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La penitenza chiesta dal Cielo e odiata dal mondo

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Nella festa di S. Francesco di Sales, vescovo, confessore e Dottore della Chiesa, rilancio questo contributo del prof. De Mattei, tradotto in inglese da Rorate caeli.





Lazzaro Baldi, Predica di S. Francesco di Sales, XVII sec., collezione privata

Carlo Maratta, S. Francesco di Sales in meditazione, 1662 circa




Carlo Maratta, La Vergine appare a S. Francesco di Sales, 1691 circa, Pinacoteca civica, Bassano del Grappa

Ubaldo Gandolfi, S. Francesco di Sales consegna le costituzioni a S. Francesca di Chantal, 1769, Chiesa di S. Benedetto, Bologna

Scuola pratese, S. Francesco di Sales, XVIII sec., museo diocesano, Prato

Valentin Metzinger, S. Francesco di Sales riceve i voti di S. Giovanna Francesca di Chantal, 1753, Narodna Galerija, Lubiana

Valentin Metzinger, S. Francesco di Sales in polemica con un calvinista, 1753-55, Narodna Galerija, Lubiana

Valentin Metzinger, Visione di S. Francesco di Sales, 1753, Narodna Galerija, Lubiana

Ambito campano, S. Francesco di Sales, XVIII-XIX sec., museo diocesano, Napoli



Anonimo, S. Francesco di Sales consegna la Regola a S. Francesca de Chantal, XIX sec., Chiesa della Visitazione, Parigi

Enrico Reffo, S. Francesco mentre scrive ispirato, 1896






Giovanni Marchiori, Immacolata tra i SS. Francesco di sales e Giovanni Nepomuceno, Chiesa dei SS. Geremia e Lucia, Venezia

La penitenza chiesta dal Cielo e odiata dal mondo

di Roberto de Mattei

Se c’è un concetto radicalmente estraneo alla mentalità contemporanea è quello di penitenza. Il termine e la nozione di penitenza evocano l’idea di una sofferenza che infliggiamo a noi stessi per espiare colpe proprie o altrui e per unirci ai meriti della Passione redentrice di Nostro Signore Gesù Cristo.
Il mondo moderno rifiuta il concetto di penitenza perché è immerso nell’edonismo e perché professa il relativismo che è la negazione di qualsiasi bene per il quale valga la pena di sacrificarsi, a meno che non sia la ricerca del piacere. Solo questo può spiegare episodi come il furibondo attacco mediatico in corso contro le Francescane dell’Immacolata, i cui monasteri vengono dipinti come luoghi di sevizie, solo perché in essi si è praticata una vita austera e penitente.
Usare il cilicio o imprimere sul proprio petto il monogramma del nome di Gesù viene considerato una barbarie, mentre praticare il sadomasochismo o tatuare indelebilmente il proprio corpo è oggi considerato un diritto inalienabile della persona. I nemici della Chiesa ripetono con tutta la forza di cui i media sono capaci le accuse degli anticlericali di tutti i tempi. Ciò che è nuovo è l’atteggiamento di quelle autorità ecclesiastiche che invece di prendere le difese delle suore diffamate, le abbandonano, con segreto compiacimento, al carnefice mediatico. Il compiacimento nasce dall’incompatibilità che esiste tra le regole a cui queste religiose si ostinano ad uniformarsi e i nuovi standard imposti dal “cattolicesimo adulto”.
Lo spirito di penitenza appartiene, fin dalle origini alla Chiesa cattolica, come ci ricordano le figure di san Giovanni Battista e santa Maria Maddalena, ma oggi anche per molti uomini di Chiesa ogni richiamo alle antiche pratiche ascetiche è considerato intollerabile. Eppure non v’è dottrina più ragionevole di quella che stabilisce la necessità della mortificazione della carne.
Se il corpo è in rivolta contro lo spirito (Gal 5, 16-25), non è forse ragionevole e prudente castigarlo? Nessun uomo è esente dal peccato, neppure i “cristiani adulti”. Dunque chi espia i propri peccati con la penitenza non agisce forse secondo un principio tanto logico quanto salutare? Le penitenze mortificano l’Io, piegano la natura ribelle, riparano ed espiano i peccati propri ed altrui. Se poi consideriamo le anime amanti di Dio, che cercano la somiglianza con il Crocifisso, allora la penitenza diviene una necessità dell’amore.
Sono celebri le pagine del De Laude flagellorum di san Pier Damiani, il grande riformatore dell’XI secolo, il cui monastero di Fonte Avellana era caratterizzato da un’estrema austerità nelle regole. «Vorrei subire il martirio per Cristo – egli scriveva – non ne ho l’occasione; ma sottoponendomi ai colpi, almeno manifesto la volontà della mia anima ardente» (Epistola VI, 27, 416 c.). Ogni riforma, nella storia della Chiesa, è avvenuta con l’intento di riparare con le austerità e le penitenze i mali del tempo.
Nel XVI e XVII secolo, i Minimi di san Francesco di Paola praticano (e praticheranno fino al 1975) un voto di vita quaresimale che impone loro l’astensione perpetua non solo di carne, ma di uova, latte e tutti i suoi derivati; i Recolletti consumano il proprio pasto in terra, mescolano cenere ai cibi, si allungano davanti alla porta del Refettorio sotto i piedi dei Religiosi che entrano; i Fatebenefratelli prevedono nelle loro costituzioni di «mangiare in terra, baciare i piedi dei fratelli, subire riprensioni pubbliche e accusarsi pubblicamente».
Analoghe sono le Regole dei Barnabiti, degli Scolopi, dell’Oratorio di san Filippo Neri, dei Teatini. Non c’è istituto religioso, come documenta Lukas Holste, che non preveda nelle proprie costituzioni, la prassi del capitolo delle colpe, la disciplina più volte la settimana, i digiuni, la diminuzione delle ore di sonno e di riposo (Codex regularum monasticarum et canonicarum, (1759) Akademische Druck und Verlaganstalt, Graz 1958).
A queste penitenze “di regola”, i religiosi più ferventi aggiungevano le cosiddette penitenze “supererogatorie”, lasciate alla discrezione personale. Sant’Alberto di Gerusalemme, ad esempio, nella Regola scritta per i Carmelitani e confermata da papa Onorio III nel 1226, dopo aver descritto il genere di vita dell’Ordine e le relative penitenze da praticare, conclude: «Se qualcuno poi vorrà dare di più, il Signore stesso al suo ritorno lo ricompenserà».
Benedetto XIV, che era un Papa mite ed equilibrato, affidò la preparazione del Giubileo del 1750 a due grandi penitenti san Leonardo da Porto Maurizio e san Paolo della Croce. Fra Diego da Firenze, ci ha lasciato un diario della missione tenuta in piazza Navona dal 13 al 25 luglio 1759 da san Leonardo da Porto Maurizio, che con una pesante catena al collo e una corona di spine in capo si flagellava davanti alla folla gridando: «O penitenza o inferno» (San Leonardo da Porto Maurizio, Opere complete. Diario di Fra Diego, Venezia 1868, vol. V, p. 249).
San Paolo della Croce, terminava la sua predicazione infliggendosi dei colpi così violenti che spesso qualche fedele non resisteva più allo spettacolo e saltava sul palco, a rischio di essere colpito egli stesso, per arrestargli il braccio (I processi di beatificazione di canonizzazione di san Paolo della Croce, Postulazione generale dei PP. Passionisti, I, Roma 1969, p. 493).
La penitenza è stata praticata ininterrottamente per duemila anni dai santi (canonizzati e non) che – con la loro vita – hanno contribuito a scrivere la storia della Chiesa, da santa Giovanna di Chantal e santa Veronica Giuliana, che si incisero sul petto il Cristogramma con il ferro incandescente, a santa Teresa del Bambin Gesù, che scrive il Credo col suo sangue, alla fine del libriccino dei Santi Vangeli che porta sempre sul cuore.
Questa generosità non caratterizza solo le monache contemplative. Nel Novecento due santi diplomatici illuminano la Curia romana: il cardinale Rafael Merry del Val (1865-1930), segretario di stato di san Pio X e il servo di Dio mons. Giuseppe Canovai (1904-1942), rappresentante della Santa Sede in Argentina e in Cile.
Il primo, indossava sotto la porpora cardinalizia, una camicia di crine intrecciata con piccoli ganci di ferro. Del secondo, autore di una preghiera scritta col sangue, il cardinale Siri scrive: «le catenelle, i cilizi, i flagelli orribili a base di lama da barba, le ferite, le cicatrizzazioni incalzate da supervenienti ferite non sono il principio, ma il termine di un fuoco interiore; non la causa; ma la eloquente e rivelatrice esplosione di esso. Si trattava della chiarezza per cui in sé ed in ogni cosa vedeva un valore per amare Dio e per cui vedeva assicurato nel lancinante sacrificio del sangue la sincerità d’ogni altra interiore rinuncia» (Commemorazione per la Positio di beatificazione del 23 marzo 1951).
Fu negli anni Cinquanta del Novecento che le pratiche ascetiche e spirituali della Chiesa iniziarono a declinare. Il padre Giovanni Battista Janssens, generale della Compagnia di Gesù (1946-1964), intervenne più di una volta, per richiamare i propri confratelli allo spirito di sant’Ignazio. Nel 1952 inviò loro una lettera sulla «continua mortificazione», in cui si opponeva alle posizioni della nouvelle théologie, che tendevano a escludere la penitenza riparatrice e quella impetratoria e scriveva che digiuni, flagelli, cilizi e altre asperità devono restare nascoste agli uomini secondo la norma di Cristo (Mt 6, 16-18), ma devono essere insegnate e inculcate ai giovani gesuiti fino al terzo anno di probazione (Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. VII, col. 472). Possono cambiare, nei secoli, le forme di penitenza, ma non può mutare lo spirito, sempre opposto a quello del mondo. Prevedendo l’apostasia spirituale del secolo XX, la Madonna in persona, a Fatima, richiamò la necessità della penitenza.
La penitenza non è altro che il rifiuto delle false parole del mondo, la lotta contro le potenze delle tenebre, che si contendono con quelle angeliche il dominio delle anime e la mortificazione continua della sensualità e dell’orgoglio radicati nel più profondo del nostro essere.
Solo accettando questo combattimento contro il mondo, il demonio e la carne (Ef 6, 10-12), potremmo comprendere il significato della visione di cui tra un anno celebreremo il centesimo anniversario. I pastorelli di Fatima videro «al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l’Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: PenitenzaPenitenzaPenitenza!».


