste a visitarmi ». Leggendo le quali parole non si può non restar commossi — teneramente commossi — al pensiero che nella persona dell’infermo è. Egli stesso, Gesù, il quale riceve dai fratelli il beneficio dell’assistenza, ne tiene nota, e la ricorda per regolare munificamente ogni conto l’ultimo giorno.
Di tutti questi singolari messaggeri della Buona Novella abbiamo qui, rappresentanti autorevoli, le Direttrici di tutte le Scuole-Convitto professionali per infermiere, venute da ogni parte d’Italia per adunanze di carattere tecnico-organizzativo. Sotto le divise sacre o laiche, queste valorose Donne confermano qui l’alta coscienza caritatevole e religiosa a cui intendono ispirarsi nell’esercizio dei loro pietosi doveri.
In perfetta armonia anche in ciò con le particolari direttive della Autorità da cui dipendono, sotto la presidenza di quella augusta e benefica Dama che è S. A. R. la Principessa di Piemonte, esse vogliono fare della loro assistenza agli infermi opera di carità cristiana. Animate cioè dalla Fede in Gesù Cristo e membri vivi del Suo mistico corpo, esse vogliono unire all’azione il sentimento, alla prestazione materiale la compassione fraterna; e sforzandosi di applicare alla loro nobilissima professione i principi cristiani, vogliono essere in tutto degne della divina missione a cui è elevata nel Vangelo l’assistenza ai minimi di Gesù Cristo. A spiriti così compresi non è difficile ricordare la loro dignità e la loro responsabilità. Voi — diciamo volentieri a codeste dilette figlie, presenti e lontane — voi siete le pietose soccorritrici di Cristo nelle sue mistiche membra. Infermo, Egli è affidato alle vostre mani materne, alla vostra femminile delicatezza, alla vostra pietà intelligente, alla vostra felice intuizione dei bisogni di ciascun male, al vostro cuore, che sa e indovina come soffre nell’anima chi langue nel corpo. Poiché Gesù è in ciascun infermo, anche malvagio, anche ignaro di Lui, voi sarete per Lui quello che furono la buona Marta ospitale, la pietosa Veronica, le pie donne di Gerusalemme. Quello che non vi è dato di fare per Gesù nei mistici incontri con Lui nella Santa Comunione, vi è dato di farlo nelle corsie dei vostri ospedali, nelle raccolte camere delle vostre cliniche. Le ore del vostro servizio sono le migliori ore vissute della vostra fede e della vostra pietà; ed è proprio lì, nell’umile dedizione, negli incomodi e nei sacrifizi che questo servizio porta con sé, è lì che voi, Religiose, potete misurare il vostro zelo per la perfezione evangelica, e voi, laiche, il livello della vostra vita religiosa, la sincerità della vostra vita cristiana. «Agnosce, christiane, dignitatem tuam» diremo specialmente a voi, con S. Leone Magno: sappiate riconoscere l’onore che vi è fatto, il singolare sacerdozio a cui la vostra professione d’infermiere v’innalza.
E sappiate riconoscere altresì la vostra responsabilità al cospetto del mondo.
Poiché nelle opere di misericordia è l’essenza stessa del Vangelo (e la prova è nelle parole stesse di Cristo giudice, che non ammetterà nel Regno eterno se non chi ebbe della misericordia il culto pratico), voi, come tutti coloro che più direttamente sono chiamati a sollevare gli afflitti nel corpo e nello spirito, siete le pagine viventi di questo gran Libro divino, destinate cioè a mostrare al mondo che il messaggio di Gesù Cristo non è lettera morta, ma sostanza di vita, sempre attuabile e sempre attuata; ed è rivolta a convertire il mondo dall’egoismo all’amore e a dare — non soltanto a promettere — quel sollievo e quella pace di cui Gesù ha detto: « Venite da me voi tutti che siete travagliati e oppressi da pesi ed io vi ristorerò . . . e troverete pace alle anime vostre ».
Non esitiamo a dirlo : vera, vivente, quotidiana apologia del Vangelo siete voi, o dilette infermiere cattoliche, agli occhi del mondo, che questo Vangelo vorrebbe talvolta mettere fuori della realtà, tra i sogni generosi e le generose utopie. E voi, spose di Cristo, che col vostro abito invitate il mondo a guardare come si attua l’insegnamento di Gesù; dovete sentire pungente questa grande responsabilità; con la vostra dolcezza imperturbabile, con la vostra eroica pazienza, col vostro silenzioso lavoro, volete piegare tutti a riconoscere, segretamente se non sempre palesemente, la verità, la bontà, la bellezza della nostra professione cristiana.
Vi conceda a tutte il Signore di sentire sempre così — altamente, cristianamente — la vostra missione.
E mentre a questo fine salgono a Dio dall’intimo del cuore i Nostri voti, a voi tutte quante siete qui presenti, e alle vostre colleghe di ogni regione, dalle dirigenti alle più umili, impartiamo con animo grato e fiducioso l’Apostolica Benedizione.

