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Indicazioni per una Quaresima vissuta secondo lo spirito della Tradizione della Chiesa: le regole per il digiuno e l’astinenza

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Come si faceva la Quaresima prima del Concilio? Quali erano le istruzioni per digiuno e astinenza? In quali altri giorni dell’anno si applicavano questi precetti?


– LA LEGGE DEL DIGIUNO obbliga tutti i fedeli che hanno compiuto i 21 anni e non hanno ancora iniziato il 60° anno.

– LA LEGGE DELL’ASTINENZA dalla carne obbliga tutti i fedeli a partire dai 7 anni compiuti.

IL DIGIUNO consiste nel fare un solo pasto al giorno e due piccole refezioni nel corso della giornata (i moralisti quantificano in 60 grammi al mattino e 250 grammi alla sera).

L’ASTINENZA vieta l’uso della carne, di estratto o brodo di carne, ma non quello delle uova, dei latticini e di qualsiasi condimento di grasso animale.

GIORNI DI ASTINENZA DALLA CARNI: – tutti i Venerdì dell’anno (tranne se vi cade una festa di precetto).

GIORNI DI ASTINENZA E DI DIGIUNO: – Mercoledì delle Ceneri; – ogni Venerdì e Sabato di Quaresima; – il Mercoledì, il Venerdì e il Sabato delle Quattro Tempora; – le Vigilie di Natale (24 Dicembre), di Pentecoste, dell’Immacolata (7 dicembre), d’Ognissanti (31 Ottobre).

GIORNI DI SOLO DIGIUNO SENZA ASTINENZA: tutti gli altri giorni feriali di Quaresima (le Domeniche non c’è digiuno).

POSSONO NON PRATICARE L’ASTINENZA:
– i poveri che ricevono carne in elemosina e non hanno altro da mangiare;
– gli infermi, i convalescenti, i deboli di stomaco, le donne che allattano, le donne incinte se deboli; – gli operai che fanno lavori più pesanti quotidianamente;
– mogli, figli, servi, tutti coloro che esercitano un servizio essendovi costretti, e che non possono avere altro cibo sufficientemente nutriente.

POSSONO NON PRATICARE IL DIGIUNO:
– coloro che digiunerebbero con grave incomodo: ammalati, convalescenti, deboli di nervi, donne che allattano o incinte;
– poveri che hanno già poco cibo a disposizione;
– coloro che esercitano un lavoro che è moralmente e ordinariamente incompatibile con il digiuno (es: lavori pesanti);
– coloro che fanno un lavoro intellettuale molto faticoso (es. studenti sotto esami);
– chi deve fare un lungo e faticoso viaggio, per un maggiore bene o per un’opera di pietà più grande se questa è moralmente incompatibile con il digiuno (es: assistenza ai malati).

Fonte: Radiospada, 2.3.2014



In onore di San José Luis Sánchez del Río, martire

Giorno delle Ceneri e principio del digiuno della sacratissima Quaresima.

Un chiarimento sulla posizione cattolica sul d.d.l. Cirinnà. Dopo il Family Day. Cirinnà, “battaglie” cattoliche e democristianismo.

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E così siamo giunti alla vigilia del voto in Senato del c.d. d.d.l. Cirinnà, che prevede, da un lato, il riconoscimento – con annessa equiparazione al matrimonio – delle c.d. unioni civili tra persone dello stesso sesso (con gli annessi logici e consequenziali che tale riconoscimento comporta) e, dall’altro, il riconoscimento delle c.d. convivenze di fatto (che, evidentemente, col riconoscimento, cesserebbero di essere … di fatto …).
Orbene, come cattolici, non si può non ribadire che tutta la Rivelazione, intendendo per tale sia la Scrittura sia la Tradizione della Chiesa, stigmatizzano il peccato contro natura. Dargli riconoscimento giuridico suona come un’aperta sfida a Dio stesso, visto che si tratta di uno dei quei peccati che “gridano vendetta al cospetto di Dio” ed attirano il giusto sdegno del Signore su coloro che lo praticano e lo riconoscono.
Per questo i cattolici sono chiamati, in questo frangente, oltre a non prestare alcun voto a tale normativa iniqua, anche – qualora sventuratamente la stessa diventasse legge – a non prestare alcuna collaborazione, attiva o passiva, all’attuazione di questa legislazione. I cattolici sono chiamati all’obiezione di coscienza.
I politici di fede sinceramente cattolica, e non “cattolici à la page”, sono chiamati a votare decisamente in senso negativo questo d.d.l., senza se e senza ma, non essendoci spazio alcuno per compromessi di sorta (ad es., affermando “sì al riconoscimento, no alle adozioni” o “no alle adozioni, sì ad un affido rafforzato”). Il politico di fede cattolica deve saper trarre da ciò le debite conseguenze, non esclusa, in extrema ratio, la rinuncia al seggio, memore delle parole del Signore: «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero se poi perde l'anima sua?» (Mt 16, 26). Del resto non fece altrettanto S. Tommaso Moro, celeste patrono dei politici cattolici? Non abbiamo in lui un esempio da imitare? Piuttosto che votare, ed essere compartecipe di una legge contraria a quella di Dio, preferì dapprima dimettersi dalla carica di Lord Cancelliere, e poi accettare il martirio per decapitazione il mattino del 6 luglio dell’anno del Signore 1535. Così facendo salvò la sua anima. Il Santo patrono dei politici ha insegnato il primato della coscienza sulla legge e sullo Stato e di cui questo non ha in alcun modo il monopolio. Lasciò scritto: «Ho cercato di conciliare il servizio pubblico e la mia vita interiore con la volontà di Dio e per questo non mi si può considerare un uomo di Stato, un politico autentico, poiché costui deve accettare e difendere anche ciò che va contro la sua stessa essenza, la sua coscienza e io non sono mai riuscito a farlo». Affermò poi, con una convinzione che ci stupisce ancora oggi, «l’uomo è la sua coscienza e non altro».
Ahhh …. se questi nostri parlamentari comprendessero il valore del voto: si giocano tutto. Bene dell’anima compresa.
Un parlamentare che votasse a favore di tale disciplina, ancorché frutto di compromessi, certamente esporrebbe ad un grave pericolo la sua stessa anima.
Né vale obiettare che Gesù non abbia mai detto nulla contro la sodomia (in questo senso, ad es., si è espresso tempo fa il c.d. “priore” di Bose, v. qui) e che le parole più dure si troverebbero nelle Epistole paoline e Paolo sarebbe solo un’interprete del pensiero cristiano e nulla più. No. Tale affermazione è senza ombra di dubbio eretica, e chi la fa può definirsi, senza tema di smentita, come non cattolico ed addirittura non cristiano, in quanto le Lettere dell’Apostolo delle Genti costituiscono, al pari del Vangelo, la Rivelazione, essendo state pure le sue parole ispirate da Dio. Del resto, chi afferma il contrario mostra, per un verso, di non aver penetrato sino in fondo il cuore di Paolo, che, come ci conferma il Crisostomo, è il cuore stesso di Cristo (cfr. In Epistolam ad Romanos); per altro verso, dimenticano quanto lo stesso beato Pietro diceva riguardo all’Apostolo delle Genti ed alle sue epistole: «La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt. 3, 15-16). S. Pietro equipara le lettere di Paolo «al pari delle altre Scritture» ed afferma che «gli ignoranti e gli instabili» le travisano «per loro propria rovina».
Un ammonimento quantomeno appropriato anche oggi.
Per cui, non è possibile separare Paolo da Cristo e viceversa, quasi facendo una cernita tra il Vangelo e le Lettere.
Gesù stesso, l’Alfa e l’Omega, d’altro canto, nell’Apocalisse di S. Giovanni ordinò all’Apostolo di scrivere: «per i vili e gl'increduli, gli abietti e gli omicidi, gl'immorali, i fattucchieri, gli idolàtri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte»  (Ap. 21, 8). Il termine “immorali” qui traduce l’espressione latina “fornicatoribus”, che indica tutti coloro, uomini o donne, che ardono di passione sregolata verso altri individui (non interessa se altri uomini o donne).
Il Signore, dunque, in maniera chiara ha inteso riferirsi, con un termine generale, ad ogni forma di immoralità sessuale, avulsa dalla finalità procreativa ed al di fuori dell’istituzione nuziale legittima e secondo natura.
S. Paolo è ancora più esplicito. Scrive letteralmente: «Per questo Dio li ha abbandonati a passioni degradanti; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s'addiceva al loro traviamento» (Rm. 1, 26-27). Questi due versetti rappresentano l'unico punto in tutta la Bibbia in cui gli atti omosessuali sono presi in considerazione nella loro duplice sfumatura: atti di uomini con uomini e atti di donne con donne. Se è vero che Paolo ha appena stigmatizzato la stoltezza dell'uomo che, aderendo all'idolatria, ha scambiato «la verità di Dio con la menzogna, adorando e prestando un culto alle creature invece che al Creatore» (1, 25), è anche vero che obiettivo dei vv. 26-27 è quello di mostrare a quali distorsioni può essere esposto l'ordine della creazione, quando l'uomo perde la verità ontologica di sé stesso e della realtà creata.
Ancora (1 Cor. 6, 9-11): «O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati (lett. malakoi), né sodomiti (lett. arsenokoitai), né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!». Quest’elenco si distingue per la minaccia («non erediteranno il regno di Dio») e per l'amplificazione della devianza nell'ambito sessuale e relazionale.
Ancora (1 Tim. 1, 9-10): «sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli assassini, i fornicatori, i pervertiti (lett. arsenokoitais), i trafficanti di uomini, i falsi, gli spergiuri e per ogni altra cosa che è contraria alla sana dottrina, secondo il vangelo della gloria del beato Dio che mi è stato affidato».
S. Paolo ricorda a Timoteo che queste pratiche sono contrarie «alla sana dottrina».
I passi di riferimento si potrebbero moltiplicare.
Per cui, chiara è la condanna di Dio. Unanime, nella condanna, la Tradizione della Chiesa.
Ecco cosa ne pensavano i Santi, altro che interpretazioni personalistiche, come vorrebbe taluno. Sant'Agostino (dottore e padre della Chiesa) scriveva: «I delitti che vanno contro natura, ad esempio quelli compiuti dai sodomiti, devono essere condannati e puniti ovunque e sempre. Quand'anche tutti gli uomini li commettessero, verrebbero tutti coinvolti nella stessa condanna divina: Dio infatti non ha creato gli uomini perché commettessero un tale abuso di se stessi. Quando, mossi da una perversa passione, si profana la natura stessa che Dio ha creato, è la stessa unione che deve esistere fra Dio e noi a venir violata» (Sant'Agostino, Confessioni, c. III, p.8).
E San Gregorio Magno, nel suo grandioso apostolato, non si dimenticò di asserire: «Che lo zolfo evochi i fetori della carne, lo conferma la storia stessa della Sacra Scrittura, quando parla della pioggia di fuoco e zolfo versata su Sodomia dal Signore. Egli aveva deciso di punire in essa i crimini della carne, e il tipo stesso del suo castigo metteva in risalto l'onta di quel crimine. Perché lo zolfo emana fetore, il fuoco arde. Era quindi giusto che i sodomiti, ardendo di desideri perversi originati dal fetore della carne, perissero ad un tempo per mezzo del fuoco e dello zolfo, affinché dal giusto castigo si rendessero conto del male compiuto sotto la spinta di un desiderio perverso» (San Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, XIV, 23, vol. II, p. 371).
San Pier Damiani, dato che si erano accese delle questioni in merito, ribadì, senza se e senza ma: «Questo vizio non va affatto considerato come un vizio ordinario, perché supera per gravità tutti gli altri vizi. Esso infatti, uccide il corpo, rovina l'anima, contamina la carne, estingue la luce dell'intelletto, caccia lo Spirito Santo dal tempio dell'anima» (San Pier Damiani - dottore della chiesa e grande riformatore dell'Ordine Benedettino, Liber Gomorrhanus, in P.L., vol. 145, coll. 159-190).
San Tommaso D'Aquino, dal canto suo, volle ribadire il concetto che l'omosessualità è una gravissima offesa a Dio: «Nei peccati contro natura in cui viene violato l'ordine naturale, viene offeso Dio stesso in qualità di ordinatore della natura» (S. Tommaso d'Aquino, Summa Teologica, II-II, q. 154, a. 12).
Santa Caterina da Siena e San Bernardino da Siena, addirittura affermano che la sodomia è il peccato più grave, dopo quello contro lo Spirito Santo e, comunque, se la sodomia è praticata con persistenza, in violazione dei dettami di Dio, anch'esso diventa peccato a cui non c'è perdono: «…Commettendo il maledetto peccato contro natura, quali ciechi e stolti, essendo offuscato il lume del loro intelletto, non conoscono il fetore e la miseria in cui sono…» (S. Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza, cap. 124).
«Più pena sente uno che sia vissuto con questo vizio de la sodomia che un altro, perocchè questo è maggior peccato che sia» (San Bernardino da Siena, Predica XXXIX, in Id., Prediche volgari, p. 915).
San Pietro Canisio (dottore della Chiesa) non ebbe paura di dire che l'omosessualità viola sia le leggi divine che quelle naturali: «… Di questa turpitudine mai abbastanza esecrata sono schiavi coloro che non si vergognano di violare la legge divina e naturale» (San Pietro Canisio, dottore della Chiesa, Summa Doctrina Christianae, III a/b, p. 455).
Per cui non può esservi dubbio alcuno che la Rivelazione, ovverosia ciò che Dio ha voluto farci conoscere di sé e del Suo Mistero, sia nel senso di condannare gli atti omosessuali. A maggior ragione, degno di maggior condanna, è l’approvazione di una legislazione che legittimasse questi atti, equiparando ciò che è frutto di una passione sregolata e disordinata al matrimonio. Si tratta di una violazione palese della Legge divina, che espone gravemente il politico che l’approva ed il pubblico ufficiale, che dovesse attuare, mediante la sua cooperazione materiale, tale legge ingiusta, alla riprovazione di Dio ed alla condanna eterna. Parimenti, il cittadino cattolico, onde non rendersi pur egli complice, non potrà votare o dare la sua preferenza a quei politici o partiti o movimenti, che dovessero essere favorevoli o che avessero in qualche modo approvato o patrocinato questa legge. Commetterebbe, infatti, qualora li votasse parimenti peccato grave.
Tutto ciò trova conferma nelle parole del Santo Teoforo Ignazio di Antiochia, martire, il quale, scrivendo agli Efesini, ammoniva: «Non ingannatevi, fratelli miei. Quelli che corrompono la famiglia “non erediteranno il regno di Dio”. Se quelli che fanno ciò secondo la carne muoiono, tanto più che con una dottrina perversa corrompe la fede di Dio per la quale Cristo fu crocifisso! Egli, divenuto impuro, finirà nel fuoco eterno e insieme a lui anche chi lo ascolta» (Lett. agli Efesini, cap. XVI).
Nella festa di S. Scolastica, Vergine, sorella di S. Benedetto, rilancio questo contributo tratto da Riscossa Cristiana e rilanciato da Chiesa e postconcilio.