Chiarimento cattolico sul Family Day ed opposizione senza se e senza ma alle unioni civili

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Come noto, domani 30 gennaio, si svolgerà a Roma la manifestazione delle famiglie contrarie al d.d.l. Cirinnà bis, noto come Family Day.
A questa manifestazione parteciperanno diverse sigle cattoliche, tra le quali anche il popolo del Summorum Pontificum e la stessa Fraternità San Pio X. Tuttavia sebbene sia giusto per un cattolico opporsi all’innovazione legislativa che si vorrebbe introdurre, è forse bene ricordare che quest’opposizione non è soltanto contraria all’introduzione, nell’ordinamento italiano, della c.d. stepchild adoption, bensì è più ampia ed estesa. Bisogna chiarire la questione.
In effetti, per un cattolico, non si tratta di scegliere tra un male maggiore (l’introduzione dell’adozione anche per le coppie omosessuali) ed uno minore (il riconoscimento civile delle unioni civili). Entrambe le ipotesi sono inaccettabili e, come mali, sono da porsi sullo stesso piano. In altre parole, non vi è scelta tra diverse gradazioni di male, bensì di opporsi al male tout court.
Perché? Per il semplice motivo che chi sostiene questo, e cioè “riconoscimento sì, adozione no”, semplicemente ignora o non conosce l’ordinamento italiano. In verità, quella che con termine anglosassone si chiama stepchild adoption (oggi va molto di moda usare termini anglosassoni!), ma che potremmo definire come “adozione del figliastro” o adozione in casi particolari, è già nota dal 1983. La l. 4.5.1983 n. 184 – che regola in Italia l’istituto dell’adozione del minore - permette l'adozione del figlio del coniuge, purché vi sia il consenso del genitore biologico ed a condizione che l'adozione corrisponda all'interesse del figlio (cfr. artt. 44 ss.). È previsto anche il consenso di quest’ultimo qualora abbia già compiuto i 14 anni. Nel caso sia tra i 12 e i 14 anni d'età, il Giudice è tenuto ad ascoltare il minore e tener conto dei suoi desideri ed aspirazioni (art. 45). Dunque, quest’istituto già esiste nel nostro ordinamento. Non è una novità e vale per le coppie coniugate e, dunque, eterosessuali. La proposta Cirinnà, sebbene non etichetti le unioni come “matrimoni” (ma è solo una questione di etichetta!!!), in realtà estende i diritti derivanti dal matrimonio, o almeno molti di questi, anche alle semplici unioni civili, comprese quelle tra persone dello stesso sesso. Pertanto, con la novella che si vorrebbe introdurre de facto i partner sarebbe assimilabili ai coniugi e, dunque, ben potrebbero a loro applicarsi le norme previste dalla legge sull’adozione. La limitazione che si vorrebbe imporre, e cioè quella che solo le unioni eterosessuali possano ricorrere alla stepchild, potrebbe presentare problemi di costituzionalità, in quanto le coppie omosessuali si troverebbero discriminate e, dunque, penalizzate. Il ricorso alla Consulta sarebbe inevitabile, la quale – vista anche la sua attuale composizione a preponderante maggioranza laicista – senz’altro dichiarerebbe l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non permettesse anche alle coppie omosessuali il ricorso all’adozione ex artt. 44 ss. l. 184/1983. Dunque, quest’istituto, escluso dal legislatore, vi rientrerebbe per via giurisprudenziale …. Un po’ come successo per la legge sulla fecondazione artificiale, la l. n. 40/2004, che oggi è stata praticamente scardinata per via di picconate assestate dal Giudice delle leggi e dalla giurisprudenza. Perciò, il problema sarebbe – nel caso dell’esclusione dello stepchild– semplicemente rimandato nel tempo, giammai risolto, e per giunta affidato alla mano dei giudici – costituzionali in primis. Ecco perché non è condivisibile la soluzione “riconoscimento sì, adozione no”, atteso che è sostanzialmente un boomerang, che rischia di far rientrare nel breve-medio periodo ciò che si vorrebbe escludere. Insomma, un’illusione o, se preferiamo, una falsa opposizione.
Un cattolico, perciò, non potrà che esprimere la propria radicale e totale opposizione a questo progetto, ivi incluso, soprattutto, il riconoscimento delle unioni civili (l’adozione ne è una diretta conseguenza!). Peraltro tale riconoscimento “dei diritti” è solo una questione ideologica e formale, visto che la giurisprudenza ha riconosciuto alle unioni civili, c.d. unioni di fatto o more uxorio oggi esistenti, pressoché gli stessi diritti che il d.d.l. Cirinnà bis - nel tempo ci sono state circa cinquanta proposte di legge in tal senso (v. qui) - vorrebbe attribuire o riattribuire (v. qui, qui e qui. Cfr. anche qui e qui, ove si ricorda come taluni diritti dei conviventi semplicemente devono passare attraverso la formalizzazione di appositi contratti o clausole negoziali, il che coerentemente con la natura di fatto dell’unione). A che pro dunque una legge? Al solo scopo di equiparare al matrimonio (che per un cattolico è anche un sacramento) le unioni civili. Una volta riconosciuti i medesimi diritti, verrà meno anche l’etichetta. Questa sarebbe la strada, che si vorrebbe far percorrere all’Italia. Per rendersene conto, basta guardare all’esperienza francese dove, introdotto il PACS nel 1999, dopo una decina d’anni, nel 2013, non si sono avute remore a passare al matrimonio vero e proprio essendosi i francesi abituati all’idea che i pattisti fossero dei veri e propri coniugi con i medesimi diritti derivanti dal matrimonio e che quindi fosse inutile mantenere una distinzione tra etichette. La stessa cosa avverrà in Italia: si inizia con le unioni civili e si finirà ineluttabilmente tra una decina d’anni ad un vero e proprio matrimonio.  Un motivo in più per un cattolico di opporvisi senza compromessi di sorta sulla legge morale, senza se e senza ma, non potendosi accettare alcun accomodamento, che peraltro suonerebbe da presa in giro, come cercato sinteticamente di illustrare.
Ecco perché un cattolico dovrebbe partecipare al Family Day con la puntualizzazione che egli deve dissociarsi anticipatamente da qualsiasi lettura “compromissoria” o “del male minore”, che dovesse darsi dagli organizzatori o dai vescovi (v. qui), e che fosse in contrasto con la legge morale non solo riguardo ai minori, ma anche e soprattutto riguardo al riconoscimento legislativo di siffatte unioni parafamiliari.

