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Per sorridere .... e riflettere .... su Enrico VIII ed i fautori dell'accompagnamento e del discernimento .... nelle situazioni difficili
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L’Esortazione post-sinodale Amoris laetitia: prime riflessioni su un documento catastrofico
Sulla recente esortazione post-sinodale ci pare condivisibile la riflessione, non normalista, ma improntata a verità, del prof. De Mattei. Ma è solo, beninteso, una prima riflessione, essendo anche altri gli aspetti problematici.
L’Esortazione post-sinodale Amoris laetitia: prime riflessioni su un documento catastrofico
di Roberto de Mattei
Con l’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, pubblicata l’8 aprile, Papa Francesco si è ufficialmente pronunciato sui problemi di morale coniugale di cui si discute da due anni.
Nel Concistoro del 20-21 febbraio 2014 Francesco aveva affidato al cardinale Kasper il compito di introdurre il dibattito su questo tema. La tesi del card. Kasper, secondo cui la Chiesa deve cambiare la sua prassi matrimoniale, ha costituito il leit motiv dei due Sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015 e costituisce oggi il cardine dell’esortazione di Papa Francesco.
Nel corso di questi due anni, illustri cardinali, vescovi, teologi e filosofi sono intervenuti nel dibattito per dimostrare che tra la dottrina e la prassi della Chiesa deve esistere un’intima coerenza. La pastorale infatti si fonda sulla dottrina dogmatica e morale. «Non vi può essere pastorale che sia in disarmonia con le verità della Chiesa e con la sua morale, e in contrasto con le sue leggi, e non sia orientata al raggiungimento dell’ideale della vita cristiana!» ha rilevato il cardinale Velasio De Paolis, nella sua Prolusione al Tribunale Ecclesiastico Umbro del 27 marzo 2014. L’idea di staccare il Magistero da una prassi pastorale, che potrebbe evolvere secondo le circostanze, le mode e le passioni, secondo il cardinale Sarah, «è una forma di eresia, una pericolosa patologia schizofrenica» (La Stampa, 24 febbraio 2015).
Nelle settimane che hanno preceduto l’Esortazione post-sinodale, si sono moltiplicati gli interventi pubblici e privati di cardinali e vescovi presso il Papa, al fine di scongiurare la promulgazione di un documento zeppo di errori, rilevati dai numerosissimi emendamenti che la Congregazione per la Dottrina dalla Fede ha fatto alla bozza. Francesco non è arretrato, ma sembra aver affidato l’ultima riscrittura dell’Esortazione, o almeno di alcuni suoi passaggi chiave, alle mani di teologi di sua fiducia, che hanno tentato di reinterpretare san Tommaso alla luce della dialettica hegeliana. Ne è uscito un testo che non è ambiguo, ma chiaro, nella sua indeterminatezza. La teologia della prassi esclude infatti ogni affermazione dottrinale, lasciando che sia la storia a tracciare la linee di condotta degli atti umani. Per questo, come afferma Francesco, «è comprensibile» che, sul tema cruciale dei divorziati risposati, «(…) non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi» (§ 300). Se si è convinti che i cristiani, nel loro comportamento, non devono conformarsi a princìpi assoluti, ma porsi in ascolto dei «segni dei tempi», sarebbe contradditorio formulare regole di qualsiasi genere.
Tutti aspettavano la risposta a una domanda di fondo: coloro che, dopo un primo matrimonio, si risposano civilmente, possono accostarsi al sacramento dell’Eucarestia? A questa domanda la Chiesa ha sempre risposto categoricamente di no. I divorziati risposati non possono ricevere la comunione perché la loro condizione di vita contraddice oggettivamente la verità naturale e cristiana sul matrimonio significata e attuata dall’Eucaristia (Familiaris Consortio, § 84).
La risposta dell’Esortazione postsinodale è invece: in linea generale no, ma «in certi casi» sì (§ 305, nota 351). I divorziati risposati infatti devono essere «integrati» e non esclusi (§ 299). La loro integrazione «può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate» (§ 299), senza escludere la disciplina sacramentale (§ 336).
Il dato di fatto è questo: la proibizione di accostarsi alla comunione per i divorziati risposati non è più assoluta. Il Papa non autorizza, come regola generale, la comunione ai divorziati, ma neanche la proibisce. «Qui – aveva sottolineato il card. Caffarra contro Kasper – si tocca la dottrina. Inevitabilmente. Si può anche dire che non lo si fa, ma lo si fa. Non solo. Si introduce una consuetudine che a lungo andare determina questa idea nel popolo non solo cristiano: non esiste nessun matrimonio assolutamente indissolubile. E questo è certamente contro la volontà del Signore. Non c’è dubbio alcuno su questo» (Intervista a Il Foglio, 15 marzo 2014).
Per la teologia della prassi non contano le regole, ma i casi concreti. E ciò che non è possibile in astratto, è possibile in concreto. Ma, come bene ha osservato il cardinale Burke: «Se la Chiesa permettesse la ricezione dei sacramenti (anche in un solo caso) a una persona che si trova in un’unione irregolare, significherebbe che o il matrimonio non è indissolubile e così la persona non sta vivendo in uno stato di adulterio, o che la santa comunione non è comunione nel corpo e sangue di Cristo, che invece necessita la retta disposizione della persona, cioè il pentimento di grave peccato e la ferma risoluzione di non peccare più» (Intervista ad Alessandro Gnocchi su Il Foglio, 14 ottobre 2014).
Inoltre l’eccezione è destinata a diventare una regola, perché il criterio dell’accesso alla comunione è lasciato in Amoris laetitia, al “discernimento personale” dei singoli. Il discernimento avviene attraverso «il colloquio col sacerdote, in foro interno» (§ 300), “caso per caso”. Ma quali saranno i pastori di anime che oseranno vietare l’accesso all’Eucarestia, se «il Vangelo stesso ci richiede di non giudicare e di non condannare» (§ 308) e se bisogna «integrare tutti» (§ 297), e «valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio» (§ 292)? I pastori che volessero richiamare i comandamenti della Chiesa, rischierebbero di comportarsi, secondo l’Esortazione, «come controllori della grazia e non come facilitatori» (§ 310). «Pertanto, un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa “per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite”» (§ 305).
Questo inedito linguaggio, più duro della durezza di cuore che rimprovera ai “controllori della grazia”, è il tratto distintivo dell’Amoris laetitia che, non a caso, nella conferenza stampa dell’8 aprile, il cardinale Schönborn ha definito «un evento linguistico». «La mia grande gioia per questo documento», ha detto il cardinale di Vienna, sta nel fatto che esso «coerentemente supera l’artificiosa, esteriore, netta divisione fra regolare e irregolare». Il linguaggio, come sempre, esprime un contenuto. Le situazioni che l’Esortazione post-sinodale definisce «cosiddette irregolari» sono quelle dell’adulterio pubblico e delle convivenze extramatrimoniali. Per la Amoris laetitia esse realizzano l’ideale del matrimonio cristiano, sia pure «in modo parziale e analogo» (§ 292). «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (§ 305), «in certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti» (nota 351).
Secondo la morale cattolica, le circostanze, che costituiscono il contesto in cui si svolge l’azione non possono modificare la qualità morale degli atti, rendendo buona e giusta un’azione intrinsecamente cattiva. Ma la dottrina degli assoluti morali e dell’intrinsece malum è vanificata dalla Amoris laetitia, che si uniforma alla “nuova morale” condannata da Pio XII in numerosi documenti e da Giovanni Paolo II nellaVeritatis Splendor. La morale della situazione lascia alle circostanze e, in ultima analisi, alla coscienza soggettiva dell’uomo, la determinazione di ciò che è bene e ciò che è male. L’unione sessuale extraconiugale non è considerata intrinsecamente illecita, ma, in quanto atto di amore, valutabile secondo le circostanze. Più in generale non esiste il male in sé così come non esiste peccato grave o mortale. L’equiparazione tra persone in stato di grazia (situazioni “regolari”) e persone in stato di peccato permanente (situazioni “irregolari”) non è solo linguistica: ad essa sembra soggiacere la teoria luterana dell’uomo simul iustus et peccator, condannata dal Decreto sulla giustificazione del Concilio di Trento (Denz-H, nn. 1551-1583).
L’Esortazione post-sinodale Amoris laetitia, è molto peggiore della relazione del card. Kasper, contro cui sono state giustamente rivolte tante critiche in libri, articoli, interviste. Il card. Kasper aveva posto alcune domande; l’Esortazione Amoris laetitia, offre la risposta: apre la porta ai divorziati risposati, canonizza la morale della situazione e avvia un processo di normalizzazione di tutte le convivenze more uxorio.
Considerato che il nuovo documento appartiene al Magistero ordinario non infallibile, c’è da augurarsi che sia oggetto di un’analisi critica approfondita, da parte di teologi e Pastori della Chiesa, senza illudersi di poter applicare ad esso l’“ermeneutica della continuità”.
Se il testo è catastrofico, più catastrofico ancora è il fatto che sia stato firmato dal Vicario di Cristo. Ma per chi ama Cristo e la sua Chiesa, questa è una buona ragione per parlare, non per tacere. Facciamo nostre dunque le parole di un vescovo coraggioso, mons. Atanasio Schneider: «“Non possumus!”. Io non accetterò un discorso nebuloso né una porta secondaria abilmente occultata per profanare il Sacramento del Matrimonio e dell’Eucaristia. Allo stesso modo, non accetterò che ci si prenda gioco del sesto Comandamento di Dio. Preferisco esser io ridicolizzato e perseguitato piuttosto che accettare testi ambigui e metodi non sinceri. Preferisco la cristallina “immagine di Cristo Verità all’immagine della volpe ornata con pietre preziose” (S. Ireneo), perché “conosco ciò in cui ho creduto”, “Scio cui credidi”» (II Tm 1, 12)» (Rorate Coeli, 2 novembre 2015).