Fonte: Riscossa cristiana, 24.1.2016

Bigiottismi del laicismo, corruzione e pseudo diritti, pazzia in aforismi di Chesterton, Gomez Davila e S. Antonio abate


Il culto autentico a Dio

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Come rendere il culto autentico a Dio?
Ce lo spiega in una pagina magisteriale l’allora card. Ratzinger.
Nella festa della Conversione di san Paolo Apostolo, rilancio questo contributo.



Battesimo di Paolo, 1140-70, cappella Palatina, Palermo


Giorgio Vasari, S. Paolo condotto da S. Anania, 1550 circa, Cappella Ciocchi del Monte, Chiesa di S. Pietro in Montorio, Roma

Maestro anonimo, Conversione di S. Paolo, XVI sec., National Gallery, Londra

Karel Dujardin, La conversione di S. Paolo, 1662, National Gallery, Londra

Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, Conversione di S. Paolo, XVII sec., Chiesa di S. Paolo, Fiastra

Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Conversione di S. Paolo, XVII sec., Chiesa di S. Giovanni Battista, Torno

Sebastiano Taricco, S. Anania ridona la vista a S. Paolo, XVII sec.

Jacopo Palma il Giovane, Conversione di S. Paolo, 1590-95, museo del Prado, Madrid


Bartolomé Esteban Murillo, Conversione di S. Paolo, 1675-82, museo del Prado, Madrid

Il culto autentico a Dio

di Joseph Ratzinger

«L’uomo non può «farsi» da sè il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra: Quando Mosè dice al faraone: «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore» (Es 10,26), nelle sue parole emerge di fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie. Se Dio non si mostra, l’uomo, sulla base di quell’intuizione di Dio che è iscritta nel suo intimo, può certamente costruire degli altari al «Dio ignoto» (cfr. At 17,23); può protendersi con il pensiero verso di lui, cercarlo procedendo a tastoni.
Ma la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. Essa implica una qualche forma di istituzione. Essa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra creatività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice autoconferma.
Essa presuppone qualcosa che stia concretamente di fronte, che si mostri a noi e indichi così la via alla nostra esistenza.
Di questa non arbitrarietà nel culto vi sono nell’Antico Testamento numerose e impressionanti testimonianze, In nessun altro passo, però, questo tema si manifesta con tanta drammaticità come nell’episodio del vitello d’oro (o meglio, del torello).
Questo culto, guidato dal sommo sacerdote Aronne, non doveva affatto servire un idolo pagano. L’apostasia è più sottile. Essa non passa apertamente da Dio all’idolo, ma resta apparentemente presso lo stesso Dio: si vuole onorare il Dio che ha condotto Israele fuori dall’Egitto e si crede di poter rappresentare in modo appropriato la sua misteriosa potenza nell’immagine del torello.
In apparenza tutto è in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una caduta nell’idolatria. Due cose portano a questo cedimento, inizialmente appena percettibile. Da una parte la violazione del divieto delle immagini: non si riesce a mantenere al fedeltà al Dio invisibile, lontano e misterioso.
Lo si fa scendere al proprio livello, riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità. In tal modo il culto non è più un salire verso di lui, ma un abbassamento di Dio alle nostre dimensioni. Egli deve essere lì dove c’è bisogno di Lui e deve essere così come si ha bisogno di Lui.
L’uomo si serve di Dio secondo il proprio bisogno e così si pone in realtà al di sopra di lui. Con ciò si è già accennato alla seconda cosa: si tratta di un culto fatto di propria autorità. Se Mosè rimane assente a lungo e Dio diventa quindi inaccessibile, allora lo si porta al proprio livello. Questo culto diventa così una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa.
Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira intorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi. La danza intorno al vitello d’oro è l’immagine di questo culto che cerca se stesso, che diventa una sorta di banale autosoddisfacimento.
La storia del vitello d’oro è un monito contro un culto realizzato a propria misura e alla ricerca di se stessi, in cui in definitiva non è più in gioco Dio, ma la costituzione, di propria iniziativa, di un piccolo mondo alternativo. Allora la liturgia diventa davvero un gioco vuoto. O, ancora peggio, un abbandono del Dio vivente camuffato sotto un manto di sacralità.
Ma alla fine resta anche la frustrazione, il senso di vuoto. Non c’è più quell’esperienza di liberazione che ha luogo lì dove avviene un vero incontro con il Dio vivente»
Da Joseph Ratzinger, “Introduzione allo spirito della liturgia”, San Paolo 2001