Mons. Galantino col ministro Boschi

FAMILY DAY: il “non possumus” del popolo cattolico

di Lupo Glori

Il Family Dayche si terrà a Roma il prossimo sabato 30 gennaio, per protestare contro il ddl Cirinnà, che giovedì 28 gennaio approderà in Aula al Senato per la decisiva discussione generale, sta raccogliendo un numero di adesioni superiore alle aspettative da parte di tutto il mondo, non solo cattolico, schierato a difesa della famiglia.
Nella grande area del Circo Massimo si raduneranno migliaia di associazioni, di gruppi e di famiglie, provenienti da tutta Italia per manifestare la propria ferma opposizione alle unioni civili e all’istituto della cosiddetta stepchild adoption, previsti dal disegno di legge n. 2081, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze. La straordinaria mobilitazione nazionale di questi giorni contro il ddl Cirinnà ha fatto sorgere spontaneo l’inevitabile paragone con il Family Day del 2007, indetto per affossare i cosiddetti DICO e dare una spallata decisiva all’allora governo Prodi.
Tuttavia, le differenze tra ieri ed oggi sono profonde e la manifestazione del prossimo 30 gennaio non sarà una fotocopia di quella del 12 maggio 2007. A distanza di quasi dieci anni i rapporti di forza in campo sembrano infatti essersi clamorosamente capovolti, così che, se nel 2007 era stata la Chiesa, attraverso le sue più autorevoli istituzioni, a chiamare a raccolta il popolo cattolico per scendere in piazza contro un disegno di legge inaccettabile, oggi, i ruoli si sono paradossalmente rovesciati e, dopo le prove generali di piazza San Giovanni del 20 giugno, è lo stesso popolo cattolico a rivolgere un accorato “non possumus” alle gerarchie ecclesiastiche, invitandole a scendere in piazza a loro fianco.
Un evidente e brusco cambio di rotta messo in evidenza da Agostino Giovagnoli suLa Repubblica, il quale ha sottolineato tale inedito movimento dal basso, scrivendo: «Nel 2007, mentre era papa Benedetto XVI, la regia del Family day fu di Camillo Ruini, Presidente della Cei; alle associazioni del laicato cattolico fu imposto di partecipare; oratore di quella giornata fu Savino Pezzotta che era stato relatore ufficiale al Convegno nazionale della Chiesa italiana l’anno prima; l’obiettivo era affossare i Dico. La Chiesa italiana, insomma, scese in campo, serrando le fila, in nome di valori morali non negoziabili ma combattendo una battaglia politica. La manifestazione del prossimo 30 gennaio, invece, non è voluta dalla Cei e su di essa i vescovi hanno espresso opinioni diverse. Le associazioni cattoliche non sono obbligate a partecipare e infatti solo alcune saranno presenti. Realtà ecclesiali come il Movimento dei Focolari hanno espresso perplessità e Comunione e Liberazione non ha preso posizione. L’Associazione Scienza e Vita non aderisce ma alcuni suoi rappresentanti saranno presenti».
Per una giornata, che si preannuncia storica, diverse associazioni metteranno da parte le loro discordanti visioni “strategiche”, circa la linea d’azione da seguire per contrastare l’apparentemente inarrestabile processo rivoluzionario, e scenderanno unite in piazza per far sentire forte la propria voce e affermare il valore fondamentale dell’istituto famigliare naturale fondato sul matrimonio indissolubile tra un uomo ed una donna, nucleo primario di formazione dell’uomo e cellula vitale di ogni società.
Tra coloro che hanno espresso la loro adesione critica al Family Day, segnaliamo alcune associazioni che da sempre si contraddistinguono, nella battaglia culturale in atto, per una difesa ferma ed integrale della verità: l’Associazione Famiglia Domani,Il Cammino dei Tre Sentieri, il Comitato Verità e Vita.
L’ Associazione Famiglia Domani, nel suo comunicato stampa, ha dichiarato la sua adesione al Family Day del 30 gennaio, specificando però come essa non possa prescindere da un NO totale al ddl Cirinnà: «in primo luogo NO alle unioni civili di qualsiasi forma e in secondo luogo NO alla “stepchild adoption”». L’associazione, che ha il suo storico fondatore nel marchese Luigi Coda Nunziante (1930-2015), ha inoltre espresso le proprie perplessità riguardo l’eccessiva concentrazione del dibattito sul ddl Cirinnà attorno al «pur giusto diritto del bambino ad aver una madre ed un padre, oggi minacciato dall’adozione dei minori all’interno delle coppie dello stesso sesso e da istituti differenti quali la stepchild adoption, l’affido “rafforzato” e l’utero in affitto». Una posizione di lotta alquanto discutibile, che «rischia di tacere sull’inaccettabile approvazione delle unioni civili, in qualsiasi modo esse vengano declinate, sia appellandosi ai presunti diritti delle persone omosessuali in quanto tali, sia al falso principio della non-discriminazione». Per queste ragioni, Famiglia Domani «rifiuta in toto il disegno di legge Cirinnà ed afferma con forza come la salvaguardia della famiglia sia inscindibile da una difesa totale ed integrale della verità e dell’ordine naturale e cristiano».
Anche il Cammino dei Tre Sentieri, diretto dal prof. Corrado Gnerre, fornisce alcune doverose indicazioni ai propri amici che si apprestano a recarsi a Roma, precisando come «alcuni noti esponenti del Family Day (tra cui lo stesso portavoce, Massimo Gandolfini) si sono espressi come non contrari ad un disegno di legge che riconosca legalmente le unioni omosessuali, purché non presentino alcuna equiparazione al matrimonio». Una posizione prosegue il testo, «ovviamente non condivisibile né sul piano morale né su quello più specificamente “strategico” ˗ dal momento che ˗riconosciute le cosiddette “unioni civili”, il passo verso il diritto alla filiazione da parte delle coppie omosessuali sarà quanto mai breve e del tutto consequenziale». Tuttavia, tale dissenso “strategico” non compromette l’adesione dell’associazione alla manifestazione in quanto scopo principale del Family Day, secondo le dichiarazioni degli organizzatori, è il rifiuto totale del “ddl “Cirinnà” ed inoltre esso rappresenta «l’unica possibilità concreta per esprimere in maniera chiara e con adeguata risonanza mediatica il proprio dissenso nei confronti del DDL».
Un’altra valorosa associazione, il Comitato Verità e Vita, fondato dal compianto Mario Palmaro (1968-2014) ed oggi diretto dal dott. Angelo Francesco Filardo, aderisce al Family Day, ribadendo il «valore fondamentale della famiglia nata dal matrimonio di un uomo e di una donna». Il Comitato lancia un vero e proprio appello al mondo politico affinché ogni singolo senatore e deputato «respinga in toto il ddl Cirinnà con ogni sua probabile eventuale modifica ed ogni ddl sulle unioni civili che anche implicitamente (con velato rimando a norme che regolano il matrimonio) possa equiparare od offrire ai giudici creativi la possibilità di equiparare le unioni civili al matrimonio, votando NO anche ad un eventuale voto di fiducia posto dal Governo».
Rivolgendosi a tutti i parlamentari cattolici, Verità e Vita, sottolinea come sia preferibile una crisi di governo all’introduzione nel nostro ordinamento di una legge che porterebbe alla distruzione della famiglia, cellula primaria della società: «Riteniamo, meno disastroso per l’Italia, per l’Europa e per tutto il genere umano far cadere il Governo che contribuire con il proprio voto o con la propria non partecipazione al voto alla distruzione della famiglia, cellula fondamentale ed insostituibile di ogni società in ogni tempo e luogo!».
Il filo conduttore che accomuna le posizioni espresse nei tre comunicati è il netto rifiuto di qualsiasi compromesso con i nemici dell’ordine naturale e cristiano. Una visione per la quale, un’efficace opposizione alla deriva nichilista contemporanea non può, in alcun modo, prescindere da una difesa della verità che sia totale ed integrale. Per questa ragione, le tre associazioni invitano tutti i propri amici e sostenitori a recarsi a Roma il prossimo 30 gennaio per affermare, senza cedimenti e senza compromessi, il proprio NO assoluto all’iniquo disegno di legge Cirinnà.

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“Nunc incípio Christi esse discípulus, nihil de his quæ vidéntur, desíderans, ut Jesum Christum invéniam. Ignis, crux, béstiæ, confráctio óssium, membrórum divísio, et totíus córporis contrítio, et tota torménta diáboli in me véniant; tantum ut Christo fruar” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI IGNATII ANTIOCHENI EPISCOPI ET MARTYRIS (THEOPHORI)