Ambito umbro, Estasi di S. Scolastica, XVII sec., museo diocesano, Terni



Fabrizio Boschi, S. Benedetto in gloria con le SS. Scolastica e Francesca Romana genuflesse, Basilica di Santa Trinità, Cappella Strozzi, Firenze


Acquaforte da un'opera del Mignard, S. Scolastica sorella di S. Benedetto e Religiosa del Suo Ordine, XVII sec., collezione privata


Ramón Bayeu, S. Scolastica in gloria, 1787, monasterio de San Joaquín y Santa Ana, Valladolid

Dopo il Family Day. Cirinnà, “battaglie” cattoliche e democristianismo. Alessandro Gnocchi intervista Elisabetta Frezza

Ineludibile e da incorniciare. Riprendo da Riscossa Cristiana [qui].
Ha preso il nome della senatrice Monica Cirinnà perché è stata lei a presentare il disegno di legge sulle unioni civili che porta dritto dritto al riconoscimento delle convivenze omosessuali con tutto quel che ne consegue. Ma, in realtà, quello delle unioni omosessuali è un calderone messo da tempo sul fuoco e dentro ci bolle di tutto, dalle astuzie vere e presunte della politica politicante ai cosiddetti temi civili che sarebbe meglio chiamare incivili, fino al triste spettacolo offerto da ciò che resta della Chiesa cattolica ai tempi del Papa venuto dalla fine del mondo. Intanto, nel pignattone incandescente ognuno ci butta quello che crede con l’idea di cavarne quello che spera, con il solo risultatozzzzfrzz che chi va nella pignatta si imbroda. Così, nei vapori irrespirabili che ne scaturiscono, in cui tutto ha lo stesso sapore, risultano appiccicose e limacciose anche le ragioni di quelli che dovrebbero avere ragione. Nel gioco un po’ ingenuo di smuovere le masse per smuovere le élite, proprio loro, quelli che dovrebbero aver ragione, finiscono per pretendere di avere ragione oscurando o ignorando quelle che dovrebbero essere le loro vere ragioni: riducono tutto a un argomento umano, ne fanno una gara all’ “io sono più umano di te” quando, invece, bisognerebbe dire “io sono cristiano perciò ho più ragione di te”. Ma questi non sono argomenti buoni per la piazza, che di solito i cristiani li dà in pasto ai leoni.
Dentro il Circo Massimo un tempo i martiri vincevano versando il sangue ed è difficile che oggi ci riescano urlando nei megafoni. Ammesso che si possa archiviare questa Cirinnà, ce ne sarà un’altra. Ma qui si potrebbe obiettare che è meglio poco piuttosto che niente, però si potrebbe replicare che è  meglio niente piuttosto che poco di buono. Ma è materia complessa, per cui è bene chiedere lume a chi ne sa. Per questo sono andato a parlare con Elisabetta Frezza, che ha il difetto di essere una mia amica, ma ha il pregio di essere un avvocato con le idee chiare e il coraggio di esporle in pubblico. Molti l’avranno già sentita parlare o avranno letto i suoi articoli sulle questioni dell’omosessualismo, sul gender e su tutto ciò che ne discende, nella società, nella scuola, nella famiglia. Quanto segue è quello che è uscito dalla nostra chiacchierata.

Alessandro Gnocchi

* * *

Elisabetta, partiamo dalla fine. Magari si riesce a pescare un filo che ci fa risalire fino ai veri termini della questione. C’è stato il Family Day, due milioni di persone sono andate in piazza a dire che vogliono difendere la famiglia e tante altre belle cose. Ma come andrà a finire con la legge Cirinnà?

È tutto già scritto. Le unioni civili si faranno, magari senza utero in affitto (tramite stepchild adoption) in prima battuta, ma si faranno. Hanno già deciso. Cioè, ha già deciso, lui.

Lui chi? Lui Renzi, lui Bergoglio?

Lui Ruini. Su Riscossa Cristiana lo ha spiegato bene Patrizia Fermani. Ruini lo ha fatto sapere tramite Corriere della Sera, su sollecitazione di un compiaciutissimo Aldo Cazzullo. Dietro a tutto c’è ancora il grande vecchio, è proprio il caso di dire così. Non dimentichiamolo, Ruini è quello del “non chiediamo l’abolizione della 194”, quello che con Carlo Casini stabilì per tabulas i 140.000 embrioni morti ogni anno della legge 40 e fece digerire al mondo cattolico il rospo della fabbricazione degli esseri umani in provetta. Grazie a lui, capace di mettere in circolo la vulgata del “porre fine al far west procreativo”, si inaugurò il mercimonio umano legalizzato, eugenismo incorporato, con imprimatur episcopale. La stessa cosa accade ora, e il programma è stato presentato con estrema chiarezza: di questo bisogna dare atto agli strateghi della nuova manovra suicida, ovvero della consacrazione a tutto tondo dei rapporti contro natura.