Fonte: Il Timone

San Pietro Canisio: preghiera per conservare la vera fede

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Abbiamo appreso quest’oggi, non senza dolore frammisto a stupore, che il 30 ottobre prossimo inizierà anche per Roma la commemorazione del cinquecentesimo anniversario della c.d. riforma protestante (il 31 ottobre 1517 l’eresiarca apostata sacrilego e spergiuro Martin Lutero pubblicò le sue famose 95 Tesi alle porte della chiesa di Wittenberg, dando avvio a quel processo irreversibile che fu all’origine della scristianizzazione del Vecchio Continente e la causa della perdita dell’eterna salvezza per molte anime) (cfr. il Comunicato ufficiale della Sala Stampa Vaticana; v. anche qui).



I cattolici, che non hanno nulla da celebrare, se non la luttuosità dell’evento, non possono far altro, in questa temperie, la quale non ha risparmiato l’Urbe, la cui fede fu consacrata dal sangue di innumerevoli martiri, non possono far altro che pregare l’Altissimo, con questa nota preghiera del Dottore della Chiesa S. Pietro Canisio – il quale tanto lottò contro le dottrine riformiste – affinché almeno in loro rimanga e si conservi la vera fede.

San Pietro Canisio: preghiera per conservare la vera fede

In questo momento di confusione, riportiamo il testo della Preghiera per conservare la vera Fede scritta da san Pietro Canisio S. J. (1521-1597), olandese e primo gesuita della provincia germanica, nonché proclamato Dottore della Chiesa da Pio XI nel 1925.