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La festa di sant’Ignazio, che gli orientali chiamano ΟΆγιοςιερομάρτυςΙγνάτιοςοΘεοφόρος, nel Messale romano realizza il voto supremo del suo martirio. Egli, infatti, scrivendo ai Romani, si augurava che la notizia della sua testimonianza giungesse loro nel momento stesso in cui si sarebbe preparato l’altare per il sacrificio, affinché nel loro cuore potesse elevarsi un inno di azione di grazie a Dio, per essersi degnato di chiamare, alla città dei Cesari e all’insaguinato anfiteatro di Roma, l’«episcopus Syriæ», il «Vescovo della Siria»: «Nolite plus mihi præbere, quam ut immoler Deo, dum adhuc altare paratum est; ut in charitate chorus effecti canatis Patri in Christo Jesu, quod Deus episcopum Syriæ dignum judicaverit, qui ab Oriente in Occidentem arcessitus inveniretur»; «Non procuratemi di più che essere immolato a Dio, sino a quando è pronto l’altare, per cantare uniti in coro nella carità al Padre in Gesù Cristo, poiché Iddio si è degnato che il vescovo di Siria si sia trovato qui facendolo venire dall’oriente all’occidente» (Sant’Ignazio di Antiochia, Epistola Ad Romanos, cap. II, in PG 5, col. 687B-688B, ora in Id., Lettera ai Romani, inLettere di Ignazio di Antiochia, Lettere e Martirio di Policarpo di Smirne, trad. it. e note a cura di Antonio Quacquarelli ed introduzione di Dag Tessore, Roma 2009, p. 38).
Ignazio, che venne detto oltre che Teoforo pure l’Illuminatore, fu divorato dai leoni il 17 ottobre a Roma in un anno compreso tra il 110 ed il 118, la Chiesa romana non ha ritenuto la data del suo natale, poiché in Occidente il culto dei martiri non cominciò che all’inizio del III sec. Essa dovette, tuttavia, iscrivere il nome del magnanimo vescovo nei dittici della messa fin dall’antichità più remota e comunque fin dal VI sec., ma come ne fu per tutti i martiri dei due primi secoli, se ne celebrò molto più tardi un ufficio speciale.
In Oriente, nella seconda metà del IV sec., il martirologio di Nicomedia lega il martirio di Ignazio al 17 ottobre e è in questo giorno che esso è commemorato dalla Chiesa di Siria. La data è molto plausibile, poiché Ignazio si trovava a Smirne il 24 agosto, allorché fu condotto a Roma per morirvi (Sant’Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, 10, 3: «Io vi scrivo il IX giorno delle Calende di settembre (24 agosto)», in H. Hemmer - P. Lejay, Les Pères apostoliques, t. III, Paris 1927, p. 69). I Copti ed i bizantini festeggiano S. Ignazio il 20 dicembre, anniversario di una traslazione delle sue reliquie ad Antiochia. Questo del 20 dicembre è anche il giorno in cui il calendario di Napoli menziona la P(assio) S. Ignati de Syria. Il calendario di San Willibrordo (datato tra il 701 ed il 705), seguito dal Geronimiano, mantengono la stessa data per introdurre il ricordo di Ignazio in Occidente. Si ignora perché Beda anticipò questa memoria al 17 dicembre.
Adone conservò la data del 17 dicembre per la traslazione, ma fissò il natale del martire al 1° febbraio, fidandosi di una traduzione latina erronea degli Atti greci di S. Ignazio.
Introdotta in Inghilterra alla data del 20 dicembre all’inizio dell’VIII sec. (H.A. Wilson (a cura di), The Calendar of St. Willibrord, London 1918, p. 14), la festa di S. Ignazio vi si diffuse tra il IX e l’XI sec., scegliendo i calendari il 20 dicembre o il 17 come ritenuto da Beda.
Nel Continente, presso i latini, nel basso Medioevo, è il 1° febbraio che dovette prevalere. La memoria di S. Ignazio si diffuse poco nei Paesi germanici ed in Italia, ma Cluny l’accolse verso la fine dell’XI sec. ed essa conobbe un’assai larga diffusione in Francia nella seconda metà del XII sec. È a quest’epoca che essa apparve nell’Ordodel Laterano. Si consideri che il XII sec. è il secolo del Principato latino d’Antiochia (1098-1268). Non è impossibile, dunque, che le alterne vicende tra l’Occidente e la Siria abbiano ravvivato il ricordo del vecchio vescovo martire (Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 221).
Il papa beato Pio IX elevò la festa di sant’Ignazio al rito doppio.
La Chiesa romana commemora ogni giorno il nome di Ignazio in quella che si chiama «Grande intercessione», prima del Pater, senza che, del resto, i sacramentari del medioevo indichino alcuna stazione o sinassi specifica in onore di Ignazio. La ragione ne è chiara: la base materiale di questo culto liturgico, cioè la sua tomba, mancava.
L’identificazione dell’anfiteatro in cui sant’Ignazio, a Roma, fu esposto alle bestie feroci, con quello del Vespasiano-Flavio (Colosseo), è molto probabile, ma non può essere assolutamente provato, poiché la città imperiale aveva all’epoca molti anfiteatri. Quanto al culto speciale attribuito al martire nella basilica di San Clemente, in cui una tardiva tradizione vuole precisamente che fosse stato sepolto il grande vescovo di Antiochia, il primo documento che ne parla non risale che, al più, all’inizio del XII sec. e quest’iscrizione, tracciata sotto il mosaico dell’abside, fa menzione soltanto di una piccola reliquia di Ignazio, nascosta nel muro sul quale sarebbe rappresentato il Crocifisso (MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 201-202; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 133):
+ DE • LIGNO • CRVCIS • IACOBI • DENTE • IGNATIIQVE
IN • SVPRASCRIPTI • REQVIESCVNT • CORPORE • CHRISTI
Al nostro santo, la Roma cristiana ha dedicato una chiesetta, oggi non è più esistente, che, secondo taluno, si trovava in Campo Marzio (Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo. Cataloghi ed appunti, Firenze 1927, p. 269), ma che significativamente il noto storico e catalogatore delle chiese romane, Mariano Armellini, non menziona.
Nel 1957, poi, al nostro Santo fu dedicata una chiesa nel quartiere Appio Claudio, sulla via Appia Nuova.
La lettura evangelica (Gv 12, 24-26) è comune, in parte, al sabato prima della domenica delle Palme. Gesù paragona la vita cristiana ad un chicco di grano che, per germogliare, deve prima marcire in terra. Un tale esempio si adatta molto bene alla festa di sant’Ignazio che, ispirandosi precisamente a questa immagine evangelica, e forse anche ad un passo della Didaché, scriveva: «Sono il frumento del Cristo. Ah! possa essere stritolato sotto i denti dei leoni, per diventare un pane bianco».
L’antifona del salmo che si cantava durante la distribuzione della Comunione ricorda l’ultimo grido del martire, quando, ormai imbarcato verso il circo romano, udendo quasi già i ruggiti dei leoni frementi, scrisse «frumentum sum Dei, et per ferarum dentes molar, ut purus panis Christi inveniar»; «Sono il frumento di Dio e, macinato dai denti delle fiere, [possa] diventare un pane puro di Cristo» (ibidem, cap. IV, in PG 5, col. 689A-690A, ora in Id., Lettera ai Romani, cit., p. 39).
Questo grido supremo di Ignazio trovò profonda eco nella Chiesa, tanto che lo ricorda anche sant’Ireneo di Lione, «Quemadmodum quidam de nostris dixit, profiter martyrium in Deum adjudicatus ad bestias: Quoniam frumentum sum Christi, et per dentes bestiarum molar, ut mundus panis Dei inveniar»; «Come ha detto uno dei nostri, condannato alle bestie, a causa della sua testimonianza verso Dio: “Io sono il frumento di Cristo, macinato alla mola dai denti delle bestie, per essere trovato mondo come pane di Dio”» (Sant’Ireneo di Lione, Adversus hæreses libri quinques, lib. V, cap. 28, § 4, in PG 7, col. 1200C-1201A, ora trad. it. e note di Augusto Cosentino(a cura di), Contro le eresie. Smascheramento e confutazione della falsa gnosi, vol. II, Roma 2009, p. 389).


Άγιος Ιγνάτιος ο Θεοφόρος και Ιερομάρτυρας

Martirio di S. Ignazio, Menologio di Basilio II, a. 1000 circa


Cesare Fracanzaro (attrib.), Martirio di sant’Ignazio, XVII sec., Galleria Borghese, Roma

Fabrizio Boschi, S. Ignazio di Antiochia, XVII sec., museo diocesano, Firenze

Pittore cusiano, Martirio di S. Ignazio, XVIII sec., museo diocesano, Novara


Tomba di sant’Ignazio con busto reliquiario di S. Flavio Clemente, Basilica di San Clemente, Roma

Immagini da meditare: in difesa delle proprie radici

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Miguel Jacinto Meléndez, S. Raimondo abate di Fitero, fondatore dell'Ordine di Calatrava, a cavallo contro i Mori, 1730 circa, Iglesia de San Andrés, Calahorra

Poveri della tradizione, non borghesi della tradizione - - Editoriale di febbraio 2016 di “Radicati nella fede”

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Nella festa della Purificazione della beata Vergine Maria o Presentazione del Signore al Tempio secondo la carne, che dai Greci viene chiamata Hypapante (cioè l’Incontro) del Signore, rilancio quest’editoriale di Radicati nella fede del mese di febbraio 2016.


Pietro Cavallini, Presentazione del Signore al Tempio, 1293 circa, Basilica di S. Maria in Trastevere, Roma

Jacopo Torriti, Presentazione al Tempio, 1296, Basilica di S. Maria Maggiore, Roma

Giovanni Agostino da Lodi - Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, Presentazione al Tempio, 151-20, collezione privata, Parma


Vittore Carpaccio, Presentazione di Gesù al Tempio, 1510, Gallerie dell’Accademia, Venezia

Fabrizio Boschi, Presentazione al Tempio, 1616, chiesa di san Carlo dei Lombardi, Firenze

Raffaele Postiglione, Presentazione al Tempio di Gesù, XIX sec., museo diocesano, Napoli

Giovanni Bruni, Presentazione al Tempio, 1837, Collegiata di Santa Maria in Provenzano, Siena

Pietro Favaro, Presentazione al Tempio, XX sec.

