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«Amoris Laetitia»: chiarire per evitare una confusione generale. Parola di Mons. Athanasius Schneider

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Rilanciamo volentieri, nella festa della B. V. Maria sotto il titolo di Madonna del Buon Consiglio e dei SS. Cleto e Marcellino, papi e martiri, la riflessione di S. Ecc.za Mons. Schneider sull’esortazione apostolica Amoris laetitia. Questa riflessione è anche pubblicata sul blog Chiesa e postconcilio (Mons. Athanasius Schneider. Il paradosso delle interpretazioni contraddittorie di «Amoris laetitia», ivi, 24.4.2016), il quale pubblica anche una riflessione a suo corredo (Gratitudine e tutto il nostro sostegno a mons. Athanasius Schneider, ivi, 25.4.2016) e la traduzione italiana dell’intervista che sempre lo stesso prelato aveva rilasciato nel marzo scorso in Ungheria (Il pensiero del vescovo Schneider sull’Esortazione post-sinodale è deducibile da una recente intervista, ivi, 23.4.2016; L’Intervista a mons. Athanasius Schneider, 6 marzo in Ungheria. Seguito del testo integrale, ivi, 24.4.2016). Quest’ultima intervista è riportata, in lingua inglese, dal blog Rorate caeli, 22.4.2016.





Miracolosa icona della Madonna del Buon Consiglio, Santuario, Genazzano



Pasquale Sarullo, Madonna del Buon Consiglio, XIX sec.
L'immagine è stata trafugata nel 1990 dalla sala Capitolare del sacro Convento di Assisi





Autore ignoto, Statua della Madonna del Buon Consiglio, XIX sec., chiesa della Madonna del Buon Consiglio, detta dei "Morticelli", Sannicandro Garganico (FG)


Giacomo Colombo, Statua di S. Cleto, XVI sec., confraternita del Purgatorio, chiesa del Purgatorio, Ruvo di Puglia

«Amoris Laetitia»: chiarire per evitare una confusione generale

Pubblichiamo un documento di riflessione di S.E. Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Maria Santissima di Astana, in Kazakhstan, riguardo l’esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco, «Amoris Laetitia».

Il paradosso delle interpretazioni contraddittorie di «Amoris laetitia»

L’Esortazione Apostolica «Amoris Laetitia» (AL) pubblicata di recente, che contiene una grande ricchezza spirituale e pastorale per la vita nel matrimonio e nella famiglia cristiana della nostra epoca, purtroppo ha già in poco tempo provocato interpretazioni contraddittorie perfino nell’ambiente dell’episcopato. 
Vi sono vescovi e preti che avevano pubblicamente e apertamente dichiarato che AL avrebbe fornito un’apertura evidente alla Comunione per i divorziati-risposati senza chiedere loro di vivere in continenza. In quest’aspetto della pratica sacramentale, che secondo loro sarebbe ora significativamente cambiato, consisterebbe il carattere veramente rivoluzionario dell’AL. Interpretando AL in riferimento alle coppie irregolari, un Presidente di una Conferenza episcopale ha dichiarato in un testo pubblicato sul sito web della stessa Conferenza: «Si tratta di una misura di misericordia, di un’apertura di cuore, ragione e spirito per la quale non è necessaria alcuna legge, né bisogna attendersi alcuna direttiva o delle indicazioni. Si può e si deve metterla in pratica immediatamente».
Tale avviso è confermato ulteriormente dalle recenti dichiarazioni del padre Antonio Spadaro S.J., che dopo il Sinodo dei Vescovi del 2015 aveva scritto che il sinodo aveva posto i «fondamenti» per l’accesso dei divorziati-risposati alla Comunione, «aprendo una porta», ancora chiusa nel sinodo precedente del 2014. Ora, dice il Padre Spadaro nel suo commento ad AL, la sua predizione è stata confermata. Si dice che lo stesso padre Spadaro abbia fatto parte del gruppo redazionale di AL.
La strada per le interpretazioni abusive sembra esser stata indicata dallo stesso Cardinale Christoph Schönborn il quale, durante la presentazione ufficiale di AL a Roma, aveva detto a proposito delle unioni irregolari: «La grande gioia che mi procura questo documento risiede nel fatto che esso supera in modo coerente la divisione artificiosa, esteriore e netta fra “regolari” ed “irregolari”». Una tale affermazione suggerisce l’idea che non vi sia una chiara differenza fra un matrimonio valido e sacramentale ed un’unione irregolare, fra peccato veniale e mortale.
Dall’altra parte, vi sono vescovi che affermano che AL debba essere letta alla luce del Magistero perenne della Chiesa e che AL non autorizza la Comunione ai divorziati-risposati, neanche in caso eccezionale. In principio, tale affermazione è corretta ed auspicabile. In effetti, ogni testo del Magistero dovrebbe in regola generale, essere coerente nel suo contenuto con il Magistero precedente, senza alcuna rottura.
Tuttavia, non è un segreto che in diversi luoghi le persone divorziate e risposate sono ammesse alla Santa Comunione, senza che esse vivano in continenza. Alcune affermazioni di AL possono essere realisticamente utilizzate per legittimare un abuso già praticato per un certo tempo in vari luoghi della vita della Chiesa.

Alcune affermazioni di AL sono oggettivamente passibili di cattiva interpretazione

Il Santo Padre papa Francesco ci ha invitati tutti a offrire il proprio contributo alla riflessione e al dialogo sulle delicate questioni concernenti il matrimonio e la famiglia. «La riflessione dei pastori e dei teologi, se fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza» (AL, n. 2).
Analizzando con onestà intellettuale alcune affermazioni di AL, viste nel loro contesto, si constata una difficoltà di interpretarla secondo la dottrina tradizionale della Chiesa. Questo fatto si spiega con l’assenza dell’affermazione concreta ed esplicita della dottrina e della pratica costante della Chiesa, basata sulla Parola di Dio e reiterata dal papa Giovanni Paolo II che dice: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio. La riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, «assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris Consortio, n. 84).
Il papa Francesco non aveva stabilito «una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi» (AL, n. 300). Però nella nota 336, dichiara: «Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave». Riferendosi evidentemente ai divorziati risposati il papa afferma in AL, al n. 305: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa.» Nella nota 351, il papa chiarisce la propria affermazione dicendo che «in certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti».
Nello stesso capitolo VIII di AL, al n. 298, il Papa parla dei «divorziati che vivono una nuova unione, … con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui “l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione”». Nella nota 329, il Papa cita il documento Gaudium et Spes in un modo purtroppo non corretto, perché il Concilio si riferisce in questo caso solo al matrimonio cristiano valido. L’applicazione di quest’affermazione ai divorziati può provocare l’impressione che il matrimonio valido venga assimilato, non in teoria, ma in pratica, ad una unione di divorziati.

L’ammissione dei divorziati-risposati alla Santa Comunione e le sue conseguenze

AL è purtroppo priva delle citazioni verbali dei principi della dottrina morale della Chiesa nella forma in cui sono stati enunciati al n. 84 dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio e nell’Enciclica Veritatis Splendor del Papa Giovanni Paolo II, in particolare sui seguenti temi d’importanza capitale: «l’opzione fondamentale» (Veritatis Splendor nn. 67-68), «peccato mortale e peccato veniale» (ibid., nn. 69-70), «proporzionalismo, consequenzialismo» (ibid. n. 75), «il martirio e le norme morali universali ed immutabili» (ibid., nn. 91 ss). Una citazione verbale di Familiaris consortio n. 84 e di talune affermazioni più salienti di Veritatis splendor renderebbero peraltro AL inattaccabile da parte di interpretazioni eterodosse. Delle allusioni generiche ai principi morali e alla dottrina della Chiesa sono certamente insufficienti in una materia controversa che è di delicata e di capitale importanza.
Alcuni rappresentanti del clero e anche dell’episcopato affermano già che secondo lo spirito del capitolo VIII di AL non è escluso che in casi eccezionali i divorziati-risposati possano essere ammessi alla Santa Comunione senza che venga loro richiesto di vivere in perfetta continenza.
Ammettendo una simile interpretazione della lettera e dello spirito di AL, bisognerebbe accettare, con onestà intellettuale e in base al principio di non-contraddizione, le seguenti conclusioni logiche: il sesto comandamento divino che proibisce ogni atto sessuale al di fuori del matrimonio valido, non sarebbe più universalmente valido se venissero ammesse delle eccezioni. Nel nostro caso: i divorziati potrebbero praticare l’atto sessuale e vi sono anche incoraggiati al fine di conservare la reciproca «fedeltà» (cfr. AL, n. 298). Potrebbe dunque darsi una «fedeltà», in uno stile di vita direttamente contrario alla volontà espressa di Dio. Tuttavia, incoraggiare e legittimare atti che sono in sé e sempre contrari alla volontà di Dio, contraddirebbe la Rivelazione Divina.
La parola divina di Cristo: «Che l’uomo non separi quello che Dio ha unito» (Mt 19, 6) non sarebbe quindi più valida sempre e per tutti i coniugi senza eccezione.
Sarebbe possibile in un caso particolare ricevere il sacramento della Penitenza e la Santa Comunione con l’intento di continuare a violare direttamente i comandamenti divini: «Non commetterai adulterio» (Esodo 20, 14) e «Che l’uomo non separi quello che Dio ha unito» (Mt 19, 6; Gen 2, 24).
L’osservanza di questi comandamenti e della Parola di Dio avverrebbe in questi casi solo in teoria e non nella pratica, inducendo quindi i divorziati-risposati «ad ingannare se stessi» (Giacomo 1, 22). Si potrebbe dunque avere perfettamente la fede nel carattere divino del sesto comandamento e dell’indissolubilità del matrimonio senza però le opere corrispondenti.
La Parola Divina di Cristo: «Colui che ripudia la moglie e ne sposa un’altra, commette un adulterio nei suoi confronti; e se una donna lascia il marito e ne sposa un altro, commette un adulterio» (Mc 10, 12) non avrebbe dunque più validità universale ma ammetterebbe eccezioni.
La violazione permanente, cosciente e libera del sesto comandamento di Dio e della sacralità e dell’indissolubilità del proprio matrimonio valido (nel caso dei divorziati risposati) non sarebbe dunque più un peccato grave, ovvero un’opposizione diretta alla volontà di Dio.
Possono esservi casi di violazione grave, permanente, cosciente e libera degli altri comandamenti di Dio (per esempio nel caso di uno stile di vita di corruzione finanziaria), nei quali potrebbe essere accordato a una determinata persona, a causa di circostanze attenuanti, l’accesso si sacramenti senza esigere una sincera risoluzione di evitare in avvenire gli atti di peccato e di scandalo.
Il perenne ed infallibile insegnamento della Chiesa non sarebbe più universalmente valido, in particolare l’insegnamento confermato da papa Giovanni Paolo II in Familiaris Consortio, n. 84, e da papa Benedetto XVI in Sacramentum caritatis, n. 29, secondo il quale la condizione dei divorziati per ricevere i sacramenti sarebbe la continenza perfetta.
L’osservanza del sesto comandamento di Dio e dell’indissolubilità del matrimonio sarebbe un ideale non realizzabile da parte di tutti, ma in qualche modo solo per un’élite.
Le parole intransigenti di Cristo che intimano agli uomini di osservare i comandamenti di Dio sempre e in tutte le circostanze, anche accettando a questo fine delle sofferenze considerevoli, ovvero accettando la Croce, non sarebbero più valide nella loro verità: «Se la tua mano destra ti è causa di peccato, mozzala e gettala via da te, perché è meglio per te che un tuo membro perisca, piuttosto che tutto il tuo corpo sia gettato nella Geenna» (Mt 5, 30).
Ammettere le coppie in «unione irregolare» alla santa Comunione, permettendo loro di praticare gli atti riservati ai coniugi del matrimonio valido, equivarrebbe all’usurpazione di un potere, che però non compete ad alcuna autorità umana, perché si tratterebbe qui di una pretesa di correggere la stessa Parola di Dio.

Pericoli di una collaborazione della Chiesa nella diffusione della “piaga del divorzio”

Professando la dottrina di sempre di Nostro Signore Gesù Cristo, la Chiesa ci insegna: «Fedele al Signore, la Chiesa non può riconoscere come Matrimonio l’unione dei divorziati risposati civilmente. “Colui che ripudia la moglie per sposarne un’altra commette adulterio contro di lei. Se una donna ripudia il marito per sposarne un altro, commette adulterio” (Mc, 10, 11-12). Nei loro confronti, la Chiesa attua un’attenta sollecitudine, invitandoli ad una vita di fede, alla preghiera, alle opere di carità e all’educazione cristiana dei figli. Ma essi non possono ricevere l’assoluzione sacramentale, né accedere alla Comunione eucaristica, né esercitare certe responsabilità ecclesiali, finché perdura la loro situazione, che oggettivamente contrasta con legge di Dio» (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 349).
Vivere in un’unione maritale non valida contraddicendo costantemente il comandamento di Dio e la sacralità e indissolubilità del matrimonio, non significa vivere nella verità. Dichiarare che la pratica deliberata, libera ed abituale degli atti sessuali in un’unione maritale non valida potrebbe in un caso concreto non essere più un peccato grave, non è la verità, ma una menzogna grave, e dunque non porterà mai una gioia autentica nell’amore. Permettere dunque a queste persone di ricevere la Santa Comunione significa simulazione, ipocrisia e menzogna. Resta valida infatti la Parola di Dio nella Sacra Scrittura: «Chi dice: “Io l’ho conosciuto”, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui» (1 Gv, 2, 4).
Il Magistero della Chiesa ci insegna la validità universale dei dieci comandamenti di Dio: «Poiché essi enunciano i doveri fondamentali dell’uomo verso Dio e verso il prossimo, i dieci comandamenti rivelano, nel loro contenuto primordiale, delle obbligazioni gravi. Essi sono fondamentalmente immutabili e il loro obbligo vale sempre e ovunque. Nessuno può dispensare da essi» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2072). Coloro che hanno affermato che i comandamenti di Dio ed il particolare il comandamento “Non commetterai adulterio” possono avere delle eccezioni, ed in taluni casi la non imputabilità della colpa del divorzio, erano i Farisei e poi gli Gnostici cristiani nel secondo e terzo secolo.
Le seguenti affermazioni del Magistero restano sempre valide perché fanno parte del Magistero infallibile nella forma del Magistero universale e ordinario: «I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, … ci sono comportamenti che non possono mai essere, in alcuna situazione, la risposta adeguata … La Chiesa ha sempre insegnato che non si devono mai scegliere comportamenti proibiti dai comandamenti morali, espressi in forma negativa nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Come si è visto, Gesù stesso ribadisce l’inderogabilità di queste proibizioni: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti…: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso” (Mt 19,17-18)» (Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor, n. 52).
Il Magistero della Chiesa ci insegna ancor più chiaramente: «La coscienza buona e pura è illuminata dalla fede sincera. Infatti la carità sgorga, ad un tempo, “da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera” (1 Tm 1,5): [Cf 1 Tm 3,9; 2 Tm 1,3; 1 Pt 3,21; At 24,16]» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1794).
Nel caso in cui una persona commetta atti morali oggettivamente gravi in piena coscienza, sana di mente, con libera decisione, con l’intento di ripetere quest’atto in futuro, è impossibile applicare il principio della non-imputabilità della colpa a causa delle circostanze attenuanti. L’applicazione del principio della non-imputabilità a queste coppie di divorziati-risposati rappresenterebbe una ipocrisia ed un sofisma gnostico. Se la Chiesa ammettesse queste persone, anche in un solo caso, alla Santa Comunione, essa contraddirebbe a ciò che professa nella dottrina, offrendo essa stessa una contro-testimonianza pubblica contro l’indissolubilità del matrimonio e contribuendo così alla crescita della «piaga del divorzio» (Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 47).
Al fine di evitare una tale intollerabile e scandalosa contraddizione, la Chiesa, interpretando infallibilmente la verità Divina della legge morale e dell’indissolubilità del matrimonio, ha osservato immutabilmente per duemila anni la pratica di ammettere alla Santa Comunione solo quei divorziati che vivono in perfetta continenza e «remoto scandalo», senza alcuna eccezione o privilegio particolare.
Il primo compito pastorale che il Signore ha affidato alla sua Chiesa è l’insegnamento, la dottrina (vedi Mt 28, 20). L’osservanza dei comandamenti di Dio è intrinsecamente connessa alla dottrina. Per questa ragione la Chiesa ha sempre respinto la contraddizione fra la dottrina e la vita, qualificando una simile contraddizione come gnostica o come la teoria luterana eretica del simul iustus et peccator. Tra la fede e la vita dei figli della Chiesa non dovrebbe esserci contraddizione.
Quando si tratta dell’osservanza del comandamento espresso di Dio e dell’indissolubilità del matrimonio, non si può parlare di interpretazioni teologiche opposte. Se Dio ha detto: «Non commetterai adulterio», nessuna autorità umana potrebbe dire: «in qualche caso eccezionale o per un fine buono tu puoi commettere adulterio».
Le seguenti affermazioni del papa Francesco sono molto importanti, laddove il Sommo Pontefice parla a proposito dell’integrazione dei divorziati risposati nella vita della Chiesa: «questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. … Vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, … Si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale» (AL, n. 300). Queste affermazioni lodevoli di AL restano tuttavia senza specificazioni concrete riguardo alla questione dell’obbligo dei divorziati risposati di separarsi o almeno di vivere in perfetta continenza.
Quando si tratta della vita o della morte del corpo, nessun medico lascerebbe le cose nell’ambiguità. Il medico non può dire al paziente: «Dovete decidere l’applicazione della medicina secondo coscienza e rispettando le leggi della medicina». Un comportamento simile da parte di un medico verrebbe senza dubbio considerato irresponsabile. E tuttavia la vita dell’anima immortale è più importante, poiché dalla salute dell’anima dipende il suo destino per tutta l’eternità.

La verità liberatrice della penitenza e del mistero della Croce. 