Professo davanti a Voi la mia fede. Padre e Signore del Cielo e della terra, mio Creatore e Redentore, mia forza e mia salvezza, che fin dai miei più teneri anni non avete cessato di nutrirmi col sacro pane della vostra Parola e di confortare il mio cuore. Affinché non vagassi errando con le pecore traviate che sono senza Pastore. Voi mi raccoglieste nel seno della vostra Chiesa; raccolto, mi educaste; educato, mi conservaste insegnandomi con la voce di quei Pastori nei quali volete essere ascoltato e ubbidito, come di persona, dai vostri fedeli.
Confesso ad alta voce per la mia salvezza tutto quello che i cattolici hanno sempre a buon diritto creduto nel loro cuore. Ho in abominio Lutero, detesto Calvino, maledico tutti gli eretici; non voglio avere nulla in comune con loro, perché non parlano né sentono rettamente, e non posseggono la sola regola della vera Fede propostaci dall’unica, santa, cattolica, apostolica e romana Chiesa. Mi unisco invece nella comunione, abbraccio la fede, seguo la religione e approvo la dottrina di quelli che ascoltano e seguono Cristo, non soltanto quando insegna nelle Scritture ma anche quando giudica per bocca dei Concilii ecumenici e definisce per bocca della Cattedra di Pietro, testificandola con l’autorità dei Padri. Mi professo inoltre figlio di quella Chiesa romana che gli empii bestemmiatori disprezzano, perseguitano e abominano come se fosse anticristiana; non mi allontano in nessun punto dalla sua autorità, né rifiuto di dare la vita e versare il sangue in sua difesa, e credo che i meriti di Cristo possano procurare la mia o l’altrui salvezza solo nell’unità di questa stessa Chiesa.
Professo con franchezza, con san Girolamo, di essere unito con chi è unito alla Cattedra di Pietro e protesto, con sant’Ambrogio, di seguire in ogni cosa quella Chiesa romana che riconosco rispettosamente, con san Cipriano, come radice e madre della Chiesa universale. Mi affido a questa Fede e dottrina che da fanciullo ho imparato, da giovane ho confermato, da adulto ho insegnato e che finora, col mio debole potere, ho difeso. A far questa professione non mi spinge altro motivo che la gloria e l’onore di Dio, la coscienza della verità, l’autorità delle Sacre Scritture canoniche, il sentimento e il consenso dei Padri della Chiesa, la testimonianza della Fede che debbo dare ai miei fratelli e infine l’eterna salvezza che aspetto in Cielo e la beatitudine promessa ai veri fedeli.
Se accadrà che a causa di questa mia professione io venga disprezzato, maltrattato e perseguitato, lo considererò come una straordinaria grazia e favore, perché ciò significherà che Voi, mio Dio, mi date occasione di soffrire per la giustizia e perché non volete che mi siano benevoli quelle persone che, come aperti nemici della Chiesa e della verità cattolica, non possono essere vostri amici. Tuttavia perdonate loro, Signore, poiché, o perché istigati dal demonio e accecati dal luccichio di una falsa dottrina, non sanno quello che fanno, o non vogliono saperlo.
Concedetemi comunque questa grazia, che in vita e in morte io renda sempre un’autorevole testimonianza della sincerità e fedeltà che debbo a Voi, alla Chiesa e alla verità, che non mi allontani mai dal vostro santo amore e che io sia in comunione con quelli che vi temono e che custodiscono i vostri precetti nella santa romana Chiesa, al cui giudizio con animo pronto e rispettoso sottometto me stesso e tutte le mie opere. Tutti i santi che, o trionfanti nel Cielo o militanti in terra, sono indissolubilmente uniti col vincolo della pace nella Chiesa cattolica, esaltino la vostra immensa bontà e preghino per me. Voi siete il principio e il fine di tutti i miei beni; a Voi sia in tutto e per tutto lode, onore e gloria sempiterna.

Fonte: Corrispondenza romana, 13.1.2016

“Hic propter quasdam super die Paschæ quæstiónes, sub imperatóre Antoníno Pio, Ecclésiam in Urbe regénte Anicéto, Romam venit; ubi plúrimos credéntium, Marciónis et Valentíni persuasióne decéptos, redúxit ad fidem. Cumque ei fortúito óbviam fuísset Márcion et díceret: Cognóscis nos? respóndit: Cognósco primogénitum diáboli” (Ex libro sancti Hierónymi Presbyteri de Scriptóribus ecclesiásticis – Lect. IV – II Noct.) - SANCTI POLYCARPI SMYRNÆORUM EPISCOPI ET MARTYRIS