Η Υπαπαντή του Κυρίου




POVERI DELLA TRADIZIONE, NON BORGHESI DELLA TRADIZIONE

Editoriale di “Radicati nella fede”
Anno IX n. 2 - Febbraio 2016


Sapete bene quante volte, su questo foglio di collegamento, abbiamo messo in guardia contro i pericoli del modernismo. Quante volte abbiamo reagito contro la maldestra modernizzazione della Chiesa, che sta ormai compiendosi nella più acuta crisi che la Chiesa abbia mai conosciuto nella sua storia.
Abbiamo reagito, ne sentiamo tutto il dovere; abbiamo detto di “no”; abbiamo detto di non accettare questo stravolgimento della vita cristiana che si amplifica sotto i nostri occhi.
È bene, però, ricordare che non abbiamo fatto solo questo, e che non abbiamo fatto innanzitutto questo: ci siamo prima preoccupati di assicurare tra noi una vita stabilmente cristiana.
Sì, perché “essere contro” non equivale a fare il cristianesimo. È un’illusione mortale quella di pensare che essere contro qualcosa equivalga automaticamente a costruirne l’alternativa.
Sarebbe per noi un gravissimo inganno quello di pensare che basti reagire al modernismo teologico, al pastoralismo ingannevole del post-concilio, alla mania di mettere al passo con le ultime mode del mondo la vita cristiana, per vedere sorgere un Cattolicesimo sano, secondo Tradizione.
Il père Emmanuel Andrè, di cui tanto riferiamo sul nostro bollettino e che costituisce certamente uno dei più fulgidi esempi sacerdotali nella Chiesa dei tempi moderni, disse ai suoi monaci, difronte al dilagante Naturalismo: “Siate uomini di Dio, siate uomini di reazione”.
Verissimo! Per essere di Dio, occorre reagire contro il male dilagante. Occorre dire di “no” all’errore che è in te, e al veleno che circola nel mondo.
Ma non basta dire di no, occorre essere di Dio: “Siate uomini di Dio...”. La reazione, quella sana, nasce solo dall’ “essere di Dio”. Occorre preoccuparsi dunque di fare il cristianesimo; l’interesse dev’essere concentrato sul vivere una vita autenticamente cristiana, sul lavorare perché molti abbiano i mezzi e la possibilità di “essere di Dio”.
Ci sono alcuni, in certo mondo tradizionalista o conservatore, che sono permanentemente in reazione, in perenne accusa, rischiando di esaurire i propri sforzi nello scovare il male attorno a loro.
E quando reagiscono contro i cristiani ammodernati, sembrano attendere il cattolicesimo vero dai “modernisti” stessi, pretendendo da loro una conversione che forse attenderanno invano.
No! Occorre fare il cristianesimo, questo attende Dio da noi; per questo ci da la sua grazia.
Un grande benedettino, il Card. Schuster, difronte alla grave crisi di qualche monastero, consigliava di non perdere tempo nel tentare la sua riforma, ma di fondarne a fianco un altro, dove regnassero l’osservanza della Regola di San Benedetto e uno spirito autenticamente monastico: nel momento più forte della crisi, questi nuovi monasteri osservanti sarebbero stati l’anima della rinascita cristiana e monastica.
Così anche per noi: occorre impiantare una vita veramente cristiana dove viviamo, attorno alla Messa tradizionale, fonte di inaudite grazie. Occorre fare il cristianesimo senza perdere nemmeno un minuto, là dove sacerdoti di retta intenzione tornano ad assicurare la Tradizione, nei sacramenti e nella dottrina. I preti, almeno quelli che hanno capito, hanno il dovere di garantire la Tradizione, e i fedeli di riconoscerla e di muoversi!
Ci resta da ricordare però un fatto non secondario: per fare il cristianesimo occorre “dare la vita”.
Dare la vita, è questa l’obbedienza vera che Dio attende da noi.
Dare la vita, cioè tutto, perché se Dio non può chiederci tutto, vuol dire che per noi non è.
Questo dare tutto, va vissuto in una coscienza limpida, unita ad una concretezza estrema, operativa.
L’impiantare il cristianesimo inizia dalla grazia, cioè dall’altare del Signore: è dalla messa cattolica, dal sacrificio di Cristo, che tutto ha vita, dottrina, preghiera, opere, carità, cultura...
Per assicurare il culto e la vita cattolica, secondo tradizione, occorre dare la vita: siamo disposti a questo, o ci basta essere contro?
Se, improvvisamente, fosse data piena libertà all’esperienza della Tradizione, se nella Chiesa ci fosse data questa libertà totale, sorgerebbero questi luoghi di grazia intorno all’altare grazie a noi? Oppure, questo miracolo di libertà per la Tradizione ci troverebbe ancora impegnati ad assicurarci le nostre libertà, i nostri umori alterni? Un siffatto miracolo non ci coglierebbe forse preoccupati di garantirci ancora il nostro “tempo libero”, come fa il resto del mondo?
Solo perché ogni Domenica, e sottolineiamo ogni, ci sia la messa cantata, occorre che molti diano la vita! Il prete che la celebra, l’organista che accompagna il canto, la schola che sostiene la lode del popolo, i fedeli che stabilmente si riferiscono a quella chiesa.
Vedete, la nuova liturgia, miseramente ridotta, di fatto ha garantito, favorendole, le “libertà” e il disimpegno dei fedeli. Sembra nata per intrattenere e non per fare il cristianesimo.
Per fare il cristianesimo occorre non essere liberali, ma uomini impegnati con Dio, consegnanti tutto a Dio: solo i poveri, quelli veri, lo capiscono, non i “borghesi” della tradizione.
Poveri sono quelli che non sperano la salvezza da sé, dal proprio giudizio e azione. Poveri sono quelli che si consegnano a Dio, disposti a dare tutto perché la Chiesa Cattolica continui ad esserci.
Borghesi sono, invece, quelli impegnati a salvare i propri spazi di libertà. Sono liberali nell’anima; vogliono amare Dio, ma non consegnando tutto: loro si illudono e la Chiesa scompare.
Che questa Quaresima ci insegni la vera obbedienza al Signore.

Seguire le mode e la corrente politicamente corretta,andare controcorrente in un aforisma di Chesterton

Carità, tolleranza delle opinioni erronee in un aforisma di S. Pio X

Intervista di mons. Athanasius Schneider a Rorate Caeli: "Chiesa post-sinodale e i non credenti nella gerarchia"

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Nella festa di S. Agata, vergine e martire, rilancio la traduzione italiana dell’intervista di mons. Schneider a Rorate Caeli.


Αγία Αγάθη



Giovanni Andrea Coppola, Martirio di S. Agata, 1650 circa, Basilica Concattedrale di S. Agata, Gallipoli

Giambattista Tiepolo, Martirio di S. Agata, 1736, Basilica di S. Antonio, Padova

Anonimo, Apparizione della Vergine col Bambino a S. Agata, XVIII sec., museo del Prado, Madrid

Ambito di Giannandrea Lazzarino, S. Agata in carcere, XVIII sec., Galleria Nazionale delle Marche, Urbino

Giuseppe Barone, Martirio di S. Agata, 1938, Chiesa di Sant'Agata alla Fornace (Chiesa di San Biagio), Catania


Replica del Reliquiario di S. Agata, Chiesa di S. Agata la Vetere, Catania

Intervista di mons. Athanasius Schneider a Rorate Caeli: Chiesa post-sinodale e i non credenti nella gerarchia

Testo integrale dell’intervista di Mons. Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Astana, pubblicata il 2 febbraio dal sito Rorate Caeli

Rorate Caeli: Per qualche tempo non conosceremo l’impatto giuridico che avrà sulla Chiesa il recente Sinodo poiché la prossima mossa spetta a Papa Francesco. Indipendentemente dal risultato finale, esiste già  a tutti gli effetti uno scisma nella Chiesa? In caso affermativo, cosa significa concretamente? Come si manifesterà per i cattolici praticanti comuni?

S.E. Schneider: Secondo il can. 751 del Codice di Diritto Canonico, scisma significa il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti. Occorre distinguere il difetto nel credere o eresia dallo scisma. Il difetto nel credere o eresia è in effetti un peccato più grave dello scisma, come dice San Tommaso d’Aquino: «La mancanza di fede (infidelitas nella Summa - ndT) è un peccato commesso contro Dio stesso, in quanto Egli stesso è la Verità Prima, sulla quale la fede si fonda; mentre lo scisma si oppone all’unità della Chiesa, che è un bene minore rispetto a Dio stesso. È dunque evidente che il peccato di eresia  è per suo genere un peccato più grave di quello dello scisma» (II-II, q.39, a.2c). La vera crisi della Chiesa di oggi consiste nel fenomeno ingravescente che coloro che non credono pienamente e non professano l’integralità della fede cattolica occupano spesso posizioni strategiche nella vita della Chiesa, come professori di teologia, formatori nei seminari, superiori religiosi, parroci e persino vescovi e cardinali. E queste persone con la loro fede manchevole si professano sottomessi al Papa.
Il colmo della confusione e dell’assurdità si manifesta quando questi religiosi semi-eretici accusano coloro che difendono la purezza e l’integrità della fede cattolica di essere contro il Papa, di essere, secondo loro, in qualche modo scismatici. Per i semplici cattolici praticanti, una tale situazione di confusione rappresenta una vera sfida alla loro fede secondo l’indistruttibilità della Chiesa. Devono mantenere salda l’integrità della loro fede secondo le immutabili verità cattoliche trasmesse dai nostri padri, che ritroviamo nel catechismo tradizionale e nelle opere dei Padri e dei Dottori della Chiesa.

Parlando di cattolici comuni, cosa deve affrontare ora un parroco che già non dovesse affrontare prima del Sinodo? Quali pressioni, come la lavanda dei piedi delle donne il Giovedì Santo a seguito dell’esempio di Francesco, graveranno sul parroco più di quanto non sia accaduto fino ad oggi?

Un normale parroco cattolico dovrebbe conoscere bene il significato perenne della fede cattolica, nonché quello delle norme della liturgia cattolica e, conoscendolo, dovrebbe avere fermezza e sicurezza interiore. Dovrebbe sempre ricordare il principio fondamentale di discernimento: «Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus», ossia «Ciò che è stato creduto e praticato sempre, ovunque e da tutti».
Le categorie «sempre, ovunque, tutti» non devono esser intese in un senso aritmetico, ma morale. Un criterio concreto di discernimento è questo: Questo cambiamento in una affermazione dottrinale, in una pratica pastorale o liturgica rappresenta una rottura rispetto al passato dei secoli e millenni trascorsi? Questa innovazione fa sì che la fede risplenda più chiara e luminosa? Questa innovazione liturgica ci immette sempre più vicini alla santità di Dio, o esprime in modo più profondo e meraviglioso i divini misteri? Questa innovazione disciplinare favorisce davvero uno zelo maggiore per la santità di vita?
Riguardo, concretamente, alla lavanda dei piedi delle donne durante la Santa Messa dell’Ultima Cena del Giovedì Santo: questa Santa Messa celebra la commemorazione dell’istituzione dei sacramenti dell’Eucarestia e del Sacerdozio. Cosicché la lavanda dei piedi delle donne insieme agli uomini, non solo distrae dal focus principale sull’Eucarestia e sul Sacerdozio, ma genera confusione riguardo al simbolismo storico dei “dodici” e dal fatto che gli apostoli sono di sesso maschile. La tradizione universale della Chiesa non ha mai consentito la lavanda dei piedi durante la Santa Messa, ma piuttosto al di fuori di essa, in una cerimonia speciale.
In ogni caso: la lavanda pubblica e in generale anche il bacio dei piedi delle donne da parte di un uomo, nel nostro caso di un prete o di un vescovo, è considerato da qualunque persona di buon senso in tutte le culture come improprio e anche indecente. Grazie a Dio nessun vescovo è obbligato a lavare pubblicamente i piedi delle donne il Giovedì Santo, perché non vi è una norma che lo vincoli a ciò, e la stessa lavanda dei piedi è facoltativa.

La Fraternità Sacerdotale di San Pio X (FSSPX)

Una situazione atipica della Chiesa è quella della Fraternità Sacerdotale San Pio X (FSSPX). Casa pensa Sua Eccellenza, del perché tanti cattolici temono la FSSPX o sono titubanti dall’associarsi ad essa? Dalla sua esperienza, quali doni ritiene che la FSSPX possa apportare alla Chiesa corrente?