Affermare che i divorziati risposati non sono pubblici peccatori significa simulare il falso. Inoltre, essere peccatori è la vera condizione di tutti i membri della Chiesa militante sulla terra. Se i divorziati-risposati dicono che i loro atti volontari e deliberati contro il sesto comandamento di Dio non sono affatto peccati o peccati gravi, essi s’ingannano e la verità non è in loro, come dice San Giovanni: «Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto, ci perdonerà i nostri peccati e ci purificherà da ogni iniquità. Se diciamo “Non abbiamo peccato”, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi» (1 Gv 1, 8-10).
L’accettazione da parte dei divorziati-risposati della verità che essi sono peccatori ed anche pubblici peccatori non toglie nulla alla loro speranza cristiana. Soltanto l’accettazione della realtà e della verità li rende capaci di intraprendere il cammino di una penitenza fruttuosa secondo le parole di Gesù Cristo.
Sarebbe molto salutare ripristinare lo spirito dei primi cristiani e del tempo dei Padri della Chiesa, quando esisteva una viva solidarietà dei fedeli con i peccatori pubblici, e tuttavia una solidarietà secondo la verità. Una solidarietà che non aveva nulla di discriminatorio; al contrario, vi era la partecipazione di tutta la Chiesa nel cammino penitenziale dei peccatori pubblici per mezzo delle preghiere d’intercessione, delle lacrime, degli atti di espiazione e di carità in loro favore.
L’Esortazione apostolica Familiaris Consortio insegna: «Anche coloro che si sono allontanati dal comandamento del Signore e continuano a vivere in questa condizione (divorziati-risposati) potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità» (n. 84).
Durante i primi secoli i peccatori pubblici erano integrati nella comunità orante dei fedeli e dovevano implorare in ginocchio e con le braccia alzate l’intercessione dei loro fratelli. Tertulliano ce ne dà una testimonianza toccante: «Il corpo non può rallegrarsi quando uno dei suoi membri soffre. È necessario che tutto intero esso si dolga e lavori alla sua guarigione. Quando tendi le mani alle ginocchia dei tuoi fratelli, è Cristo che tocchi, è Cristo che implori. Parimenti, quando loro versano lacrime per te, è Cristo che compatisce» (De paenitentia, 10, 5-6). Nello stesso modo parla Sant’Ambrogio di Milano: «La Chiesa intera ha preso su di sé il fardello del peccatore pubblico, soffrendo con lui per mezzo di lacrime, preghiere e dolori» (De paenitentia, 1, 81).
È vero che le forme della disciplina penitenziale della Chiesa sono cambiate, ma lo spirito di questa disciplina deve restare nella Chiesa di tutti i tempi. Oggi, alcuni preti e vescovi, basandosi su alcune affermazioni di AL, cominciano a far intendere ai divorziati-risposati che la loro condizione non equivaleva allo stato oggettivo di peccatore pubblico. Essi li tranquillizzano dichiarando che i loro atti sessuali non costituiscono un peccato grave. Un simile atteggiamento non corrisponde alla verità. Essi privano i divorziati-risposati della possibilità di una conversione radicale all’obbedienza alla volontà di Dio, lasciando queste anime nell’inganno. Un tale atteggiamento pastorale è molto facile, a buon mercato, non costa niente. Non costa lacrime, preghiere ed opere d’intercessione e di espiazione fraterna in favore dei divorziati-risposati.
Ammettendo, anche solo in casi eccezionali, i divorziati-risposati alla Santa Comunione senza chieder loro di cessare di praticare gli atti contrari al sesto comandamento di Dio, dichiarando inoltre presuntuosamente che l loro atti non sono peccato grave, si sceglie la strada facile, si evita lo scandalo della croce. Una simile pastorale dei divorziati-risposati è una pastorale effimera e ingannatrice. A tutti coloro che propagandano un simile facile cammino a buon mercato ai divorziati-risposati Gesù rivolge ancora oggi queste parole: «Vattene via da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini! Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol seguirmi, che rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua”» (Mt 16, 23-25).
Riguardo alla pastorale dei divorziati-risposati, oggi bisogna ravvivare anche lo spirito di seguire Cristo nella verità della Croce e della penitenza, che solo porta una gioia permanente, evitando le gioie effimere che sono in fin dei conti ingannatrici. Le seguenti parole del papa San Gregorio Magno si rivelano veramente attuali e luminose: «Non dobbiamo abituarci troppo al nostro esilio terreste, le comodità di questa vita non devono farci dimenticare la nostra vera patria così che il nostro spirito non divenga sonnolento in mezzo alle comodità. Per questo motivo, Dio unisce ai suoi doni le sue visite o punizioni, affinché tutto ciò che c’incanta in questo mondo, divenga per noi amaro e si accenda nell’anima quel fuoco che ci spinge sempre di nuovo verso il desiderio delle cose celesti e ci fa progredire. Quel fuoco ci ferisce in modo piacevole, ci crocifigge dolcemente e ci rattrista gioiosamente» (InHez, 2, 4, 3).
Lo spirito dell’autentica disciplina penitenziale della Chiesa dei primi secoli è perdurato nella Chiesa di tutti i tempi fino ad oggi. Abbiamo l’esempio commovente della Beata Laura del Carmen Vicuña Pino, nata in Cile nel 1891. Suor Azocar, che aveva curato Laura, ha raccontato: «Mi ricordo che quando spiegai la prima volta il sacramento del matrimonio, Laura svenne, di certo avendo compreso dalle mie parole che sua madre era in stato di peccato mortale finché fosse rimasta con quel signore. A quell’epoca, a Junin, una sola famiglia viveva in conformità alla volontà di Dio». Da allora, Laura moltiplica preghiere e penitenze per la sua mamma. Il 2 giugno 1901 fa la sua prima comunione, con grande fervore; scrive le seguenti risoluzioni: «1. Voglio, o mio Gesù, amarti e servirti per tutta la vita; per questo ti offro tutta la mia anima, il mio cuore, tutto il mio essere. – 2. Preferisco morire piuttosto che offenderti col peccato; perciò voglio allontanarmi da tutto quello che potrebbe separarmi da te. – 3. Prometto di fare tutto il possibile affinché tu sia sempre più conosciuto e amato, e al fine di riparare le offese che ogni giorno ti infliggono gli uomini che non ti amano, specialmente quelle che ricevi da coloro che mi sono vicini. - Oh mio Dio, concedimi una vita di amore, di mortificazione e di sacrificio!». Ma la sua grande gioia è oscurata nel vedere che sua madre, presente alla cerimonia, non fa la comunione.
Nel 1902, Laura offre la propria vita per sua madre che convive con un uomo in una unione irregolare in Argentina. Laura moltiplica le preghiere e le privazioni per ottenere la vera conversione della madre. Poche ore prima di morire la chiama vicino a sé. Capendo di essere al momento supremo, esclama: «Mamma, sto per morire. L’ho chiesto io a Gesù e gli ho offerto la mia vita per la grazia del tuo ritorno. Mamma, avrò la gioia di vedere il tuo pentimento prima di morire?». Sconvolta, la madre promette: «Domani mattina andrò in chiesa e mi confesserò». Laura cerca allora lo sguardo del prete e gli dice: «Padre, mia madre in questo momento promette di abbandonare quell’uomo; siate testimone di questa promessa!». E poi aggiunge: «Ora muoio contenta!». Con queste parole spira, il 22 gennaio 1904, a Junín de los Andes (Argentina), a 13 anni, nelle braccia della madre che ritrova allora la fede ponendo fine all’unione irregolare nella quale viveva.
L’esempio ammirevole della vita della giovane Beata Laura è una dimostrazione di quanto un vero cattolico consideri seriamente il sesto comandamento di Dio e la sacralità e indissolubilità del matrimonio. Nostro Signore Gesù Cristo ci raccomanda di evitare persino l’apparenza di un’approvazione di una unione irregolare o di un adulterio. Quel comando divino la Chiesa l’ha sempre fedelmente conservato e trasmesso senza ambiguità nella dottrina e nella pratica. Offrendo la sua giovane vita la Beata Laura non si era certo rappresentata una delle diverse interpretazioni dottrinali o pastorali possibili. Non si dà la propria vita per una possibile interpretazione dottrinale o pastorale, ma per una verità divina immutabile e universalmente valida. Una verità dimostrata con l’offerta della vita da parte di un gran numero di Santi, da san Giovanni Battista fino ai semplici fedeli dei giorni nostri il cui nome solo Dio conosce.

Necessità di una “veritatis laetitia”

Amoris laetitia contiene di sicuro e per fortuna delle affermazioni teologiche e indicazioni spirituali e pastorali di grande valore. Tuttavia, è realisticamente insufficiente affermare che AL andrebbe interpretata secondo la dottrina e la pratica tradizionale della Chiesa. Quando in un documento ecclesiastico, che nel caso nostro è sprovvisto di carattere definitivo e infallibile, si rinvengono elementi di interpretazioni ed applicazioni che potrebbero avere conseguenze spirituali pericolose, tutti i membri della Chiesa, e in primo luogo i vescovi, quali collaboratori fraterni del Sovrano Pontefice nella collegialità effettiva, hanno il dovere di segnalare rispettosamente questo fatto e di chiedere un’interpretazione autentica.
Quando si tratta della fede divina, dei comandamenti divini e della sacralità e indissolubilità del matrimonio, tutti i membri della Chiesa, dai semplici fedeli fino ai più alti rappresentanti del Magistero devono fare uno sforzo comune per conservare intatto il tesoro della fede e la sua applicazione pratica. Il Concilio Vaticano II ha in effetti ha insegnato: «La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1 Gv 2, 20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” (S. Agostino, De Praed. Sanct, 14, 27) mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita» (Lumen gentium, 12).
Il Magistero, per parte sua, «non è al di sopra della Parola di Dio, ma è al suo servizio, poiché insegna solo ciò che è stato trasmesso» (Concilio Vaticano II, Dei Verbum, 10).
Fu proprio il Concilio Vaticano II a incoraggiare tutti i fedeli e soprattutto i vescovi a manifestare senza timore le loro preoccupazioni ed osservazioni in vista del bene di tutta la Chiesa. Il servilismo ed il politicamente corretto causano un male pernicioso alla vita della Chiesa. Il famoso vescovo e teologo del Concilio di Trento, Melchior Cano, O.P., pronunciò questa frase memorabile: «Pietro non ha bisogno delle nostre menzogne e adulazioni. Coloro che ad occhi chiusi ed in modo indiscriminato difendono ogni decisione del Sommo Pontefice, sono quelli che maggiormente compromettono l’autorità della Santa Sede. Essi ne distruggono le fondamenta invece di consolidarle».
Nostro Signore ci ha insegnato senza ambiguità spiegando in cosa consistano il vero amore e la vera gioia dell’amore: «Colui che ha i miei comandamenti e li osserva è colui che mi ama» (Gv 14, 21). Dando agli uomini il sesto comandamento e l’osservanza dell’indissolubilità del matrimonio, Dio li ha dati a tutti senza eccezione e non solo ad un’élite. Già nell’Antico Testamento Dio ha dichiarato: «Questo comandamento che ti prescrivo oggi di sicuro non è al di sopra delle tue forze, né fuori della tua portata» (Deuteronomio 30, 11) e «Se vuoi, osserverai i comandamenti; l’essere fedele dipenderà dal tuo buonvolere» (Siracide, 15, 15). E Gesù disse a tutti: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti. Quali? E Gesù rispose: Non ucciderai; non commetterai adulterio» (Mt 19, 17-18). L’insegnamento degli Apostoli ci ha trasmesso la stessa dottrina: «Poiché l’amore di Dio consiste nell’osservare i suoi comandamenti. E i suoi comandamenti non sono gravosi» (1 Gv 5, 3).
Non vi è una vita vera, soprannaturale ed eterna, senza l’osservanza dei comandamenti di Dio: «Ti prescrivo di osservare i suoi comandamenti. Ho posto davanti a te la vita e la morte. Scegli la vita!» (Deuteronomio 30, 16-19). Non vi è dunque una vera vita e una vera gioia d’amore autentica senza la verità. «L’amore consiste nel vivere secondo i suoi comandamenti» (2 Gv6). La gioia d’amore consiste nella gioia della verità. La vita autenticamente cristiana consiste nella vita e nella gioia della verità: «Per me non c’è gioia maggiore di quella che provo nel sapere che i miei figli vivono ubbidendo alla verità» (3 Gv 4).
Sant’Agostino ci spiega l’intimo legame fra la gioia e la verità: «Chiedo a tutti loro se non preferiscono la gioia della verità a quella della menzogna. Ed essi non esitano qui più che per la risposta alla domanda sulla felicità. Perché la vita felice consiste nella gioia della verità, noi tutti vogliamo la gioia della verità» (Confessioni, X, 23).

Il pericolo di una confusione generale per quanto riguarda l’indissolubilità del matrimonio

Ormai da tempo, nella vita della Chiesa, si constata in alcuni luoghi, un tacito abuso nell’ammissione dei divorziati-risposati alla Santa Comunione, senza chiedere loro di vivere in perfetta continenza. Le affermazioni poco chiare nel capitolo VIII della AL hanno dato nuovo dinamismo ai propagatori dichiarati della ammissione, in singoli casi, dei divorziati-risposati alla Santa Comunione.
Possiamo ora constatare che l’abuso ha iniziato a diffondersi maggiormente nella pratica sentendosi in qualche modo legittimato. Inoltre vi è confusione per quanto riguarda l’interpretazione principalmente delle affermazioni riportate nel capitolo VIII della AL. La confusione raggiunge il suo apice poiché tutti, sia i sostenitori della ammissione dei divorziati-risposati alla Comunione sia i loro oppositori, sostengono che «La dottrina della Chiesa in questa materia non è stata modificata».
Tenendo debitamente conto delle differenze storiche e dottrinali, la nostra situazione mostra alcune somiglianze e analogie con la situazione di confusione generale della crisi ariana del IV secolo. All’epoca, la fede apostolica tradizionale nella vera divinità del Figlio di Dio fu garantita mediante il termine «consustanziale» («homoousios»), dogmaticamente proclamata dal Magistero universale del Concilio di Nicea I. La crisi profonda della fede, con una confusione quasi universale, fu causata principalmente dal rifiutare o dall’evitare di utilizzare e professare la parola «consustanziale» («homoousios»). Invece di utilizzare questa espressione, si diffuse tra il clero e soprattutto tra l’episcopato l’utilizzo di formule alternative che alla fine erano ambigue e imprecise come ad esempio «simile nella sostanza» («homoiousios») o semplicemente «simile» («homoios»). La formula «homoousios» del Magistero universale di quel tempo esprimeva la divinità piena e vera del VERBO in modo così chiaro da non lasciare spazio ad interpretazioni equivoche.
Negli anni 357-360 quasi l’intero episcopato era diventato ariano o semi-ariano a causa dei seguenti avvenimenti: nel 357 papa Liberio firmò una delle formule ambigue di Sirmio, nella quale era stato eliminato il termine «homoousios». Inoltre, il Papa scomunicò, in maniera scandalosa, sant’Atanasio. Sant’Ilario di Poitiers fu l’unico vescovo ad aver mosso gravi rimproveri a Papa Liberio per tali atti ambigui. Nel 359 i sinodi paralleli dell’episcopato occidentale a Rimini e di quello orientale a Seuleukia avevano accettato delle espressioni completamente ariane peggiori ancora della formula ambiguo firmata da Papa Liberio. Descrivendo la situazione di confusione dell’epoca, san Girolamo si espresse così: «il mondo gemette e si accorse con stupore di essere diventato ariano» («Ingemuit totus orbis, et arianum se esse miratus est»: Adv. Lucif., 19).
Si può affermare che la nostra epoca è caratterizzata da una gran confusione riguardo alla disciplina sacramentale per i divorziati-risposati. Ed esiste un pericolo reale che questa confusione si espanda su vasta scala, se evitiamo di proporre e proclamare la formula del Magistero universale e infallibile: «La riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, (…) assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, 84). Questa formula è purtroppo incomprensibilmente assente da AL. L’AL contiene invece, in maniera altrettanto inspiegabile, la seguente dichiarazione: «In queste situazioni (di divorziati risposati), molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, “non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli”» (AL, n. 298, nota 329). Tale affermazione lascia pensare ad una contraddizione con l’insegnamento perenne del Magistero universale, come è stato formulato nel testo citato della Familiaris Consortio, n. 84.
Si rende urgente che la Santa Sede confermi e proclami nuovamente, eventualmente sotto forma di interpretazione autentica di AL, la citata formula della Familiaris Consortio, n. 84. Questa formula potrebbe essere considerata, sotto certi aspetti, come l’«homoousios» dei nostri giorni. La mancanza di conferma in maniera ufficiale ed esplicita della formula di Familiaris Consortio n. 84 da parte della Sede Apostolica potrebbe contribuire ad una confusione sempre maggiore nella disciplina sacramentale con ripercussioni graduali e inevitabili in campo dottrinale. In questo modo si verrebbe a creare una tale situazione alla quale si potrebbe in futuro applicare la seguente constatazione: «Tutto il mondo gemette e si accorse con stupore di aver accettato il divorzio nella prassi» («Ingemuit totus orbis, et divortium in praxi se accepisse miratus est»).
Una confusione nella disciplina sacramentale nei confronti dei divorziati-risposati, con le conseguenti implicazioni dottrinali, contraddirebbe la natura della Chiesa cattolica, così come è stata descritta da sant’Ireneo nel secondo secolo: «La Chiesa, avendo ricevuto questa predicazione e questa fede, benché dispersa nel mondo intero la conserva con cura come abitando una sola casa; e allo stesso modo crede in queste verità, come se avesse una sola anima e un solo cuore; e le proclama, insegna trasmette, con una voce unanime, come se avesse una sola bocca» (Adversus haereses, I, 10, 2).
La Sede di Pietro, cioè il Sovrano Pontefice, è il garante dell’unità della fede e della disciplina sacramentale apostolica. Considerando la confusione venutasi a creare tra di sacerdoti e vescovi nella pratica sacramentale per quanto riguarda i divorziati risposati e l’interpretazione di AL, si può considerare legittimo un appello al nostro caro papa Francesco, il Vicario di Cristo e «il dolce Cristo in terra» (Santa Caterina da Siena), affinché ordini la pubblicazione di una interpretazione autentica di AL, che dovrebbe necessariamente contenere una dichiarazione esplicita del principio disciplinare del Magistero universale e infallibile riguardo l’ammissione ai sacramenti dei divorziati-risposati, così come è formulato nel n. 84 della Familiaris consortio.
Nella grande confusione ariana del IV secolo, san Basilio il Grande fece un appello urgente al papa di Roma affinché indicasse con la sua parola una chiara direzione per ottenere finalmente l’unità di pensiero nella fede e nella carità (cf. Ep. 70).
Una interpretazione autentica di AL da parte della Sede Apostolica porterebbe una gioia nella chiarezza («claritatis laetitia») per tutta la Chiesa. Tale chiarezza garantirebbe un amore nella gioia («amoris laetitia»), un amore e una gioia che non sarebbero secondo la mente degli uomini, ma secondo la mente di Dio (cf. Mt 16, 23). Ed è questo ciò che conta per la gioia, la vita e la salvezza eterna di divorziati-risposati e di tutti gli uomini.

+ Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Maria Santissima in Astana, Kazakhstan


Chiesa, evento del Calvario, Legge in aforisma del card. Stefan Wyszyński

Verità, salvezza, pastorale in un aforisma di P. Serafino Lanzetta

“Supérno caritátis igne, quem in Basílica Vaticána e penetrálibus Cordis Jesu olim copiose háuserat, inflammátus, et divínæ glóriæ amplificándæ únice inténtus dici vix potest, quot, per annos ámplius quadragínta, labóres suscéperit, ærumnásque pertúlerit, ut complúres Germániæ civitátes ac províncias vel ab hæréseos contagióne defénderet, vel, hæresi inféctas, cathólicæ Fídei restitúeret. … Quamóbrem, hæreticórum málleus et alter Germániæ apóstolus appellátus, plane dignus hábitus est, qui ad tutándam in Germánia religiónem divínitus eléctus putarétur” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI PETRI CANISII CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS

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La storia di questo glorioso discepolo di sant’Ignazio di Loyola è intimamente legata a quella della controriforma cattolica in Germania di fronte ai novatori protestanti; ciò è così vero che Canisio fu salutato come nuovo apostolo della Germania e martello dell’eresia (e degli eretici), Malleus hæreticorum. Di fatto, incrollabile fu l’energia spiegata dal Santo per la difesa della fede durante i quaranta anni del suo apostolato, dove non risparmiò né lavori né sofferenze per il bene della Chiesa. Due volte prese parte al Concilio di Trento; tenne un numero incredibile di predicazioni e di missioni, non solo davanti ai semplici fedeli ma anche nelle diverse corti principesche; scrisse molti lavori di carattere teologico, polemico e catechetico: ciò gli valse di ricevere da Pio XI il titolo di dottore della Chiesa, che gli fu conferito – ed è in ciò che fu l’oggetto di un privilegio – al momento stesso della sua canonizzazione a San Pietro.
Scrisse, in risposta alle luterane Centurie di Magdeburgo, due eccellenti volumi che, più tardi, grazie all’intervento di san Filippo Neri, furono seguiti da quelli di Baronio sugli Annali Ecclesiastici. Il Catechismo di Canisio, adottato da san Carlo Borromeo per la sua diocesi milanese, rimase per lunghi anni il manuale ufficiale per l’insegnamento della dottrina cristiana, e la sua popolarità in Italia fu superata appena dal catechismo del Bellarmino.
San Pietro Canisio morì il 21 dicembre 1597 e Pio XI lo canonizzò nel 1925 e lo proclamò dottore della Chiesa. La sua festa fu istituita nel 1926 come doppia.
La messa è quella del Comune dei Dottori, come per la festa di san Francesco di Sales, il 29 gennaio, ma la prima colletta è propria.
La Roma cristiana ha dedicato una chiesa al nostro Santo (San Pietro Canisio agli Orti Sallustiani) nel rione Trevi annessa al Collegium Germanicum et Hungaricum. Fu consacrata nel 1949.
La Chiesa loda, in san Pietro Canisio, non solo la sapienza, ma anche la forza eroica per aver sostenuto il dogma cattolico contro le violenze e le insidie dei protestanti. A questo riguardo, Canisio può essere paragonato a san Giovanni Crisostomo, a san Giovanni Damasceno, a quegli antichi Dottori che hanno non soltanto insegnato, ma anche sofferto tanto per la fede. In effetti, le fatiche e le prove sopportate dal nostro santo apostolo per conservare alla Germania questo tesoro di fede cattolica, che san Bonifacio un tempo aveva consacrato col suo sangue, sono incredibili. Che il lauro del dottore cinga la fronte, dunque, di san Pietro Canisio; ma a questo alloro la liturgia aggiunge anche il merito, il martirio, di una vita missionaria di quasi otto lustri in un paese ostile alla fede cattolica, azione missionaria che giustifica per Canisio il glorioso soprannome di martello del Luteranesimo.
Oh quanto era autentico lo spirito dei gesuiti a quel tempo: uno spirito che è stato tradito dai membri di quel glorioso ordine e che vedrebbe addirittura chi ne farebbe parte a celebrare il quinto centenario dell’empia eresia e disobbedienza di Lutero, a riprova dell’allontanamento dalla vera fede, dell’apostasia oggi imperante e che simili iniziative non sono in alcun modo cattoliche ed ascrivibili alla Chiesa cattolica.



Dominikus Custos, litografia di S. Pietro Canisio, 1600


  

Paolo Guglielmi, da un disegno del Gagliardi, S. Pietro Canisio in contemplazione della Vergine, 1870 circa, collezione privata 


Bernard Maria Jechel, S. Pietro Canisio e S. Stanislao Kostka, 1870 circa, collezione privata



Anonimo, S. Pietro Canisio, 1699, Schilderijencollectie Rijksmuseum, L’Aja

Tomba di S. Pietro Canisio, Chiesa di S. Michele, Collegio di S. Michele, Fruburgo

Studio della teologia in un aforisma di S. Tommaso d'Aquino

Il santo assassino ovvero la redenzione del beato Carino da Balsamo

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Il calendario tradizionale celebra oggi la festa del domenicano ed inquisitore S. Pietro da Verona. Tutti si sarebbero aspettati – avendo un’immagine distorta ed “illuminista” della Chiesa – che il suo uccisore finisse imprigionato, tormentato sotto tortura e magari pure ucciso in modo atroce dai “crudeli” Domenicani dell’Inquisizione e da una Chiesa medievale asseritamente - secondo la volgata comune - oscurantista e perfida. Ed invece no. Al contrario. La storia dell’autore del delitto, tale Carino da Balsamo, in un certo qual modo ricorda la storia di S. Paolo – la cui conversione fu ottenuta dal sangue versato da S. Stefano – o di un Alessandro Serenelli – convertito da S. Maria Goretti.
In effetti, l’uccisore di S. Pietro, convertitosi, vestì egli stesso l’abito di terziario domenicano e morì in concetto di santità nelle Marche, venendo elevato dalla Chiesa alla gloria degli altari e venerato come Beato Carino da Balsamo, la cui festa si celebra il 28 aprile (il giorno prima di quella di S. Pietro martire). Scrive un insigne domenicano, autore di una vita del Santo celebrato oggi, che: «Carino fu perdonato e si pentì del suo tremendo delitto; convertitosi, egli chiese di potersi ricoprire dell’abito che indossava il dolce servo del Signore, e finì fratello laico in un convento domenicano delle Marche dove si dedicò al lavoro e a tale durissima penitenza d’espiazione che il popolo lo venerò dopo la morte come beato» (P. Reginaldo FrasciscoO.P., San Pietro martire da Verona, ESD, Bologna, 1996, p. 124).
Per cui, quest’oggi, oltre a S. Pietro martire vogliamo ricordare pure il santo suo assassino, che possiamo ascrivere come uno dei frutti più belli ottenuti dal sangue innocente e fecondo del servo del Signore Pietro da Verona. Per notizie sul beato Carino, rinviamo al recente libretto Marco Bulgarelli, Il santo assassino. Beato Carino da Balsamo, Edizioni san Paolo, Cinisello Balsamo, 2015.

Pedro Berruguete, Orazione di S. Pietro martire, 1493-99, museo del Prado, Madrid

Pedro Berruguete, Martirio di S. Pietro martire, 1493-99, museo del Prado, Madrid

Pedro Berruguete, S. Pietro martire, 1493-99, museo del Prado, Madrid

Pedro Berruguete, Venerazione e pellegrinaggi al sepolcro di S. Pietro martire, 1493-99, museo del Prado, Madrid

Anonimo, Vergine del Rosario tra i SS. Domenico e Pietro martire, XVI sec., museo del Prado, Madrid

Juan de Borgoña, SS. Maria Maddalena, Pietro martire, Caterina da Siena e beata Margherita d'Ungheria, 1515 circa, museo del Prado, Madrid

Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio, Martirio di S. Pietro da Verona, 1528, Museo d’Arte Sacra San Martino, Alzano Lombardo

Giovan Battista Moroni, Martirio di san Pietro da Verona, 1555-60, Castello Sforzesco, Milano


Lorenzo Lotto, Ritratto di fra Angelo Ferretti come S. Pietro martire, 1549 circa


Jeremias Mittendorff, Trittico con storie di S. Pietro da Verone: Miracolo della falsa Madonna ovvero S. Pietro rompe il giogo satanico degli eretici; Martirio di S. Pietro da Verona; Miracolo della nube, XVII sec. (1616-29), Palais des Beaux-Arts, Lille





Le reliquie del beato Carino prima di essere traslate, nel 1934, al santuario di S. Martino, Balsamo


Reliquia del beato Carino con il falcastro usato per uccidere S. Pietro, Santuario di S. Pietro da Verona, Seveso. Il falcastro viene esposto nella ricorrenza del Calendimaggio per la festa del Santuario

Il santo assassino

di Oreste Paliotti

La potenza redentrice della misericordia divina si palesa nella figura del beato Carino da Balsamo, le cui spoglie sono venerate a pochi chilometri da quelle dell’ucciso, san Pietro da Verona. Una puntata nell’hinterland milanese, teatro di questa vicenda del XIII secolo

Con i suoi oltre 75 mila abitanti, Cinisello Balsamo è il terzo comune della provincia di Milano dopo il capoluogo e Sesto San Giovanni. Il suo sviluppo, dovuto alla fortissima immigrazione iniziata negli anni '50 per la vicinanza con le grandi industrie milanesi e le fabbriche di Sesto, ha in effetti stravolto l’identità e le caratteristiche fisiche dei due borghi agricoli originari, Cinisello e Balsamo, poi accorpati in un unico comune nel 1928 non senza resistenze degli abitanti soprattutto di Balsamo. Il primo borgo è l’erede della Cinixellumal tempo in cui le legioni romane conquistarono la Gallia Transpadana, mentre il secondo, circa tre miglia più a sud-est, deriverebbe il suo nome Balsemumo Balxanum da un’antica famiglia nobiliare milanese del X secolo. Tra i palazzoni moderni ancora resistono alcune vecchie case a corte, tipiche dei primitivi insediamenti.
Non so quanti dei laboriosi abitanti di questo hinterland milanese sappiano riferire qualcosa delle lotte religiose che nel Duecento misero in subbuglio la Lombardia e la stessa Milano. Mi riferisco all’eresia dei catari (o “uomini puri”), che in alternativa alla Chiesa cattolica di quel tempo, inquinata dal potere e dalle ricchezze, professavano un messaggio di salvezza e liberazione dalla soggezione al male. Per il rigore morale che li contraddistingueva, i catari, che si consideravano la vera Chiesa di Cristo e degli apostoli, esercitavano un grande fascino su quanti erano disgustati dal clero cattolico, spesso mediocre e corrotto. Inoltre essi avevano semplificato la liturgia, ammettendo un solo sacramento: il battesimo che, impartito agli adulti in prossimità della morte, assicurava il perdono dei peccati e la salvezza eterna.
Quando il dilagare dell’eresia e l’emorragia di fedeli furono accompagnate da un fatto di sangue come l’uccisione, nel 1208, del legato pontificio Pietro di Castelnau, papa Innocenzo III reagì col tribunale dell’Inquisizione e promuovendo la crociata che avrebbe segnato l’annientamento del catarismo prima in Lombardia e poi in tutta Europa (anche se non la fine delle eresie, sempre ripullulanti, magari con nomi diversi, a causa della incoerenza evangelica dei cristiani). Grande nemico dei catari fu il podestà di Milano Oldrado da Tresseno, intimo amico dell’inquisitore per la Lombardia Pietro da Verona. Uno dei motivi di rinnovata persecuzione nei riguardi dei catari fu appunto l’uccisione efferata di quest’ultimo, uomo integerrimo stimato da papa Innocenzo IV, nato da famiglia catara ma poi entrato a far parte dell’Ordine dei Frati Predicatori (i domenicani).
A questo punto verrebbe da chiedersi: cosa c’entra Cinisello Balsamo? Centra, perché alcuni potenti partigiani dei catari, che avevano deciso la soppressione dello scomodo frate, avevano assoldato come killer un tal Carino originario proprio di Balsamo. Per Pietro, di ritorno da Como a Milano insieme a un confratello, l’agguato era stato preparato nella foresta di Barlassina. Inizialmente Carino aveva con sé un complice, venuto poi meno al suo compito all’ultimo momento. Fu quindi costretto a consumare da solo il delitto: armato di un falcastro, una specie di lunga roncola da contadino, assalì i due religiosi, colpendo più volte Pietro e ferendo l’altro. La tradizione dice che in punto di morte la sua vittima intinse un dito nel sangue e scrisse per terra: «Credo». Era il sabato in albis del 3 aprile 1252.
Carino non la fece franca: fu raggiunto e imprigionato, ma riuscì ben presto a evadere. In fuga verso il Sud senza amici e denaro, attraversò tutta l’Emilia  Romagna. Ma a Forlì, gravemente ammalato e roso dal rimorso, dovette ricoverarsi nell’ospedale di San Sebastiano, frequentato dai domenicani del vicino convento. Ormai in fin di vita, confessò il suo delitto al priore, che credette al suo pentimento e gli diede piena assoluzione. Non solo: concesse a Carino, dopo una sorprendente guarigione, di essere affiliato al convento in qualità di penitente. Del resto anche altri due famosi catari del tempo, dopo la conversione, avevano vestito l’abito di san Domenico. Nei successivi quarant’anni Carino si prestò ai servizi più umili, non sappiamo se come semplice penitente o reale fratello converso dell’Ordine. Ironia della sorte: nei suoi lavori di giardinaggio adoperava una roncola simile a quella usata per l’omicidio. Si narra che fino all’anno della morte, il 1293, condusse una vita esemplare.
Quando iniziò a prendere piede il suo culto, dalla chiesa del convento le spoglie di lui vennero traslate nel duomo di Forlì. Nell’era moderna furono in parte restituite alla nativa Balsamo, e nel 1964 qui definitivamente riunite nella chiesa parrocchiale di San Martino. A Seveso invece, non lontano da Cinisello Balsamo, sorge il santuario con le venerate reliquie di san Pietro da Verona. In una teca dell’altare si conserva il falcastro utilizzato dal suo uccisore.
La figura del beato Carino da Balsamo ricorda per certi versi quella, secoli dopo, dell’assassino di santa Maria Goretti, Alessandro Serenelli, che in seguito al perdono ricevuto da lei in punto di morte si convertì e, dopo 27 anni di carcere, visse come giardiniere e portinaio in un convento di frati cappuccini delle Marche.
Tutta la vicenda è minutamente ricostruita nel bel libro di Marco Bulgarelli Il santo assassino, edito dalla San Paolo.  Scrive nella prefazione il card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano: «Il miracolo della conversione che genera comunione rende possibile che, a pochi chilometri di distanza, oggi siano venerati sia l’ucciso che il suo assassino, diventati “uno” in Colui che è il Volto stesso della misericordia».