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Divorziati risposati in un aforisma della Commissione Teologica Internazionale del 1977
Fonte ed approfondimenti: Commissione teologica internazionale: Comunione ai risposati rende la Chiesa contro-testimone di Cristo, in Il Timone, 12.4.2016
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Amoris laetitia: tante affermazioni che contrastano tra loro
Interessante e misurata analisi di Mons. Livi, sebbene limitata ahimé solo al problema dei divorziati risposati. In effetti, l’esortazione post-sinodale presenta serissime criticità anche al di fuori del discusso e discutibile cap. VIII – su cui avremo modo di tornare – e, comunque, va ricordato che l’esortazione, sebbene per sua natura non sia un documento dottrinale, di fatto introduce delle novità pastorali, che hanno un’indubbia influenza sulla dottrina (a cominciare dall’accesso dei c.d. divorziati risposati alla Confessione ed alla Comunione, espressamente richiamati nella nota 351 dell’esortazione, e non solo – come affermato da Mons. Livi – agli uffici di padrini!). Spesso, infatti, va ricordato, specie dal Concilio Vaticano II, pur dietro la sbandierata affermazione dell’immodificabilità della dottrina e con il pretesto di voler “solo” introdurre prassi pastorali nuove, asseritamente più adeguate ai tempi correnti, nondimeno si è venuto ad incidere in maniera significativa su aspetti dottrinali, liturgici e morali. A tal riguardo, lo stesso Giovanni Paolo II, ad es., in un discorso tenuto nel 1981, non a caso, ebbe modo di affermare: «Bisogna ammettere realisticamente e con profonda e sofferta sensibilità che i cristiani oggi in gran parte si sentono smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi, si sono sparse a piene mani idee contrastanti con la Verità rivelata e da sempre insegnata; si sono propalate vere e proprie eresie, in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni, ribellioni, si è manomessa anche la Liturgia; immersi nel “relativismo” intellettuale e morale e perciò nel permissivismo, i cristiani sono tentati dall’ateismo, dall’agnosticismo, dall’illuminismo vagamente moralistico, da un cristianesimo sociologico, senza dogmi definiti e senza morale oggettiva» (Giovanni Paolo II, Discorso al Primo convegno nazionale “Missioni al popolo per gli anni ‘80”, 6.2.1981, § 2). All’origine di quanto lamentato da papa Wojtyla vi è, evidentemente, l’ammissione di prassi pastorali nuove, tollerate se non incoraggiate dalla gerarchia, ma sovente difformi rispetto alla lex credendi, che, di fatto, a lungo andare la svuotano di contenuto pratico e precettivo, rendendola un guscio vuoto da eliminare dal depositum fidei nel giro di pochi decenni.
Tante affermazioni che contrastano tra loro
di Antonio Livi
Un documento come l’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, per la sua lunghezza e per il particolare momento della storia della Chiesa nel quale è stato redatto e promulgato, richiede un commento quanto mai responsabile e prudente, che io qui faccio avvalendomi della mia competenza specifica nel campo dell’ermeneutica teologica e della mia lunga esperienza di direzione spirituale di sacerdoti, religiosi e laici.
1. Debbo premettere, per render meglio comprensibile quanto sto per dire, che gli atti del Romano Pontefice hanno un valore e una portata diversi, a seconda della materia della quale trattano e della forma prescelta per rivolgersi al popolo cristiano. Gli atti del Romano Pontefice (registrati come tali negli Acta Apostolicae Sedis) possono essere:
1) veri propri insegnamenti circa la fede e la morale della Chiesa cattolica, nel qual caso il Papa si limita a interpretare autorevolmente i dogmi già formulati dal Magistero precedente (magistero universale ordinario), a meno che, parlando ex cathedra, non enuncia novi dogmi (caso che nella storia si è verificato pochissime volte);
2) nuove norme disciplinari riguardanti i Sacramenti, la liturgia, gli incarichi ecclesiastici, eccetera (norme che entrano a far parte del corpus del diritto canonico, attualmente compendiate nel Codice di Diritto Canonico per la Chiesa latina e in quello per la Chiesa Orientale);
3) orientamenti e criteri per la prassi pastorale che non cambiano sostanzialmente ciò che è già stabilito nei principi della dottrina dogmatica e morale, così come non aggiungono o non tolgono nulla a ciò che è prescritto nelle vigenti leggi della Chiesa.
In base a questa fondamentale distinzione, diversi sono i doveri di coscienza di un cattolico, nel senso che:
1) gli insegnamenti del Papa, quando egli intende confermare o sviluppare e verità della fede cattolica, vanno accolti da tutti in fedeli con ossequio esteriore ed interiore della mente e del cuore; analogamente,
1) gli insegnamenti del Papa, quando egli intende confermare o sviluppare e verità della fede cattolica, vanno accolti da tutti in fedeli con ossequio esteriore ed interiore della mente e del cuore; analogamente,
2) gli ordini e disposizioni disciplinari del Papa vanno rispettati ed eseguiti prontamente da tutti coloro ai quali gli ordini sono rivolti, per quanto a ciascuno compete direttamente; al contrario,
3) quelli che sono meri orientamenti per la pastorale vanno accolti da tutti gli interessati, a cominciare dai vescovi, come criteri da tener presenti nell’esercizio del loro ufficio pastorale di governo e di catechesi; in quanto criteri, essi entrano a far parte di tutta una serie di principi di ordine dogmatico, morale e disciplinare che già sono ordinariamente presenti alla coscienza dei Pastori al momento di prendere responsabilmente una decisione su situazioni generali della loro diocesi o su qualche caso concreto.
Ora, l’Esortazione apostolica post-sinodale, sia per il tipo di documento che per gli argomenti che in esso vengo o affrontati, è indubbiamente un atto pontificio del terzo tipo tra quelli che ho prima elencato. In effetti, come genere di documento pontificio, questa Esortazione non è e non vuole essere un atto di magistero con il quale si insegnano dottrine nuove, fornendo ai fedeli nuove interpretazioni autorevoli del dogma.
Si tratta invece di una serie di indirizzi pastorali, rivolto principalmente ai vescovi e ai loro collaboratori nel clero e nel laicato, affinché la dottrina sull’amore umano e sul matrimonio – che viene esplicitamente confermata in ogni suo punto – sia meglio applicata ai singoli casi concreti con prudenza, con carità e con desiderio di evitare divisioni all’interno della comunità ecclesiale. Queste sono le intenzioni del Papa, quali risultano dal tipo di documento che sto commentando.
Naturalmente, come ogni fedele cristiano, io, che poi sono anche sacerdote, ho il dovere di accogliere senza riserve queste indicazioni pastorali, ben disposto a tenerne conto quando si presenti l’occasione di aiutare i fedeli in difficoltà ad accostarsi ben preparati al sacramento della Penitenza o di consigliare convenientemente quelli che dovessero trovarsi nelle condizioni di “divorziati risposati”. Ma ho anche il dovere di interpretare tali indicazioni alla luce del dogma, della morale e del diritto canonico vigente, visto che il documento papale non può e non intende abrogare tutto ciò che la Chiesa ha già stabilito in materia. E quando l’interpretazione si presenta difficile, per la complessità e l’ambiguità di molte pagine del documento papale, ho il dovere di rifarmi alla regola d’oro dell’ermeneutica teologica: «In necessariis, unitas; in dubiis, libertas; in omnibus, caritas».
2. Io sono sempre stato e sempre sarò, con la grazia di Dio, un figlio fedele della Chiesa, che non è, come alcuni dicono, «la Chiesa di Bergoglio» ma è la Chiesa di sempre, la Chiesa di Cristo. Per Cristo ho venerato tanti papi, da Pio XI a Benedetto XVI e a Francesco. Riguardo alle indicazioni contenute nella Amoris laetitia, non mi è lecito dubitare che le intenzioni pastorali del Papa siano tutte sante e tutte a vantaggio del bene comune della Chiesa di Cristo. Nemmeno posso dubitare che gli indirizzi pratici da lui suggeriti siano di per sé atti a provvedere il maggior bene possibile dei fedeli di tutto il mondo cattolico.
Resta però il fatto che la lettura del documento lascia molto perplessi quanto alla effettiva chiarificazione dei punti messi in discussione nella Chiesa da alcuni anni, sia da parte di molti teologi di ampia notorietà internazionale (ad esempio, il cardinale Walter Kasper) sia da parte di una ristretta ma molto rumorosa minoranza di padri sinodali durante le due sessioni del Sinodo sulla famiglia.
La discussione all’interno dei lavori del Sinodo è stata preceduta e seguita da una amplissima discussione sui media, sia cattolici che laicisti. E l’opinione pubblica ha percepito come reale l’esistenza di due contrapposte fazioni, una ostinata a mantenere i “formalismi astratti” del passato e una decisa a riformare la Chiesa, con quest’ultima che oggi va proclamando in tutto il mondo cattolico la propria “vittoria finale”, come se il documento pontifico avesse veramente realizzato quella «rivoluzione» della quale ha parlato Kasper, o quelle «aperture» delle quali ha parlato il direttore della Civiltà Cattolica, il gesuita padre Antonio Spadaro, in un’intervista alla Radio Vaticana.