Se qualcuno o qualcosa è senza importanza e debole, nessuno lo teme. Coloro che temono la Fraternità Sacerdotale San Pio X in definitiva temono le verità cattoliche perenni e le loro esigenze in campo morale e liturgico.
Quando la FSSPX cerca di credere, praticare il culto e vivere moralmente come i nostri progenitori e i Santi più famosi nel corso di millenni, allora dobbiamo considerare la vita e l’opera di questi sacerdoti cattolici e fedeli della FSSPX come un dono per la Chiesa di oggi, ed anche come uno dei numerosi strumenti di cui si serve la Divina Provvidenza per rimediare all’enormità dell’attuale crisi generale della fede, della morale e della liturgia in seno alla Chiesa.
In alcuni settori della FSSPX vi sono tuttavia, come accade in tutte le società umane, alcune personalità eccentriche. Esse hanno un metodo e mentalità carenti di giustizia e carità e quindi del vero “sentire cum ecclesia”, e c’è il pericolo di un’autocefalia ecclesiastica e di essere l’ultima istanza giuridica nella Chiesa. Tuttavia, a mia conoscenza, la parte sana corrisponde alla parte maggiore della FSSPX e considero il Superiore Generale, Sua Eccellenza Monsignor Bernard Fellay, come un vero ed esemplare vescovo cattolico. Ci sono speranze per un riconoscimento canonico della FSSPX.

Il Sinodo e la papolatria

Tornando al Sinodo, e focalizzandoci sulla tradizione, Sua Eccellenza ritiene che i cambiamenti nella liturgia romana successivi al Vaticano II abbiano contribuito alla crisi attuale nella Chiesa, alla crisi del matrimonio, della famiglia e della morale sociale in generale?

Non lo affermerei proprio così. In realtà la vera origine dell’attuale crisi nella Chiesa, della crisi del matrimonio, della famiglia e della morale in generale non è la riforma liturgica, ma la mancanza di fede, il relativismo dottrinale, da cui scaturisce il relativismo morale e liturgico. Se credo in modo carente, vivrò una vita morale carente e praticherò il culto in modo carente e indifferente. È necessario in primo luogo ripristinare la chiarezza e la fermezza della dottrina della fede e della morale a tutti i livelli e da lì cominciare a migliorare la liturgia. L’integrità e la bellezza della fede esigono l’integrità e la bellezza della propria vita morale e ciò richiede l’integrità e la bellezza del culto pubblico.

Ancora sul Sinodo, è evidente, per coloro che hanno occhi per vedere, che Papa Francesco, nell’andamento del sinodo ha creato confusione invece che chiarezza, ed ha incoraggiato una svolta verso la rottura con l’innalzare il ruolo dei Cardinali Kasper e Danneels, dell’Arcivescovo Cupic, ecc. Qual è il giusto atteggiamento che un cattolico dovrebbe avere nei confronti del Papa in questi tempi difficili? I cattolici sono obbligati a far conoscere le loro vedute ed a “resistere” come aveva detto il Cardinale Burke lo scorso anno in una nostra intervista [qui -qui], anche quando i loro punti di vista sono critici nei confronti del papa?

Fin da molte passate generazioni regna nella vita della Chiesa una sorta di “papo-centrismo” o di “papolatria” che è senza dubbio eccessiva se paragonata con la visione moderata e soprannaturale della persona del Papa e la venerazione a lui dovuta, com’era in passato. Un simile atteggiamento eccessivo verso la persona del Papa genera nella pratica un significato teologico eccessivo ed errato riguardo al dogma dell’infallibilità papale.
Se il Papa dicesse a tutta la Chiesa di fare qualcosa che danneggiasse direttamente una verità divina immutabile o un comandamento divino, ogni cattolico avrebbe il diritto di correggerlo, col dovuto rispetto, mosso da riverenza e amore per la sacra funzione, e per la persona del Papa. La Chiesa non è proprietà privata del Papa. Il Papa non può dire “Io sono la Chiesa”, come aveva detto il re francese Luigi XIV: “Lo Stato sono io”. Il Papa è solo il Vicario, non il successore di Cristo.
Quanto riguarda la purezza della fede è in definitiva una questione che interessa tutti i membri della Chiesa, che è una, ed è un corpo vivente unico. Anticamente, prima di affidare a qualcuno l’ufficio di sacerdote o di vescovo, i fedeli erano chiamati a garantire che il candidato avesse una fede retta ed una elevata condotta morale. Il vecchio Pontificale Romano dice: “Il capitano di una nave, così come i passeggeri, hanno uguale motivo di sentirsi al sicuro o in pericolo in un viaggio, e perciò dovrebbero quindi essere unanimi nel loro comune interesse”. Fu il Concilio Vaticano II ad incoraggiare fortemente i fedeli laici a contribuire al vero bene della Chiesa, al rafforzamento della fede. 
Ritengo che in un’epoca in cui gran parte dei detentori dell’officio del Magistero sono negligenti nel loro sacro compito, lo Spirito Santo chiama oggi, particolarmente i fedeli, a intervenire e a difendere coraggiosamente la fede cattolica con un autentico «sentire cum ecclesia».

La Tradizione ed i suoi nemici interni

Il Papa è la misura della tradizione o è moderato dalla tradizione? Ed i fedeli cattolici dovrebbero pregare perché venga presto un papa tradizionale?

Certamente il Papa non è la misura della tradizione, ma piuttosto il contrario. Dobbiamo sempre tenere a mente il seguente insegnamento dogmatico del Concilio Vaticano I: L’ufficio del successore di Pietro non consiste nel rivelare qualche nuova dottrina, ma nel per custodire con scrupolo e per far conoscere con fedeltà il deposito di fede trasmesso dagli apostoli (v. Costituzione dogmatica Pastor aeternus, cap. 4)
Nell’adempimento di uno dei suoi compiti più importanti, il Papa deve mirare a che “l’intero gregge di Cristo sia tenuto al riparo dal cibo avvelenato dell’errore” (Concilio Vaticano I, ibid.). La seguente espressione che era in uso fin dai primi secoli della Chiesa è una delle espressioni più evidenti dell’ufficio papale, e deve in qualche modo essere una seconda natura di ogni Papa: “Aderire fedelmente alla tradizione ricevuta fin dall’inizio della Fede cristiana” (Concilio Vaticano I, ibid.).
Dobbiamo sempre pregare affinché Dio doni alla Sua Chiesa Papi di orientamento tradizionale. Tuttavia dobbiamo credere in queste parole: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta». (Atti, 1, 7).

Sappiamo che numerosi vescovi e cardinali, probabilmente la maggioranza, vogliono cambiare il linguaggio dottrinale della Chiesa e la sua disciplina di lunga data, col pretesto della “evoluzione della dottrina” e della “compassione pastorale”. Cos’è sbagliato nel loro argomento?

Espressioni come “sviluppo della dottrina” e “compassione pastorale” in genere sono di fatto un pretesto per cambiare l’insegnamento di Cristo, contro il suo significato e la sua perenne integrità così come gli Apostoli l’hanno trasmessa a tutta la Chiesa e come è stata fedelmente preservata dai Padri della Chiesa e dagli insegnamenti dogmatici dei Concili Ecumenici e dei Papi.
In definitiva questi chierici vogliono un’altra Chiesa, ed anche un’altra religione: una religione naturalistica, adattata allo spirito del tempo. Dei simili chierici sono veri lupi travestiti da agnelli, e flirtano spesso col mondo. Non già pastori coraggiosi, ma vili conigli.

Il ruolo delle donne nella Chiesa

Oggi si sente parlare molto del ruolo delle donne nella Chiesa, del cosiddetto “genio femminile”. Le donne hanno giocato un ruolo fondamentale nella Chiesa fin dall’inizio, a cominciare dalla Beata Vergine Maria. Ma liturgicamente Cristo ha reso chiarissima la Sua posizione, così come hanno fatto i papi pre-conciliari. Sua Eccellenza considera che il coinvolgimento femminile nella liturgia, sia le stesse donne nella Messa Novus Ordo sia le bambine-chierichette, abbia avuto un ruolo positivo o negativo nella Chiesa durante gli ultimi quattro decenni?

Non c’è dubbio che il coinvolgimento femminile nei servizi liturgici all’altare (lettura dei Testi, servizio all’altare, distribuzione della Santa Comunione) rappresenti una rottura radicale con l’intera e universale tradizione della Chiesa. Una simile pratica è contraria alla Tradizione apostolica.
Questa pratica ha dato alla liturgia della Santa Messa una evidente forma protestante, e la caratteristica di un incontro informale di preghiera o di un evento catechetico. È una pratica del tutto contraria alle intenzioni dei Padri del Concilio Vaticano II e non se ne trova la minima indicazione nella Costituzione sulla Sacra Liturgia.

La Messa Latina Tradizionale

Sua Eccellenza è ben nota per celebrare la Messa Latina tradizionale in tanti luoghi in tutto il mondo. Quali pensa siano le lezioni più profonde che ha appreso, come prete e come vescovo, dalla celebrazione del Rito Latino, e che altri preti e vescovi possono sperare di acquisire dicendo essi stessi la Messa tradizionale?

La lezione più profonda che ho appreso dalla celebrazione della forma tradizionale della Messa è questa: sono solo un povero strumento di un’azione soprannaturale e sommamente sacra, il cui celebrante principale è Gesù Cristo, l’Eterno Sommo Sacerdote. Sento che durante la celebrazione della Messa perdo in qualche modo la mia libertà individuale, poiché le parole e i gesti sono stabiliti fin nei minimi dettagli, e non posso disporne. Sento nel più profondo del cuore che sono solo un servo ed un ministro, che ancora con libera volontà, con fede e amore, compio non la mia volontà ma quella di Un Altro.
Il Rito tradizionale e antico di millenni della Santa Messa, che neppure il Concilio di Trento aveva cambiato, poiché l’Ordo Missae prima e dopo quel Concilio era pressoché identico, proclama ed evangelizza con forza l’Incarnazione e l’Epifania del Dio ineffabilmente santo ed immenso, che nella liturgia del “Dio è con noi,” come “Emanuele”, si fa così piccolo e così vicino a noi. Il rito tradizionale della Messa è di un’alta sapienza e al tempo stesso una potente proclamazione del Vangelo, che compie l’opera della nostra salvezza.