Cristo Crocifisso in un aforisma di S. Caterina da Siena

Problemi morali posti dall’Amoris Laetitia

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Continuano le analisi e riflessioni sull’esortazione Amoris laetitia: un documento, problematico sotto diversi profili, di cui alcuni cattolici, sia pur in buona fede, attendono la definitiva interpretazione da parte del Vescovo di Roma, sebbene l’esortazione avrebbe dovuto illuminare sugli esiti dei due Sinodi, svolti nel 2014 e nel 2015, i quali, a loro volta, avrebbero dovuto chiarire le posizioni della Chiesa su un problema teologico-morale inesistente, essendo chiaramente affrontato e risolto nella Divina Rivelazione! Un documento che, come afferma il filosofo cattolico Robert Spaemann, «è il caos eretto a principio con un tratto di penna» (cfr. Spaemann: “È il caos eretto a principio con un tratto di penna”, in Chiesa e postconcilio, 29.4.2016; in Il Timone, 29.4.2016Spaemann: Amoris laetitia è in rottura con il Magistero precedente, in sinodo2015, 28.4.2016. Cfr. Claire Chretien, Pope’s exhortation is a ‘breach’ with Catholic Tradition: leading German philosopher, in Lifesitenews, 28.4.2016. Per uno sguardo sulle voci critiche nei confronti dell’esortazione, cfr. In rapido aumento il numero degli scrittori cattolici che criticano l’Esortazione papale, in Chiesa e postconcilio, 15.4.2016I cattolici non possono accettare gli elementi della Esortazione Apostolica che minacciano la fede e la famigliaibidemGiuseppe Fallica: Cosa dobbiamo aspettarci noi cattolici dopo l'Amoris laetitia, in ivi, 17.4.2016Corrado Gnerre, L’AmorisLaetitia e la dimenticanza della Fede, in Riscossa cristiana, 16.4.2016; Matteo di Benedetto, Haeresis Laetitia, ivi, 19.4.2016; don Giorgio Ghio, Etsi … non daretur, ivi, 26.4.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 27.4.2016); un documento, frutto di due sinodi, di cui emergono inediti retroscena (v. Sinodo (e post-Sinodo). C’era (e c’è) un piano per manovrarli...., ivi, 28.4.2016) e che presenta evidenti elementi dissonanti con il magistero cattolico (cfr. Intelligenti pauca, ivi, 16.4.2016, nonché La norma della decisione ultima e personale per un’azione morale va presa dalla parola e dalla volontà di Cristo, in Riscossa cristiana, 24.4.2016. Cfr. anche La pace nella famiglia: poche parole, precise, edificanti, ivi, 23.4.2016).
Insomma, da quel che emerge è chiaro che si tratta di un documento che fa un uso strumentale dei richiami a S. Tommaso d’Aquino ed al magistero (cfr. Luisella Scrosati, Valorizzare l’adulterio citando (male) san Tommaso, in La nuova bussola quotidiana, 11.4.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 16.4.2016), ponendo, in generale, serie questioni di fede (‘Amoris laetitia’ in conflict with the Catholic Faith, in Rorate caeli, 8.4.2016). Un documento grazie al quale i vescovi ed in generale il clero fa a gara per … ammettere alla Santa Comunione coloro che pur sono in stato di peccato abituale (cfr. Riccardo Cascioli, Comunione ai risposati, preti e vescovi fanno a gara, in La nuova bussola quotidiana, 18.4.2016; Sandro Magister, Comunione ai divorziati risposati. Nelle Filippine e a Bergamo è già cosa fatta, in blog Settimo Cielo, 15.4.2016, nonché in Riscossa cristiana, 16.4.2016).
Nella festa di S. Caterina da Siena, vergine, patrona d’Italia, rilanciamo volentieri quest’ulteriore contributo di approfondimento sull’esortazione post-sinodale.

Crocifisso del XII sec. dal quale S. Caterina ricevette le stigmate il 1° aprile 1375, domenica delle Palme, all'epoca conservato  nella Chiesa di S. Cristiana, Pisa, oggi presso la Chiesa del Crocifisso, Santuario Cateriniano, Siena

Rutilio di Lorenzo Manetti, S. Caterina abbraccia il Crocifisso, 1620 circa


Giovanni Odazzi, S. Caterina riceve la corona di spine dal Cristo scelta dalla santa, XVIII sec., Cappella di S. Caterina, Basilica S. Sabina, Roma


Giovanni Odazzi, Estasi di S. Caterina , XVIII sec., Cappella di S. Caterina, Basilica S. Sabina, Roma

Giovanni Odazzi, S. Caterina è presentata al Cristo dalla Vergine Maria per le nozze mistiche, XVIII sec., Cappella di S. Caterina, Basilica S. Sabina, Roma



Problemi morali posti dall’Amoris Laetitia

di Tommaso Scandroglio

Leggiamo il § 305 dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa».
A questo punto il documento rinvia alla nota n. 351: «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” (Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 [2013], 1038)». «Ugualmente segnalo che l’Eucaristia ”non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (ibid., 47: 1039)».
Il paragrafo e la nota sono inserite nel capitolo VIII dedicato alle – così definite – «situazioni irregolari», cioè alla convivenze e soprattutto alle nuove unioni civili a seguito di divorzio dove il precedente matrimonio è canonicamente valido. Nel testo quindi da una parte si descrive una situazione oggettivamente disordinata (il divorziato che si è risposato civilmente) ma in cui la responsabilità soggettiva del divorziato risposato è assente oppure non è piena, e dall’altra come strumento pastorale per questa condizione particolare si indica l’accesso ai sacramenti della riconciliazione e dell’Eucarestia.
Il paragrafo 305 sembra alludere a una situazione in cui il divorziato risposato potrebbe vivere in grazia perché privo di responsabilità soggettiva della sua condizione. Potrebbe essere il caso in cui il divorziato risposato è pienamente convinto che vivere un secondo matrimonio è condizione conforme a morale. Mancando la piena avvertenza sulla materia grave, costui non sarebbe in stato di peccato mortale ergo il divorziato risposato potrebbe comunicarsi.
Tale interpretazione potrebbe essere validata dal § 302 dell’Amoris Laetitia: «non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio – 22 novembre 1981, 33: AAS 74 (1982), 121).
Tentiamo di rispondere a questa obiezione. In primis occorrerebbe verificare caso per caso se realmente la persona versa in uno stato di errore in merito alla sua condizione. Il giudizio di liceità espresso dal divorziato risposato in merito al suo stato potrebbe essere apparente.
In secondo luogo l’ignoranza invincibile deve essere sempre provata.
In terzo luogo l’ignoranza invincibile può essere colpevole: la ripetizione di scelte malvagie compiute liberamente (vizio) può condurre la persona in questa condizione di ignoranza invincibile e dunque la buona fede è un effetto negativo degli errori colpevoli compiuti nel passato dalla persona stessa. Quindi la responsabilità sussiste e non si è in grazia di Dio.
In quarto luogo – e veniamo all’aspetto più importante che si svincola dalla casuistica e si incardina su un principio insuperabile – anche ammesso che l’ignoranza invincibile sia incolpevole (tesi più teorica che reale) è la condizione che oggettivamente – al di là dell’imputabilità morale cioè del profilo soggettivo – è inconciliabile con la comunione. Ricevere Cristo esige una condizione della vita della persona che oggettivamente sia conforme alla Santità di Cristo. Sebbene la persona non ne sia cosciente, la condizione di divorziato risposato è materia grave e tale rimane. Ricorriamo ad un esempio: un barista senza sua colpa (stato di ignoranza) dà da bere del veleno ad un avventore. Chi è a conoscenza che in quel bicchiere c’è del veleno deve impedire al barista di dare da bere perché oggettivamente – al di là della consapevolezza del barista – quell’azione è dannosa per i clienti. Deve impedirlo anche se il barista non vuole sentire ragioni ed è convintissimo che ha tutto il diritto di somministrare quel bicchiere d’acqua. E dunque occorre impedire ai conviventi e ai divorziati risposati che non vivono castamente (o che vivono castamente ma che dovrebbero interrompere la loro relazione perché su di loro non gravano particolari obblighi morali) di accostarsi alla comunione perché tali condizioni sono oggettivamente lesive di Dio, della Chiesa e degli stessi divorziati risposati.
C’è un ordo (un orientamento) voluto da Dio (es. i rapporti sessuali sono leciti solo nel rapporto di coniugio) e vi sono atti che oggettivamente – cioè per l’oggetto deliberato e al di là della consapevolezza dell’illiceità professata dall’agente – sono di per sé contrastanti con questo ordo e che pongono la persona in una condizione incompatibile con questo ordo.
Ciò impone al sacerdote non solo di proibire l’accesso all’Eucarestia, ma anche di non assolvere il divorziato risposato che non intendesse cambiare la sua situazione. Per amministrare validamente l’assoluzione mancherebbero infatti due condizioni: il chiaro pentimento e la volontà di emenda. Il primo requisito mancherebbe proprio perché è impossibile pentirsi di una condizione (o di un singolo peccato) che si reputa buona.
Di conseguenza chi non si pente del proprio stato di divorziato risposato non decide nemmeno di troncare il rapporto con la seconda moglie e tentare di tornare con la legittima ed unica moglie. Oltre a questo occorrerebbe che il penitente si proponesse con risolutezza di riparare ai danni commessi al coniuge legittimo, alla eventuale prole, al convivente che ha indotto in peccato e all’intera comunità cristiana a cui ha recato scandalo.
C’è infatti da notare che la gravità della condizione del divorziato risposato non può che ridondare anche nella particolare severità e attenzione richiesta dal confessore. Tale condizione non è semplicemente la sommatoria di più peccati riguardanti il sesto comandamento e non configura solo un vizio, cioè la ripetizione di atti malvagi che vanno a costruire un habitus peccaminoso, ma rappresenta una libera scelta nel tempo di uno status contrario alla volontà divina. È cioè l’elezione ad uno stato di vita strutturalmente e formalmente incompatibile con la vita cristiana che potremmo indicare, seppur l’espressione sia fuori moda ma rimane corretta, con la qualifica di pubblico peccatore. E dunque mancando queste due condizioni – le quali dal punto di vista teologico costituiscono la materia del sacramento della Penitenza – è proibito dare l’assoluzione perché illecita e invalida.
Nel caso in cui il confessore la conferisse ugualmente perché convito della buona fede del penitente che non ha coscienza della gravità della sua condizione, commetterebbe sacrilegio. Il sacerdote invece, nel colloquio durante la confessione, dovrebbe risvegliare i moti della coscienza del penitente, svegliarlo dal suo torpore intellettivo-morale e fargli spalancare gli occhi sulla sua reale condizione spirituale. Al malato grave ignaro della sua malattia dobbiamo dire di curarsi, altrimenti morirà.
In sintesi il divorziato risposato per accedere alla comunione deve manifestare sincero pentimento e proposito fermo di non peccare più, interrompendo quindi subito l’adulterio pubblico instaurato con la seconda moglie (la convivenza è permessa solo se gravano sui conviventi particolari e gravi obblighi morali, quali ad esempio l’educazione dei figli, a patto ovviamente di vivere castamente e di non dare scandalo a terzi). Gesù, rivolgendosi proprio ad una adultera, infatti ordinò: «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8, 11).


Immagini per meditare: scene della vita di S. Caterina da Siena negli affreschi di Alessandro Franchi e Gaetano Marinelli nell'Oratorio della Camera della Santa del Santuario della Casa di Santa Caterina, in Siena, dipinti nel 1896

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La madre di S. Caterina, Monna Lapa Piacenti, vede la figlia salire le scale sospesa in aria

S. Caterina si taglia i capelli per offrirsi a Dio

ll padre, Jacopo Benincasa, sorprende S. Caterina a pregare con la colomba dello Spirito Santo sulla testa

S. Caterina dona il mantello a Gesù sotto le sembianze di un povero pellegrino

Gesù offre a S. Caterina una corona d’oro e una di spine


Nozze mistiche di S. Caterina

Maternità mistica di S. Caterina durante una notte di Natale

Fonte: Viae Siena

Castità, una virtù assente dall’Amoris Laetitia

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Continuiamo, con un altro contributo, nell’analisi, pacata ma ferma, dell’esortazione Amoris Laetitia, un documento che, già prima della sua promulgazione, aveva creato motivi di apprensione nel mondo cattolico (cfr. Roberto de Mattei, Le apprensioni dei cattolici alla vigilia dell’Esortazione post-sinodale, in Corrispondenza romana, 23.3.2016; Giovanni Scalese, La rivoluzione pastorale, in blog Senza peli sulla lingua, 28.3.2016): timori, i quali, in larga misura, hanno creato triste conferma (cfr. Id., Salutare autocritica, ivi, 14.4.2016), tanto più che, come evidenziato da un autore al di sopra di ogni sospetto e certamente non appartenente al mondo della Tradizione, i contenuti dell’esortazione fossero ampiamente prevedibili essendo stata “anticipata” per sua gran parte dalla precedente esortazione – pur essa problematica e non esente da criticità – Evangelii gaudium (cfr. Id., C’era già tutto in “Evangelii gaudium”, ivi, 27.4.2016).
Nella festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo, rilanciamo, perciò, quest’articolo di Cristina Siccardi, che ci fornisce un ulteriore quadro dell’esortazione pubblicata quasi un mese fa.


Lorenzo Costa, S. Filippo apostolo, 1459-60, National Gallery, Londra


Simon de Vos, Martirio di S. Filippo, 1645-48, Palais des beaux-arts, Lille

S. Filippo, Cattedrale di S. Isacco, San Pietroburgo


Francesco Hayez, Gli apostoli Giacomo e Filippo in viaggio per le loro predicazioni, 1827, collezione privata, Torino

Castità, una virtù assente dall’Amoris Laetitia

di Cristina Siccardi

Nell’esortazione apostolica Amoris laetitia Papa Francesco cita il termine castità una volta soltanto, come «condizione preziosa per la crescita genuina dell’amore interpersonale». Nulla più. Questa virtù è una difesa straordinaria e sarebbe molto opportuno che la Chiesa, senza vergogna, ritornasse a parlarne per correggere cristianamente il malcostume diffuso e il paganesimo imperante, ricordando ciò che la Chiesa ha sempre affermato in materia di matrimonio e di famiglia.
L’indissolubilità del matrimonio è legge divina ed essendo tale, anche nella forzata separazione di una coppia, non è lecito né l’adulterio né il concubinato (divorziati risposati) che conducono la persona, inesorabilmente, a trovarsi non più in uno stato di grazia, indispensabile per poter essere degni di ricevere la Comunione.
Lo stato di grazia permette alla potenza di Dio, attraverso i Sacramenti, di irrompere nelle vite tribolate, aiutando a portare piccole e grandi croci: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11, 29-30) a differenza del peccato mortale che procura macigni orrendi.
Più la Chiesa utilizza un ingannevole buonismo, una falsa misericordia e più il peccato corrode le anime e più esso indebolisce persone e società. «Supponiamo che vi sia un giardino pieno di alberi da frutto e di altre piante aromatiche, ben coltivato e adornato in ogni sua parte, provvisto anche d’un muricciolo protettivo. Supponiamo, poi, che vi sia un fiumiciattolo che vi scorre accanto: questo, quantunque povero d’acqua, sbatte contro la parete del muricciolo e la corrode; allargando a poco a poco una fessura irrompendo all’interno del giardino, l’acqua finisce col travolgere e sradicare tutte le piante, distruggendo ogni coltivazione e rendendo sterile il suolo. Ebbene, non diversamente avviene anche nel cuore dell’uomo» (San Macario il Grande, Omelie spirituali, 43, 6). Sanare, potare, sradicare le erbacce, alzare muriccioli e muri per liberare la vita degli uomini è il compito benefico dei pastori della Chiesa. La castità è attrezzo meraviglioso di pulizia del giardino di ogni persona e di ogni famiglia.
La promiscuità della società odierna, dalla scuola ai luoghi di lavoro; la mancanza di pudore nelle donne; l’inconsistente autorità paterna; il lassismo delle madri, utilizzato per sé e per i propri figli; il linguaggio sboccato; le influenze nefaste della pubblicità e della cultura pornografica e omosessuale a vasto raggio; le legislazioni degli Stati occidentali non sono certo l’humus ideale per la coltivazione di pensieri puri; ma proprio per tale ragione i fedeli sono in affannosa attesa di giusti insegnamenti evangelici da parte degli ecclesiastici, che pare abbiano interessi diversi dalla Fede e dalle loro responsabilità davanti a Dio e alle anime.
Osservare troppo in basso i mali della società, senza pupille anelanti la vita soprannaturale, è patologia moderna della Chiesa sorta dopo il Concilio Vaticano II, quella patologia che non permette di servirsi delle corrette terapie. Pio XI, di fronte alla desacralizzazione dell’istituto familiare e alle minacce secolarizzatrici, scrisse nel 1930 una memorabile enciclica, la Casti connubii al fine di contrastare la «perversa moralità. E poiché si sono cominciati a diffondere anche tra i fedeli questi perniciosissimi errori e questi depravati costumi, che tentano d’insinuarsi insensibilmente ma sempre più profondamente, abbiamo creduto essere dovere del Nostro ufficio di Vicario di Gesù Cristo in terra di supremo Pastore e Maestro, alzare la Nostra voce apostolica per allontanare le pecorelle a Noi affidate dai pascoli avvelenati e, per quanto dipende da Noi, custodirle immuni».
Efficaci e santi frutti vennero da quell’Enciclica, nonostante che i novatori, con la loro funesta teologia, disseminassero la zizzania, la stessa che si ritroverà nel Concilio Vaticano II. Come non ricordare le reazioni irose alla Humanae vitae di Paolo VI? Oltre 200 teologi firmarono sul New York Times un appello per invitare tutti i cattolici a disubbidire all’enciclica papale. Alcuni protagonisti del Concilio, contrari all’enciclica, si riunirono a porte chiuse nella città di Essen per stabilire una strategia di opposizione al documento pontificio, che venne sbeffeggiato, disatteso, rigettato con asprezza da interi episcopati, che ebbero la meglio: la dottrina dell’Humanae vitae non fu seguita e nelle università e nei seminari i testi di studio divennero quelli del redentorista Bernhard Häring, padre morale della Costituzione dogmatica Gaudium et Spes, nonché acerrimo nemico dell’Enciclica del 1968.
Da lunghissimo tempo si preparava Amoris laetitia, tonnellate di parole scritte, di conferenze, di convegni, di consigli pastorali… per poi giungere ai due recenti sinodi ed ora all’Esortazione apostolica.
Ancora una volta l’antropocentrismo è stato il protagonista indiscusso e con esso le circostanze storiche, sociali e culturali, quelle che determinano la direzione della rosa dei venti della Chiesa contemporanea, come recita la stessa Esortazione: «Sono innumerevoli le analisi che si sono fatte sul matrimonio e la famiglia, sulle loro difficoltà e sfide attuali. È sano prestare attenzione alla realtà concreta, perché “e richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia”, attraverso i quali “la Chiesa può essere guidata ad una intelligenza più profonda dell’inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia” (II, 31)».
Quando riascolteremo nuovamente parole di seria disciplina agganciata agli insegnamenti di Cristo e non a quelli della rivoluzionaria teologia e della rivoluzionaria pastorale? Soltanto nelle regole e nella sana educazione si formano uomini e donne forti in grado di formare famiglie forti per una civiltà responsabile di se stessa e delle generazioni future, a dimostrazione di ciò esistono mirabili esempi sia nella macrostoria come nella microstoria. E la castità rientra a pieno titolo nella corretta formazione dei figli di Dio.
La castità è un prisma d’eccellenza che la Chiesa è tenuta ad insegnare affinché possa rifrangersi in esso la luce della volontà non degli uomini, ma di Dio «perché il bene della fede splenda nella debita purezza, le stesse vicendevoli manifestazioni di familiarità tra i coniugi debbono essere caratterizzate dal pregio della castità, in modo tale che i coniugi si comportino in tutte le cose secondo la norma di Dio e delle leggi di natura, e si studino di seguire sempre, con grande riverenza verso l’opera di Dio, la volontà sapientissima e santissima del Creatore» (Casti connubii I).