L’effetto di questa immagine - troppo umana e in definitiva ideologica - delle discussioni avvenute all’interno del Sinodo è lo sconcerto e il disorientamento dell’opinione pubblica cattolica riguardo ai grandi temi dottrinali concernenti la sessualità umana, il matrimonio e la famiglia. Chi ha sensibilità veramente pastorale non può non desiderare, in tale situazione, un autorevole intervento pontificio di chiarimento, un discorso accessibile a tutti, espresso in termini precisi e definitivi: e invece il documento di papa Francesco, per come è stato recepito dai fedeli (anche per le interpretazioni strumentali da parte di ambienti ostili alla fede cattolica) ha purtroppo aumentato lo sconcerto in mezzo al popolo di Dio.
In effetti, il Papa, pur affermando che non c’è alcun cambiamento nella dottrina, quando parla dei cambiamenti che ritiene necessari nella prassi delle diocesi e delle conferenze episcopali induce a credere che egli intenda per “pastorale” un’attività anarchica del clero che, una volta lasciata la “dottrina” in soffitta, assume come “regola pastorale” le opinioni “secolari” prevalenti nel proprio ambiente sociale. Così facendo papa Bergoglio sembra lanciare una severa censura nei confronti delle posizioni “conservatrici” per giustificare senza riserve le posizioni “riformiste”. A nulla sarebbero valse le proteste del cardinale Mueller e di molti altri autorevoli prelati contro la tesi di una prassi disgiunta dalla dottrina, già formulata da molti teologi e da alcuni padri sinodali; si ricordano, ad esempio, le parole accorate del cardinale africano Sarah, che aveva ricordato come detto l’idea di incoraggiare una prassi pastorale che potrebbe evolvere secondo le mode e le passioni mondane sia «una forma di eresia, una pericolosa patologia schizofrenica» (cfr. La Stampa, 24 febbraio 2015).
Beninteso, nulla nel testo scritto può giustificare questa interpretazione, ma la prolissità del testo, l’abuso delle metafore e l’ambiguità delle affermazioni di principio (talvolta addirittura in palese contraddizione l’una con l’altra) lasciano aperta la possibilità di ogni malevola interpretazione, anche da parte di chi non ha alcun titolo per interpretare il Papa ma approfitta del fatto che il Papa non ha voluto - per motivi che saranno certamente buoni e santi – essere chiaro e preciso, usando un linguaggio che potesse evitare ogni strumentalizzazione.
Ciò riguarda soprattutto la valutazione «caso per caso» della situazione ecclesiale dei fedeli che hanno mancato alla fedeltà coniugale, hanno fatto ricorso al divorzio civile e hanno costituito una convivenza adulterina; si tratta di quelle coppie che erroneamente vengono chiamate di «divorziati risposati», con un linguaggio che non è teologico, perché nella Chiesa cattolica c’è un solo matrimonio riconosciuto come valido, quello sacramentale, che per sua natura è indissolubile e quindi non ammette divorzio né consente alcuna nuova forma di unione coniugale, sia pure riconosciuta dall’autorità civile.
Il Papa dice che nulla cambia nella situazione canonica di queste persone, perché la cosa è stata precedentemente esaminata e giudicata dal papa Giovanni Paolo II in seguito al Sinodo dei vescovi sulla famiglia svoltosi agli inizi degli anni Ottanta (cfr. Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981). Ma la prassi nuova che Francesco consiglia di adottare in sede di «accompagnamento pastorale» e in “foro interno” è formulata con espressioni talmente equivoche da consentire ai malintenzionati di celebrare la grande vittoria dei riformisti, i quali chiedevano appunto al Papa di introdurre nella prassi ecclesiastica una specie di “divorzio cattolico”, consentendo l’approvazione da parte dei singoli vescovi delle nuove nozze, così come l’accesso alla Comunione dei fedeli «in situazione irregolare».
In realtà il Papa non parla affatto della possibilità di “benedire” le nuove nozze, e nemmeno accenna direttamente di un “diritto all’Eucaristia”: si limita a consigliare la riammissione di questi fedeli come padrini ad alcune cerimonie religiose (battesimi, cresime, matrimoni), e invita a considerare la possibilità di consentire loro di assumere incarichi nelle parrocchie o di insegnare la religione nelle scuole. Ma gli argomenti addotti a sostegno di questi criteri di «inclusione ecclesiale» sono purtroppo molto confusi e possono anche intendersi – certamente contro le reali intenzioni del Papa – come un radicale cambiamento nella dottrina morale cattolica a riguardo del peccato grave (detto “mortale” in quanto comporta la perdita della grazia santificante e il pericolo della dannazione eterna, che la Scrittura chiama «la seconda morte») e riguardo alla sua imputabilità soggettiva, specie in relazione con le condizioni per ottenere il perdono sacramentale con la Confessione.
3. Per documentare quanto ho detto, riporto adesso alcune espressioni della Amoris laetitia che risultano, se non proprio formalmente erronee, almeno penosamente confuse. A ogni citazione farà seguito una breve postilla di chiarimento dottrinale.
Lo stato di peccato mortale. - «Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”» (Amoris laetitia, § 301).
Evidentemente, in materia di “peccato mortale” non ha senso parlare di qualifiche morali che “oggi” sono diverse da quelle di “ieri”: la dialettica storicistica che tanto piace ai teologi ascoltati da papa Francesco (come Walter Kasper) è del tutto fuori luogo in un documento pontificio che dà consigli su come intervenire pastoralmente in una situazione che dal punto di vista morale è stata definitivamente qualificata come peccato grave (adulterio) già dal Signore stesso, le cui parole sono state la norma prossima di valutazione da parte del magistero ecclesiastico di sempre (non di “ieri”), con un carattere di definitività che non ammette un “oggi” riformista.
Quanto poi ai “limiti” soggettivi (ignoranza, debolezza, dipendenza da passioni o condizionamenti sociali) che possano rendere meno imputabile in un determinato soggetto l’atto peccaminoso, essi sono sempre stati presi in attenta considerazione dai buoni confessori: ma non per coonestare una situazione che si è prolungata nel tempo e che sembra priva di soluzione proprio perché il peccato è stato ostinatamente ripetuto malgrado gli incessanti inviti della grazia divina alla conversione e alla riparazione dei danni arrecati al coniuge e alla Chiesa. La buona direzione spirituale da parte dei buoni confessori è sempre stata impegnata a suscitare nell’animo del cristiano che fino ad allora non ha mai voluto cambiare vita le risorse per «resistere fino al sangue nella lotta contro il peccato», che è quello che a tutti chiede il Vangelo (cfr. Lettera agli Ebrei).
Quanto poi ai “limiti” soggettivi (ignoranza, debolezza, dipendenza da passioni o condizionamenti sociali) che possano rendere meno imputabile in un determinato soggetto l’atto peccaminoso, essi sono sempre stati presi in attenta considerazione dai buoni confessori: ma non per coonestare una situazione che si è prolungata nel tempo e che sembra priva di soluzione proprio perché il peccato è stato ostinatamente ripetuto malgrado gli incessanti inviti della grazia divina alla conversione e alla riparazione dei danni arrecati al coniuge e alla Chiesa. La buona direzione spirituale da parte dei buoni confessori è sempre stata impegnata a suscitare nell’animo del cristiano che fino ad allora non ha mai voluto cambiare vita le risorse per «resistere fino al sangue nella lotta contro il peccato», che è quello che a tutti chiede il Vangelo (cfr. Lettera agli Ebrei).
Peccato “materiale” e peccato “formale”. - «A partire dal riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti, possiamo aggiungere che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostraconcezione del matrimonio. Naturalmente bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia. Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno» (nn. 302-303).
Ho sottolineato, nel testo pontificio, l’aggettivo “nostra” riferito alla «concezione del matrimonio» della Chiesa Cattolica: perché attribuirla a un assurdo “noi”, come se il soggetto di questa concezione fosse un qualsiasi opinion leader dei tanti che si agitano nella nostra società e non la Chiesa che custodisce e interpreta infallibilmente il Vangelo di Cristo? Non era certo questo il linguaggio, ad esempio, di san Giovanni Paolo II, che nelle sue catechesi sull’amore umano insisteva nel presentare la morale cattolica come l’espressione puntuale e fedele dell’intenzione d’amore di Dio creatore, che la Chiesa, depositaria della rivelazione di Gesù Cristo, si limita a esprimere in formule dogmatiche, dalle quali derivano sia i “precetti” che i “consigli”, senza nulla inventare e nulla imporre che non sia davvero il “piano di Dio”.
Il giudizio della Chiesa sull’imputabilità soggettiva degli atti contrari alla legge di Dio. - «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (n. 304).
Qui il discorso è ancora più ambiguo, perché confonde volutamente la valutazione “esterna” della situazione morale di un fedele dalla conoscenza della sua situazione “interna” davanti a Dio: la condizione di coscienza dell’individuo sfugge all’occhio umano, anche a quello del direttore spirituale o del confessore, e l’autorità della Chiesa non è chiamata a dare giudizi sulla coscienza («de internis neque Ecclesia iudicat»).
Quindi la valutazione dall’esterno, per ciò che risulta evidente agli occhi degli uomini, è quanto basta per un giudizio meramente prudenziale che non pretende di essere assoluto e definitivo ma riguarda il dovere dell’autorità ecclesiastica di riconoscere i comportamenti esterni conformi alla legge orale giusti e di sanzionare quelli ingiusti (un caso tipico di sanzione ecclesiastica, a parte la scomunica per reati più gravi, è appunto quello di negare l’accesso alla Comunione a chi pubblicamente vive in una condizione di adulterio senza intenzione di porvi rimedio). Non può che ingenerare ancora più confusione nei fedeli il fatto che un Papa parli della legge morale - già codificata dalla Chiesa da secoli in dogmi e disposizioni canoniche - come di qualcosa di “astratto” che non si può applicare a situazioni “concrete”. Peggio ancora, parla di situazioni “concrete” che oggi sarebbero diverse da quelle di ieri, per cui sarebbe legittimo fare oggi il contrario di quello che ha prescritto il magistero solenne e ordinario della Chiesa fino a ieri.