Però, nelle ultime ore, si parla di una marcia indietro sulla legge, pare che l’ingranaggio si sia inceppato: Grillo dà ai suoi libertà di coscienza, Alfano punta i piedini e fa il permaloso…

Certo, la dialettica politica dove tutte le idee sono sullo stesso piano e tutto è negoziabile, fa il suo corso. I politici praticano il loro mestiere e cercano di intercettare il massimo di consenso compatibile col mantenimento della poltrona, che è sempre il loro obiettivo supremo. Alla fine, magari, ci presenteranno come un trionfo una battuta d’arresto, una pausa di riflessione, sulla sorte dei bambini. In realtà la bomba ad orologeria è innescata, lo sanno tutti, stanno solo baruffando col timer. Una pena. In questo scenario desolante, non si deve guardare alle marionette, ma al puparo.

Per tornare alla questione Ruini, non è così malizioso chi pensa che il problema vero stia dentro al mondo cattolico e che il Family Day sia la gioiosa maschera mortuaria di un cattolicesimo votato a gestire la disfatta invece che a organizzare la riscossa.

Partito l’ordine, si finisce per serrare i ranghi. Tutti, o quasi, ai loro posti in modo più o meno strisciante. Tra gli organizzatori della manifestazione, dietro l’apparente compattezza, regna la confusione più totale, ben espressa nella persona del portavoce Massimo Gandolfini che un giorno chiede di scorporare la sola questione dei figli, un altro parla di diritti individuali degli omosessuali, un altro ancora di diritti civili della coppia, magari “attenuati”, in un virtuosismo ormai incontrollato di variazioni sul tema.

Quindi, il concetto “No Cirinnà” è forte e chiaro come sembra o no?

Bisogna tenere presente quanto dicevamo prima: il grido di battaglia “No Cirinnà” può benissimo voler significare – e infatti significa – “Ok a una Cirinnà bis”, con qualche ritocco cosmetico a scadenza. Tanto, a completare il lavoro ci sta comunque la Corte Costituzionale in servizio permanente effettivo. Basti vedere cosa dichiara per esempio l’avvocato Simone Pillon, anche lui come Gandolfini di area neocatecumenale, formazione protagonista assoluta della piazza: “Il problema del ddl è la prima parte, ovvero tutti quegli articoli che sostanzialmente equiparano le unioni civili al matrimonio. La seconda parte, dove pure ci sono punti che non ci trovano d’accordo, potrebbe rappresentare una base di trattativa e comunque fa riferimento ad un elenco di diritti individuali: questo potrebbe vederci d’accordo. Il problema è l’equiparazione”. Come da comandamento ruiniano. (vedi su ZENIT cliccando qui).

Ma, alla fine, questa resistenza c’è o non c’è?

C’è una finta resistenza che ha fissato il limite della ritirata strategica sulla linea dell’utero in affitto. Una retroguardia condivisibile persino da alcune femministe. Come sempre, la tattica è quella disastrosa di cercare ciò che unisce al di là di ciò che divide. La grande ammucchiata rimane sempre la grande tentazione. Ringhiano, ringhiano tutti, ma non mordono, anzi alla fine leccano la mano di chi li nutre. È un dogma del democristianismo: can che abbaia, lecca. In tal senso il più onesto è il presidente del Movimento per la Vita, presente massicciamente in piazza. Gianluigi Gigli, in un articolo su Avvenire, cala paternalisticamente dall’alto perle di autentica saggezza democristiana. Un conto – dice – è la piazza, utile per “consolare un sentimento identitario” (sic), altro conto il parlamento degli ottimati, dove è assurdo fare barricate velleitarie contro la Cirinnà perché una legge sulle unioni civili “è ormai imposta dalla Consulta e dalla UE”. Del resto, il legame di sangue tra Movimento per la Vita e vertici episcopali, cementato dall’otto per mille, è inossidabile (vedi su Scienza e Vita cliccando qui).

E allora, in Italia, è rimasto qualcuno che non vuole questa legge neanche emendata?

Nella vetrina ufficiale no. Il dissenso integrale pare evaporato. Resta, penso, nel sentire di molti in cui alberga ancora il buon senso comune e il senso di realtà, della gente sana distante dalle alchimie della politica dei palazzi sacri e profani. Quella che crede ancora che ci siano dei principi veritativi da difendere a qualunque costo. Purtroppo, spesso, crede anche che siano rimasti uomini capaci di rappresentarla. Ma questi uomini non ci sono, o meglio, quelli che hanno il coraggio, nonostante tutto, di andare al cuore della questione – in questo caso, cioè, di dire che i rapporti sodomitici sono di per sé un male perché offendono la legge naturale e divina – vengono lasciati esibire ai margini, in omaggio al pluralismo di facciata.

Mi stai dicendo che i due milioni del Circo Massimo sono da soli oppure che sono da soli e neanche tanto ben attrezzati?

Probabilmente la parte della folla non eterodiretta – in virtù di quel fenomeno di “gestione di cervelli in conto terzi” che connota i movimenti ecclesiali, secondo una folgorante definizione di Mario Palmaro – è ben orientata, anche se magari il magma incandescente che le ribolle in corpo avrebbe bisogno di essere razionalizzato e ricondotto a poche idee ben formulate, anziché condensato in slogan senza senso e a doppio taglio perché assemblati con le stesse suggestive parole passe-partout (i diritti, l’amore) a servizio della causa avversaria. La realtà è che nessuno, da una postazione titolata, attacca il problema alla radice. Nessuno osa più ricordare che un ordinamento (nella sua funzione, appunto, “ordinatrice”) deve tutelare solo interessi che coincidano con l’interesse generale, in vista della conservazione e della crescita retta e armonica della società. Che la famiglia non è un fatto convenzionale, ma una realtà naturale che precede il diritto, perché è il luogo dove si genera e si cresce la vita. Che Sodoma fu incenerita da Dio per quelle stesse condotte che la Cirinnà e la sua corte vogliono definitivamente legalizzare. Nessuno parla più di sodomia, inclusa la maggioranza dei preti, vescovi, cardinali.

Questa parte sana di cattolicesimo contro chi sta combattendo? Contro il mondo laico e omosessualista, certo, ma anche contro chi dovrebbe guidarla?

A rigore, e magari senza saperlo, sì. Combatte da sola. E deve continuare a farlo, beninteso, senza scoraggiarsi e senza farsi intimidire. Meglio però se ha la percezione disincantata della realtà, per quanto sconvolgente e dolorosa possa essere, proprio per non venire deviata su lidi normalisti, per una idea distorta di obbedienza alla autorità. Ormai sappiamo che le famiglie e le persone di buona volontà in rivolta contro il disegno della creazione di Dio e contro gli attentatori dei bambini debbono lottare oggi contro due eserciti riuniti sotto una unica bandiera: l’esercito dei laici del nichilismo onusiano e quello degli ecclesiastici che hanno tradito la Chiesa di Cristo con i loro emissari in borghese.

E quale è il nemico che ti fa più paura?

Il vero nemico non è il radicale, il satanista, l’abortomane, ma il democristiano che ne permette l’operato aprendogli la strada tramite la contorsione logica e morale del “male minore”. Se su tutto questo ci metti che il Papa del “chi sono io per giudicare” ha nuovamente tessuto l’elogio di Emma Bonino, mi pare che il quadro sia completo. Tanti fedeli disorientati cercano disperatamente di aggrapparsi all’uscita “cattolica” di questo o quel prelato, e si è giunti al paradosso che pare una grazia sentir dire pubblicamente qualcosa di aderente al magistero di sempre. Di fatto, la sodomia è sdoganata dai vescovi e il gioco dialettico, anche aspro, tra Galantino, Mogavero e compagni da un lato (apertamente contro il family day), e Bagnasco e Ruini dall’altro (a favore della manifestazione), è solo quello tra il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, per pigliare nel sacco il malcapitato popolo di Dio.

Il mestiere mi imporrebbe di farti questa domanda in forma asettica, quasi ingenua, ma l’amicizia me lo impedisce. Allora ti chiedo brutalmente cosa pensi dell’Appello che ha raccolto molti insigni giuristi intorno a una protesta contro il disegno di legge.

Questo Appello, promosso dal “Centro Studi Livatino”, ha raccolto le firme di moltissimi giuristi: docenti universitari, avvocati, magistrati, presidenti emeriti di Corti. Si intitola Rilancio della famiglia come riconosciuta dalla Costituzione, no a improprie equiparazioni. Ora, a chi abbia in testa il codice di decrittazione della realtà capovolta in cui siamo calati non può sfuggire già dal titolo come questa iniziativa si immetta nella scia del moderatismo di regime. Il testo del documento lo conferma in pieno. Ha avuto particolare risalto proprio perché è stata presentata come presa di posizione elitaria, di categoria. In un tempo in cui vanno tanto di moda gli “esperti” e tanto si parla di “competenze”, una sfilza di nomi di legulei fa la sua matta figura. Ma non è altro che l’ennesimo avallo alla linea “maleminorista”, con l’aggravante che è un avallo titolato perché proveniente dalla crème dei giuristi di area sedicente cattolica o giù di lì.

E che cosa rappresenta o che cosa vuole questa crème?

A ben vedere, se appena appena si conoscono nomi e fatti della storia recente snodatasi intorno a questo tema, si scopre che gli autori dell’appello sono gli stessi del Testo Unico sulle convivenze – già ampiamente commentato su queste colonne – che costituisce lo schema tecnico-giuridico principe della “nuova famiglia cristiana” aggiornata secondo copione. I due testi – Appello e Testo unico – si compenetrano perfettamente e vanno letti in combinato disposto. Tutto torna. Anche l’Appello dunque concorre all’obiettivo comune. In fin dei conti, infatti, le posizioni di Gandolfini e compagnia ricalcano l’impianto del Testo Unico, che altro non è se non la trappola per attirare, tramite Alleanza Cattolica, la parte più a destra del dissenso simil-cattolico. Sono i normalizzatori per mandato episcopale.

Direi che si sta creando una struttura di tipo politico pronta a tutto, nel senso di pronta a trattare su tutto. Mi sbaglio?

Non ti sbagli. Vedo i Family Day come lo strumento mediatico per accreditare nuove candidature in quota “cattolica”. Manifestazioni per designare, tramite acclamazione popolare, le pedine del potere episcopale in parlamento, preselezionate in base alla disponibilità al compromesso che è la cifra di tale potere. Una sorta di vidimazione pubblica, quando serva un aggiornamento dell’interfaccia. Nel 2007 è stata lanciata Eugenia Roccella, con ottime referenze di militanza radicale, che da quel primo Family Day rappresenta la cinghia di trasmissione tra vescovi e stanze della politica e infatti per nove anni ha piantato “paletti”, postumi o preventivi. Dalla passerella sul palco del 30 gennaio uscirà qualcun altro, scelto in base ad analoghe credenziali. Il test di voto l’hanno già fatto, le carte sono in regola.