Immagini per meditare all'inizio del mese mariano di maggio

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Simon de Vos (attrib.), Vergine col Bambino ed angeli, XVII sec.

Scuola romana, Madonna, XVII sec., collezione privata


Giovanni Battista Salvi detto Il Sassoferrato, Madonna in preghiera, XVII sec., collezione privata

Giovanni Battista Salvi detto Il Sassoferrato, Madonna col Bambino in gloria, XVII sec., Galleria Carretto, Torino

Giovanni Battista Salvi detto Il Sassoferrato, Madonna col Bambino in trono, XVII sec., Abbazia di S. Pietro, Perugia

Guido Reni, Vergine Maria in preghiera, XVII sec., collezione privata

Michele Desubleo, Madonna della Rosa con Bambino, XVII sec., Collezionr Banca Popolare dell'Emilia, Modena
Il Bambino Gesù prende dal cestino una passiflora prefigurazione della sua Passione

Scuola Napoletana, Madonna col Bambino (Madonna dell'Arco?), XVIII sec., collezione privata

Immagini per meditare nella festa di S. Giuseppe lavoratore

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Ludwig Seitz, La Grazia divina ed il lavoro umano, XIX sec., Galleria dei Candelabri, Musei Vaticani, Città del Vaticano.
L’affresco allegorico, voluto dal papa della Rerum Novarum, Leone XIII, dimostra che, come il sole è necessario al vecchio lavoratore per far germogliare i suoi campi, così la Grazia divina dà vita e sviluppa la spiritualità.
Nel cartiglio al di sopra dei personaggi si legge il motto: Gratia Dei et contentione voluntatis excellentiam virtutis adipiscimur, cioè con la Grazia di Dio e lo sforzo di volontà si raggiunge l’eccellenza della virtù.

Attingiamo questo salutare pensiero sul lavoro da un nostro amico ed affezionato giovane lettore:

Il lavoro umano è necessità ed è una conseguenza del peccato originale. Dio infatti pronunziando la sentenza contro Adamo disse: « [...] maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. [...] Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra [...]» (Gen. III, 17). Lo stesso Gesù Cristo volle lavorare nella bottega di San Giuseppe, suo padre putativo, e fu non disdegnò affatto di essere chiamato «figlio del carpentiere» (Matth. XIII, 55): il Verbo infatti «annichilò se stesso, assumendo la condizione di schiavo divenendo simile agli uomini» (Phil. II, 7), «in ogni cosa, escluso il peccato» (Heb. IV, 15). Pure Nostra Signora lavorava (in casa, s’intende!) e così gli Apostoli e i discepoli vivevano del loro lavoro. Questo perché pur essendo una punizione il lavoro può essere, fonte di nobilitazione e soprattutto di santificazione se esso vien fatto in Cristo e per Cristo, come raccomanda l’Apostolo nell’Epistola della odierna festa: «Qualunque lavoro facciate, lavorate di buon animo, come chi opera per il Signore e non per gli uomini» (Col. III, 23).

La voce del Vicario di Cristo per l'odierna festa:

Poniamo la grande azione della Chiesa Cattolica contro il comunismo ateo mondiale sotto l’egida del potente Protettore della Chiesa, San Giuseppe. Egli appartiene alla classe operaia ed ha sperimentato il peso della povertà, per sé e per la Sacra Famiglia, di cui era il capo vigile ed affettuoso; a lui fu affidato il Fanciullo divino, quando Erode sguinzagliò contro di Lui i suoi sicari. Con una vita di fedelissimo adempimento del dovere quotidiano, ha lasciato un esempio a tutti quelli che devono guadagnarsi il pane col lavoro delle loro mani e meritò di essere chiamato il Giusto, esempio vivente di quella giustizia cristiana, che deve dominare nella vita sociale.

(Pio XI, enc. “Divini Redemptoris”, 19 marzo 1937)

Presentazione del nuovo libro di don Nicola Bux "Con i sacramenti non si scherza" - Milano, 2 maggio 2016

Dottrina cristiana, ateismo, scientismo, Paradiso ed Inferno in un aneddoto del giovane don Giuseppe Sarto, futuro S. Pio X

L’iconografia su san Marco parla ai nostri tempi

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Oggi, oltre alla festa di S. Atanasio, si celebra pure l’Ottava di san Marco evangelista.
In quest’ultima ricorrenza, rilanciamo questo contributo di Cristina Siccardi.

L’iconografia su san Marco parla ai nostri tempi

di Cristina Siccardi

Sarebbe San Marco, del quale si è celebrata la festa in questi giorni, il giovane senza nome che fuggì, nudo, al momento dell’arresto di Gesù? Il Vangelo di Marco è il solo a raccontare brevemente questo episodio. Siamo nell’Orto del Getsemani, dopo aver vegliato in solitudine, Gesù viene catturato dalle guardie, mentre un «giovanetto lo seguiva, vestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo» (Marco, XIV, 51-52).
Anche Marco fugge, come gli altri discepoli, compreso San Pietro. La tradizione iconografica più antica raffigura il primo Papa piccolo, mentre ferisce il servo del sommo sacerdote, di nome Malco, proprio per significare la distanza tra lui e il Buon Pastore, come dimostrano, per esempio, i mosaici di San Marco a Venezia. Molto significativa questa iconografia petrina: San Pietro ha sbagliato – sia nel non vegliare nell’ora del calice di Cristo; sia nel fuggire; sia nel misconoscere pubblicamente il Figlio di Dio per ben tre volte – se, dunque, ha sbagliato San Pietro, a maggior ragione possono commettere errori anche i suoi eredi.
L’iconografia sacra è chiara a questo riguardo: soltanto il Cristo è l’Autorità suprema ed indiscussa. Nel momento della grande prova tutti i discepoli sono separati dal Salvatore. Chi ha riprodotto più fedelmente la narrazione marciana del giovane fuggiasco dall’Orto degli Ulivi è stato il pittore italiano Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino (1568-1640), alla cui bottega si formarono celebri pittori, fra i quali Caravaggio, Andrea Sacchi, Pierfrancesco Mola.
Definito «pictor unicus, rarus et excellens ac primarius et reputatus», nel 1600 affrescò l’Ascensione nel transetto di San Giovanni in Laterano, opera che gli valse il Cavalierato di Cristo. Sempre in quegli anni assunse la direzione dei lavori di decorazione musiva della cupola di San Pietro, successivi, invece, sono gli affreschi della Villa Aldobrandini a Frascati e quelli della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, realizzati fra il 1605 e il 1612. L’arresto di Gesù Cristo, descritto da Cesari, è impresso in una tela conservata in Germania, (Cristo fatto prigioniero ca. 1597. Olio su pannello di noce, 89 x 62 cm. Staatliche Museen, Kassel).
La concitazione è generale: soldati, discepoli, lance e bastoni si agitano in modo confuso. Solo la notte, sullo sfondo, è quieta e stellata, mentre la candida luna illumina con i suoi bagliori la tragica scena. Gesù si trova al centro, bellissimo e solenne. La sua veste è rossa, per ricordare il Sommo Sacrificio. Giuda lo ha già indicato con un bacio agli aggressori, ma il Cavalier d’Arpino non fissa questo empio gesto, bensì ritrae il traditore mentre si allontana velocemente con un mantello giallo, lo stesso colore utilizzato da Giotto. Del resto anche San Pietro qui porta un mantello giallo, perché pure lui, quella notte, rivelò il suo distacco dal Maestro. Il Rabbi, mesto, ma già glorioso, realtà già evidenziata dalla luce e dalla bellezza che emana, è abbandonato dai suoi infedeli discepoli, che si fanno carpire dai limiti della loro umanità. Finanche Pietro, quindi, si comporta come un incapace nel comprendere la Verità che gli era stata rivelata vis-à-vis.
Nella tela di Cesari sono tre i discepoli raffigurati: Giuda, Pietro e Marco, gli altri sono già scappati e sono lontani. E tutti e tre vengono indicati da Gesù. La sua mano sinistra, nascosta, è rivolta verso Giuda. Accanto alla colluttazione di Pietro, intento a tagliare l’orecchio al servo, che Gesù vorrebbe con la mano destra fermare, c’è un giovinetto verso il quale è rivolto lo sguardo di Cristo, ma questi fugge via, lasciando il lenzuolo di cui era rivestito.
Nella tradizione della Chiesa, molti commentatori hanno individuato proprio in lui l’autore del Vangelo più antico, scritto fra il 65 e il 70, raccogliendo e ordinando elementi anteriori già utilizzati dalla predicazione, dalla liturgia e dalla catechesi. San Marco viene illuminato nel creare il genere letterario «Vangelo» al fine di aiutare le comunità cristiane disperse per l’Impero romano, dove si fronteggiavano culture e religioni diverse e quindi offrire uno strumento sacro in grado di coagulare, attraverso la Scrittura, la dottrina del Figlio di Dio e seminare così la Verità, evangelizzando e convertendo. L’autore non scrive una vita di Gesù, ma ne fa un ritratto attraverso racconti e parabole, facendo scoprire progressivamente che, in Cristo, Dio realizza per ogni uomo le promesse antiche.
Nel giovane Marco, dipinto dal Cavalier d’Arpino, possiamo scorgere anche un importante segno simbolico: il lenzuolo che lascia cadere riconduce alla Sindone, dove riposerà Gesù nel sepolcro prima di risorgere. La luce folgorante della Sindone, che il pittore dipinge, sigilla la promessa della Risurrezione dopo tre giorni di morte. Cristo è solo, ma nella rotazione della sua figura, Egli segnala i punti chiave di tutto il dipinto: la torsione del suo corpo e la posizione del volto del ragazzo sono, in linea d’aria, molto vicini, e sul lenzuolo, che ancora per poco lo avvolge, si concentra e insieme rimbalza la luminosità che irradia tutta la rappresentazione figurativa.
Osservando San Marco in fuga si scorge, contemporaneamente, un’altra luce, più calda, dorata, simile a quella dell’unica aureola della scena, quella del Figlio di Dio. Infatti, a terra, una scia luminosa disegna un percorso, quello che va dal fuggiasco alla grotta scavata nella roccia, immersa in un giardino e posta sullo sfondo: è il prossimo sepolcro di Nostro Signore, dove sarà trovata la Sacra Sindone, testimonianza nei secoli della Sua risurrezione, quella Sindone che il pittore erede della tradizione artistica del Rinascimento, già affacciato sul Seicento, fa balenare nelle tenebre dell’oltraggio più ignominioso della Storia.


Tre Leoni nel secolo degli ariani

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Nella festa di S. Atanasio, che vinse il mondo ariano con la forza della fede e della Verità (cfr. Corrado Gnerre, Quando Atanasio si ritrovò solo in «un mondo ariano». e vinse con la forza della fede e della verità, in Il Timone, 21.4.2016) rilancio volentieri questo contributo. L'articolo è anche riportato da Chiesa e postconcilio.

Tre Leoni nel secolo degli ariani

di Carlo Codega

Tre figure di Vescovi coraggiosi, che hanno lottato fino all’ultimo per custodire intatto il deposito della Fede, si sono susseguiti nel secolo degli ariani; secolo in cui nuovamente e misticamente, il Verbo Incarnato è passato dalla morte alla vita...

«Ingemuit totus orbis et Arianum se esse miratus est» (Il mondo intero gemette sbalordendosi di essere diventato ariano): con queste significative parole san Girolamo descrisse lo stato ecclesiastico della metà del IV secolo quando l’eresia ariana, ben sostenuta dall’Imperatore Costanzo II, sembrava aver ormai abbattuto i difensori della vera Fede, sedotto i deboli e corrotto gli opportunisti. Quella croce gloriosa che, apparendo a Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio nel 312, aveva segnato il trionfo di Cristo sull’Impero Romano, passato in pochi anni dalla persecuzione verso i Cristiani al loro pubblico riconoscimento, ora veniva utilizzata, nella sua “apparente” debolezza, da Sacerdoti e Vescovi, ben introdotti alla corte di Costanzo II (figlio del medesimo Costantino) per mostrare l’inferiorità di Gesù rispetto al Padre. Strana parabola della Chiesa in questo secolo emblematico: dalla persecuzione al trionfo, dal trionfo all’autodistruzione per infine celebrare la sua silenziosa “risurrezione”, e tutto nel segno della Croce, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 18,23). È sempre il mistero della Croce di Cristo, Capo mistico, che si prolunga nelle membra mistiche a segnare il corso della Chiesa nella storia.

I nemici di Cristo

Con poche ma significative parole il grande sant’Atanasio seppe descrivere i suoi grandi avversari ariani: “Christomakoi” (nemici di Cristo). Tale giudizio duro e tagliente non è però senza ragione, considerando che sant’Alessandro d’Alessandria, il primo nemico dell’eresiarca Ario, fin dall’inizio denunciò la malvagità di quest’eresia con una lettera ai Vescovi cattolici: «Mettendo in discussione ogni pia ed apostolica dottrina, gli ariani hanno costruito un’officina per far la guerra a Cristo, alla maniera dei giudei, attaccare la divinità del nostro Salvatore e predicare che egli è semplicemente uguale a chiunque altro». Dal punto di vista teorico infatti l’arianesimo non fu altro che una rilettura razionalista della Fede cattolica, incapace di accettare i misteri della Rivelazione (Unità e Trinità di Dio, Incarnazione), per proporre una fede “a portata d’uomo”, una fede in cui Dio ha bisogno di un intermediario, “divino” (in un certo senso) ma non Egli stesso “Dio”, per comunicare con il mondo. Quest’intermediario non è altro che Gesù Cristo, il Logos, il quale ha certo in sé una scintilla del divino ma in alcun modo è Dio: Egli fu generato dal Padre dal nulla, al pari di noi, e vi fu un tempo in cui non era, quindi non è né l’origine assoluta né eterno, e, di conseguenza, non è Dio. I passi della Sacra Scrittura in cui si parla della vera umanità del Cristo vengono poi forzati e utilizzati per asserire in Lui l’assenza della Divinità. 
Tale teoria che subordinava il Figlio al Padre e, soprattutto, gli negava l’essenza divina, trovò però una solenne condanna al Concilio di Nicea (325), convocato dall’Imperatore Costantino: l’Assise fu quasi unanime (solo tre Vescovi rifiutarono di firmare) nel proclamare l’omousia (consustanzialità) del Padre e del Figlio, ovvero il Figlio è Dio tanto quanto il Padre. Contro il baluardo dottrinale di Nicea ben presto gli ariani montarono la loro “officina”, ovvero le arti politiche di alcuni dei loro esponenti, come Eusebio di Nicomedia ed Eusebio di Cesarea, che, ben introdotti alla corte di Costantino, riuscirono a ribaltare “politicamente” la sentenza di Nicea. Costantino, che molto apprezzava gli adulatori, approvò l’azione di questi Vescovi ariani, confermando la deposizione e l’esilio dei Vescovi difensori di Nicea, e lasciò che persuadessero gran parte dell’Episcopato orientale, più preoccupato che convinto, a passare dalla loro parte. Addirittura Eusebio di Nicomedia arrivò a convincere Costantino a riabilitare l’eresiarca Ario: appena arrivato a Costantinopoli, poco prima della pubblica reintegrazione nel Clero, Ario morì però in una pubblica latrina, ancora scomunicato. Una fine immonda per chi aveva sparso la sua immonda dottrina per l’orbe cattolico!