In realtà, l’unica differenza tra ieri e oggi che può essere significativa per la pastorale è che molti fedeli hanno una coscienza obnubilata dall’ignoranza religiosa e dai vizi, e per questo non avvertono più il loro peccato come volontaria infrazione delle norme morali, oppure non riescono ad applicare correttamente la regola morale (naturale ed evangelica) alla loro personale situazione. Ma se il Papa volesse davvero assecondare con la nuova prassi del “caso per caso” l’insensibilità degli uomini del nostro tempo nei confronti del “piano d’amore di Dio”, allora avrebbero ragione coloro che hanno visto la sua Esortazione come una resa totale del Magistero all’opinione pubblica, alla secolarizzazione, alla teologia progressista che esalta il soggettivismo (quella che afferma che ogni soggetto è in buona fede, e la Chiesa deve confermarlo nella sua infondata presunzione di essere in grazia!).
Fonte: La nuova bussola quotidiana, 13.4.2016
Fonte: La nuova bussola quotidiana, 13.4.2016
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I nuovi clericali del perdono – Editoriale di aprile 2016 di “Radicati nella fede”
Sebbene un po’ in ritardo, nella memoria odierna dei SS. Encratide (o Engrazia) di Saragozza, vergine e martire, e Benedetto Giuseppe Labre, confessore, rilanciamo, come di consueto, l’editoriale di Radicati nella fede del mese di aprile, ripreso da anche dal blog Chiesa e postconcilio.
Ambito del Zurbarán, S. Engrazia, 1640, Museo de Bellas Artes, Siviglia |
S. Benedetto G. Labre visita il Santuario della Madonna dei Miracoli in Andria, stampa XIX sec. |
Antonio Cavallucci, S. Benedetto G. Labre, 1795, Museum of Fine Arts, Boston |
Pietro Gagliardi, S. Benedetto Labre assiste alla Messa nella Chiesa di S. Maria in Aquiro, XIX sec., Chiesa di S. Maria in Aquiro, Roma |
Pietro De Simone, S. Benedetto G. Labre visita nel 1771 il Santuario di Leuca, 1897, Santuario di S. Maria de Finibus Terrae, Leuca |
Anonimo, S. Benedetto G. Labre prega nel Colosseo, XIX sec., Cappella di via dei Serpenti n. 2 dove morì il santo, Roma |
Achille Albacini, Tomba di S. Benedetto Giuseppe Labre, 1892, Chiesa di Santa Maria ai Monti, Roma |
I NUOVI CLERICALI DEL PERDONO
Editoriale di “Radicati nella fede”
Anno IX n. 4 - Aprile 2016
La questione non è essere severi o misericordiosi, comprensivi o rigidi, evangelici o rigoristi; no la questione non è questa.
La vera alternativa si pone tra essere cattolici o essere clericali.
Il clericalismo è una brutta bestia che è dura, durissima a morire. Il clericalismo di ogni genere, di ogni colore, di ogni tendenza. Sì, perché il clericalismo, che è una delle tentazioni più forti nella Chiesa, si trasforma esteriormente, restando sempre fedele a se stesso. Si adatta alle mode, alle situazioni, perché il suo scopo è alimentare se stesso.
Non vogliamo fare un trattatello sul clericalismo, non è il nostro scopo e non saremmo in grado di farlo; vogliamo solo coglierne qualche aspetto provocatorio, che inviti ad una riflessione.
Il clericalismo, nella sostanza, è l’operazione che l’uomo compie per sostituirsi a Dio.
Per il clericale non c’è al centro Dio, la sua verità, la sua legge e la sua grazia. Per il clericale al centro c’è l’uomo di chiesa, che sente il dovere di “gestire” per conto di Dio. Il clericale parte da una considerazione giusta, quella che fa dire che non si può andare a Dio senza la Chiesa; ma strada facendo perde Dio e resta solo con la Chiesa. È come un protestantesimo ribaltato, che finisce per avere la stessa erronea separazione tra la Chiesa e Dio: il protestante pretende di arrivare a Dio senza la Chiesa; il clericale pretende di fare gli interessi di Dio fermandosi alla Chiesa.
Il clericale arriva a non porsi più la domanda “Cosa vuole Dio?”, ma si chiede sempre “Cosa possiamo fare perché la Chiesa sia accolta dalla società e non sia messa ai margini?”, “Cosa domanda oggi il mondo alla Chiesa?”.
Solitamente, nel passato, l’accusa di clericalismo era rivolta ai cattolici “rigidi”, un po’ conservatori, fedelissimi alla gerarchia e all’applicazione senza sconti delle norme ecclesiali.
Oggi constatiamo che il clericalismo, che come animale camaleontico si adatta ad ogni terreno e clima, è proprio dei cosiddetti cattolici progressisti, che non solo si credono i veri interpreti della volontà di Dio, ma se ne ritengono i liberi formulatori.
Ne è un triste esempio tutto il dibattito attorno al sinodo sulla famiglia, che ora viene prolungato sulla questione del perdono in occasione dell’anno giubilare.
I nuovi clericali pensano di poter gestire politicamente la misericordia, per rendere più simpatica la Chiesa al mondo. Insomma, i clericali gestiscono il perdono di Dio come arma politica per introdursi nel salotto della società: perdonare sempre, non giudicare, comprendere, scusare, accogliere... sono i verbi di moda oggi tra le fila di coloro che vogliono instaurare un nuovo corso del cattolicesimo.
E questi chierici, intellettuali laici o ecclesiastici che siano, sostenitori del perdono assicurato a tutto e tutti, motivano il loro agire con il fatto che i preti non devono sostituirsi a Dio, che unico ha il potere di giudicare.
Prima di andare avanti chiariamo subito che non vogliamo cadere nell’inganno della severità per la severità: la Chiesa si è spinta sempre fino all’estremo per concedere il perdono, perché crede al perdono di Dio. La misericordia divina è infinita, perdona ogni peccato se trova in noi il dolore del pentimento: guai a noi se ponessimo limiti a questo perdono! Ma questo spingersi fino all’estremo possibile, non è mai una falsità retorica: la Chiesa si domanda sempre se ci siano le condizioni perché il perdono di Dio possa fruttificare in noi (ad esempio, il dolore del peccato e il proponimento di non commetterlo più...), e amministrando il perdono prima giudica se ci siano o no queste condizioni. Rinunciare a questo, da parte della Chiesa, sarebbe rinunciare al compito datole da Dio stesso.
Proprio perché è di Dio, il perdono non può essere gestito dagli uomini, anche di chiesa, sganciato dalla stessa Rivelazione di Dio. Dio ha detto la sua volontà su di noi, ci ha ha dato la sua grazia ma anche la sua legge!
Proprio perché è di Dio, i preti non possono sostituirsi a Lui, amministrando assoluzioni a chi non le chiede veramente; e le chiede veramente chi, anche tra mille difficoltà, prova il dolore del proprio peccato e vuole uscirne.
E Dio, cui appartiene il perdonare, non è una pagina bianca nella vita degli uomini: ha detto la verità su di noi e chiede a noi di seguirla.
Allora, clericali della peggior razza, sono tutti coloro che nella Chiesa, non amando il martirio, cercano un posto nel nuovo mondo, ridicolizzando il perdono in una automatica assoluzione, che diventa poi, ed è inevitabile, la benedizione di tutto. E così il male non si ferma e ne vanno di mezzo le anime, a partire dalle più fragili.
Il perdono dei nuovi clericali è falso, è solo una parola vuota, che non cerca quello che Dio cerca in noi: il reale cambiamento, la santificazione possibile, la trasfigurazione nella grazia della nostra vita. Il clericale è pessimista sull’uomo e non ha fede nella grazia, non crede al cambiamento della persona, per questo non perde tempo: dà un facile perdono retorico ed esterno a tutti, e pensa ad altro, impegnato com’è nei salotti della modernità.
Il cattolico crede invece nel cambiamento delle persone, nella salvezza delle anime, per questo lavora affinché ci siano nell’uomo le condizioni per accogliere, con frutto, la grazia che salva.
I preti cattolici amministrano il perdono, che è e resta di Dio; amministrare significa lavorare perché il perdono possa essere reale nella persona e produrre frutti di bene e di santità.
Così ha lavorato, per Dio e per le anime, un’infinita schiera di santi confessori.
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Bene soprannaturale e sua superiorità in un aforisma di S. Tommaso d'Aquino
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Eresia, prova della vera fede e Sacre Scritture in un aforisma di S. Giovanni Crisostomo
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Testo dell'intervento - in esclusiva - di S. Em.za card. Raymond Leo Burke nel corso della Presentazione del nuovo libro di don Nicola Bux
Pubblichiamo, in esclusiva assoluta, dopo aver pubblicato qualche giorno fa il testo dell’intervento di S. Em.za il card. Robert Sarah (v. qui), anche quello di S. Em.za il card. Raymond L. Burke nel corso della presentazione del libro di don Nicola Bux lo scorso 6 aprile. Ringraziamo sentitamente S. Eminenza per averci onorato con tale suo prezioso ed interessante contributo.