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La memoria di questo insigne Padre della Chiesa nascente, che non esitava – con autentico spirito cattolico, contrariamente all’odierna condizione della Chiesa – a definire l’eretico Marcione come «primogenito del diavolo», ricade pur’essa molto opportunamente durante il ciclo di Natale, in cui sembra che i più illustri difensori del dogma cristiano si siano dati appuntamento attorno alla mangiatoia del Bambino Gesù. La Chiesa di Roma non poteva, d’altronde, omettere nel suo calendario la festa di san Policarpo. D’altro canto, essa l’aveva accolto come pellegrino, ai tempi del papa Aniceto, quando era venuto sulle rive del Tevere per la controversia relativa alla data di Pasqua. In quell’occasione, il Pontefice, volendo onorare degnamente il venerabile discepolo dell’Evangelista Giovanni, gli aveva ceduto l’onore di celebrare al suo posto la sinassi eucaristica.
Roma cristiana ha dedicato a questo santo una chiesa nel quartiere Appio Claudio negli anni ‘60 del XX sec.
Policarpo soffrì il martirio nell’anfiteatro di Smirne verso l’anno 155 o 156, il 23 febbraio, come attesta la Lettera ai Cristiani di Smirne relativa al suo martirio, ma la sua memoria, nel martirologio romano, si festeggia oggi, perché è anche la data indicata nel Geronimiano ed in cui è stato iscritto da Beda nel suo martirologio.
La sua festa si diffuse nell’Occidente in questa data a partire dall’XI sec. Ma essa era già celebrata nell’Alvernia (Auvergne) nel VI sec., come attesta Gregorio di Tours. In Oriente, invece, si festeggia il 23 febbraio.
Comunque, la festa odierna si incontra nel calendario romano che alla fine del XIII sec. Festa doppia. Di III classe dal 1960.
La messa è quella del Comune dei vescovi martiri, come per il giorno di sant’Eusebio, il 16 dicembre. Tuttavia siccome si tratta di un discepolo di san Giovanni Evangelista, la prima lettura è presa in prestito dall’epistola dal suo Maestro (1 Gv. 3, 10-16), laddove l’apostolo della santa dilezione tratta dell’amore fraterno, che deve modellarsi su quello che ci ha portato il Signore. Dio è amore, ed è per questo che colui che ama dimora in Dio, e Dio rimane in lui. Al contrario il demonio è odio, e per questo odia Dio, odia se stesso, odia tutto e tutti. “Io sono quell’infelice che non ama”, disse un giorno il diavolo a santa Caterina da Siena. Guardiamoci con orrore, dunque, dal nutrire nei nostri cuori dei sentimenti disordinati di rancore, di invidia, di odio, tutto quello che, insomma, è contrario alla dolce dilezione cristiana, poiché tutti questi movimenti vengono dello maligno, come quelli di Caino.
Il Vangelo di questo giorno è lo stesso della festa di san Saturnino, il 29 novembre.
Il più bell’elogio che si possa fare di san Policarpo è contenuto nelle grida del popolo di Smirne sollevatosi contro di lui nell’anfiteatro: «Οτςστιντςσαςδιδσκαλος, πατρτνΧριστιανν, τνμετρωνθενκαθαιρτης»; «Hic impietatis est præceptor, pater Christianorum, deorum nostrorum eversor»; «Questi è il maestro di tutta l’Asia, il padre dei cristiani e lo sterminatore dei nostri dei!» (Chiesa di Smirne (Pionio), Martyrio Sancti Polycarpi. Epistola circularis, cap. XII, 2, in PG 5, col. 1037B-1038B; oggi anche in Calogero Allegro (a cura di), Martirio di Policarpo, Passione di Perpetua e Felicita, con sermoni di Agostino, Roma 2001, p. 29; in Giuliana Caldarelli (a cura di), Atti dei martiri2, Milano 1985, rist. 1996, p. 109 (sebbene l’autrice lo indichi al cap. XI); nonchéin A.A.R. Bastiaesen; A. Hilhorst; G.A.A. Kortekaas; A.P. Orbán; M. M Van Assendelf, Atti e Passioni dei martiri7, Rocca San Casciano 2007, p. 19). Senza Dio noi non possiamo fare nulla; ma un’anima vuota di se stessa e che si presta docilmente alla mozione intima dello Spirito Santo, è capace di convertire e di santificare il mondo tutto intero.
Concludiamo con questa bella preghiera, recitata dal Santo Vescovo di Smirne mentre era sul rogo in attesa che le fiamme lo lambissero: « Signore Dio onnipotente, Padre del diletto e benedetto Figlio Tuo Gesù Cristo, grazie al quale Ti abbiamo conosciuto, Dio degli angeli e delle potenze celesti, di tutta la creazione e di tutta la stirpe di giusti che vivono al tuo cospetto. Io Ti benedico perché mi hai giudicato degno di questo giorno e di questa ora, e di avere parte al numero dei martiri, del Calice del tuo Cristo, per la risurrezione della vita eterna dell’anime e del corpo nell’incorrutibilità dello Spirito Santo. Tra loro possa io oggi essere accolto al Tuo cospetto, come sacrificio pingue e accetto, secondo quanto hai preparato, rivelato e realizzato, Dio vero e che non inganna. Per tutto questo Ti lodo, Ti benedico, Ti glorifico, per Gesù Cristo Sacerdote eterno e celeste, Tuo diletto Figlio, per il quale a Te con Lui e con lo Spirito Santo sia gloria, ora e per i secoli venturi. Amen» (Chiesa di Smirne (Pionio), op. cit., cap. XIV, in PG 5, col. 1039B-1040B; oggi anche oggi anche in Calogero Allegro (a cura di), op. cit., p. 31; in Giuliana Caldarelli (a cura di), op. cit., p. 110 (sebbene ne riporti una traduzione un po’ diversa e la registri al cap. XII e non al XIV); nonchéin A.A.R. Bastiaesen; A. Hilhorst; G.A.A. Kortekaas; A.P. Orbán; M. M Van Assendelf, op. cit., p. 23).