Sant’Atanasio di Alessandria: la forza del leone

In questo contesto inizia la vicenda di sant’Atanasio, già collaboratore e Diacono di sant’Alessandro, partecipe al Concilio di Nicea e, poi, successore del Patriarca di Alessandria nel 328. Se c’è qualcuno che possa, come san Paolo, “vantarsi della sua debolezza” (cf. 2Cor 11,30) nella quale si manifesta la forza di Cristo questi è proprio sant’Atanasio. Anch’egli, come l’Apostolo delle genti, avrebbe potuto elencare le numerose vicissitudini dei trent’anni di tribolazione: cinque volte deposto, due volte portato davanti ai tribunali come malfattore, due volte in esilio lontano dalla patria, una fuga nel deserto per scappare alla morte, una reclusione nella sua casa di campagna, una presso la tomba del padre e, proprio al pari di san Paolo, «oltre a tutto questo, l’assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (cf. 2Cor 11,23-30), per la sua Chiesa a lui fedele, costretta a soffrire insieme a lui. Tempra di leone e cuore di pastore, la fortezza rifulge in tutta la sua vicenda umana quale sua dote eminente: fortezza che lo fece resistere, saldo e incrollabile, durante i difficili trenta anni di persecuzione subiti non tanto dall’Imperatore quanto dai confratelli Vescovi, senza punto perdere confidenza verso quella Chiesa che sentiva come madre, affidando anzi a Dio tutta la sua sorte. «La tempesta passerà e tornerà il sereno», era la sua risposta abituale a chi ne compiangeva le sofferenze. Soprattutto poi quella passione per Gesù Cristo, per la difesa della sua Divinità e della sua Opera redentrice, che lo animava fin nel profondo, fino quasi a renderlo incrollabile, “immortale”, proprio ciò che il suo nome significa (athanatos = privo di morte): «Meglio morire per Dio che tradire la verità», scrisse al Vescovo Osio di Cordova, ortodosso ma, forse, caduto per debolezza.
Le sue traversie iniziarono nel 335 quando la sua intransigente difesa del Concilio di Nicea di fronte al diffondersi dell’arianesimo “cortigiano” e il rifiuto di riaccogliere Ario in comunione, gli costò la prima convocazione, davanti al Concilio di Tiro. Non avendo niente di oggettivo di cui accusarlo, le più svariate imputazioni vennero scagliate contro di lui: violenze contro un Prete, profanazione di un Calice e di un Altare, immoralità con una donna e, addirittura, l’uccisione di un Vescovo scismatico, a cui avrebbe addirittura tagliato un braccio – che i nemici potevano ben esibire – per compiere atti magici. Le scarse prove che si presentavano erano false e tendenziose, il che rendeva abbastanza facile a sant’Atanasio provare la sua innocenza: davanti all’accusa di omicidio, seppe scovare e presentare al Concilio il Vescovo Arsenio e, mostrando l’integrità dei suoi arti, domandò all’insigne Sinodo se «pensasse che l’Onnipotente possa dare ad un uomo più di due braccia»! Nonostante ciò la via per condannare il Patriarca di Alessandria si trovò lo stesso: l’astuto Eusebio di Nicomedia, facendo leva sui sospetti politici di Costantino, fece credere all’Imperatore che sant’Atanasio trattenesse derrate di grano egiziano dirette a Costantinopoli, per affamare la popolazione e spingerla alla ribellione. Conquistato l’animo dell’Imperatore la soluzione fu veloce: sant’Atanasio fu deposto dal Concilio di Tiro ed esiliato da Costantino a Treviri!
Primo dei cinque esili, e prima delle molte sofferenze, in cui a quelle fisiche si sommavano quelle morali: dopo la morte di Costantino (337) – in seguito alla quale poté rientrare ad Alessandria – il secondo esilio fu deciso nuovamente dai Vescovi orientali spinti da Costanzo II, figlio di Costantino e suo successore in Oriente. In questo secondo esilio (339-’42), che lo portò a Roma, almeno ebbe dalla sua parte Papa Giulio, l’Imperatore d’Occidente Costante e tutto l’Episcopato occidentale. Non sarebbe stato così in seguito: dopo la morte di Costante e la riunificazione dell’Impero nelle mani dell’ariano Costanzo (350), ecco che il Patriarca di Alessandria dovette subire anche il terzo esilio, forse il più doloroso. Più doloroso perché il Vescovo nominato al suo posto, l’empio Giorgio di Cappadocia – forse un ex-soldato radiato dall’esercito per immoralità – versò più volte il sangue dei fedeli, che mal accettavano il suo episcopato, mentre il Santo, protetto dal suo Clero, riuscì a scappare e prendere la via del deserto, dove trascorse ben sei anni (356-’62); più doloroso perché l’intero Episcopato occidentale, con solo poche eccezioni, cedette alle pressioni di Costanzo scomunicando il Patriarca; più doloroso ancora perché lo stesso Papa Liberio, estenuato dalle violente lusinghe imperiali, finì pro bono pacis per rifiutare la comunione al Vescovo perseguitato; ancor più doloroso perché i Vescovi occidentali e orientali, nei Sinodi gemelli di Rimini e Seleucia (359), finirono per rifiutare il Concilio di Nicea e proporre una formula dogmatica che, pur senza negarla, occultava la Divinità di Cristo: è proprio questo il momento in cui l’intero mondo sembrava diventato ariano e in cui maggiormente il cuore del Santo soffriva per la sorte della sua amata Chiesa.
Eppure la morte di Costanzo e l’avvento al trono di Giuliano (362) permisero al partito cattolico di risorgere e riconquistare, con la credibilità della Dottrina e la forza dell’esempio, piano piano le diocesi. Gli ultimi due esili del leone di Alessandria – voluti dal pagano Giuliano nel 362 e dall’ariano Valente nel 364 – tutto sommato, furono brevi e non impedirono al Patriarca di esercitare, finalmente dopo trent’anni di difficoltà, il suo ministero pastorale, rischiarando le menti con la sana Dottrina, svegliando le coscienze intorpidite dall’eresia e porgendo la mano anche a coloro che erano caduti per debolezza e ingenuità nella trappola dell’arianesimo. La fortezza di questo leone, a ben vedere, non sta tanto nella forza con cui seppe trionfare quanto nella pazienza con cui seppe attendere e pazientare il trionfo di Cristo, sfruttando sempre le circostanze infelici per fare del bene (a Treviri e a Roma il Santo “importò” il monachesimo egiziano), infatti, come dice il libro dei Proverbi, «l’uomo paziente vale più dell’uomo forte, e chi domina l’animo vale più di un espugnatore di città» (16,32). 

Sant’Ilario di Poitiers: il coraggio del leone

Al leone d’Oriente si affianca il leone di Poitiers, detto anche l’Atanasio d’Occidente: sant’Ilario. Di una generazione successiva, sant’Ilario non vide i primordi dell’arianesimo e gli anni di Costantino ma incominciò a operare e a combattere proprio nei momenti dell’illusorio trionfo dell’arianesimo su tutta la Chiesa, per poi essere tra i primi a cooperare alla ricostruzione del vero Cattolicesimo. Nato nel paganesimo Ilario arrivò al Cristianesimo per una via filosofica: fu in particolare, come narra nelle vibranti pagine del libro I del De Trinitate, il dogma della Santissima Trinità e della consustanzialità del Padre e del Figlio a illuminargli il cammino verso la conversione. Il prologo del Vangelo di san Giovanni aprì il suo intelletto all’accettazione del Cristianesimo: «Lì la mente già trepida e ansiosa ritrova più speranza, di quanto ne avrebbe aspettata. In primo luogo viene imbevuta della cognizione di Dio Padre. E ciò che prima conosceva per ragione dell’eternità, dell’infinità e della natura del suo Creatore, ora lo considera come proprio anche dell’Unigenito di Dio [...]. È poi rarissima la fede in questa conoscenza, ma comporta il massimo premio: poiché “anche i suoi non lo hanno accettato” mentre coloro che lo hanno accettato sono stati elevati a figli di Dio non per una generazione della carne ma della fede». Questo splendido mistero della Trinità che gli aveva dischiuso gli scrigni della Verità, ora veniva distrutto, con particolare attenzione alla Divinità di Cristo, da quest’arrogante setta che, sotto la protezione del potere imperiale, s’imponeva con la violenza anziché con la forza della verità sui Pastori della Chiesa. Lo stesso sant’Ilario, divenuto Vescovo negli anni ’50, dovette assistere al terribile spettacolo del Concilio di Milano del 355, quando i Vescovi occidentali furono costretti dai funzionari imperiali con la violenza a rompere la comunione con sant’Atanasio. Solo san Dionigi di Milano, sant’Eusebio di Vercelli e Lucifero di Cagliari seppero opporsi e pagarono questa loro scelta con la medesima pena del Patriarca di Alessandria, l’esilio, spesso in mezzo a violenze e umiliazioni. Nel 356 lo stesso triste destino sant’Ilario dovette subirlo sulla sua pelle: in un Sinodo convocato ad Arles – da lui chiamato «sinodo dei falsi apostoli» – sotto la presidenza di Saturnino, longa manus dell’Imperatore Costanzo II, egli solo, insieme al Vescovo di Marsiglia, si oppose e fu condannato all’esilio in Asia Minore. Qui, come in tutta la sua vita, diede prova di ciò che poi avrebbe scritto all’Imperatore: «Io sono cattolico e non voglio essere eretico; sono cristiano, e non sono ariano: preferisco morire in questo mondo piuttosto che lasciar corrompere dal dominio d’un uomo la purezza immacolata della verità».
Anziché fiaccarlo o sconfortarlo, l’esilio, colto come un’occasione della Provvidenza, lo accrebbe nella forza e nel coraggio: in Asia Minore, con lo studio dell’arianesimo e dei sottili sofismi che avevano ingannato molti Vescovi e presbiteri in buona fede, svolse una preziosissima opera di avvicinamento tra l’Episcopato occidentale e orientale, che lo portò a scrivere il suo celebre De Trinitate. Soprattutto sant’Ilario fu l’anima della resistenza “nicena” al Concilio di Seleucia (359), coinvolgendo anche gli ariani moderati (i cosiddetti semiariani od omeusiani) contro l’empia eresia anomea (gli ariani più estremi che negavano qualsiasi somiglianza tra Gesù e il Padre). Purtroppo l’Imperatore, avvedutosi dei consensi che stava raccogliendo attorno a sé Ilario anche tra l’Episcopato orientale, trasferì il Concilio a Costantinopoli, perché avesse un esito simile a quello gemello di Rimini (359), dove l’Episcopato occidentale aveva ceduto a firmare una professione di Fede lacunosa, anche se non apertamente eretica. Nonostante la delusione per questa terribile notizia, sant’Ilario non dubitò che, nonostante la debolezza dei Vescovi in Oriente e in Occidente, la Fede cattolica sopravvivesse nei cuori dei fedeli: «Spesso le orecchie dei fedeli sono più pure delle labbra dei pastori», come ebbe a scrivere in quest’occasione. Ciò lo spronò a continuare a lottare con cuore impavido per la retta Fede: trasferitosi a Costantinopoli, in preparazione del Concilio, scrisse più volte all’Imperatore Costanzo perché autorizzasse una pubblica disputa col suo grande accusatore, Saturnino di Arles. Da buon “pastore” ariano, ben più avvezzo alla politica che alla Teologia, questi si guardò bene dall’accettare la sfida, anzi sollecitò il suo patrono imperiale ad una scelta singolare: sant’Ilario venne infatti rimandato in patria, apparentemente come “perdono” ma in realtà per allontanarlo dal Concilio che doveva avere nei piani ariani un esito identico a quello di Rimini. Pur accettando la decisione imperiale, sant’Ilario rispose alla cabala tra Imperatore e ariani con un atto di coraggio, degno di un vero difensore del Verbo Incarnato di fronte all’arroganza dei nemici di Cristo. Nel libello Contra Costantium il Santo sfidò frontalmente l’Imperatore accusandolo di attentare alla Chiesa molto più che gli antichi persecutori pagani Nerone e Decio: «È giunto il tempo di parlare, perché è finito il tempo di tacere. [...]. Oggi dobbiamo combattere contro un persecutore mascherato, contro un nemico che ci lusinga, contro l’Anticristo Costanzo che ha per noi non colpi mortali ma carezze, che non proscrive le sue vittime per dare loro la vera vita, ma le colma di carezze per dar loro la morte, che non dà la libertà delle prigioni oscure, ma una servitù di onori nei propri palazzi, che non lacera i fianchi, ma invade i cuori, che non stacca la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro, che non pubblica editti per condannare al fuoco, ma accende per ciascuno il fuoco dell’inferno. Non discute, per timore di essere sconfitto, ma lusinga per dominare, confessa Cristo per rinnegarlo, procura una falsa unità perché non vi sia affatto la pace, infierisce contro alcuni errori per meglio distruggere la dottrina di Cristo, onora i Vescovi, perché cessino di essere Vescovi, costruisce chiese, mentre va distruggendo la fede».
L’effimero trionfo ariano dei due Concili gemelli, lasciò spazio, con la morte di Costanzo II (361), alla possibilità di rinascita della Fede cattolica, così come stabilita al Concilio di Nicea. Accettato dai Vescovi francesi, divenne il trascinatore carismatico di questi, favorendo i buoni senza respingere coloro che erano caduti per debolezza più che per malizia. Mentre combatteva a spada tratta con Aussenzio di Milano, celebre Vescovo ariano, egli ricostruì passo dopo passo la cattolicità in Gallia, unendo, come ha detto Benedetto XVI, «la fortezza nella fede alla mansuetudine nei rapporti interpersonali» (Catechesi del 10.10.2007), il tutto esito di una comprensione singolare della Rivelazione e delle Sacre Scritture. Il coraggio di cui diede prova sant’Ilario in tutta la sua vita contro quel “mondo” che sembrava tutto coalizzato contro i veri Cristiani, non fu altro che una risposta fiduciosa a Colui che per primo aveva detto ai suoi Discepoli: «Abbiate coraggio! Io ho vinto il mondo» (Gv 16,33).

Sant’Ambrogio di Milano: una leonessa per curare i cuccioli feriti

Un altro salto generazionale, rimanendo nel mondo occidentale, ci conduce invece all’epoca di sant’Ambrogio di Milano. Con la morte dell’Imperatore Costanzo l’arianesimo perse il suo grande sostegno politico e, di fatto, perse gran parte della sua consistenza, lasciando però una Chiesa lacerata dalla contesa interna e un clero “cortigiano” privo di profondità dottrinale e senza alcuna spinta verso la perfezione, se non immerso nell’immoralità vera e propria. Avendo suscitato ben poche vocazioni autentiche, spesso gli ariani riempivano i ranghi del clero con personaggi discutibili e ambiziosi, più carrieristi che pastori. Il successore di Costanzo II, Giuliano, passato alla storia come l’Apostata per il suo tentativo di far rivivere il paganesimo e annientare “dolcemente” il Cristianesimo, nonostante avesse avuto come precettore un Vescovo ariano, non favorì il partito eretico ma preferì, ambiguamente, permettere il ritorno dei Vescovi cattolici, così da fomentare la discordia interna e indebolire la Chiesa, sua prima nemica. Vero è che la fine del suo breve regno (365) riportò nella pars orientale dell’Impero un fazioso ariano, Valente, che per una decina di anni fece rivivere la politica di Costanzo, anche se con minor efficacia. 
Insomma, l’arianesimo recedeva ovunque, in Occidente più che in Oriente, ma rimanevano ampie sacche di resistenza, soprattutto dove meno giungeva l’influenza del Papa. Una di queste sacche fu Milano, governata dal 355 al 374 dall’ariano Aussenzio, nominato Vescovo dall’Imperatore dopo l’esilio di san Dionigi, che non aveva voluto sottoscrivere la condanna di sant’Atanasio. «Più immorale di un giudeo», secondo sant’Ambrogio, questi nei venti anni di Episcopato provocò la decadenza morale e religiosa della città e del Clero, dove sopravvivevano comunque alcuni buoni Sacerdoti come il dotto san Simpliciano, maestro e successore di sant’Ambrogio. Ambrogio, proveniente da una nobile famiglia romana di funzionari e cresciuto a stretto contatto con la Chiesa di Roma, era asceso a importanti cariche politiche, fino a quella di consolare dell’Italia Occidentale. Nel 374, alla morte di Aussenzio, mentre egli cercava di guidare pacificamente e con equilibrio l’elezione del successore, turbata dai contrasti tra ariani e cattolici, finì per venire egli stesso eletto, nonostante non avesse ancora ricevuto il Battesimo (cosa abbastanza comune allora): un bambino, mentre si discuteva accanitamente, ispirato da Dio, incominciò a gridare “Ambrogio Vescovo”, riscuotendo i plausi e l’accordo di tutta la folla.
Nonostante potesse sembrare l’elezione di un moderato, a metà strada tra Cattolici niceni e ariani, sant’Ambrogio era sicuramente di schietta fede cattolica, tanto è vero che come prima decisione dispose il ritorno delle spoglie mortali di san Dionigi. Il Santo però, da abile “politico”, comprese la difficile situazione, e, sotto la guida di san Simpliciano, adottò, al pari di sant’Atanasio e sant’Ilario, una politica ecclesiastica di pacificazione: più che perseguitare o cacciare i Sacerdoti e fedeli ariani, che costituivano gran parte del suo gregge, tentò di riconquistarne i cuori e d’illuminarne le menti, anche attraverso un solerte programma di moralizzazione, a cui sono dedicati gran parte delle sue prediche e dei suoi commentari biblici. Non che si rifiutasse pavidamente di lottare contro la fazione ariana, ancora fortemente radicata a corte (che era proprio a Milano), come testimonia la celebre disputa delle Basiliche del 386. Nei primi mesi del 386, infatti, il Vescovo ariano Mercurino, che aveva adottato il soprannome di Aussenzio in onore del predecessore di sant’Ambrogio, era stato invitato a Milano dall’Imperatrice madre Giustina (che governava al posto del fanciullo Valentiniano II) per prendere la guida dei fedeli ariani, creando così uno scisma di fatto. La protervia di Giustina arrivò a imporre, attraverso una legge ad hoc, a sant’Ambrogio di cedere a Mercurino la Basilica Porziana (l’odierna San Vittore), col pretesto del fatto che i Cattolici avevano appena costruito una nuova Basilica e che anche gli ariani avessero diritto a celebrare i riti della Settimana Santa in un luogo sacro. Senza volerne sentire ragione, il Santo chiamò a raccolta il popolo cristiano che la notte della Domenica delle Palme si asserragliò nella Basilica Porziana, mentre la guardia imperiale con minacciose torce circondava la Basilica. La pacifica resistenza dei Cattolici milanesi, spronati dal loro Pastore, che in quell’occasione adottò per la prima volta il canto degli inni sacri, per tenere svegli e rincuorare i fedeli nel grande pericolo, ebbe alla fine la meglio sulla superbia di Giustina.
Come dicevamo però l’opera pastorale di sant’Ambrogio non fu tanto una polemica e un’opposizione frontale contro l’arianesimo quanto un tentativo di conquista e di risanamento: come una leonessa non mancò di proteggere con coraggio e forza i suoi cuccioli dalle fiere eretiche ma, allo stesso tempo, da vera madre, curò le loro ferite morali e dottrinali di venti anni di “pastorale” ariana con la sua lingua melliflua, proprio come una leonessa avrebbe fatto verso i cuccioli vulnerati.
La sua predicazione risanatrice poi, come ammettono tutti gli studiosi, fu dominata dalla figura di Cristo, proprio quella che la propaganda pseudo-teologica ariana colpiva a morte. «Omnia est Christus nobis» (Cristo è tutto per noi), questa è la parola d’ordine del Santo Vescovo di Milano, precursore, nell’epoca patristica, di quel sano cristocentrismo che risuona in tutte le sue opere: Cristo, l’Unigenito del Padre, è «il principio della Creazione, il seme di tutto», attraverso cui Dio ha creato tutte le cose; è «l’eterno splendore dell’anima» che è stato mandato dal Padre «per darci la possibilità di contemplare, nella luce del suo volto, le realtà eterne e celesti»; ma soprattutto è il Salvatore di tutti, «la sorgente della vita» tanto che «nel Redentore di tutti non entrava un solo uomo, ma tutto quanto il mondo». Pertanto tutti gli uomini, qualsiasi sia il loro stato e le ferite che indeboliscono la loro anima, devono rivolgersi con fiducia a Cristo: «Se vuoi curare una ferita, egli è medico; se sei riarso dalla febbre, è fontana; se sei oppresso dall’iniquità, è giustizia; se hai bisogno di aiuto, è forza; se temi la morte, è vita; se desideri il cielo, è via; se fuggi le tenebre, è luce; se cerchi cibo, è alimento». L’appello ad accogliere Cristo nei propri cuori che sant’Ambrogio rivolge a tutti i Cristiani è il più bel suggello alla storia di questo secolo, dove nuovamente e misticamente, il Verbo Incarnato è passato dalla morte alla vita, per dare a tutti la vita: «Entri nella tua anima Cristo, abbia dimora nei tuoi pensieri Gesù, per precludere ogni spazio al peccato nella sacra tenda della virtù».