Stai girando parecchio con le tue conferenze. Che tipo di platea trovi?

Varia. Ho visto di tutto. Dalla mamma allarmata alle persone in apprensione per figli di tutte le età, fino a sacerdoti e politici. Non sono mancate le contestazioni, provenienti da tipi umani ricorrenti: omosessuali, sindacalisti, studentesse rampanti in psico-pedagogia, professoresse lettrici di Repubblica. Dopo la nota del responsabile scuola della curia di Padova, che ha avuto un insperato successo planetario specie in ambienti gay, il pubblico è un po’ diminuito, perché molti genitori – che, comprensibilmente, non aspettavano altro – si sono messi il cuore in pace: il ministro Giannini è donna di sani e robusti principi e lavora per il bene dei nostri figli, li ha rassicurati il delegato diocesano. Tuttavia, devo riconoscere che l’ultimo incontro, successivo al Family Day, ha avuto un esito inatteso: la gente ha preso coraggio, ha toccato con mano che nonostante tutto c’è ancora un idem sentire forte e diffuso, ed è arrivata a contestare apertamente un prete che era relatore insieme a me e asseriva che non bisogna essere troppo allarmisti, che è tutto sotto controllo, l’importante è prendere atto delle novità, saper distinguere gli eccessi dalle cose buone ed essere sempre disponibili al dialogo e al confronto.

C’è una parte di gente che già sa come stanno davvero le cose o che almeno lo intuisce?

Sì. Tutti lo intuiscono, nel profondo. La legge naturale non si gabba in così poco tempo. Per qualche motivo ora il nemico sta vistosamente accelerando. E questo per noi, tutto sommato, è un vantaggio: la propaganda invertita, propinata tutta in un colpo, desta sospetto.

Nonostante questo, continuo a chiedermi se la retorica sull’Italia sana, sul popolo della famiglia, sia basata su numeri reali o su più o meno pie illusioni.

In effetti, noi siamo davanti a un Italia che ormai si beve come acqua limpida divorzio, aborto, fecondazione artificiale e orrori ulteriori, e che alla fine è tentata dal mainstream di dire come una cantilena che i diritti delle persone non si possono toccare e che non si deve essere omofobi.

Credo che questo, anche sottovalutato, sia il punto. La vera guerra si vince sul terreno delle parole. Quando, anche alla migliore petizione di principio, si premette di “non essere omofobi” la resa senza condizioni è già stata firmata.

Infatti. Questa è innanzitutto una guerra delle parole, che vengono coniate o ri-connotate a servizio della campagna di conquista. L’omofobia è un’invenzione onomastica che ha creato un fenomeno virtuale. Un esempio mirabile di neolingua orwelliana. Si tratta della terza fase della finestra di Overton, il processo di ingegneria sociale applicata con cui si rende l’assurdo normalità. Il regista russo Mikhalkov la spiegava così: al primo livello, chi mangia gli essere umani è chiamato “cannibale”. Al livello successivo si parla di “antropofagia” e, con la parola di matrice classica e di sapore scientifico, il fenomeno, per quanto negativo, viene considerato degno di attenzione accademica e in qualche modo nobilitato. Al passaggio ulteriore gli antropofagi divengono “antropofili”, si addolcisce il senso di negatività del comportamento anomalo. Nell’ultima fase, si afferma la bontà del fenomeno inizialmente percepito come deplorevole e si realizza il capovolgimento finale: sorge la categoria degli “antropofobi”, coloro che pervicacemente ancora vi si oppongono, nonostante la sua avvenuta normalizzazione. Somministrato con gradualità e maniere dolci, il paradosso è accettato senza crisi di rigetto. Ecco, sostituendo “cannibale” con “invertito”, si capisce come siamo finiti a parlare di “omosessuali” e “omofobi”. L’omofobia, dunque, è un’arma strategica decisiva per il raggiungimento, da parte dei movimenti omosessualisti, di una folle supremazia culturale e politica, secondo il disegno di una potente regia: attraverso le formule, si crea il soggetto socialmente pericoloso, colui che si pone al di fuori della nuova morale codificata mediaticamente e pilotata politicamente. Secondo i dettami di ogni totalitarismo, per legittimare la repressione è necessario precostituirsi una minaccia interna al sistema, il nemico oggettivo, appunto l’omofobo, cioè tu, io e tutti coloro che la pensano come noi e osano dirlo o anche solo pensarlo (è stigmatizzato anche l’atteggiamento interiore, andiamo verso lo psicoreato). Ecco perché con quella premessa “precauzionale” – con cui ci si illude di apparire sufficientemente ragionevoli, tolleranti e responsabili agli occhi della massa addomesticata – si entra nel territorio del nemico e, assumendo le sue categorie, lo si legittima. Una mossa suicida.

A maggio è in programma la sesta Marcia per la Vita. Tu che fai parte del comitato promotore, puoi dirmi se c’è qualcosa che la accomuna al Family Day?

Sono due cose molto diverse. La Marcia per la Vita è un evento annuale, è come una goccia che, martellante, deve continuare a scalfire la roccia della indifferenza verso gli insulti alla vita. Non è una iniziativa estemporanea e mirata, come il Family Day. Certo, con esso condivide una funzione importante, a mio parere: quella di mantenere una visibilità nello spazio pubblico a quella componente sana del corpo sociale che non vuole rassegnarsi allo sfacelo etico che macina corpi e cervelli. Se molliamo anche quel piccolo pezzo di palcoscenico e ci ritiriamo solo nel nostro privato, togliamo a noi e agli altri un appiglio cui guardare, e magari aggrapparsi. Scendendo per le strade dietro una bandiera chiara e vera, mostriamo a chi ha occhi e cuore per vedere che l’opera di assuefazione delle coscienze non è completata e non si completerà mai e regaliamo forse a qualcuno un po’ di coraggio. L’essenziale è che queste iniziative lancino un messaggio univoco e nitido. Siano capaci di far brillare sotto il cielo di Roma, caput mundi, l’anacronismo della verità.

Fonte: Chiesa e postconcilio, 10.2.2016

Barca di Pietro, promessa del Salvatore, salvezza di chi vi viaggia in un aforisma del Beato Pio IX

10 febbraio: anniversario del pio transito (1939) di Papa Pio XI Ratti, Sommo Pontefice

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Tomba di Pio XI, Grotte Vaticane, Città del Vaticano, Roma

Nostra Signora di Lourdes

“Hoc vitæ institútum quam sibi foret accéptum Deus miráculo osténdit. Nam cum paulo deínceps hi septem viri per Florentínam urbem ostiátim eleemósynam emendicárent, áccidit, ut repénte infántium voce, quos inter fuit sanctus Philíppus Benítius quintum ætátis mensem vix ingréssus, beátæ Maríæ Servi acclamaréntur: quo deínde nómine semper appelláti sunt” (Lect. V – II Noct.) - Ss. SEPTEM FUNDATORUM Ordinis Servorum B. M. V. CONFESSORUM

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Questa festa fu istituita, con rito doppio, nel 1888 da Leone XIII, che aveva, poco prima (nel 1887, in occasione del suo giubileo sacerdotale), iscritto solennemente nel catalogo dei santi i nomi dei nobili fiorentini Bonfiglio Monaldi, Bonagiunta Manetti, Manetto dell’Antella (o Antelles), Amedeo De’ Amideis (o Amidei), Uguccio Uguccioni, Sostegno De’ Sosteneis (o Sostegni) ed Alessio Falconieri, morti tra il 1242 ed il 1310.
Il giorno della festa è stato più volte spostato.
Dapprima fissata da Leone XIII all’11 febbraio, fu spostata nel 1908 al dì seguente. Con la riforma montiniana, la festa fu spostata al 17 in ricordo del natale del più anziano del gruppo, Sant’Alessio Falconieri, zio di Santa Giuliana (celebrata il 19 giugno), morto all’età di 110 anni il 17 febbraio 1310.
Nel XIII sec., mentre l’Italia era lacerata dagli scismi e dalle lotte intestine, questi illustri rappresentanti del patriziato fiorentino, ritirandosi sul monte Senario, diedero vita ad un nuovo ordine religioso, tutto dedito alla penitenza ed alla contemplazione dei dolori di Gesù crocifisso e della sua divina Madre.
La messa è di composizione recente che, è bene dirlo, qua e là si scosta dalle antiche regole liturgiche, rivelando tuttavia il buon gusto che distingueva Leone XIII.
Significativo è segnalare l’introito odierno, che contiene un’allusione graziosa all’episodio miracoloso dei bambini, tra i quali era, si dice, san Filippo Benizi, che aprendo per la prima volta le loro labbra innocenti sulla pubblica piazza di Firenze, fecero l’elogio dei setti nobili santi, salutandoli sotto il nome, rimasto da allora nell’uso comune, di Servitori della beata Vergine Maria. Il passo evangelico è quello comune degli Abati, come il 5 dicembre, festa di san Saba.
Roma cristiana ha dedicato a questi santi una chiesa, inaugurata nel 1956, nel quartiere Nomentano.