Se Papa Benedetto è nel giusto quando dice che il Rito Romano attualmente esiste (benché in modo strano) in due forme piuttosto che in una, perché non avviene ancora che a tutti i seminaristi sia richiesto di studiare ed apprendere la Messa Latina tradizionale, come parte della loro formazione di Seminario? Come mai un parroco della Chiesa Romana può non conoscere entrambe le forme dell’unico rito della sua Chiesa? E come possono tanti cattolici essere ancora privati della Messa tradizionale e dei sacramenti se si tratta di una forma equivalente?

Secondo l’intenzione del Papa Benedetto XVI, e le chiare norme dell’Istruzione “Universae Ecclesiae“, tutti i seminaristi cattolici devono conoscere la forma tradizionale della Messa ed essere capaci di celebrarla. Lo stesso documento afferma che questa forma della Messa è un tesoro per l’intera Chiesa, e dunque lo è per tutti i fedeli.
Papa Giovanni Paolo II aveva rivolto un appello urgente a tutti i vescovi di accogliere generosamente il desiderio dei fedeli di celebrare la forma tradizionale della Messa. Quando il clero ed i vescovi ostacolano o limitano la celebrazione della Messa tradizionale, essi non obbediscono a ciò che lo Spirito Santo dice alla Chiesa, e si comportano in maniera anti-pastorale. Si comportano come se fossero i possessori del tesoro della liturgia, che non appartiene loro, perché essi sono solamente gli amministratori.
Negando la celebrazione della Messa tradizionale o facendo ostruzione e discriminazione nei suoi confronti, si comportano come un amministratore infedele ed inaffidabile che, contrariamente agli ordini del padrone di casa,  tiene la dispensa chiusa a chiave oppure come una cattiva matrigna che dà ai bambini un cibo insufficiente.
Forse questi chierici temono che il grande potere della verità s’irradi dalla celebrazione della Messa tradizionale. Possiamo paragonare la Messa tradizionale ad un leone: lasciatelo libero e saprà difendersi.

La Russia non è stata esplicitamente consacrata

Dove vive Sua Eccellenza ci sono molti Russi Ortodossi. Aleksandr di Astana o chiunque altro del Patriarcato di Mosca l’ha forse interrogata sul recente Sinodo o su quello che avviene nella Chiesa sotto Francesco? Sono interessati fino a questo punto?

I Prelati Ortodossi con i quali ho dei contatti non sono in genere bene informati sulle dispute interne che intercorrono nella Chiesa Cattolica, o almeno non mi hanno mai parlato di queste questioni. Anche se non riconoscono il primato giurisdizionale del Papa, vedono tuttavia nel Papa la prima carica gerarchica della Chiesa, dal punto di vista dell’ordine protocollare.

Siamo ad un anno dal centesimo anniversario di Fatima. La Russia non è stata, attendibilmente, consacrata al Cuore Immacolato di Maria e certamente non convertita. La Chiesa, per quanto sempre senza macchia, è in grande disordine, forse peggio che durante l’Eresia Ariana. Le cose sono destinate a peggiorare ancora prima di poter migliorare e come devono prepararsi i cattolici veramente fedeli a ciò che deve succedere?

Dobbiamo credere fermamente: la Chiesa non è nostra, e neanche del Papa. La Chiesa è di Cristo e Lui solo la tiene e la conduce in modo indefettibile anche attraverso i periodi più oscuri di crisi, come appunto nella nostra attuale situazione.
È una dimostrazione del carattere divino della Chiesa. La Chiesa è essenzialmente un mistero, un mistero soprannaturale, e non possiamo avere con essa lo stesso approccio che possiamo avere con un partito politico o una società puramente umana. Nello stesso tempo, la Chiesa è umana ed al suo livello umano oggi sopporta una passione dolorosa, che la rende partecipe della Passione di Gesù.
Si può pensare che oggi la Chiesa è flagellata come Nostro Signore, è spogliata come lo è stato Nostro Signore, alla decima stazione della Croce. La Chiesa, nostra madre, è tenuta legata non solo dai nemici di Gesù ma anche da alcuni suoi collaboratori nei ranghi del clero, talvolta anche dell’alto clero.
Noi tutti buoni figli della Madre Chiesa, come soldati valorosi, dobbiamo cercare di liberare questa madre, con le armi spirituali della difesa e della proclamazione della verità, col promuovere la liturgia tradizionale, l’Adorazione Eucaristica, la Crociata del Santo Rosario, la lotta contro il peccato nella nostra vita privata e l’aspirazione alla santità.
Dobbiamo pregare affinché il Papa consacri presto esplicitamente la Russia al Cuore Immacolato di Maria, ed allora Essa vincerà, come la Chiesa ha pregato fin dai tempi antichi : “Rallegrati, o Vergine Maria, perché da sola hai distrutto tutte le eresie nel mondo intero” (Gaude, Maria Virgo, cunctas haereses sola interemisti in universo mundo).

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

“Doróthea virgo, ex Cæsaréa Cappadóciæ, propter Christi confessiónem ab Aprício præside comprehénsa, Chrystæ et Callístæ soróribus, quæ a fide defécerant, trádita est, ut eam a propósito removérent” (Lect. IX – III Noct.) - COMMEMORATIO SANCTÆ DOROTHEÆ VIRGINIS ET MARTYRIS

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Questa santa orientale è menzionata oggi nel Geronimiano: In Cæsarea Cappadociæ, passio sanctæ Dorotheæ. La sua leggenda, con i fiori di paradiso inviati dalla martire all’avvocato Teofilo, che l’aveva pregata al momento del supplizio, è così graziosa e pia che la santa è entrata nel calendario romano in pieno Medioevo. Si dice che le sue reliquie siano conservate a Trastevere nella chiesa che le è dedicata (Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 469), originariamente nota come Sancti Silvestri iuxta portam Septimianam o San Silvestro della malva (Mariano Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 652; Huelsen, op. cit., pp. 468-469). Dal 1445 ha assunto la denominazione San Silvestro e Santa Dorotea o semplicemente Santa Dorotea. Fu presso questo tempio che, nel XVI sec., i santi Gaetano da Thiene e Giuseppe Calasanzio inaugureranno le loro rispettive congregazioni religiose (Mariano Armellini, op. cit., p. 692). La chiesa è titolo cardinalizio dal 2014.
La messa è quella del Comune delle vergini martiri, come il giorno di sant’Emerenziana. La festa di santa Dorotea, grazie all’influenza dei Bizantini a Roma, era un tempo in così grande venerazione che, sino al 1870, era sulla porta del suo tempio che si aveva costume di affiggere le tavolette che portavano i nomi di coloro che non avevano soddisfatto il precetto annuale della Comunione pasquale (Massimo Pautrier, I Santi delle Chiese medievali di Roma (IV-XIV secolo), ed. Lulu com., Roma, 2013, p. 276. Cfr., per riferimenti, Raimondo Turtas, L’osservanza del precetto pasquale a Roma negli anni 1861-1867, in P. Droulers – G. Martina – P. Tufari (a cura di), La vita religiosa a Roma intorno al 1870. Ricerche di Storia e Sociologia, Università Gregoriana Editrice, Roma, 1971, pp. 95 ss.). Questa festa è passata oggi in secondo piano dopo l’istituzione di quella di san Tito, fissata al 6 febbraio da san Pio X.


Tiziano Vecellio, Vergine col Bambino con i SS. Dorotea e Giorgio, 1515-18, Museo del Prado, Madrid


Juan de Juanes, Nozze mistiche del Venerabile Agnesio, ovvero Vergine col Bambino tra i SS. Agnese, Innocenti, Giovannino, Teofilo, Dorotea e Giovanni Evangelista, e con il Venerabile Agnesio, 1555-60 circa, Museo de Bellas Artes de Valencia, Valencia

Paolo Veronese, Sacra Famiglia con S. Dorotea, 1560-70, Musée des Beaux-Arts-Mairie de Bordeaux, Bordeaux.

Jacopo Ligozzi, Martirio di S. Dorotea, 1590 circa, chiesa di San Francesco, Pescia

Antonio Maria Fabrizi o Fabrizzi, Martirio di S. Dorotea, 1630, Cappella del Rosario, Chiesa di S. Domenico, Perugia

Ambito del Zurbarán, S. Dorotea, 1640, Museo de Bellas Artes, Siviglia


Francisco Zurbarán, S. Dorotea, 1648 circa, collezione privata

Giacomo Cestaro (attrib.), S. Dorotea con un piatto di rose, XVII sec., Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid


Frans Francken il giovane, Martirio di S. Dorotea in ghirlanda di fiori, XVII sec.

Cesare Dandini, SS. Dorotea e Caterina d'Alessandria, XVII sec., collezione privata

Angelo Caroselli, Sacra Famiglia con S. Dorotea, XVII sec., collezione privata

Girolamo Donnini, S. Dorotea, XVIII sec., Museu Nacional de Belas Artes, Rio de Janeiro

Henry Ryland, S. Dorotea e le rose, 1856

Rupert Charles Wulsten Bunny, Le rose di S. Dorotea, 1892, collezione privata

George James Frampton, S. Dorotea, 1895, Victoria Art Gallery, Londra




Altare con le reliquie di Santa Dorotea, Chiesa dei Santi Silvestro e Dorotea, Roma

Dottrine eugenetiche, nazismo, legge morale, diritto naturale, legge di Dio in un aforisma di Papa Pio XI

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Nella fausta ricorrenza dell'elezione al Soglio Pontificio del grande Pontefice Pio XI (6 febbraio 1922), riproduciamo in un suo aforisma le parole di fuoco scritte contro il Nazismo alcuni anni dopo, che, ancora oggi, suonano di sconcertante attualità innanzi alle dottrine eugenetiche e del gender.