Άγιος Πολύκαρπος Επίσκοπος Σμύρνης



SS. Demetrio, Policarpo, Vincenzo di Saragozza, Pancrazio di Roma e Crisogono, mosaico, 526 circa, Chiesa di S. Apollinare Nuovo, Ravenna

Icona dei SS. Pafnuzio, Ireneo e Policarpo, XX sec.

Jan van Haelbeck, S. Policarpo sul rogo, In medio ignis, in Id., Ecclesiae Militantis Triumphi, 1600-20, British Museum, Londra 


Miracolosa estinzione del fuoco nella città di Smirne, chiesa di S. Policarpo, Smirne (Izmir)

Buonismo, cristiani e crociate in un aforisma di Mons. Luigi Negri

Riflessione sulla Domenica di Settuagesima

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Domenica scorsa è iniziato il periodo di Settuagesima, che ci prepara alla Quaresima ed alla Pasqua del Signore.
Per approfondire il significato di questo periodo, rilanciamo nell’odierna festa dell’invitto campione della verità S. Giovanni Crisostomo questo contributo tratto da Chiesa e postconcilio. Per una riflessione in inglese su questo tempo, v. l’immancabile Rorate caeli.

Icona di S. Giovanni Crisostomo con scene della sua vita


Icona di S. Giovanni Crisostomo

Ο Άγιος Ιωάννης ο Χρυσόστομος

Icona di S. Paolo che ispira a S. Giovanni Crisostomo l'interpretazione delle sue lettere, XXI sec.

Kelli Rodostolou, Icona di S. Paolo che ispira S. Giovanni Crisostomo l'interpretazione delle sue lettere, XXI sec.




Scuola del Carracci, S. Giovanni Crisostomo, XVII sec., museo diocesano, Bologna

Mattia Preti, Il perdono di S. Giovanni Crisostomo, 1640 circa, Cincinnati Art Museum, Cincinnati

Ambito lombardo, S. Paolo ispira S. Giovanni Crisostomo, XVIII sec., museo diocesano, Bergamo