Agostino Masucci, I Sette Santi Fondatori, 1727, Chiesa di San Marcello al Corso, Roma

Matteo Rosselli, Apparizione della Vergine ai Sette Fondatori, XVII sec., Chiesa della Santissima Annunziata dei Servi, Lucca

Giuseppe Maria Crespi, SS. sette fondatori, XVII sec., Guastalla

Messa Pontificale celebrata l'8 febbraio 2016 dal card. R. L. Burke nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo in Cracovia, Polonia

L'incontro tra l'Antica Roma e la Terza Roma e la fecondità della Chiesa nella sua stabilità bimillenaria

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Sembra quasi di sognare ad occhi aperti.
La dichiarazione congiunta tra il vescovo di Roma ed il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia Kirill (v. qui) pare quasi un miracolo. Non certo per l’incontro. No. Ci voleva davvero il patriarca moscovita per far sottoscrivere delle dichiarazioni (la maggior parte) in sintonia con la fede cattolica, che non fossero vaghe e generiche. Almeno su alcuni temi. E che sia opera dell’intervento del Patriarcato lo dimostra il fatto che i punti clou(ad es., quelli che parlano della secolarizzazione dell’Europa, della persecuzione dei cristiani per la loro fede, delle radici solo cristiane del Vecchio Continente, della stigma per l’equiparazione delle convivenze al matrimonio, della lotta al relativismo, ecc.) presentano uno stile pomposo ed altisonante (tipico del modo di esprimersi moscovita); viceversa, le altre, legate alle tematiche global-ambientaliste, più dimesse quanto a stile e dai contenuti vaghi, generici e populisti e talora erronei (v. ad es. il punto n. 13, n. 17 o il n. 25 tanto per segnalarne alcuni), sembrano provenire dall’entourage dell’Antica Roma. Un'ulteriore conferma la si può avere raffrontando questo testo con la dichiarazione congiunta, che fu sottoscritta a Gerusalemme nel maggio 2014 col Patriarca Bartolomeo I: i toni e le modalità di esprimere i contenuti, che pur sono ripresi in quella con il Patriarca moscovita, sono completamente diverse (v. qui la dichiarazione del 2014 per un raffronto).
Due cose poi hanno colpito.
La prima: il fatto che il vescovo di Roma abbia accettato di colloquiare col Patriarca Kirill alla presenza – senz’altro imposta dal Patriarcato – di un “terzo incomodo”, vale a dire il Crocifisso alle spalle dei due; e di firmare la dichiarazione con a fianco dell'icona della Madre di Dio di Kazan! Dettagli non da poco.












La seconda: quando c’è stata la presentazione, dopo le firme, del documento, il Patriarca moscovita ha posto in luce i fondamentali – per lui e, si potrebbe dire, anche per le orecchie cattoliche – contenuti a base del documento (la difesa dei cristiani della famiglia e della vita); mentre il vescovo di Roma, more solito, ha mantenuto, nel suo intervento, il profilo populista e vago, che ormai lo contraddistingue. Ci voleva insomma Mosca per far dire alla decadente – in tutti i sensi – antica Roma qualcosa di cattolico!!!! Forse uno degli ultimi canti del cigno?
È davvero curioso che il rinnovamento, nella fede cattolica, debba passare per l’incontro con coloro che, formalmente scismatici, sono rimasti fermi al primo millennio dell’epoca cristiana … e che ignorano il depositum fidei sviscerato nel secondo millennio.
Sta di fatto che, al di là dei profili politici che pur hanno contrassegnato quest’incontro in territorio neutrale quale Cuba e che sono stati giustamente messi in rilievo in alcuni commenti (v. qui e qui), quel che è davvero importante, come rileva Cristina Siccardi nell’articolo, che rilanciamo, è il recupero della fede cattolica, il quale non potrà che avvenire se non dal rinvigorimento di quella linfa, oggi davvero quasi essiccata, che è data dalla riscoperta delle verità, deiprincipi e valori eterni, sempre uguali a se stessi. E l’incontro con l’ortodossia scismatica, forse, può essere occasione di questo rinvigorimento, costituendo un freno alla deriva totale, nell’attuale frangente storico in cui la Chiesa cerca più di compiacere il mondo piuttosto che piacere a Cristo, tentando di guarire i suoi malanni e sanare la sua crisi – di cui è pure consapevole sotto certi aspetti, sebbene non ne comprenda la diagnosi – lontana dal Medico per eccellenza, cioè il Signore Gesù.

La fecondità della Chiesa sta nella sua stabilità millenaria

di Cristina Siccardi

La vita viene dalla fecondità, il nulla dalla sterilità. Il nostro tempo è caratterizzato da una diffusa sterilità voluta (aborti, contraccezioni) e involuta (problemi legati allo stile di vita: matrimoni tardivi, stress, vita da single…) ed ecco che l’Europa è vecchia.
Anche la Chiesa è vecchia, lo ha affermato, con angoscia, Papa Francesco all’incontro con i partecipanti al Giubileo della Vita consacrata lo scorso lunedì 1° febbraio, nell’Aula Paolo VI: «(…) vi confesso che a me costa tanto quando vedo il calo delle vocazioni, quando ricevo i vescovi e domando loro: “Quanti seminaristi avete?” – “4, 5…”. Quando voi, nelle vostre comunità religiose – maschili o femminili – avete un novizio, una novizia, due… e la comunità invecchia, invecchia…. Quando ci sono monasteri, grandi monasteri, e il Cardinale Amigo Vallejo (si rivolge a lui) può raccontarci, in Spagna, quanti ce ne sono, che sono portati avanti da 4 o 5 suore vecchiette, fino alla fine… E a me questo fa venire una tentazione che va contro la speranza: “Ma, Signore, cosa succede? Perché il ventre della vita consacrata diventa tanto sterile?”».
Domanda legittima, domanda doverosa, domanda alla quale il Santo Padre non ha però dato una risposta, si è limitato ad invitare le comunità religiose a pregare affinché la fecondità torni nelle congregazioni e negli ordini religiosi. Ma la Madre Chiesa è infeconda perché è molto malata. E una madre assai malata non può mai generare figli. Nella storia le maggiori chiamate vocazionali sono giunte quando ci sono stati Pontefici che hanno riformato la Chiesa nel solco della Tradizione, quando hanno rivolto lo sguardo severo agli errori e li hanno, come un buon padre di famiglia, evidenziati, definiti, invitando i fedeli a starne ben lontani per non essere a loro volta contaminati.
Oggi questo non sta avvenendo e le conseguenze delle piaghe/rughe degli errori ecclesiali ricadono, inevitabilmente, sulla Chiesa stessa, con una sua tragica senilità. «Ma, Signore, cosa succede? Perché il ventre della vita consacrata diventa tanto sterile?»: adattandosi al mondo e adagiandosi sul mondo, la Chiesa perde la sua vitalità rigenerante, il suo essere principio di virgulto. «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 5-11).
I germogli primaverili della Fede sono alimentati da una Chiesa che ha in sé la linfa dei principi e valori eterni, sempre uguali a se stessi; se la linfa viene mutata con surrogati proposti dal mondo la Chiesa perde la sua forza attrattiva: il profumo del sacro rapisce le anime; l’odore e l’olezzo del mondo allontana l’anima assetata di vita spirituale. Le chiamate non mancano fra i giovani perché Dio non si stanca mai di espirare il suo richiamo d’amore, ma sono le risposte che sono insoddisfacenti e il giovane chiamato rinuncia, perché non trova la fonte in grado di appagare la sua arsura. Per trovare il mondo nella Chiesa, tanto vale appartenere al mondo.
La forza di attrazione della Chiesa non sta nella sua umiliante piegatura alle direttive ideologiche e culturali del momento, ma nella sua stabilità millenaria di proposta della Verità: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (Gv 17, 15-19). Questo è ciò che cerca il giovane: dare un senso alla propria vita e darlo nella Verità.
Quando la Riforma Protestante ferì drammaticamente il cuore della Chiesa, Santa Teresa d’Avila operò con un’azione di fortissima opposizione all’errore. Concepì così e condusse a termine, attraverso infinite peripezie, contrasti e sofferenze, quella Riforma del proprio Ordine che da lei prese il nome e diede origine ai Carmelitani Scalzi.
Il 24 agosto 1562 fondò in Avila il suo primo monastero, dedicato a San Giuseppe, dove le monache cominciarono a vivere, in spirito di amore e di abnegazione, una vita il più possibile vicina a quella degli antichi monaci del Monte Carmelo e secondo quelle norme che in seguito Teresa di Gesù codificherà nelle sue Costituzioni. Le fondazioni dei monasteri di Carmelitane Scalze si susseguirono numerose fino al 1582. Le vocazioni fioccavano prodigiosamente. Nel 1568 la Riforma Teresiana si estese ai Padri, grazie all’incontro di Santa Teresa con San Giovanni della Croce e venne fondato a Durvelo il primo convento di Carmelitani Scalzi.
Attraverso l’Autobiografia, le Relazioni, il Cammino di Perfezione, il Castello Interiore, le Fondazioni, gli Avvisi, i Pensieri, le Esclamazioni, le Poesie, le Lettere, Santa Teresa di Gesù riuscì ad infiammare migliaia e migliaia di cuori, fertilizzando, con un apostolato instancabile, la terra della Chiesa. San Pio V, Sant’Ignazio di Loyola, San Carlo Borromeo, San Filippo Neri, San Francesco di Sales… le vite non falsificate, modernizzate, politicamente corrette  dei Santi che hanno combattuto errori ed eresie dovrebbero essere pubblicate e riproposte ai giovani.
Ha ancora dichiarato il papa: «Alcune congregazioni fanno l’esperimento della “inseminazione artificiale”. Che cosa fanno? Accolgono…: “Ma sì, vieni, vieni, vieni…”. E poi i problemi che ci sono lì dentro… No. Si deve accogliere con serietà! Si deve discernere bene se questa è una vera vocazione e aiutarla a crescere. E credo che contro la tentazione di perdere la speranza, che ci dà questa sterilità, dobbiamo pregare di più. E pregare senza stancarci. A me fa tanto bene leggere quel brano della Scrittura, in cui Anna – la mamma di Samuele – pregava e chiedeva un figlio. Pregava e muoveva le labbra, e pregava… E il vecchio sacerdote, che era un pò cieco e che non vedeva bene, pensava che fosse ubriaca. Ma il cuore di quella donna (diceva a Dio): “Voglio un figlio!”. Io domando a voi: il vostro cuore, davanti a questo calo delle vocazioni, prega con questa intensità? “La nostra Congregazione ha bisogno di figli, la nostra Congregazione ha bisogno di figlie…”. Il Signore che è stato tanto generoso non mancherà la sua promessa. Ma dobbiamo chiederlo. Dobbiamo bussare alla porta del suo cuore. Perché c’è un pericolo – e questo è brutto, ma devo dirlo –: quando una Congregazione religiosa vede che non ha figli e nipoti ed incomincia ad essere sempre più piccola, si attacca ai soldi. E voi sapete che i soldi sono lo sterco del diavolo. Quando non possono avere la grazia di avere vocazioni e figli, pensano che i soldi salveranno la vita; e pensano alla vecchiaia: che non manchi questo, che non manchi quest’altro… E così non c’è speranza!».
Pregare è doveroso, ma per guarire dalla sterilità occorre anche l’indispensabile volontà del paziente di fare ritorno al Medico per eccellenza: Cristo Sacerdote, unica Via, unica Verità, unica Vita. D’altra parte ci sono seminari nel mondo come questi http://www.sanpiox.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=1718:sacerdoti-per-il-terzo-millennio-film&catid=47&Itemid=434, dove il Sommo Medico viene preso in parola e le giovani vocazioni, germogli di gioiosa speranza perenne, non si fanno, infatti, attendere.