S. EM.ZA RAYMOND LEO Card. BURKE
Intervento
Presentazione del libro di Mons. Nicola Bux,
Con i Sacramenti non si scherza
Roma, 6 aprile 2016
Con lo sguardo del canonista
Fonte |
Leggere il nuovo libro di don Nicola Bux con lo sguardo del canonista, cosa che ho ritenuto utile fare in vista di questa presentazione, suscita piacevoli ed inaspettate sorprese. Infatti, in questi ultimi decenni, risulta alquanto difficile rinvenire riferimenti al diritto canonico nelle opere di autori non canonisti, soprattutto se teologi, anche quando si tratta di affrontare temi in stretta correlazione con il diritto e la giustizia. Invece don Bux, oltre a tratteggiare organicamente l’itinerario sacramentale, approfondendolo e chiarificandone gli elementi oggi più in ombra, appare sempre attento all’aspetto giuridico della materia. Anzi, fin dalle prime pagine, individua lucidamente una delle grandi ed attuali questioni ecclesiali, quando evidenzia che «la tendenza post conciliare a rifiutare il diritto di Dio nella Chiesa ha favorito e incoraggiato l’anarchia e l’anomia anche nella liturgia, sottomettendola a continue deformazioni in nome della creatività»[i]. Parole che riecheggiano quelle del Papa Benedetto XVI che ha posto, sin dall’inizio del suo pontificato, la liturgia, e quindi il rapporto con Dio, al centro del suo ministero petrino[ii].
In particolare, nel testo, quando si parla del diritto, pur richiamando le disposizioni positive, lo si fa riferendosi in maniera maggioritaria al diritto divino ed al diritto dei fedeli. Si nota, in altre parole, una particolare attenzione di don Bux verso questi “diritti”; che possono ritenersi due lanterne da utilizzare soprattutto quando sul cammino scendono le tenebre dell’incertezza e della confusione. Papa San Giovanni Paolo II, nella sua prima Lettera enciclica, Redemptor hominis, affrontava la questione dell’abuso della confessione con l’assoluzione generale nella celebrazione del Sacramento della Penitenza, che privava il penitente dell’incontro essenzialmente personale con Cristo nel Sacramento della Penitenza, ricordandoci sia il diritto del penitente a tale incontro sia il diritto di Cristo Stesso[iii]; mentre, nella sua ultima Lettera enciclica,Ecclesia de Eucharistia, egli insistentemente affrontava gli abusi nella disciplina ecclesiale per quanto riguarda la Santa Eucaristia[iv]. In Ecclesia de Eucharistia, egli dichiarò:
Sento perciò il dovere di fare un caldo appello perché, nella Celebrazione eucaristica, le norme liturgiche siano osservate con grande fedeltà. Esse sono un’espressione concreta dell’autentica ecclesialità dell’Eucaristia; questo è il loro senso più profondo. La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante né della comunità nella quale si celebrano i Misteri. L’Apostolo Paolo dovette rivolgere parole brucianti nei confronti della comunità di Corinto per le gravi mancanze nella loro Celebrazione eucaristica, che avevano condotto a divisioni (skísmata) e alla formazione di fazioni (‘aireseis) (cfr. 1 Cor 11, 17-34). Anche nei nostri tempi, l’obbedienza alle norme liturgiche dovrebbe essere riscoperta e valorizzata come riflesso e testimonianza della Chiesa una e universale, resa presente in ogni celebrazione dell’Eucaristia. Il sacerdote che celebra fedelmente la Messa secondo le norme liturgiche e la comunità che a queste si conforma dimostrano, in un modo silenzioso ma eloquente, il loro amore per la Chiesa[v].
Come sempre, la conoscenza e l’osservanza della disciplina canonica ci libera dalla falsa impressione che noi dobbiamo rendere la Sacra Liturgia interessante o sigillarla con la nostra personalità, e ci libera per essere strumenti attraverso i quali la presenza di Cristo, il Buon Pastore in mezzo al Suo popolo si è reso più visibile, e l’azione della Sacra Liturgia porta soltanto il Suo sigillo.
Infatti, da un lato il diritto divino delimita la parte intangibile ed immutabile dei sacramenti, di diretta istituzione divina, alla quale deve sempre guardare la Chiesa anche nello sviluppo e nella predisposizione delle norme meramente ecclesiastiche, che vincolano ugualmente coloro che amministrano e prendono parte alla celebrazione; mentre dall’altro il diritto dei fedeli richiama i sacerdoti al loro vero compito, che è quello di amministratori che agiscono nella persona di Cristo, Capo e Pastore della Chiesa in ogni tempo e in ogni luogo, e non nella loro proprio persona, ed al grave dovere di non intaccare in alcun modo l’efficacia di questi mirabili canali di grazia che sgorgano dal glorioso Cuore trafitto del Salvatore. Papa San Giovanni Paolo II, scrivendo circa lo stupore che deve essere nostro davanti al mistero della Santissima Eucaristia, ha dichiarato:
Questo stupore deve invadere sempre la Chiesa raccolta nella Celebrazione eucaristica. Ma in modo speciale deve accompagnare il ministro dell’Eucaristia. Infatti è lui, grazie alla facoltà datagli nel sacramento dell’Ordinazione sacerdotale, a compiere la consacrazione. È lui a pronunciare, con la potestà che gli viene dal Cristo del Cenacolo: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi… Questo è il calice del mio sangue, versato per voi…». Il sacerdote pronuncia queste parole o piuttosto mette la sua bocca e la sua voce a disposizione di Colui che lo pronunciò nel Cenacolo, e volle che venissero ripetute di generazione in generazione da tutti coloro che nella Chiesa partecipano ministerialmente al suo sacerdozio.[vi]
Nell’amministrazione di ogni sacramento, Cristo stesso è il protagonista, non il sacerdote.
Invero, in alcuni canoni del Codice di Diritto Canonico del 1983 è possibile riscontrare la sollecitudine della Chiesa per i summenzionati aspetti. Basterà ricordare il can. 846 § 1, che ricorda la disposizione del n. 22 della Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio Ecumenico Vaticano II, il quale dispone che «Nella celebrazione dei sacramenti, si seguano fedelmente i libri liturgici approvati dalla competente autorità; perciò nessuno aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa»[vii] ed il can. 213, nel quale si statuisce che «I fedeli hanno il diritto di ricevere dai sacri pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai sacramenti».[viii]
Papa San Giovanni Paolo II ha proseguito con vigore la revisione del Codice di Diritto Canonico del 1917. Non c’era nessun dubbio nella sua mente, come Padre del Concilio Ecumenico Vaticano II, circa il desiderio del Concilio sul fatto che la disciplina perenne della Chiesa fosse applicata al tempo presente. Chiaramente, il desiderio del Concilio riguardante la disciplina ecclesiale, non intendeva l’abbandono della disciplina, ma un nuovo apprezzamento nel contesto delle sfide contemporanee. Nella Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, con la quale il Supremo Legislatore della Chiesa ha promulgato il Codice di Diritto Canonico del 1983, si legge:
Volgendo oggi il pensiero all’inizio di quel cammino [della revisione del Codice di Diritto Canonico], ossia a quel 25 gennaio dell’anno 1959 [“allorché il mio Predecessore Giovanni XXIII di felice memoria diede per la prima volta il pubblico annuncio di aver deciso la riforma del vigente Corpus delle leggi canoniche, che era stato promulgato nella solennità di Pentecoste dell’anno 1917”], ed alla stessa persona di Giovanni XXIII, promotore della revisione del Codice, debbo riconoscere che questo Codice è scaturito da un’unica e medesima intenzione, che è quella di restaurare la vita cristiana. Da una tale intenzione, in effetti, tutta l’opera del Concilio ha tratto le sue norme ed il suo orientamento[ix].
Queste parole indicano il servizio essenziale del diritto canonico nell’opera della nuova evangelizzazione, cioè, il vivere la nostra vita in Cristo con l’impegno e l’energia dei primi discepoli. Così, appare chiaro come la disciplina canonica sia indirizzata al conseguimento, in ogni tempo, della santità di vita.
Il santo Pontefice ha descritto la natura del diritto canonico, indicando il suo sviluppo organico dalla prima alleanza di Dio con il Suo santo popolo. Egli ha fatto riferimento “al lontano patrimonio di diritto contenuto nei libri del Vecchio e Nuovo Testamento dal quale, come dalla sua prima sorgente, proviene tutta la tradizione giuridico-legislativa della Chiesa”[x]. In particolare, egli ha ricordato come Cristo Stesso ha dichiarato che egli non è venuto ad abolire la legge ma a portarla a compimento[xi], insegnandoci che è, infatti, la disciplina della legge che apre la via alla libertà nell’amare Dio e il prossimo. Egli osservò: «In tal modo gli scritti del Nuovo Testamento ci consentono di percepire ancor più l’importanza stessa della disciplina e ci fanno meglio comprendere come essa sia più strettamente congiunta con il carattere salvifico della stessa dottrina evangelica»[xii].
Poi Papa Giovanni Paolo II ha articolato lo scopo del diritto canonico, cioè, il servizio della fede e della grazia, dei doni dello Spirito Santo e della carità. Egli ha evidenziato che, lungi dall’ostacolare il nostro vivere in Cristo, la disciplina canonica salvaguarda e promuove la nostra vita cristiana; ricordando inoltre che:
[I]l suo fine è piuttosto di creare tale ordine nella società ecclesiale che assegnando il primato all’amore, alla grazia e ai carismi, rende più agevole contemporaneamente il loro organico sviluppo nella vita sia della società ecclesiale, sia anche delle singole persone che ad essa appartengono[xiii].
Come tale, il diritto canonico non può mai essere in conflitto con la dottrina della Chiesa ma è – secondo le parole di Giovanni Paolo II – «estremamente necessario alla Chiesa»[xiv].