IV Centenario dell'elezione del Primo abate Celestino del Monastero di San Benedetto di Norcia - Norcia, 8 maggio 2016

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Il 24 aprile 1616 al monastero celestino di S. Benedetto di Norcia era riconosciuta, per la prima volta, la dignità abbaziale, sotto il governo dell’abate Germano da Capua (la cui figura si spera di delineare con futuri studi).
La comunicazione della scoperta di questa notizia, fatta dalla Dott.ssa Caterina Comino proprio alla vigilia del quattrocentesimo anniversario dell’evento, è stata presa come occasione per aprire un anno centenario che si vuole ricco di studi e di eventi culturali che culmineranno con la pubblicazione di un già avviato studio generale sulla storia del monastero di S. Benedetto. L’abbazia di San Benedetto cessò di esistere nel 1810 a causa della soppressione dell’Ordine dei Celestini, un ramo della famiglia benedettina che aveva retto il monastero per 400 anni.
Oggi questa plurisecolare esperienza cerca di rivivere con la rinata comunità di S. Benedetto, guidata dal priore P. Cassiano Folsom OSB, il quale ha accolto con entusiasmo l’iniziativa di celebrare il IV centenario del predetto riconoscimento, ritenendola provvidenziale per la crescita culturale e spirituale della nuova comunità.

“Mónica, sancti Augustíni duplíciter mater, quia eum et mundo et cælo péperit, maríto mórtuo, quem senectúte conféctum Jesu Christo conciliávit, castam et opéribus misericórdiæ exércitam viduitátem agébat; in assíduis vero ad Deum oratiónibus pro fílio, qui in Manichæórum sectam incíderat, lácrimas effundébat. Quem étiam Mediolánum secúta est; ubi ipsum frequénter hortabátur, ut ad epíscopum Ambrósium se conférret. Quod cum ille fecísset, ejus et públicis conciónibus et privátis collóquiis cathólicæ fídei veritátem edóctus, ab eódem baptizátus est” (Lect. IV – II Noct.) - SANCTÆ MONICÆ, VIDUÆ, MATRIS SANCTI AUGUSTINI

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La bella figura della madre di Agostino, tale come ci è descritta nel IX libro delle Confessioni, è ancora viva nella Chiesa e rappresenta uno dei più splendidi modelli di madre cristiana. Non bisogna dunque stupirsi se uno degli amici di Agostino, il console Anicio Basso l’anziano, pose sulla tomba della santa ad Ostia una targa di marmo la cui iscrizione fu ricopiata nelle antiche raccolte e che ricordava i suoi meriti alla posterità. Ecco il testo:

«Versus illustrissimæ memoriæ Bassi exconsule, scripti in tumulo sanctæ memoriæ Municæ matris Sancti Augustini»
HIC • POSVIT • CINERES • GENETRIX • CASTISSIMA • PROLIS
AVGVSTINE • TVIS • ALTERA • LVX • MERITIS
QVI • SERVANS • PACIS • CAELESTIA • IVRA • SACERDOS
COMMISSOS • POPVLOS • MORIBVS • INSTITVIS
GLORIA • VOS • MAIOR • GESTORVM • LAVDE • CORONAT
VIRTVTVM • MATER • FELICIOR • SVBOLIS.

Qui depose le sue ceneri la tua castissima madre,
O Agostino, lei che riflette come un nuovo splendore sui tuoi stessi meriti.
Tu, buon vescovo, assicura tra i popoli i sacri diritti della concordia
E, col tuo esempio, ammaestra quanti ti sono affidati.
Una gloria ben più grande è quella che vi incorona l’uno e l’altro: quella delle vostre opere.
O Madre davvero felice, che lo divenne ancor più per la virtù di un tale figlio!

Monica morì ad Ostia, forse di malaria, nel 387, all’età di cinquantasei anni, e l’ex console Basso compose quest’epitaffio quando Agostino governava ancora la Chiesa d’Ippona in Africa, vale a dire dopo il 395. Il terzo verso si riporta probabilmente alla celebre disputa nella solenne conferenza con i Donatisti tenutasi nel giugno 411.
La morte della Santa giunse in una data imprecisata, ma sicuramente dopo il battesimo del figlio Agostino, del nipote Adeodato e dell’amico Alipio, nella veglia pasquale del 23 aprile 387 (la liturgia ne celebra la festa il 24 aprile). Con il battesimo, Monica non ebbe altri obiettivi terreni: era pronta per il Paradiso! Poteva a ragione anche lei cantare il suo Nunc dimittis.
Il corpo di santa Monica restò ad Ostia sino al 1162; fu allora che un certo Gualtero o Walter o Valtero, priore dei canonici regolari d’Aroasia (Arrouaise), nell’Artois, nel nord della Francia, le rubò furtivamente e le trasportò nel suo monastero. Gli atti di questa traslazione, riportata dai Bollandisti, non sembra autorizzare alcun dubbio; d’altronde, la presenza delle reliquie di santa Monica in quel luogo è assicurata da più di sette secoli da diversi documenti.
Tuttavia alcuni autori ritengono che le cose non siano andate in quel modo (cfr. Alban Butler, Vite dei padri, dei martiri e degli altri principali santi tratte dagli atti originali e da più autentici documenti con note istoriche e critiche, tomo VI, Maggio, Venezia 1824, p. 85; Id., Florilegio di vite de’ Santi con note istoriche e critiche, e recate in Italiano sulla libera versione francese, vol. II, parte I, Monza 1834,p. 74). Il priore Gualtero, infatti, nel suo racconto, incorre in errori marchiani, che fanno dubitare della sua attendibilità, come ad es., il ritenere che trafugasse le ossa di santa Monica, che sarebbe stata chiamata Prima presso i Latini (in realtà, il nome Monica, in greco, significa non Prima, ma Unica o Solitaria) ed inoltre, tra l’altro, che all’epoca il papa Adriano sarebbe morto 1161 (laddove, invece, questi sarebbe morto nel 1159 e gli sarebbe succeduto quello stesso anno Alessandro III). È verosimile pensare, dunque, che il trafugatore, in realtà, abbia portato in Francia le reliquie di una santa Prima e non già quelle di santa Monica, le quali, invece, furono trasportate a Roma il 9 aprile 1430 da papa Martino V, riponendole prima nella chiesa di san Trifone e, quindi, in quella di Sant’Agostino. Tale data è ricordata dal Martirologio romano (così Ludovico Gatto, Le grandi donne del Medioevo, Newton Compton Editori, Roma 2011, passim). Questo papa non mancò di raccontare, in un suo sermone, il trasporto delle reliquie ed i numerosi miracoli verificatisi durante quest’evento per intercessione della santa (cfr. Martinus V, Serm. Ad Frates Augustinienses, De translatione corporis sanctæ Monicæ Ostia Romam, Romæ 1586).
In ogni caso, siccome si ignora, come detto, il giorno del trapasso di santa Monica (forse pochi giorni prima del 13 novembre di quell’anno 387), i canonici d’Aroasia, che celebravano già il 5 maggio la conversione di sant’Agostino, dedicano alla solennità di sua madre il giorno precedente. Da quel monastero, il culto di santa Monica si diffuse in Belgio, in Germania ed in Francia, sebbene la festa del 4 maggio entrasse poco a poco nell’uso liturgico generale, e ciò, potremmo dire, anche in maniera logica, essendo stata la nostra Santa lo strumento del cambiamento del figlio, che gli eremiti di Sant’Agostino celebrano ancor oggi, appunto, il 5 maggio. All’epoca in cui il riconoscimento del culto liturgico da rendere ai santi apparteneva ancora ai vescovi, va ricordato che il IX libro delle Confessioni di sant’Agostino aveva il valore di una bolla di canonizzazione.
La festa di Santa Monica si sviluppò, dunque, nel XV secolo. Fu san Pio V che l’iscrisse nel calendario romano nel 1568 come festa semplice. Clemente IX ne fece una festa semidoppia nel 1669 e Clemente XII la elevò al rango di doppia nel 1730. Con la riforma di Paolo VI, la sua festa fu fissata al 27 agosto, il giorno prima di quella del suo grande figlio vescovo di Ippona, sant’Agostino, morto il 28 agosto 430.
La messa è quella del Comune delle sante Donne, come per la festa di santa Francesca Romana, il 9 marzo. La prima colletta, però, è propria.
L’epistola dal Comune (2 Tim. 5, 3-10) è riservata alle feste delle sante vedove, perché vi si descrivono i loro doveri verso Dio, verso la loro famiglia e verso la comunità cristiana. San Paolo non parla qui tuttavia delle vedove in generale, ma delle diaconesse che precisamente per il loro stato di vedovanza, la loro età avanzata e la loro esperienza di vita, erano di grande aiuto per il clero nella distribuzione delle elemosine, nell’assistenza dei malati, dei poveri e delle giovani. In una parola, esse facevano quello che fanno attualmente un così gran numero di congregazioni religiose, ma esse non vivevano in comune e dovevano essere dell’età di almeno sessant’anni. Quest’ultima esigenza, come anche quella della vedovanza, era imposta per le condizioni morali particolari della società dell’età apostolica. In seguito, quando nacquero le prime compagnie di Vergini, senza che queste costituissero, del resto, delle vere comunità religiose, la Chiesa adottò per esse, in parte, le prescrizioni dell’Apostolo relative alle diaconesse, e san Leone I prescrisse che nessuna fosse ammessa a consacrare solennemente a Dio la sua verginità prima di aver raggiunto i sessant’anni.
Il versetto alleluiatico è tratto dal Sal. 45 (44) e ci ricorda che la vita cristiana è un combattimento; la fede è il nostro scudo, le nostre armi sono le virtù, Dio è la corona e la ricompensa.
Il Vangelo (Lc 7, 11-16), il cui soggetto è la resurrezione del figlio della vedova di Naim, fa allusione alla conversione di Agostino, ottenuta per le lacrime di Monica. Il ritorno di un’anima a Dio è l’effetto della sola grazia; i ragionamenti umani non possono essere di molto aiuto. Bisogna incontrare Gesù, che ordina alle passioni che ci trascinano alla tomba eterna di fermarsi. Per mezzo della calma, l’anima si mette nelle condizioni volute per ascoltare la parola di Dio: Adolescens, tibi dico, surge. A questa parola onnipotente, che opera ciò che esprime, l’anima si sente svegliata dalla sua letargia mortale e ritorna alla vita.

Ambito lombardo, S. Monica, XVIII sec., museo diocesano, Como

Francesco Soderini, Vergine col Bambino che consegna la sacra cintola a S. Agostino e S. Monica, 1703 circa, chiesa di S. Maria di Candeli, Firenze

Pietro Maggi, Apparizione dell'angelo a S. Monica, 1714, chiesa di S. Marco, Milano

Alexandrea Cabanel, S. Monica in un paesaggio, 1845, collezione privata


Ponziano Loverini - Vittorio Bernardi, L'estasi di Ostia dei SS. Monica ed Agostino, 1900, abside, basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, Pavia

Orfani del Cielo – Editoriale di maggio 2016 di “Radicati nella fede”

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Nella festa dell’Ascensione al Cielo di N. S. G. Cristo, quaranta giorni dopo Pasqua, rilancio questo nuovo Editoriale di Radicati nella fede, pubblicato anche da Chiesa e postconcilio. Un contributo quantomeno indicato nell’odierna festa, giacché il Signore, prima di salire al Padre, promise di non lasciare orfani i suoi, ma di rimanere per sempre con loro (cfr. Gv. 14, 15-19): presenza che si realizza in primo luogo nella Santa Messa e poi mediante la Chiesa.


Giacomo Cavedone, Ascensione, 1640 circa, Los Angeles County Museum of Art (LACMA), Los Angeles

Antonio de Lanchares, Ascensione del Signore, 1620 circa, museo del Prado, Madrid

Francisco Bayeu y Subías, Ascensione del Signore, 1769, museo del Prado, Madrid


Benjamin West, Ascensione, 1801, Denver Art Museum, Denver

Benjamin West, bozzetto per l'Ascensione, 1782 circa, Tate Gallery, Londra

Benjamin West, Ascensione, XVIII sec., BJU Museum & Gallery, Greenville





ORFANI DEL CIELO

Editoriale di "Radicati nella fede"
Anno IX, n. 5 - Maggio 2016


Terrena despicere et amare coelestia.

Quante volte, nelle orazioni della liturgia tradizionale, la Chiesa fa chiedere questo, “disprezzare le cose della terra e amare quelle del Cielo”! Quante volte nella Sacra Scrittura vi è un continuo richiamo ad alzare lo sguardo alle cose eterne:
Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra (Col 3,1-2).
È il frutto cosciente della Pasqua cristiana: siccome Cristo è risorto ed è asceso alla destra del Padre, tu sai che la vita vera è la vita eterna e devi ormai vivere proteso verso ciò che è definitivo. Cristo è risorto, tu devi risorgere con lui, non puoi più vivere come se questo non fosse accaduto, non puoi vivere per qualcosa di meno! Ma il vivere per Cristo, vincitore del peccato e della morte, vuol dire vivere protesi verso i beni eterni, verso il Paradiso, verso il Cielo: cercate le cose di lassù.
Il cristianesimo ammodernato ha invece avvelenato tutto e ci ha fatti orfani del Cielo. Sì, orfani del Cielo!
Il cristianesimo che ci è stato passato in questi anni è un cristianesimo terreno, preoccupato di dimostrare di essere utile a questo mondo.
La Madonna a Fatima non sbagliò di certo quando parlò degli errori che la Russia, se non si fosse convertita, avrebbe sparso nel mondo: il Marxismo-Comunismo è stato il più orrendo ribaltamento della religione cattolica, il sovvertimento dell'unica vera religione. Il Marxismo-Comunismo ha, in modo demoniaco, proiettato gli uomini verso un messianismo terreno: il messia atteso diventa la società nuova, che nasce dalla rivoluzione, dove tutti saranno uguali; la società comunista.
Solo che nella maggioranza dei casi ci fermiamo, nel considerare il male di questa religione ribaltata e atea che è il Comunismo, al fiume di sangue prodotto dalle sue persecuzioni. Certo, milioni di morti ha sulla coscienza, le sue mani grondano di sangue, ma il suo male non è solo qui e innanzitutto qui. L'azione malefica del Comunismo ateo è quella propria di ogni eresia: l'avvelenamento della Chiesa.
E la Chiesa, tragicamente, al Concilio Vaticano II, decise di non condannare esplicitamente il Comunismo ateo e così il male non trovò più barriere per penetrare nel Tempio di Dio.
Abbiamo assistito in questi anni ad una Chiesa sempre più preoccupata di dimostrare, ai comunisti e ai post-comunisti, di essere utile alla società. Una Chiesa dimentica della vita soprannaturale, che cade sempre più nel Naturalismo; una Chiesa più simile ad una associazione di volontariato, una Chiesa tutta interna alla moderna società.
Certo, il Cielo non è negato, in questa Chiesa, ci mancherebbe altro! Non è negato, ma è abbandonato come orizzonte ultimo, come “uscita di sicurezza” di questa vita terrena che gli uomini, laici o cattolici che siano, programmano tra di loro. Un Cielo lontano-lontano ...
Capita della nuova vita cristiano-moderna, quello che accade in troppi funerali: si accompagna all'estremo saluto chi è stato perfettamente indifferente a Dio, lo si commemora dal punto di vista umano, e poi gli si concede la prospettiva di un utopico cielo da cui lui ci guarderebbe ora, tanto per esorcizzare la morte.
Esattamente come quei cattolici impegnati nel volontariato del mondo che, finito tutto il loro daffare, sperano che il loro agitarsi non finisca con la morte, perché Dio concede un'altra vita.
Questa è la vita eterna del catto-comunista,  o se volete del cattolico naturalista: per lui è reale la vita di quaggiù e chiede a Dio di proseguirla dopo l'inevitabile smacco della morte corporale. È l'avvelenamento del Cristianesimo, è il suo ribaltamento, predetto a Fatima.
Totalmente differente è la prospettiva cattolica: la vita reale è la vita eterna, che è la vita vera. È così reale, dalla Resurrezione di Cristo, che il cristiano è chiamato a volerla e desiderarla con tutta la fibra del proprio essere... cercate le cose del Cielo
Altro che orizzonte su cui proiettare le nostre speranze ed esigenze umane!, è l'esatto contrario: la vita eterna con Dio è così vera che è essa a proiettare sulla vita di quaggiù una prospettiva totalmente nuova. L'uomo deve vivere, qui ed ora, per il Cielo; e tutto ciò che dice e fa deve essere per il Cielo; e se non è per il Cielo non è degno di questo mondo. 
La Chiesa è stata posta nel mondo perché gli uomini non dimentichino questo.
La Chiesa e il cristiano sono posti nel mondo perché gli uomini non si impadroniscano di Dio per benedire le loro cose umane, ma perché le umane vivano delle eterne e siano così salvate.
La Chiesa c'è perché il Cielo salvi gli uomini. 
Ma la chiesa ammodernata ci ha fatto orfani del Cielo, e interessandosi freneticamente delle cose della terra ha lasciato gli uomini nella solitudine.
Ma questa chiesa ammodernata, senza il Cielo, non sarà mai la Chiesa di Dio.
La Messa della tradizione, e lo sperimenta chi la vive con fedeltà, è la Messa del Cielo:  tutta protesa alle cose di Dio possa rimetterci nella giusta posizione.
Cercate le cose di lassù: questo cercare inizia dalla Messa di sempre.