L'inizio della Quaresima a Gerusalemme e nei Santuari di Terra Santa

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Armi della Chiesa, sacramenti e dottrina in un aforisma dell'allora card. Joseph Ratzinger

Al Monte della Quarantena, presso Gerico, luogo delle Tentazioni

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Lorenzo Ghiberti, Tentazione di Cristo, Porta nord del battistero di Firenze, 1403-24, Firenze

Vasily Surikov, Tentazioni di Cristo, 1872

Predica di Quaresima nella Sala del Trono in Vaticano alla presenza di Leone XIII

Il Monastero di San Giorgio in Goziba nel deserto di Giuda: luogo di silenzio e preghiera, adatto al tempo di Quaresima

Legge contraria al diritto naturale e divino, limite dell'obbedienza alle autorità civili in un aforisma di papa Leone XIII


Inno bizantino della Quaresima "Ora i poteri del cielo"

Card. Sarah: "Il silenzio nella liturgia. Per dire sì al Signore"

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Nella festa dei SS. Faustino e Giovita, martiri, rilancio quest’interessante contributo del card. Sarah sul valore del silenzio in liturgia. Un tema quantomeno opportuno ed indicato in questo tempo quaresimale.


Il silenzio nella liturgia

Per dire sì al Signore

Nel seguente articolo, che riprendiamo da L’Osservatore Romano del 30 gennaio scorso, il cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti affronta il senso del silenzio nella liturgia romana. Il suo discorso si articola intorno a quattro assi portanti: il silenzio come valore ascetico cristiano, il silenzio come condizione della preghiera contemplativa, il silenzio previsto dalle norme liturgiche, l’importanza del silenzio per la qualità della liturgia.

Molti fedeli si lamentano giustamente per l’assenza di silenzio in alcune forme di celebrazione della nostra liturgia.
È quindi importante ricordare il significato del silenzio come valore ascetico cristiano e come condizione necessaria per una preghiera profonda e contemplativa, senza dimenticare che nella celebrazione della santa Eucaristia sono ufficialmente previsti tempi di silenzio, al fine di mettere in evidenza la sua importanza per un rinnovamento liturgico autentico.
In senso negativo, il silenzio è l’assenza di rumore. Il silenzio virtuoso — o meglio mistico — deve essere ovviamente distinto dal silenzio riprovevole, dal rifiuto di rivolgere la parola, dal silenzio di omissione per codardia, egoismo o durezza di cuore. Beninteso, il silenzio esteriore è un esercizio ascetico di padronanza nell’uso della parola. L’ascesi è un mezzo indispensabile che ci aiuta a togliere dalla nostra esistenza tutto ciò che l’appesantisce, vale a dire ciò che ostacola la nostra vita spirituale o interiore e che dunque costituisce un ostacolo per la preghiera. Sì, è proprio nella preghiera che Dio ci comunica la sua vita, ossia manifesta la sua presenza nella nostra anima irrigandola con i flutti del suo amore trinitario, il Padre attraverso il Figlio nello Spirito santo. E la preghiera è essenzialmente silenzio.
I libri sapienziali dell’Antico Testamento traboccano di esortazioni volte a evitare i peccati della lingua (soprattutto la maldicenza e la calunnia).
I libri profetici, da parte loro, evocano il silenzio come espressione del timore reverenziale verso Dio; si tratta allora di una preparazione alla teofania di Dio, vale a dire alla rivelazione della sua presenza nel nostro mondo. Il Nuovo Testamento non è da meno. Di fatto contiene la lettera di Giacomo che è ancora indubbiamente il testo chiave riguardo al controllo della lingua (cfr. Giacomo 3, 1-10). Gesù stesso ci ha messo in guardia contro le parole malvagie, che sono l’espressione di un cuore depravato (cfr. Matteo 15, 19) e anche contro le parole oziose, di cui dovremo rendere conto (cfr. Matteo 12, 36).
In realtà, il vero e buon silenzio appartiene sempre a chi vuole lasciare il proprio posto agli altri, e soprattutto al totalmente altro, a Dio.
Il rumore esteriore invece caratterizza l’individuo che vuole occupare un posto troppo importante, che vuole pavoneggiarsi o mettersi in mostra, o che vuole colmare il suo vuoto interiore.
Nel vangelo si dice che il Salvatore stesso pregava nel silenzio, soprattutto di notte (cfr. Luca 6, 12), o si ritirava in luoghi deserti (cfr. Luca 5, 16; Marco 1, 35). Il silenzio è tipico della meditazione della Parola di Dio; lo si ritrova soprattutto nell’atteggiamento di Maria dinanzi al mistero di suo Figlio (cfr. Luca 2, 19-51).
Il silenzio è soprattutto l’atteggiamento positivo di chi si prepara ad accogliere Dio attraverso l’ascolto.
Sì, Dio agisce nel silenzio. Da qui l’importante osservazione di san Giovanni della Croce: «Il Padre dice una sola Parola: è il suo Verbo, il Figlio suo. La pronunzia in un eterno silenzio ed è solo nel silenzio che l’anima può intenderla» (Massime, 147). Bisogna quindi fare silenzio: e si tratta di una attività, non di una oziosità. Se il nostro “cellulare interiore “ risulta sempre occupato, perché stiamo “conversando” con altre creature, come può il Creatore avere accesso a noi, come può “chiamarci”?
Dobbiamo dunque purificare la nostra intelligenza dalle sue curiosità, la nostra volontà dai suoi progetti, per aprirci completamente alle grazie di luce e di forza che Dio vuole donarci in abbondanza: «Padre non sia fatta la mia, ma la tua volontà». “L’indifferenza” ignaziana è dunque anch’essa una forma di silenzio.
La preghiera è una conversazione, un dialogo con Dio uno e trino: se, in certi momenti, ci si rivolge a Dio, in altri si fa silenzio per ascoltarlo.
Non sorprende quindi che si debba considerare il silenzio come una componente importante della liturgia.
Certo, i riti orientali — che non sono di competenza della mia Congregazione — non prevedono tempi di silenzio durante la divina liturgia.
In Occidente, invece, in tutti i riti (romano, romano-lionese, certosino, domenicano, ambrosiano, e così via) la preghiera silenziosa del prete non viene sempre affiancata dai canti del coro o dei fedeli. La messa latina quindi include da sempre tempi di assoluto silenzio. Il concilio Vaticano II ha mantenuto un tempo di silenzio durante il sacrificio eucaristico. Così la costituzione sulla liturgia Sacrosanctum concilium, al numero 30 ha decretato che «per promuovere la partecipazione attiva si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio».
L’Ordinamento generale del messale romano di Paolo VI, ripubblicato nel 2002 da Giovanni Paolo II, ha precisato i numerosi momenti della messa in cui bisogna osservare il silenzio: «La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica. Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia e nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione» (n. 45).
Il silenzio dunque non è affatto assente dalla forma ordinaria del rito romano, quantomeno se si seguono le sue prescrizioni e ci si ispira alle sue raccomandazioni. Inoltre, al di fuori dell’omelia, occorre bandire qualsiasi discorso o presentazione di persone durante la celebrazione della santa messa. Di fatto bisogna evitare di trasformare la chiesa, che è la casa di Dio destinata all’adorazione, in una sala da spettacolo in cui si va ad applaudire attori più o meno bravi in base alla loro capacità più o meno grande di comunicare, secondo un’espressione che si sente spesso nei media.
Bisogna sforzarsi di capire le motivazioni di questa disciplina liturgica sul silenzio e impregnarsene. Alcuni autori particolarmente qualificati possono aiutarci in questo ambito e riuscire a convincerci della necessità del silenzio nella liturgia. In primo luogo monsignor Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, che esprime il principio generale in questi termini: una liturgia «ben celebrata, con il linguaggio che le è proprio, in diverse sue parti, deve prevedere una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare con straordinaria profondità, mantiene ogni espressione vocale nel giusto clima del raccoglimento. Il silenzio richiesto, pertanto, non è da considerarsi alla stregua di una pausa tra un momento celebrativo e il successivo. È da considerarsi piuttosto come un vero e proprio momento rituale, complementare alla parola, alla preghiera vocale, al canto, al gesto».
Il cardinale Joseph Ratzinger, nella sua celebre opera Lo spirito della liturgia, osservava già che «il grande mistero che supera ogni parola c’invita al silenzio. E il silenzio, è evidente, appartiene anche alla liturgia. Occorre che questo silenzio sia pieno, che non sia semplicemente assenza di discorso o di azione. Ciò che ci aspettiamo dalla liturgia è che ci offra questo silenzio sostanziale, positivo, in cui possiamo ritrovare noi stessi. Un silenzio che non è una pausa in cui mille pensieri e desideri ci assalgono, ma un raccoglimento che ci porta pace interiore, che ci lascia respirare e scoprire l’essenziale».
Si tratta dunque di un silenzio in cui guardiamo semplicemente Dio, in cui lasciamo che Dio ci guardi e ci avvolga nel mistero della sua maestà e del suo amore.
Sempre il cardinale Ratzinger menzionava alcuni momenti di silenzio particolari. Ecco un esempio: «Anche il momento dell’offertorio si può svolgere in silenzio. Questa pratica in effetti si confà alla preparazione dei doni e non può che essere feconda, purché la preparazione sia concepita non solo come un’azione esteriore, necessaria allo svolgimento della liturgia, ma anche come un percorso essenzialmente interiore; si tratta di unirci al sacrificio che Gesù Cristo offre al Padre» (ivi). Vanno biasimate in tal senso le processioni di offerte, lunghe e rumorose, che includono danze interminabili, in alcuni Paesi africani. Si ha l’impressione di assistere a esibizioni folcloristiche, che snaturano il sacrificio cruento di Cristo sulla croce e ci allontanano dal mistero eucaristico.
Occorre pertanto insistere sul silenzio dei laici durante la preghiera eucaristica, come precisa monsignor Guido Marini: «Quel silenzio non significa inoperosità o mancanza di partecipazione. Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino nell’atto di amore con il quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così che diventi anche il nostro agire nella quotidianità della vita».