“In vita et post mortem miráculis clarus, spíritu étiam prophetíæ non cáruit. Scalam a terra cælum pertingéntem, in similitúdinem Jacob Patriárchæ, per quam hómines in veste cándida ascendébant et descendébant, per visum conspéxit; eóque Camaldulénses mónachos, quorum institúti auctor fuit, designári mirabíliter agnóvit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI ROMUALDI, ABBATIS CAMALDULENSIS ORDINIS FUNDATORIS ET CONFESSORIS

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La festa di questo celebre riformatore della vita anacoretica nell’XI sec. (+ 1027) che, ai tempi degli Ottoni, giocò un così grande ruolo nella storia di Roma e del supremo pontificato, fu istituita da papa Clemente VIII nel 1595. Elevata al rito doppio nel 1602, ridotta a semidoppio nel 1631 ed infine rielevata al rito doppio il 16 febbraio 1669. Tuttavia, essa non fu fissata al 19 giugno, giorno del suo trapasso, a causa della festa dei martiri Gervasio e Protasio, ma al 7 febbraio, anniversario della traslazione del suo corpo a Fabriano, nel 1467, nel monastero di San Biagio, dove ancora riposa.
A questo santo si deve l’insegnamento «Siedi nella tua cella come nel Paradiso scordati del mondo e gettalo dietro le spalle»
La messa è quella del Comune degli abati, come nel giorno di san Saba, il 5 dicembre: va osservato che l’austero Gregorio XVI, che pure era appartenuto come monaco alla Congregazione cenobitica dei Camaldolesi, nata da san Romualdo, non credé opportuno apportare all’Ufficio divino qualche modificazione proprio per promuovere il culto verso il suo Fondatore almeno con un’orazione propria.
A Roma un ricco altare è dedicato a san Romualdo nella basilica di Sant’Andrea al Clivus Scauri (divenuta San Gregorio al Celio); il Santo inoltre era titolare di una piccola chiesa situata presso il Foro di Traiano, nel quartiere Trevi, che è stata distrutta alla fine dell’800 per il prolungamento di via Nazionale. La tavola di Andrea Sacchi, che ne ornava l’altare principale, e che rappresenta la famosa visione della scala per la quale i monaci vestiti di bianco salivano in cielo, si trova oggi alla pinacoteca vaticana (cfr. Mariano Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 254).
Roma ha dedicato una chiesa nel 1974 (eretta a parrocchia nel 1979) denominata San Romualdo abate a Montemigliore. Un’altra è nell’agro romano, a Castel Decima.



El Greco, Allegoria dell’Ordine Camaldolese con i SS. Benedetto e Romualdo, 1599-1600, Instituto de Valencia de Don Juan, Madrid

Guercino, Visione di S. Romualdo, 1642, Museo d’Arte della Città, Ravenna

Andrea Sacchi, Visione di S. Romualdo, 1631 circa, Pinacoteca, Vaticano

Jacopo Marieschi, S. Romualdo impetra la liberazione del senatore Crescienzio e la sospensione dell’assedio del castello di Tivoli all’imperatore Ottone III, XVIII sec., Chiesa della Madonna dell’Orto, Venezia

S. Romualdo rinuncia al cardinalato, Chiesa di S. Gregorio al Celio, Roma

Placido Costanzi, Gloria di S. Romualdo abate e di S. Gregorio papa e trionfo della Fede sull'eresia, 1727, Chiesa di S. Gregorio al Celio, Roma

Pio transito del Beato Pio IX, papa e confessore (7 febbraio 1878)

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G. Orsi, Beato Pio IX, 1847, museo diocesano, Ravenna








Ritratto del Beato Pio IX, con dedica, Basilica di S. Pietro, Città del Vaticano, Roma

Il Beato Pio IX al Concilio Vaticano I, Cappella del Beato Pio IX, Chiesa di S. Lorenzo Fuori le mura, Roma

Corpo del beato Pio IX, Chiesa di S. Lorenzo Fuori le mura, Roma

Corruzione, famiglie, Regno di Dio in un aforisma di S. Ignazio di Antiochia

Anniversario del martirio della Regina di Scozia, Maria Stuarda, per mano dell'empia cugina Elisabetta I

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L’8 febbraio 1587 nel castello di Fotheringhay viene martirizzata mediante decapitazione Mary Stuart (italianizzata Maria Stuarda), Regina di Scozia. Dopo varie angustie, ultima la ventennale prigionia, fu condannata al patibolo dall’empia Elisabetta I, sua cugina, che si arrogava illegittimamente prerogative regie: la pia sovrana morì rivestita del rosso dei martiri, spargendo il nobile sangue per rimanere fedele a Gesù Cristo e alla sua Santa Chiesa Cattolica Romana, rifiutando lo scisma anglicano.

Pierre Révoil, Maria, Regina di Scozia, si separa dai suoi fedeli mentre viene condotta al luogo dell'esecuzione, 1822

Ford Madox Brown, Esecuzione di Maria, Regina di Scozia, 1839-41, Whitworth Art Gallery, Manchester

Robert Inerarity Herdman, Esecuzione della Regina di Scozia Maria Stuarda, 1867, Kelvingrove Art Gallery and Museum, Glasgow

Cattolici, conservatori, ecumenismo, unità della Chiesa in un aforisma di P. Louis Bouyer

“Apollónia virgo Alexandrína, sub Décio imperatóre, cum ingravescénte jam ætáte ad idóla sisterétur, ut eis veneratiónem adhíberet; illis contémptis, Jesum Christum verum Deum coléndum esse prædicábat. Quam ob rem omnes ei contúsi sunt et evúlsi dentes; ac, nisi Christum detestáta deos cóleret, accénso rogo combustúros vivam mináti sunt ímpii carnífices” (Lect. IX – III Noct.) - SANCTÆ APOLLONIÆ VIRGINIS ET MARTYRIS

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Fu lo stesso san Dionigi il Grande che, in una lettera a Fabio d’Antiochia, tramandataci da Eusebio nella sua Historia ecclesiastica, ci descrive il martirio di questa coraggiosa vergine di Alessandria, che era παρθένοςπρεσβτιν, cioè una vergine di età avanzata, come ci riporta il frammento di Eusebio: «λλκατνθαυμασιωττηνττεπαρθνονπρεσβτινπολλωνανδιαλαβντες, τοςμνδνταςπανταςκπτοντεςτςσιαγναςξλασαν, πυρνδνσαντεςπρτςπλεωςζσανπελουνκατακασειν, εμσυνεκφωνσειενατοςττςσεβεαςκηργματα. δποπαραιτησαμνηβραχκανεθεσα, συντνωςπδησενεςτπρ, κακαταπφλεκται»; «Presero anche Apollonia, un’anziana vergine di esemplari qualità; dopo averle fatto saltare tutti i denti colpendola alle mascelle, eressero un rogo davanti alla città e minacciarono di bruciarla viva se non avesse pronunciato con loro le formule di empietà. Ma la donna, dopo essersi scusata brevemente, si gettò prontamente nel fuoco e morì bruciata» (Eusebio,Historia ecclesiastica, lib. VI, cap. 41, § 5, in PG 20, col. 607A-608A, ora trad. it. e note di Franzo Migliore eGiovanni Lo Castro (a cura di), Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, Libri VI-X, , vol. II, Roma 20052, p. 65).
La sua memoria è entrata nel Messale romano verso la fine del Medioevo, ed il fatto che nel suo martirio il boia le strappasse i denti, contribuì molto alla diffusione del suo culto, a titolo di protettrice contro i mali dei denti.
A Roma, presso la basilica di Santa Maria in Trastevere, si elevava un’antica chiesa dedicata a sant’Apollonia, con un piccolo cimitero, che vi era annesso (MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 690-691); essa è stata oggi distrutta e non ne resta che il suo nome, dato alla piazza di questo quartiere (ibidem, p. 690). Grazie precisamente a questo tempio, sant’Apollonia ha acquistato diritto di cittadinanza nel calendario romano.
La messa è quella del Comune delle vergini martiri, Loquébar, come il 30 gennaio per la festa di santa Martina.


Guido Reni, S. Apollonia in preghiera prima del martirio, 1600-03, Museo del Prado, Madrid

Guido Reni, Martirio di S. Apollonia, 1600-03, Museo del Prado, Madrid


Guido Reni, Martirio di S. Apollonia, XVII sec., Richard L. Feigen, New York

Orsola M. Caccia, Sant’Agata tra le SS. Caterina d’Alessandria e Apollonia, 1625  circa, Lu Monferrato Museo S. Giacomo, Casale



Francisco de Zurbarán, S. Apollonia, 1636-40, Musée du Louvre, Parigi

Lorenzo Cre Pasinelli, S. Apollonia, 1670 circa, Hunterian Museum and Art Gallery, University of Glasgow, Glasgow



Carlo Dolci, S. Apollonia, 1670 circa, collezione privata

Ambito di Carlo Dolci, S. Apollonia, XVII sec., collezione privata

Giovanni Battista Salvi detto Il Sassoferrato, S. Apollonia, XVII sec., Musée Fabre, Montpellier

Jacob Jordaens, Martirio di S. Apollonia, XVII sec., Wellcome Library, Londra
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