L’insegnamento della Chiesa, infatti, è tradotto nella disciplina tramite la tradizione canonica[xv]. Egli indicò quattro vie per le quali la disciplina della Chiesa è un complemento necessario alla Sua dottrina, dichiarando:
Poiché infatti è costituita come una compagine sociale e visibile, essa ha bisogno di norme: sia perché la sua struttura gerarchica ed organica sia visibile; sia perché l’esercizio delle funzioni a lei divinamente affidate, specialmente quella della sacra potestà e dell’amministrazione dei Sacramenti, possa essere adeguatamente organizzato; sia perché le scambievoli relazioni dei fedeli possano essere regolate secondo giustizia, basata sulla carità, garantiti e ben definiti i diritti dei singoli; sia, finalmente, perché le iniziative comuni, intraprese per una vita cristiana sempre più perfetta, attraverso le leggi canoniche vengano sostenute, rafforzate e promosse[xvi].
Quindi, essendo il servizio del diritto canonico alla vita della Chiesa essenziale, Papa Giovanni Paolo II ha ricordato alla Chiesa che «le leggi canoniche, per loro stessa natura, esigono l’osservanza» e, a tale scopo, «l’espressione delle norme fosse accurata, e perché esse risultassero basate su un solido fondamento giuridico, canonico e teologico»[xvii].
Conclusione
In conclusione, il libro di don Nicola Bux oltre ad essere un ottimo sussidio per approfondire e riscoprire il senso autentico dei Sacramenti, la loro propria struttura ed il modo corretto di celebrarli, può, senza dubbio, contribuire a riaccendere i riflettori sulla dimensione giuridica degli stessi e più in generale sulla natura ed importanza del diritto e della giustizia nella Chiesa.
Infatti, ricomprendere l’ontologico rapporto tra il diritto e il Mistero della Fede, che si concretizza in modo profondo e mirabile nei Sacramenti, non potrà che aiutare ad eliminare definitivamente quell’atteggiamento di sospetto e di sfavore che ancora alberga in certi ambienti ecclesiale nei confronti del diritto nella Chiesa, aiutando a vivere meglio anche la dimensione della carità e della misericordia, perché, come ha evidenziato Papa Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in veritate,
La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è «suo», ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso “donare” all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è “inseparabile dalla carità”, intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via della carità o com’ebbe a dire Paolo VI, “la misura minima” di essa, parte integrante di quell’amore “coi fatti e nella verità” (1 Gv 3, 18), a cui esorta l’apostolo Giovanni[xviii].
[i]Nicola Bux, Con i Sacramenti non si scherza, Edizioni Cantagalli, Siena 2016, p. 14.
[ii] Basti ricordare, circa l’aspetto in questione, quanto scritto nel suo libro classico, Introduzione allo spirito della liturgia: Joseph Ratzinger, Opera Omnia: Vol. 11, Teologia della Liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, pp. 35-36; ed ancora nella Lettera del 7 luglio 2007 ai Vescovi in occasione della pubblicazione del m.p. Summorum Pontificum, in Acta Apostolicae Sedis 99 (2007) 795-799.
[iii] Cfr. Ioannes Paulus PP. II, Litterae Encyclicae Redemptor Hominis, “Pontificali eius ministerio ineunte,” 4 Martii 1979, in Acta Apostolicae Sedis 71 (1979) 314, no. 20.
[iv] Cfr. Id., Litterae Encyclicae Ecclesia de Eucharistia, “De Eucharistia eiusque necessitudine cum Ecclesia,”17 Aprilis 2003, in Acta Apostolicae Sedis 95 (2003) 439, n. 10 (abbrev. EdeE).
[v]«Nostrum propterea esse censemus vehementer hortare, ut in eucharistica Celebratione magna quidem fidelitate liturgicae observentur regulae. Ipsae enim sunt significatio solida verae ecclesialis indolis Eucharistiae; hic eorum est altissimus sensus. Numquam privata alicuius proprietas est liturgia, neque ipsius celebrantis neque communitatis ubi Mysteria celebrantur. Debuit acriora verba apostolus Paulus communitati Corinthiae proferre ob graviora vitia eorum in eucharistica Celebratione, quae pepererunt divisiones (schismata) atque factionum constitutiones (haereses) (cfr 1 Cor 11, 17-34). Nostris pariter temporibus observantia liturgicarum normarum iterum est detegenda et aestimanda veluti actus et testimonium unius universalisque Ecclesiae, quae in omni Eucharistiae celebratione praesens redditur. Tam sacerdos, qui Missam ex liturgicis normis fideliter celebrant, quam communitas, quae his se conformat, modo tacito sed eloquenti suum testificantur erga Ecclesiam amorem» (EdE, 468, n. 52. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, vol. 22, p. 273, n. 303.[abbrev. EdeEIt]).
[vi]«Semper oportet hic stupor Ecclesiam pervadat in eucharistica Celeberatione congregatam. Verum comitari debet praecipue Eucharistiae ministrum. Ipse enim, propter facultatem ipsi in sacramento Ordinationis sacerdotalis concessam, peragit consecrationem. Ex potestae, quae a Cristo in Cenacolo ei obtingit, ipse pronuntiat voces: “Hoc est enim Corpus meum quod prov vobis tradetur… Hic est enim calix Sanguinis mei novi et aeterni testamenti qui pro vobis et pro multis effundetur…”. Enuntiat haec verba sacerdoes vel potius os suum suamque vocem praestat Illi qui in Cenaculo haec vocabula exprompsit, et qui voluit ut per aetates ab omnibus illis eadem iterarentur qui in Ecclesia ministeriale illius communicant sacerdotium» (EdeE, 436, n. 5. Versioneitaliana: EdeEIt, p. 205, n. 219).
[vii]«In sacramentis celebrandis fideliter serventur libri liturgici a competenti auctoritate probati; quapropter nemo in iisdem quidpiam proprio marte addat, demat aut mutet» (Versione italiana: Codice di diritto canonico commentato, ed. Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale, 3ª ed. riv., Àncora Editrice, Milano, 2009, p. 722, can. 846, § 1. [abbrev. CICIt]).
[viii]«Ius est christifidelibus ut ex spiritualibus Ecclesiae bonis, praesertim ex verbo Dei et sacramentis, adiumenta a sacris Pastoribus accipiant» (Versione italiana: CICIt, p. 233, can. 213).
[ix]«Mentem autem hodie convertentes ad exordium illius itineris [ad Codicem Iuris Canonici recognoscendum], hoc est ad diem illam XXV Ianuarii anno MCMLIX [“qua Decessor Noster fel. rec. Ioannes XXIII primum publice nuntiavit captum abs se consilium reformandi vigens Corpus legum canonicarum, quod anno MCMXVII, in sollemnitate Pentecostes, fuerat promulgatum”], atque ad ipsum Ioannem XXIII, Codicis recognitionis initiatore, fateri debemus hunc Codicem ad uno eodemque proposito profluxisse, rei chistianae scilicet restaurandae; a quo quidem proposito totum Concilii opus suas normas suumque ductum praesertim accepit» (Ioannes Paulus PP. II, Constitutio Apostolica Sacrae Disciplinae Leges, 25 Ianuarii 1983, in Acta Apostolicae Sedis 75, Pars II (1983), viii (Cfr. vii). [abbrev. SDL]. Versione italiana: Codice di diritto canonico commentato, 3ª ed. riv., Àncora Editrice, Milano, 2009, p. 59. [abbrev. SDLIt]).
[x]«… longinqua illa hereditas iuris, quae in libris Veteris et Novi Testamenti continetur, ex qua tota traditione iuridica et legifera Ecclesiae, tamquam a suo primo fonte, originem ducit» (SDL, x. Versione italiana: SDLIt, p. 61).
[xi]Cfr. Mt 5, 17.
[xii]«Sic Novi Testamenti scripta sinunt ut nos multo magis percipiamus hoc ipsum disciplinae momentum, utque ac melius intellegere valeamus vincula, quae illud arctiore modo contingunt cum indole salvifica ipsius Evangelii doctrinae» (SDL, x-xi. Versione italiana: SDLIt, p. 63).
[xiii]«… Codex eo potius spectat, ut talem gignat ordinem in ecclesiali societate, qui, praecipuas tribuens partes amori, gratiae atque charismati, eodem tempore faciliorem reddat ordinatam eorum progressionem in vita sive ecclesialis societatis, sive etiam singulorum hominum, qui ad illam pertinent» (SDL, xi. Traduzione italiana: SDLIt, p. 63).
[xiv]«… Ecclesiae omnino necessarius est» (SDL, xii. Versione italiana: SDLIt, p. 65).
[xv] Cfr. SDL, xi. Versione italiana: SDLIt, p. 63.
[xvi]«Cum ad modum etiam socialis visibilisque compaginis sit constituta, ipsa normis indiget, ut eius hierarchica et organica structura adspectabilis fiat, ut exercitium munerum ipsi divinitus creditorum, sacrae praesertim potestatis et administrationis sacramentorum rite ordinetur, ut secundum iustitiam in caritate innixam mutuae christifidelium necessitudines componantur, singulorum iuribus in tuto positis atque definitis, ut denique communia incepta, quae ad christianam vitam perfectius usque vivendam suscipiuntur, per leges canonicas fulciantur, muniantur ac promoveantur» (SDL, xii-xiii. Versione italiana: SDLIt, p. 65).
[xvii]«… canonicae leges suapte natura observantiam exigent…accurate fieret normarum expressio…in solido iuridico, canonico ac theologico fundamento inniterentur» (SDL, xiii. Versione italiana: SDLIt, p. 66).