Card. Robert Sarah

L’Osservatore Romano, 30 gennaio 2016

Fonte: Chiesa e postconcilio, 13.2.2016

Contro i luoghi comuni ..... un aforisma controcorrente dell'attore Orson Welles

Un maestro per la Quaresima e per i nostri tempi: S. Alfonso Maria de' Liguori

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In questo venerdì delle Quattro Tempora di Quaresima, nel quale si fa particolare memoria della lancia e dei chiodi di N.S.G. Cristo rilancio questo contributo su S. Alfonso M. de’ Liguori di Cristina Siccardi.


Carlo Saraceni, Ostensione del Sacro Chiodo da parte di San Carlo Borromeo, 1610-20 circa, Chiesa di San Lorenzo in Lucina, Roma

Giovanni Baglione, S. Carlo in preghiera dinanzi al Sacro Chiodo invoca la cessazione della peste, XVII sec., Chiesa di S. Pietro, Pogno


Gian Battista della Rovere detto Il Fiammenghino, Processione di S. Carlo del Sacro Chiodo durante la peste, 1602, Duomo, Milano





Reliquia del Sacro Chiodo, Duomo, Milano.
La reliquia è oggetto a Milano, in occasione della festa dell'Esaltazione della Santa Croce, del c.d. rito della Nivola. Cfr. anche Gregory Di Pippo, A Relic of the Passion in Milan Cathedral, inNew Liturgical Movement, Sept. 10th, 2015

Sant’Alfonso, un grande maestro per il nostro tempo

di Cristina Siccardi

Il tempo di Quaresima è quello in cui le persone dovrebbero profittare con maggior determinazione per ordinare gli scompigli della propria anima. Viviamo immersi in una cultura di massa dove peccati e tentazioni non solo vengono considerati leciti, ma sono sponsorizzati continuamente e sono considerati “diritti”.
Si è disposti, per esempio, a fare mille sacrifici per essere fisicamente prestanti come vuole lo stereotipo proposto dalla pubblicità, dalla cinematografia, dalle riviste… ma poco o nulla si fa per la dieta dai peccati. La palestra e i centri benessere sono diventati luoghi di grande business “per il bene delle persone”. E mentre ogni attenzione e culto vengono prestati al proprio corpo, l’anima si separa sempre più dal Creatore, l’Unico a volere il vero bene della sua creatura. Eppure i grandi moralisti della Chiesa lo hanno sempre detto: offrire sacrifici, digiuni materiali, piccole penitenze (i misericordiosi «fioretti» insegnati dalle buone mamme ai loro figli) è assai vantaggioso non solo per esprimere in maniera manifesta il proprio Credo, ma per svincolarsi, con maggior forza e facilità, dalle schiavitù del mondo, dando così spazio alla vera libertà dell’anima. Sant’Alfonso Maria de’Liguori (1696-1787) è fra questi grandi moralisti.
Un tempo, quando nei Seminari si insegnava Teologia morale secondo gli orientamenti di quest’ultimo, i cattolici vivevano, pur nelle tribolazioni e peccati quotidiani, con maggiore serenità e il tessuto sociale cattolico seguiva coordinate serie e in armonia con le coscienze di ciascuno, costituite dalla legge divina inscritta in ogni individuo, perciò l’onestà e il senso del dovere tenevano più distanti le varie facce della corruzione. La teologia morale è la medicina più salutare di ogni altra, compresa quella farmaceutica, perché quando l’anima sta bene anche il corpo ne beneficia. Straordinario vedere come la Teologia morale di sant’Alfonso abbia connotazioni ferme, ma allo stesso tempo di immensa e prodigiosa misericordia.
Ai suoi tempi molti confessori erano portati ad avere una rigidità oltremisura nei confronti dei loro penitenti ed ecco che il vescovo di sant’Agata de’ Goti mise sulla direzione corretta la situazione che si era andata creando. Oggi siamo nella situazione opposta: misericordia, profusa dalla maggior parte dei confessori, senza il senso della giustizia divina e senza la pretesa dell’essenziale pentimento. Occorre ricordare che Padre Pio da Pietrelcina, portato a modello di confessore nell’attuale Giubileo, era un paladino della estrema serietà del sacramento della confessione.
Con sant’Alfonso Maria de’ Liguori siamo di fronte all’equilibrio della Tradizione: facile è per gli uomini (non ne sono esenti quelli di Chiesa) condurre idee e dottrine in accelerazione. Più difficile stare nei canoni della proporzione. Ebbene, Sant’Alfonso fu un sapiente equilibratore.
L’ordine morale, per sant’Alfonso, è costituito da un rapporto di conformità tra la volontà e la norma oggettiva, cioè la legge. Tale rapporto è dato dalla conoscenza che ha il soggetto della legge come norma obbligatoria. Da ciò egli è condotto a respingere la probabilità isolata come regola universale di condotta, perché essa, almeno nei gradi inferiori, non è conoscenza; lo è invece la certezza morale in quanto rapporto conoscitivo. Questo genio della teologia morale lavorò in maniera folgorante per contrastare le eresie sue contemporanee e la «Norma universale» divenne «certezza morale». Così si staccò dal facilismo dei probabilisti, accogliendo il lato migliore del probabiliorismo e stabilendo una posizione di netto contrasto di fronte a tutte le gradazioni del rigorismo e del giansenismo.
I suoi formidabili scritti e la sua infaticabile predicazione portarono sulla retta via gli insegnamenti nei Seminari, che erano diventati fucine di errori a causa di teologi fuori equilibrio: l’Europa prese contatto con la nuova Morale, alla quale si riconobbe a mano a mano il merito di aver consumato le sorti del giansenismo e le tendenze più discusse del probabilismo. Tutto il pensiero antecedente fu da sant’Alfonso riassunto: più di 70.000 citazioni da 800 autori attestano da sole il sovrumano lavoro di revisione, di critica, di vagliatura compiuto da quest’uomo di Dio.
La mentalità di sant’Alfonso, un po’ avversa alle discussioni astratte, riappare identica nella Morale come nella Dogmatica, nella Predicazione, nella Missione, nella Pastorale. Nella sua complessa ed articolata opera rientrano le nuove preoccupazioni, ispirate dalla lotta contro il materialismo, l’indifferentismo religioso e l’incredulità, come dimostrano la Breve Dissertazione contra gli errori de’ moderni increduli oggidì nominati materialisti e deisti e gli analoghi scritti successivi, con i quali il teologo si pone, primeggiando fra tutti, fra le tendenze controversistiche, antirazionalistiche, antilluministiche e apologetiche della seconda metà del XVIII secolo.
È un teologo libero da sé (esente dalla vanagloria) e dai pregiudizi (più facili da assumere rispetto all’affrancatura del saggio); scevro da influenze di indirizzi dell’una o dell’altra scuola di moda, ma fedelissimo alla Tradizione della Chiesa. Se si eccettuano alcuni autori prediletti, come santa Teresa d’Avila o san Francesco di Sales, la sua dottrina scorre fra i vari temi offerti dalla Tradizione con indipendenza di giudizio. Ama veleggiare nella Tradizione, quella libera e realista, e in questa sceglie e discerne per il bene delle anime, guardando sempre all’aspetto efficace, pratico, salutare. Ci sono poi temi sui quali non transige e sui quali insiste senza mai stancarsi: preghiera, uniformità alla volontà di Dio (che costituisce il termine dell’esercizio di perfezione), meditazione sui Novissimi e sulla Passione di Nostro Signore, Eucarestia, devozione alla Vergine Maria.
Scrive Giuseppe Cacciatore nel Dizionario biografico degli italiani dell’Enciclopedia Treccani (Vol. 2 – 1960): «Non si esagera dicendo che si deve a lui principalmente se le grandi teorie della mistica e dell’ascesi, le quali con san Francesco di Sales erano uscite dalla scuola ed entrate nella cosiddetta buona società, uscirono anche da questa e si riversarono tra il popolo. Alfonso, nell’ultima storia del pensiero cattolico, senza parere, è stato colui che ha ritrovato le vene dell’antica concezione eroica del cristiano ed ha, nella sua vita e nella dottrina – umile soltanto nella veste -, rinnovato i grandi teorici dell’amore di Dio, come li aveva conosciuti il Medioevo».
La sua Morale ruppe con facilità la resistenza del giansenismo e sorsero i suoi eminenti propagatori: Pio Brunone Lanteri, Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco in Italia; Gousset e Mazenod in Francia; Diesbach in Svizzera e in Baviera; Hennequin nelle Fiandre; Waibel in Germania. I suoi libri corsero il mondo in tutte le lingue.
Il filosofo Kierkegaard notava, nel sentimento religioso di questo Dottore della Chiesa, rispondenze d’anima che personalmente lo staccavano senza pentimenti dal pietismo protestante; mentre Gioberti e Döllinger, provando acceso fastidio nei suoi confronti, lo snobbavano dalle loro tronfie ed erronee cattedre. L’originalità di Sant’Alfonso è quella dei pensatori cattolici equilibrati, che si radica nel Pensiero Eterno di Dio; quella senza tempo, che trova dimora nella «Bellezza così antica e così nuova», per usare la sublime espressione di Sant’Agostino; quella in grado di sgomberare il giardino dai rovi e che si propone di raddrizzare il cammino verso Dio, distorto da taluni per ingenuità o per malafede.