La domenica di Septuagesima

La Domenica di Septuagesima, nel Rito Romano Antiquior è celebrata nel 64° giorno prima di Pasqua e segna l’inizio di un tempo di preparazione alla Quaresima.
Il Tempo di Settuagesima abbraccia la durata delle tre settimane che precedono immediatamente la Quaresima e costituisce una delle parti principali dell’Anno Liturgico. È suddiviso in tre sezioni ebdomadarie, di cui solamente la prima porta il nome di Settuagesima; la seconda si chiama Sessagesima; la terza Quinquagesima. È chiaro che questi nomi esprimono una relazione numerica come la parola Quadragesima, donde deriva la parola Quaresima. La parola Quadragesima sta ad indicare la serie dei quaranta giorni che dobbiamo attraversare per arrivare alla festa di Pasqua. Le parole Quinquagesima, Sessagesima e Settuagesima ci fanno quasi vedere tale solennità in un lontano ancora più prolungato; però non è meno importante il grande oggetto che comincia ad assillare la santa Chiesa, la quale lo propone ai suoi figli quale mèta verso cui devono ormai tendere tutti i loro desideri e tutti i loro sforzi (dom Prosper Guéranger. L’Anno Liturgico).
Il breve articolo che segue ci mostra come il gregoriano, “canto della Chiesa” è realmente incarnazione sonora della Parola di Dio, suono dell’Invisibile, epifania sonora del Verbo, splendida preziosa veste di una liturgia insostituibile, che modella sulla stessa melodia alcuni tratti significativi dei cantici della penitenza e dell’attesa con quelli della gioia pasquale. Così come arricchisce di sonore correlazioni parti diverse che si richiamano e arricchiscono vicendevolmente nel corso dell’intero Anno Liturgico. Esempio fra tanti: esiste un fil rouge che collega tra loro i brani di ispirazione battesimale [Se ne può cogliere un assaggio quiProspettiva battesimale della Quaresima e della Pasqua nella liturgia romana].
All’apparenza semplici sfumature, ma in realtà frutto di profondità spirituali inesorabilmente perdute nel Novus riformatore. (M.G.)


La domenica di Septuagesima

di Mattia Rossi

San Pio X, nel suo Catechismo Maggiore, trattando delle domeniche di settuagesima, sessagesima e quinquagesima, precisa: “La Chiesa dalla domenica di settuagesima fino al sabato santo tralascia nei divini uffici l’Alleluia, che è voce di allegrezza, ed usa paramenti di color violaceo, che è color di mestizia, per allontanare con questi segni di tristezza i fedeli dalle vane allegrezze del mondo ed insinuare ad essi lo spirito di penitenza”.
E questo è immediatamente percepibile dall’introito di settuagesima: “Circumdederunt me gemitus mortis, dolores inferni circumdederunt me: et in tribulatione mea invocavi Dominum, et exaudivit de templo sancto suo vocem meam” (Mi circondano gemiti di morte e i dolori dell’inferno, in mezzo alla tribolazione ho invocato il Signore ed Egli, dal suo tempio santo, ha esaudito la mia preghiera).
Non passa, né potrebbe passare, inosservato il pesante allargamento iniziale su “gemitus” (pes quadrato + bivirga episemata). Ma nemmeno sfugge la correlazione che questa prima domenica penitenziale ha con la quaresima e, in particolare, con l’introito della III che, oltre a un medesimo impianto musicale, con il testo dell’introito di settuagesima, fa quasi a specchio: “Oculi mei semper ad Dominum quia ipset evellet de laqueo pedes meo: respice in me, et miserere mei, quoniam unicus et pauper sum ego”.
Come ben insegna sempre Pio X, poi, dalla settuagesima l’Alleluia viene sostituito dal Tractus. E in questa prima domenica, in questo inizio di cammino che condurrà alla Passione, ma anche alla Risurrezione, oltre ai richiami quaresimali, troviamo anche il rimando alla Pasqua.
Il tratto, appunto, con un testo fortemente drammatico come il “De profundis”, è modellato sulla stessa melodia dei cantici (tratti) della Veglia pasquale. Nell’inizio della penitenza è già racchiuso, quasi in guisa di assaggio, il gusto melodico proprio della Pasqua. [Fonte]

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