[xviii]«Caritas iustitiam praetergreditur, quia amare est donare, “meum” alii ministrare; sed istud non sine iustitia fit, quae alii tribuendum curat quod “ad eum” spectat, quod, ratione habita ipsius essendi et operandi, ad eum pertinet. Alii “tribuere” non possum, quin primum quod ad eum secundum isutitiam spectat non dederim. Qui ceteros caritate amat, ante omnia erga eos aequus est. Non modo iustitia caritati non est aversa, non modo via non est quaedam succedanea vel caritati confinis: iustitia “a caritate seiungi non potest”, intra eam est. Iustitia prima est via caritatis vel, ad Decessoris Nostri Pauli VI effatum, “minima ipsius mensura”, pars quidem necessaria illius amoris “in opere et veritate” (1 Io 3, 18), de qua re monet apostolus Ioannes» (Benedictus PP. XVI, Litterae Encyclicae Caritas in veritate, “De humana integra progressione in caritate veritateque”, 29 Iunii 2009, in Acta Apostolicae Sedis 101 (2009) 644, n. 6. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, vol. 26, p. 473, n. 686).
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Una sola vera fede in un aforisma del Beato Marco d'Aviano
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Pensieri divergenti. Il divorzio secondo San Tommaso Moro e secondo Bergoglio
Già in altre occasioni, abbiamo avuto modo di presentare, giustapponendolo, il sacrificio dei SS. Tommaso Moro e Giovanni Fisher, alle determinazioni sinodali che si profilavano (v. qui e qui). Oggi, quel che si diceva in riferimento ai due Sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015 può ripetersi con riguardo all’esortazione post-sinodale Amoris laetitia. Oggi, probabilmente, nell’ottica della misericordiosaeconomia matrimoniale, quel sacrificio sarebbe visto quasi un’offesa ed un’opera non dettata da … misericordia … . Probabilmente sarebbero, oggi, i due Santi martiri a doversi scusare con Enrico VIII e la Bolena, per non aver considerato le loro esigenze coniugali, così come, probabilmente, quelli a dover essere scomunicati sarebbero stati – oggi – i due Santi e non il vizioso re e la sua concubina, che il sovrano volle fare sua sposa contravvenendo alle leggi di Dio e della Chiesa. Tempi e mentalità che cambiano. Forse. Ma Dio e la sua Legge non cambiano né possono essere cambiate per intervento umano, sebbene compiuto in alto loco per compiacere il mondo.
Pensieri divergenti. Il divorzio secondo San Tommaso Moro e secondo Bergoglio
“Di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono” (Luca, I, 50)
di Piero Vassallo
Legittima moglie del re inglese Enrico VIII (1491-1547) era Caterina d’Aragona (1485 – 1536), donna purtroppo inabile a generare un figlio maschio. Caterina fu tuttavia regina d’alto profilo spirituale, e sagace allieva e interprete della dottrina di San Tommaso Moro (1478 – 1535).
Malauguratamente Enrico, che in gioventù aveva dimostrato una illuminata fedeltà alla Santa Sede, rovesciò la sua intelligenza nella disonesta e sfrenata passione per la cortigiana Anna Bolena, alla quale si legò con un rito invalido, celebrato da un vescovo eretico e codardo.
Papa Clemente VII, che un tempo stimava il re inglese, nel 1536, a malincuore, fu costretto a scomunicare il bigamo che, per ripicca, indirizzò la Chiesa d’Inghilterra all’infelice e sterile cammino dello scisma e della feroce inimicizia nei confronti dei cattolici.
Il cammino dell’eresia fu tracciato dal delirante Atto di supremazia, che proclamava il re inglese capo supremo – dopo Cristo – della Chiesa d’Inghilterra.
La tracotanza del re conquistò il cuore dei pavidi e dei pusilli, ma allontanò dall’infetta corte gli uomini d’alto intelletto e di nobile sentire.
In prima linea fra i dissenzienti al monarca eretico e stragista, fu il filosofo e cancelliere Tommaso Moro, che conosceva il carattere suscettibile e iroso del suo re.
Moro agì con somma cautela, tuttavia non poté disobbedire alla sua coscienza e conservare una carica che contemplava l’approvazione del comportamento del re scomunicato.
L’implacabile, fumante superbia dell’infettato re si rovesciò allora contro l’irriducibile cancelliere.
Il risentimento del re (vero padre – insieme con Lutero – del furore anti cattolico) si manifestò il 13 maggio del 1534, allorché Tommaso Moro, processato da un canagliesco tribunale, insieme con il cardinale refrattario John Fisher (1469-1535) rifiutò di riconoscere la validità del divorzio e del successivo matrimonio del re con la chiacchierata Bolena.
Moro e Fisher ascoltarono impassibili la condanna a morte decretata dalla follia di un re intossicato dalle spirochete, e salirono sul patibolo piuttosto che rinnegare la sacralità del matrimonio indissolubile.
Nel 1936, papa Pio XI ha solennemente riconosciuta la virtù eroica dei martiri Tommaso Moro e Giovanni Fisher, testimoni del Vangelo di Nostro Signore.
Mentre sputo allegramente in faccia alla (pseudo) legge divorzista in disgraziato vigore, mi domando quale sia la ragione della sentenza vaticana che permette l’accesso alla Mensa eucaristica di persone viventi fuori dalla legge stabilita da Nostro Signore.
Come posso pregare i santi Moro e Fisher quando la loro resistenza al male divorzista è destabilizzata e quasi ridicolizzata dai ragionamenti (o arzigogoli) di un’autorità galoppante nelle prateria del buonismo o arrampicata sulle viscide colonne del quotidiano Repubblica? Non rimane che pregare i santi e sospendere il giudizio su Bergoglio o dimenticare la materia del contendere e tirare dritto.
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Necrologio
Quest’oggi, a mezzogiorno, dopo giorni di sofferenza, si è addormentato nel Signore Tony Bux, fratello amato del nostro caro don Nicola Bux, il quale è stato grande uomo e artista di fede, che ha glorificato Dio con la sua arte, che è stata la sua vita.
Siamo tutti vicini con la preghiera e con l’affetto a don Nicola, esprimendo a lui ed a tutta la famiglia il cordoglio dell’intera Scuola Ecclesia Mater, assicurando le nostre preghiere di suffragio per la bell’anima di Tony.
I funerali si svolgeranno domani, in Bari, presso la Cattedrale, alle ore 17,00.
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“Sed cum mox idem Willélmus rex vi et minis Ecclésiæ jura usurpáre tentásset, ipse sacerdotáli constántia réstitit; bonorúmque direptiónem et exsílium passus, Romam ad Urbánum secúndum se cóntulit: a quo honorífice excéptus et summis láudibus ornátus est, cum in Barénsi concílio Spíritum Sanctum étiam a Fílio procedéntem, contra Græcórum errórem, innúmeris Scripturárum et sanctórum Patrum testimóniis propugnásset” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI ANSELMI EPISCOPI CANTUARIENSIS, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS
Sant’Anselmo ha quasi diritto di cittadinanza nel Messale romano poiché risiedé qualche tempo a Roma ed, al Concilio di Bari, destinato a combattere lo scisma dei Greci, fu il miglior supporto di Urbano II nella lotta contro l’errore. Alla fine dell’800 (1892-1896), Leone XIII fece elevare sul colle Aventino, nel rione Ripa, in onore del santo dottore di Canterbury, su progetto dell’abate benedettino belga Ildebrando de Hemptinne, un’insigne basilica, di stile neoromanico, annessa al grande collegio universitario teologico dell’Ordine benedettino, che contava il Santo tra i suoi più gloriosi rappresentanti (sulla chiesa di Sant’Anselmo all’Aventino, cfr. Massimo Alemanno, Le chiese di Roma moderna, vol. III. I Rioni Ripa e Testaccio e i quartieri del quadrante sud-est, Roma 2007, pp. 19-23). Oggi è sede dell’Abate Primate dell’Ordine in quanto Badia Primaziale.
Accanto alla chiesa hanno sede il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo ed il Pontificio Istituto Liturgico.
Un’altra chiesa è stata dedicata nel 1989 a Roma al Santo dottore della Chiesa.
In onore di questo grande dottore, che ebbe il merito di preparare la strada, in qualche modo, all’edificio teologico dell’Aquinate, l’innario benedettino contiene questa bell’ode saffica:
Sul suo letto di morte, Leone XIII compose pur’egli dei versi in onore di sant’Anselmo e li fece portare subito all’abate della sua nuova basilica aventina, come un ultimo pegno della devozione che nutriva verso il grande dottore e l’ordine benedettino che l’aveva formato.
La messa è quella del Comune dei Dottori come il 29 gennaio.
Quest’illustre confessore della fede e della libertà della Chiesa, fuggitivo ed esule, trovò a Roma, come d’altronde sant’Atanasio, e presso il beato Urbano II, accogliente benevolenza e protezione. La storia ha registrato come un titolo speciale di gloria per la sua memoria una delle sue parole, energica e piena di fede allo stesso tempo, scrivendo al re di Gerusalemme, Baldovino: «Nihill magis diligit Deus in hoc mundo quam libertatem Ecclesiæ suæ. ... Liberam vult esse Deus sponsam suam, non ancillam»; «Dio non ama null’altro in questo mondo che la libertà della sua Chiesa. … Dio vuole che la sua sposa sia libera non già schiava» (Sant’Anselmo, Ep. Ad Balduinum regem Hierusalem, in Epistolæ, lib. IV, ep. 9, in PL 159, col. 206B).