Fonte: Corrispondenza romana, 17.2.2016

Un incontro storico tra l'Antica Roma e la "Terza Roma"? Il punto di vista dello storico prof. De Mattei

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Abbiamo già avuto modo di offrire il nostro punto di vista, in una presentazione semiseria (o forse più seria di quanto si creda), dello “storico” incontro tra il vescovo di Roma ed il patriarca della Terza Roma (v. qui). Molti i commenti susseguitisi. Alcuni, al di là delle tinte eminentemente politiche (v. anche le dichiarazioni del patriarca Kirill), hanno posto in rilievo come lo stesso entourage ed i laudatores del vescovo di Roma tentino di “smorzare” la portata dell’incontro (v. Giuseppe Rusconi, Dichiarazione Kirill-Francesco: quanto vale la firma del papa?, in Rossoporpora, 15.2.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 16.2.2016. Cfr. pure ivi); altri hanno evidenziato il rammarico della Chiesa cattolica ucraina (cfr. La protesta dei cattolici ucraini: L'arcivescovo di Kiev dà voce all'amarezza dei suoi fedeli, ivi, 17.2.2016); altri ancora, infine, hanno tenuto a sottolineare come, nonostante alcune affermazioni decisamente cattoliche contenute nella dichiarazione comune, di un cattolicesimo che forse non siamo più abituati a sentire, la c.d. ortodossia ha, tuttavia, profonde differenze, non solo liturgiche e disciplinari, con la Chiesa cattolica (cfr. Corrado Gnerre, Cattolicesimo e ortodossia: lo stesso cristianesimo?, in Civiltà cristiana, 15.2.2016).
Nel seguente contributo, offriamo il punto di vista del prof. De Mattei. L’articolo, già rilanciato anche da Chiesa e postconcilio, è tradotto in inglese dall’immancabile Rorate caeli.

Lo “storico” incontro tra Francesco e Kirill

di Roberto de Mattei

Tra i tanti successi attribuiti dai mass-media a papa Francesco, c’è quello dello “storico incontro”, avvenuto il 12 febbraio a L’Avana, con il patriarca di Mosca Kirill. Un avvenimento, si è scritto, che ha visto cadere il muro che da mille anni divideva la Chiesa di Roma da quella di Oriente.
L’importanza dell’incontro, secondo le parole dello stesso Francesco, non sta nel documento, di carattere meramente “pastorale”, ma nel fatto di una convergenza verso una meta comune, non politica o morale, ma religiosa. Al Magistero tradizionale della Chiesa, espresso da documenti, papa Francesco sembra dunque voler sostituire un neo-magistero, veicolato da eventi simbolici. Il messaggio che il Papa intende dare è quello di una svolta nella storia della Chiesa. Ma è proprio dalla storia della Chiesa che occorre partire per comprendere il significato dell’avvenimento. Le inesattezze storiche sono infatti molte e vanno corrette perché è proprio sui falsi storici che spesso si costruiscono le deviazioni dottrinali.
Innanzitutto non è vero che mille anni di storia dividono la Chiesa di Roma dal Patriarcato di Mosca, visto che questo è nato solo nel 1589. Nei cinque secoli precedenti, e prima ancora, l’interlocutore orientale di Roma era il Patriarcato di Costantinopoli. Nel corso del Concilio Vaticano II, il 6 gennaio 1964, Paolo VI incontrò a Gerusalemme il patriarca Atenagora per avviare un “dialogo ecumenico” tra il mondo cattolico e il mondo ortodosso. Questo dialogo non è riuscito ad andare avanti a causa della millenaria opposizione degli ortodossi al Primato di Roma. Lo stesso Paolo VI lo ammise in un discorso al Segretariato dell’Unità per i cristiani del 28 aprile 1967, affermando: «Il Papa, noi lo sappiamo bene, è senza dubbio l’ostacolo più grande sul cammino dell’ecumenismo» (Paolo VI, Insegnamenti, VI, pp. 192-193).
Il patriarcato di Costantinopoli costituiva una delle cinque sedi principali della cristianità stabilite dal Concilio di Calcedonia del 451. I patriarchi bizantini sostenevano però che dopo la caduta dell’Impero romano, Costantinopoli, sede del rinato Impero romano d’Oriente, sarebbe dovuta divenire la “capitale” religiosa del mondo. Il canone 28 del Concilio di Calcedonia, abrogato da san Leone Magno, contiene in germe tutto lo scisma bizantino, perché attribuisce alla supremazia del Romano Pontefice un fondamento politico e non divino. Per questo nel 515, papa Ormisda (514-523) fece sottoscrivere ai vescovi orientali una Formula di Unione, con cui essi riconoscevano la loro sottomissione alla Cattedra di Pietro (Denz-H, n. 363).
Tra il V e il X secolo, mentre in Occidente si affermava la distinzione tra l’autorità spirituale e il potere temporale, in Oriente nasceva intanto il cosiddetto “cesaropapismo”, in cui la Chiesa viene di fatto subordinata all’Imperatore che se ne ritiene il capo, in quanto delegato di Dio, sia nel campo ecclesiastico che in quello secolare. I patriarchi di Costantinopoli erano di fatto ridotti a funzionari dell’Impero bizantino e continuavano ad alimentare un’avversione radicale per la Chiesa di Roma.
Dopo una prima rottura, provocata dal patriarca Fozio nel IX secolo, lo scisma ufficiale avvenne il 16 luglio 1054, quando il patriarca Michele Cerulario dichiarò Roma caduta nell’eresia per motivo del “Filioque” ed altri pretesti. I legati romani deposero allora contro di lui la sentenza di scomunica sull’altare della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli. I principi di Kiev e di Mosca, convertiti al Cristianesimo nel 988 da san Vladimiro, seguirono nello scisma i patriarchi di Costantinopoli, di cui riconoscevano la giurisdizione religiosa. Le discordie sembravano insormontabili ma un fatto straordinario avvenne il 6 luglio 1439 nella cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, quando il Papa Eugenio IV, annunciò solennemente, con la bollaLaetentur Coeli (“che i cieli si rallegrino”), l’avvenuta ricomposizione dello scisma fra le Chiese di Oriente e di Occidente.
Nel corso del Concilio di Firenze (1439), al quale avevano partecipato l’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo e il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II, si era trovato l’accordo su tutti i problemi, dal Filioque al Primato Romano. La Bolla pontificia si concludeva con questa solenne definizione dogmatica, sottoscritta dai Padri greci: «Definiamo che la santa Sede apostolica e il Romano pontefice hanno il primato su tutto l’universo; che lo stesso Romano pontefice è il successore del beato Pietro principe degli apostoli, è autentico vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; che Nostro Signore Gesù Cristo ha trasmesso a lui, nella persona del beato Pietro, il pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come è attestato anche negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 2013, pp. 523-528).
Fu questo l’unico vero storico abbraccio tra le due chiese nel corso dell’ultimo millennio. Tra i più attivi partecipanti al Concilio di Firenze, c’era il metropolita di Kiev e di tutta la Russia, Isidoro. Appena tornato a Mosca egli diede pubblico annuncio della avvenuta riconciliazione sotto l’autorità del Romano pontefice, ma il principe di Mosca, Vasilij il Cieco, lo dichiarò eretico e lo sostituì con un vescovo a lui sottomesso. Questo gesto segnò l’inizio dell’autocefalia della chiesa moscovita, indipendente non solo da Roma ma anche da Costantinopoli. Poco dopo, nel 1453, l’Impero bizantino fu conquistato dai Turchi e travolse nel suo crollo il patriarcato di Costantinopoli. Nacque allora l’idea che Mosca dovesse raccogliere l’eredità di Bisanzio e divenire il nuovo centro della Chiesa cristiana ortodossa. Dopo il matrimonio con Zoe Paleologo, nipote dell’ultimo Imperatore d’Oriente, il Principe di Mosca Ivan III si diede il titolo di Zar e introdusse il simbolo dell’aquila bicefala. Nel 1589 fu costituito il Patriarcato di Mosca e di tutta la Russia. I Russi diventavano i nuovi difensori dell’“ortodossia”, annunciando l’avvento di una “Terza Roma”, dopo quella cattolica e quella bizantina.
Di fronte a questi eventi, i vescovi di quella zona che allora si chiamava Rutenia e che oggi corrisponde all’Ucraina, e a una parte della Bielorussia, si riunirono, nell’ottobre 1596, nel Sinodo di Brest e proclamarono l’unione con la sede romana. Essi sono conosciuti come, Uniati, a motivo della loro unione con Roma, o Greco-cattolici, perché, pur sottomettendosi al Primato romano, conservavano la liturgia bizantina.
Gli zar russi intrapresero una persecuzione sistematica della Chiesa uniate che, tra i tanti martiri, annoverò il monaco Giovanni (Giosafat) Kuncevitz (1580-1623), arcivescovo di Polotzk, e il gesuita Andrea Bobola (1592-1657), apostolo della Lituania. Entrambi furono torturati e uccisi in odio alla fede cattolica e oggi sono venerati come santi. La persecuzione si fece ancora più aspra sotto l’impero sovietico. Il cardinale Josyp Slipyj (1892-1984), deportato per 18 anni nei lager comunisti, fu l’ultimo intrepido difensore della Chiesa cattolica ucraina.
Oggi gli Uniati costituiscono il più numeroso gruppo di cattolici di rito orientale e costituiscono una testimonianza vivente dell’universalità della Chiesa cattolica. È ingeneroso affermare, come fa il documento di Francesco e Kirill, che il «metodo dell’uniatismo», inteso «come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua Chiesa», «non è un modo che permette di ristabilire l’unità» e che «non si può quindi accettare l’uso di mezzi sleali per incitare i credenti a passare da una Chiesa ad un’altra, negando la loro libertà religiosa o le loro tradizioni».
Il prezzo che papa Francesco ha dovuto pagare per queste parole richieste da Kirill è molto alto: l’accusa di “tradimento” che ora gli viene rivolta dai cattolici uniati, da sempre fedelissimi a Roma. Ma l’incontro di Francesco con il patriarca di Mosca va ben oltre quello di Paolo VI con Atenagora. L’abbraccio a Kirill tende soprattutto ad accogliere il principio ortodosso della sinodalità, necessario per “democratizzare” la Chiesa romana. Per quanto riguarda non la struttura della Chiesa, ma la sostanza della sua fede, l’evento simbolico più importante dell’anno sarà forse la commemorazione da parte di Francesco dei 500 anni della Rivoluzione protestante, prevista per il prossimo ottobre a Lund, in Svezia.

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