Il teologo don Barthe: “Non si può interpretare secondo la tradizione il capitolo VIII di Amoris Laetitia”

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L’esortazione Amoris laetitia continua a suscitare un dibattito vivace nel mondo cattolico.
Giunge ora la presa di posizione del francese don Claude Barthe. Quasi in contemporanea vi è stata la rivelazione, da parte di mons. Bruno Forte, uno dei maîtres à penser dei due sinodi, circa le parole proferitegli dal vescovo di Roma, riferendosi alla Comunione ai divorziati risposati ed al gruppo tenace di vescovi e cardinali cattolici difensori della Verità: «Se parliamo esplicitamente di comunione ai divorziati risposati questi non sai che casino che ci combinano. Allora non ne parliamo in modo diretto, fa in modo che ci siano le premesse, poi le conclusioni le trarrò io» (Mons. Forte svela un retroscena: “Questi non sai che casino ci combinano”, in sinodo2015, 4.5.2016; «Questi non sai che casino ci combinano». Il retroscena di Forte sui lavori sinodali, in Il Timone, 4.5.2016).  Parimenti, davvero clamorosa, è stata pubblicata l’analisi, puntuale e precisa, di Elisabetta Frezza, la quale ha posto sotto la lente del suo esame la parte dell’esortazione relativa all’educazione sessuale ed al problema del gender (Elisabetta Frezza, L’altra faccia della Amoris laetitia: l’educazione sessuale e di genere obbligatorie anche per la chiesa, in Riscossa cristiana, 4.5.2016).
La presa di posizione di don Barthe giunge dopo l’intervista del “card.” Kasper al periodico tedesco Aachener Zeitung, nel corso della quale il prelato tedesco ha ricordato come l’esortazione apra chiaramente la porta alla Comunione ai divorziati risposati (Peter Pappert & Bernd Matheiu, Kardinal Kasper: Was Franziskus von der Kirche und Europa erwartet, in Aachener Zeitung, 22.4.2016. In traduzione spagnola, El cardenal Kasper asegura que está abierta la puerta a la comunión de los divorciados vueltos a casar, in InfoCatólica, 1.5.2016)!
Nella festa liturgica di S. Pio V, papa e confessore, quest’anno sorpassata dalla festa dell’Ascensione al cielo di N.S.G.C., rilancio quest’intervista a don Barthe.

Palma il Giovane, S. Pio V, XVII sec., Casa Gagliardi, Saint Pierre, Valle d’Aosta

Anonimo, Immacolata tra i SS. Pio V ed Antonio da Padova, XVIII sec., Abbazia, Borzone

Bartolomeo Litterini, S. Pio V, XVIII sec., Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, Venezia






Sebastiano Ricci, S. Pio V tra i SS. Tommaso d'Aquino e Pietro martire, 1732-33, Chiesa di S. Maria del Rosario, Venezia

Giovanni Gasparro, San Pio V Pontefice Massimo, 2015, collezione privata, Bari

Gioacchino Varlè, S. Pio V, XVIII sec., Chiesa di S. Domenico, Ancona

R. de Mattei intervista il teologo Barthe: “Non si può interpretare secondo la tradizione il capitolo VIII di Amoris Laetitia”

Don Claude Barthe, teologo, autore di opere come La messe, une forêt de symboles(La messa una foresta di simboli), Les romanciers et le catholicisme (I romanzieri e il cattolicesimo), Penser l’œcuménisme autrement (Pensare l’ecumenismo diversamente) è stato uno dei primi, l’8 aprile, in Francia, ad esprimere sul blog L’Homme Nouveau le proprie riserve nei confronti del’esortazione Amoris lætitia appena pubblicata. Abbiamo approfittato di un viaggio in Francia per porgli alcune domande.

CR – Don Barthe, ci interessa molto darle la parola perché nella sua reazione adAmoris Lætitia lei non ha cercato, come alcuni hanno fatto in un primo momento, di leggere la lettera apostolica in base ad una griglia tradizionale, e noi condividiamo la sua lettura.
CB – Non vedo onestamente come si potrebbe interpretare il capitolo VIII dell’Esortazione nel senso della dottrina tradizionale. Significherebbe fare violenza al testo e non rispettare l’intenzione dei redattori, i quali intendono porre un elemento nuovo: «Non è più possibile dire che…».

CR – Eppure, ciò che è detto nell’Esortazione non è così nuovo.
CB – Non è nuovo da parte della contestazione teologica, ha ragione. Fin dal Concilio, sotto Paolo VI et Giovanni Paolo II, la grande impresa dei teologi contestatari è stata principalmente di attaccare Humanæ Vitæ per mezzo di libri, “dichiarazioni” di teologi, congressi. Allo stesso tempo la comunione ai divorziati “risposati” (e anche agli omosessuali in coppia ed ai conviventi) ha avuto un ruolo di rivendicazione direi simbolica. Bisogna sapere infatti che la pratica di numerosissimi preti, in Francia, Germania, Svizzera e tanti altri luoghi, è di ammettere senza problemi da lungo tempo i divorziati “risposati” alla comunione, e di dar loro l’assoluzione quando la chiedono.
L’appoggio più noto a questa rivendicazione era stato dato da una lettera del primo luglio 1993 dei vescovi del Reno superiore, Saler, Lehmann e Kasper, intitolata:Divorziati risposati, il rispetto della decisione presa in coscienza. Essa conteneva tra l’altro esattamente le disposizioni dell’attuale esortazione: in teoria, nessuna ammissione generale alla comunione, ma l’esercizio di un discernimento con un sacerdote, per vedere se i nuovi partner «si considerano autorizzati dalla propria coscienza ad accostarsi alla Tavola del Signore». In Francia, alcuni vescovi (Cambrai, Nancy) hanno pubblicato gli atti di sinodi diocesani che vanno nello stesso senso. Il cardinale Martini, arcivescovo di Milano, in un discorso che era un vero e proprio programma di pontificato, pronunciato il 7 ottobre 1999 davanti ad un’assemblea del Sinodo per l’Europa, aveva ugualmente evocato dei cambiamenti della disciplina sacramentale.
In effetti, in Francia, Belgio, Canada e negli Stati Uniti si va anche oltre: alcuni sacerdoti, relativamente numerosi, in occasione della seconda unione celebrano una piccola cerimonia, senza che i vescovi glielo impediscano. Alcuni vescovi incoraggiano anche positivamente questa pratica, come aveva fatto mons. Armand le Bourgeois, ex vescovo di Autun, in un libro: Chrétiens divorcés remariés (Cristiani divorziati risposati) (Desclée de Brouwer, 1990). Gli “ordodiocesani, come quello della diocesi di Auch, “regolamentano” questa cerimonia che deve essere discreta, senza suono di campane, senza benedizione degli anelli…

CR – Condivide il parere che il cardinale Kasper abbia avuto un ruolo motore?
CB – All’inizio, sì. Dato per un “grande teologo” dal papa Francesco poco dopo l’elezione, egli ha preparato il terreno con un intervento presentato in occasione del concistoro del 20 febbraio 2014, che aveva fatto uno scalpore enorme. Ma in seguito la cosa è stata gestita con grande maestria, in tre tappe. Due assemblee sinodali, nell’ottobre 2014 e nell’ottobre 2015, le cui relazioni integravano il “messaggio” kasperiano.
In mezzo alle due è stato pubblicato un testo legislativo Mitis Iudex Dominus Jesus, dell’8 settembre 2015, il cui architetto è stato mons. Pinto, decano della Rota, che semplifica la procedura delle dichiarazioni di nullità di matrimonio, in particolare grazie ad una procedura molto rapida davanti al vescovo, quando i due sposi si accordano per chiedere la nullità. Alcuni canonisti hanno anche parlato, in questo caso, di annullamento per mutuo consenso.
Si era costituito in effetti una sorta di nucleo dirigente, la Cupola (in italiano nel testo, ndt) del Sinodo, attorno all’influentissimo cardinale Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo, insieme a mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, segretario speciale, ossia il numero due del Sinodo, mons. Fabio Fabene, della Congregazione per i Vescovi, sottosegretario del Sinodo, il cardinale Ravasi, Presidente del Consiglio della Cultura, responsabile del Messaggio dell’Assemblea, assistito in particolare da mons. Victor Manuel Fernandez, rettore dell’Università Cattolica d’Argentina, il gesuita Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, ed altre persone influenti, tutte molto vicine al Papa, come il vescovo di Albano, Marcello Semeraro e mons. Vincenzo Paglia, Presidente del Consiglio per la Famiglia. Ad essi si è unito il cardinale Schönborn, arcivescovo di Vienna, che fu il principale artefice del Catechismo della Chiesa cattolica, e che qui ha avuto quel ruolo di garante dell’ortodossia del testo, che il cardinale Müller si rifiutava di assumere. Tutta questa équipe ha fornito un lavoro considerevole per arrivare allo scopo perseguito…

CR – Per arrivare ad elaborare, dopo la seconda assemblea, un testo di oltre 250 pagine…
CB – Anche prima…Il testo dell’esortazione post-sinodale era stato redatto, nelle grandi linee … già nel settembre 2015, prima dell’apertura della seconda assemblea del Sinodo sul matrimonio.

CR – Ha parlato di uno scopo perseguito. Quale esattamente?
CB – È molto possibile che, nell’intento del Papa Francesco, si sia trattato all’inizio solo di concedere un lasciapassare “pastorale” e “misericordioso”. Ma essendo la teologia una scienza rigorosa, dovevano essere enunciati i principi che giustificassero la decisione in coscienza di avvicinarsi ai sacramenti da parte delle persone che vivono in pubblico adulterio . Fin dall’inizio, numerosi passaggi dell’Esortazione preparano il discorso dottrinale del capitolo VIII. Esso tratta di diverse «situazioni di fragilità o d’imperfezione» e specialmente dei divorziati impegnati in una nuova unione «consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe» (n.298). In questa situazione “imperfetta” di fronte all’ «ideale pieno del matrimonio» (n.307), l’Esortazione pone le regole per un «discernimento speciale» (n.301).
Questo si compie normalmente con l’aiuto di un sacerdote «nel foro interno» (per i due partner dell’unione?), che permetterà agli interessati di formare un corretto giudizio di coscienza (n.300). Tale giudizio (del sacerdote? dei partner con il chiarimento del sacerdote?) a causa di vari condizionamenti potrà condurre ad una imputabilità attenuata o nulla, rendendo possibile l’accesso ai sacramenti (n.305). Fra parentesi, non si dice se questo giudizio s’impone agli altri sacerdoti che dovranno dare i sacramenti agli interessati. In ogni modo, bisogna ammettere che il testo non si focalizza sull’accesso ai sacramenti, che è trattato in nota, in modo alquanto imbarazzato (nota 351).
Esso pone invece chiaramente il principio teologico, riassunto al n. 301, che è necessario citare: «Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in una situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere i «valori insiti nella norma morale» o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettono di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa».
Il che può essere così analizzato: 1) a causa di circostanze concrete, le persone in stato di adulterio pubblico “attivo”, pur conoscendo la norma morale che lo vieta, si trovano in una situazione tale che se essi ne uscissero commetterebbero una colpa (in particolare nei confronti dei figli nati da questa unione), 2) così che queste persone che vivono nell’adulterio pubblico “attivo” non commettono un peccato grave rimanendovi. In realtà, le conseguenze negative che risulterebbero dalla cessazione dello stato di adulterio (i figli nati dall’unione illegittima soffrirebbero della separazione dei genitori), non sono nuovi peccati, ma gli effetti indiretti dell’atto virtuoso, ossia la cessazione dello stato di peccato. Ovviamente la giustizia va rispettata: in particolare si dovrà continuare l’educazione dei figli della seconda unione, ma fuori dallo stato di peccato. Vi è dunque un’opposizione frontale con la dottrina precedente richiamata da Familiaris consortio n.84 di Giovanni Paolo II, il quale precisava che se gravi motivi impediscono ai “risposati” di cessare di vivere sotto lo stesso tetto, ciò dovrebbe essere come fratello e sorella. La nuova proposta dottrinale si riassume invece così: in alcune circostanze, l’adulterio non è peccato.

CR – Diceva che non vi si rinviene l’istinto della fede?
CB – Tutto ciò non si accorda con la morale naturale e cristiana: le persone che sono a conoscenza di una norma morale che obbliga sub gravi (il comandamento divino che proibisce la fornicazione e l’adulterio) non possono essere scusate del peccato, e dunque non possono esser dette in stato di grazia. San Tommaso spiega in una questione della Somma teologica che tutti i moralisti conoscono bene, la questione 19 della IA e IIÆ: è la bontà di un oggetto che la nostra ragione si propone che rende buono l’atto della volontà, e non le circostanze dell’atto (art. 2); e che se è vero che la ragione umana può sbagliarsi e considerare buono un atto cattivo (art. 5), alcuni errori invece non sono mai scusabili, in particolare quello di ignorare che non ci si deve avvicinare alla donna d’altri, poiché è direttamente ordinato dalla legge di Dio (art. 6).
In un altro passaggio, anch’esso ben noto ai moralisti, il Quodlibet IX, questione 7, art. 2, San Tommaso spiega che le circostanze possono cambiare non il valore di un atto, ma la sua natura, per esempio il fatto di uccidere o colpire un malfattore rientra nella giustizia o nella legittima difesa: non si tratta di una violenza ingiusta, ma di un atto virtuoso. Invece, afferma il comune Dottore, alcune azioni «hanno una difformità che è loro connessa in modo inseparabile, come la fornicazione, l’adulterio e le altre cose del genere: esse non possono in alcun modo diventare buone».
Un bambino del catechismo capirebbe queste cose, diceva Pio XII in un discorso del 18 aprile 1952 nel quale condannava la Situationsethik, la “morale di situazione”, che non si basa sulle leggi morali universali come ad esempio i Dieci Comandamenti, ma «sulle condizioni o circostanze reali e concrete nelle quali si deve agire, e secondo le quali la coscienza individuale deve giudicare e scegliere». Ricordava che un fine buono non può mai giustificare dei mezzi riprovevoli/ (Romani3, 8), e che vi sono situazioni nelle quali l’uomo, e specialmente il cristiano, deve sacrificare tutto, anche la vita, per salvare l’anima. Allo stesso modo, l’enciclicaVeritatis Splendor di Giovanni Paolo II, nell’affermare che le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo stesso oggetto in un atto soggettivamente onesto, citava Sant’Agostino (Contra mendacium): la fornicazione, le bestemmie, ecc. anche se compiuti per ragioni buone rimangono sempre dei peccati.

CR – Che fare allora?
CB – Non si possono cambiare le parole di Cristo: «Colui che ripudia la moglie per sposarne un’altra commette adulterio verso di lei; e se la moglie lascia il marito per sposarne un altro, essa commette adulterio» (Mc 10,12). Il professor Robert Spæmann, un filosofo tedesco amico di Benedetto XVI, osserva che qualsiasi persona capace di riflettere può constatare che siamo di fronte ad una rottura. Non credo che ci si possa accontentare di proporre un’interpretazione del Capitolo VIII dell’Esortazione in base alla quale non è cambiato nulla. Bisogna inoltre prendere sul serio la parola del Papa che, sull’aereo che lo riportava da Lesbo, ha avallato la presentazione del testo da parte del cardinale Schönborn.
La proposta teologica è di per sé chiara e il dovere di verità impone di dire che non è ricevibile. E neanche le proposizioni annesse, come quella che afferma che l’unione libera, oppure l’unione di divorziati risposati realizzano l’ideale del matrimonio «almeno in modo parziale e analogo» (n.292). Bisogna dunque sperare, nel senso forte della speranza teologale, che numerosi pastori, vescovi e cardinali, parlino in modo chiaro, per la salvezza delle anime. D’altro canto si può volere, domandare, invocare un’ interpretazione autentica ˗˗ nel senso di interpretazione del deposito della Rivelazione, compreso il richiamo del deposito della legge naturale che le è connesso ˗˗ da parte del magistero infallibile del papa o del papa e dei vescovi a lui uniti, magistero che discerne affermando ciò che è vero e respinge ciò che non lo è in nome della fede.
Mi sembra che oggi, 50 anni dopo Vaticano II, entriamo in una nuova fase del dopo Concilio. Avevamo visto cedere, con alcuni passaggi di testi sull’ecumenismo, la libertà religiosa, una diga che si credeva solidamente stabilita, quella dell’insegnamento ecclesiologico romano magisteriale e teologico. Un’altra diga è stata allora costituita per resistere alla marea della modernità, quella della morale naturale e cristiana, con Humanæ Vitæ di Paolo VI e tutti i documenti di Giovanni Paolo II su questi temi. Tutto ciò che è stato chiamato la “restaurazione”, secondo il termine del Rapporto sulla fede di Joseph Ratzinger, si è in larga parte costituito su queste basi in difesa del matrimonio e della famiglia. Tutto avviene come se questa seconda diga fosse sul punto di cedere.

CR – Qualcuno potrà accusarla di eccessivo pessimismo…
CB – Al contrario. Credo che stiamo vivendo un momento decisivo della storia del post-Concilio. È difficile prevedere le conseguenze a termine di quello che stiamo vivendo ora, ma esse saranno considerevoli. E tuttavia sono certo che alla fine saranno positive. Anzitutto, evidentemente, ne sono certo nella fede, perché la Chiesa ha le parole della vita eterna. Ma anche, in maniera molto concreta, perché la necessità di un ritorno al magistero, al magistero in quanto tale, s’imporrà sempre di più nelle prospettive che si andranno necessariamente elaborando per il futuro.

Fonte: Corrispondenza romana, 4.5.2016
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