Medaglia commemorativa di Leone XIII della Fondazione del Collegio Anselmiano, 1895 |
S. Anselmo, vetrata, XIX sec. |
S. Anselmo, vetrata, XIX sec., chiesa di Our Lady and the English Martyrs (OLEM), Cambridge |
sco Romanelli, Incontro della contessa Matilde con S. Anselmo alla presenza di papa Pasquale II, 1637-1642, Pinacoteca vaticana, Vaticano |
Josef Ferdinand Fromiller, La Vergine Maria col Bambino appaiono a S. Anselmo, XVIII sec., Monastero, Ossiach |
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La Carità più grande in un aforisma di don Divo Barsotti
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La vera carità spiegata da papa san Sotero
Nella festa di S. Sotero, papa e martire, rilancio questo brevissimo saggio su questa figura di Pontefice, poco nota, e tuttavia di grande attualità.
La vera carità spiegata da papa san Sotero
di Lorenzo Benedetti
di Lorenzo Benedetti
San Sotero resta oggi un Papa poco conosciuto, sebbene abbia fatto della misericordia un segno distintivo del suo pur poco documentato pontificato, tanto da essere ricordato dai posteri come “il papa della carità”. Figlio di Concordio e nativo di Fondi, nel Lazio, Sotero era originario della Grecia come si evince dal nome, che in greco significa “salvatore”.
Le notizie intorno a questo pontefice, il 12° vescovo di Roma, sono in effetti molto poche e ci sono state tramandate nel Liber Pontificalis, un elenco dei Papi risalente al IV secolo, fonte primaria per conoscere la storia della Chiesa delle origini: eletto al soglio petrino nel 167, guidò i cristiani di Roma durante un periodo reso difficile e turbolento dalle persecuzioni dell’imperatore Marco Aurelio (161-180) e dal diffondersi del Montanismo, un’eresia della Frigia, il cui diffusore, Montano, sosteneva di avere visioni profetiche dettate dallo “Spirito Santo”.
Operò diverse riforme nel Rito, proibendo alle donne di toccare patena e calice e dichiarando validi solo i matrimoni celebrati da un sacerdote. Ma l’atto più celebre e importante del suo pontificato fu la raccolta di fondi che indisse a favore della Chiesa di Corinto, allora retta dal vescovo Dionigi, la quale si trovava in grave necessità economica: la lettera di Sotero che accompagnava l’offerta è andata perduta, ma si è conservata quella di ringraziamento di San Dionigi, citata dallo storico Eusebio di Cesarea (265-340) nella sua Historia Ecclesiastica, altra opera fondamentale per conoscere l’epoca paleocristiana.
«Avete ereditato dagli avi l’usanza di prendervi cura in vario modo di tutti i fratelli, e di inviare aiuti a molte Chiese presenti in ogni città; avete alleviato così le sofferenze dei bisognosi e siete venuti incontro ai fratelli condannati ai lavori forzati nelle miniere con quei sussidi che voi, o Romani, inviate da sempre, secondo l’usanza dei vostri padri; E il vostro beato vescovo Sotero l’ha non solamente conservata, ma anche incrementata; egli li ha beneficiati con gli aiuti inviati ai santi ed esortando i fratelli con parole di beatitudine, come fa un padre affettuoso con i figli»: con queste parole, il vescovo di Corinto sottolinea sia la preminenza della Chiesa di Roma, che soccorre le Chiese figlie in un’epoca in cui non si era ancora affermato il primato della sede romana, sia la carità cristiana che ha profondamente segnato il pontificato di san Sotero, animato dall’amore di padre verso i fratelli sull’esempio del Vangelo.
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“Non respondit labori fructus, itaque cum se nihil proficere animadverteret, Hierosolymam petiturus, Roman venit. Digressus inde ad Cassinense Monasterium, longioris peregrinationis abiecto consilio, Beati Nili monitu ad Urbem rediens, ad Sanctum Bonifacium monachus efficitur. Quinquennium ibi incredibili pietate, ac religione, cum egisset, missa ad Summum Pontificem legatione, in Bohemiam revocatur” (Lect. V – II Noct. – Officia propria Sanctorum, quorum memoriam Metropolitana ecclesia Pragensis, 1767) SANCTI ADALBERTI EPISCOPI PRAGENSIS ET MARTYRIS
Oggi, oltre San Giorgio Martire, la Sinassi di Sant’Adalberto è alla basilica omonima di Sant’Adalberto nell’isola Tiberina.
Un gran numero di Messali del basso Medioevo contengono questa festa che può considerarsi come davvero romana. In effetti, la Città eterna fu elevata moralmente e spiritualmente, verso la fine del X sec., dalla vista che questo zelante vescovo di Praga, il quale, avendo deposto le insegne della sua dignità, si fece monaco nel monastero di San Bonifacio sull’Aventino, chiamato dal Baronio, Seminarium (o domicilium) Sanctorum, a causa dei santi che sembravano all’epoca essersi dati appuntamento in quel luogo (cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 587). Ma il clero di Praga reclamò il suo vescovo al Papa, in modo che Adalberto dové abbandonare una o due volte il suo tranquillo ritiro e le funzioni di cuoco del monastero, che gli avevano assegnate, per riprendere il bastone pastorale. Infine, nel 997, ricevette la palma del martirio dalle mani dei pagani e l’imperatore Ottone III, poco prima suo amico ed ammiratore, gli fece elevare, nell’isola tiberina, una basilica che è citata per la prima volta in un documento del 1029: Ecclesia s. Adalberti in insula Licaonia.
Allo scopo di rendere più venerabile il santuario del suo amico divenuto martire e santo, Ottone III obbligò gli abitanti di Benevento a cedergli il corpo di san Bartolomeo. Sembra, invece, che questi gli abbiano consegnato, al posto del suo corpo, le ossa di san Paolino da Nola, che depose nella nuova basilica dell’isola tiberina. Più tardi, il ricordo di sant’Adalberto cadde quasi nel dimenticatoio e la chiesa fu comunemente designata sotto il nome dell’apostolo Bartolomeo (su questa chiesa, cfr. ibidem, pp. 620-622; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 206).
Anonimo, Santi ungheresi (SS. Adalberto, Bonifacio, Stefano che venera la Vergine, Ladislao ed Emerico) difendono contro i turchi, 1642, Chiesa di S. Ignazio di Loyola, Győr |
Michael Willmann, Martirio di S. Adalberto, XVII sec. |
Mihály Kovács, S. Adalberto, 1855, Dobó István Castle Museum, Eger |
S. Adalberto, Basilica di S. Stefano, Budapest |
Peter von der Rennen, Sarcofago-reliquiario di S. Adalberto, 1662, Cattedrale Metropolitana, Gniezno |
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23 aprile 1616, il giorno in cui l’Occidente si scoprì improvvisamente più povero
Il 23 aprile 1616 morivano sia Shakespeare (il quale era nato proprio un 23 aprile di 52 anni prima) sia Cervantes. Entrambi si spegnevano nella festa di S. Giorgio il megalomartire, cioè proprio nella festa di quel santo che è considerato patrono delle milizie cristiane e vero archetipo del cavaliere e del milite cristiano, figura che ispirarono entrambi gli autori (cfr. Carlo Ossola, Cervantes, il cavaliere dell’ideale, in Avvenire, 23.4.2015; Francesco Olivo, Così il cavaliere errante ispirò una commedia di Shakespeare, in La Stampa, 15.3.2016).
Va ricordato che il vero milite cattolico, come ci rammenta un nostro amico, è il “defensor Ecclesiarum, viduarum, orphanorum, omniumque Deo servientium, contra sævitiam paganorum, atque hæreticorum” (Pont. Rom., De creat. novi militis), che usa la spada per punire i malvagi, per proteggere i deboli e gli onesti e per difendere la patria ma anche per vendicare i diritti di Dio e della Santa Chiesa ove essi vengano conculcati (anche se a farlo è lo Stato). Seguendo questa strada conquistarono il Paradiso, oltre a Giorgio, anche Sebastiano, Gavino, Lussorio, Marcello, Giorgio, Maurizio, Agazio, Alessandro e tanti altri che preferirono servire Cristo piuttosto che sacrificare agli idoli e/o opprimere la Chiesa. Così si fecero santi nella milizia Ferdinando III, Luigi IX e tanti altri uomini sconosciuti che partirono alla crociata contro gli infedeli o gli eretici con la Fede nel cuore e benedetti da Cristo e dal suo vero Vicario, in difesa della Christianitas, dell’unico vero Ordine voluto dalla Provvidenza.
S. Giorgio ed il drago, Cripta della Basilica di S. Giorgio, Lydda (l'odierna Lod, presso Tel Aviv) |
Bassorilievo del sarcofago di S. Giorgio, Cripta, Basilica di S. Giorgio, Lydda |
Jan van der Straet, S. Giorgio ed il drago, 1563-64, Badia delle Sante Flora e Lucilla, Arezzo |
Martin Wiegand, S. Giorgio ed il dragone, 1915 |
23 aprile 1616, il giorno in cui l’Occidente si scoprì improvvisamente più povero
di Elisabetta Sala
La scomparsa contemporanea di Shakespeare e Cervantes e l’emergere di Francis Bacon rappresentano un scontro di civiltà che rivela molto di quello che siamo oggi
Stratford, 23 aprile 1616. Nel suo piccolo maniero, il privato cittadino William Shakespeare si spegneva placidamente (si pensa), circondato da parenti e amici. Intanto l’Inghilterra, anzi, la neonata Britannia, proseguiva la discesa sul piano inclinato che l’avrebbe portata prima al conflitto civile e poi a un ventennio di dittatura puritana. E lì fu la fine, per i teatri. Giacché, non appena quei signori furono padroni della città di Londra (nel 1642), fecero chiudere o demolire tutti i luoghi di intrattenimento.
Il tramonto di Shakespeare coincise dunque con il tramonto della gioia e del divertimento in tutto il Regno. Basti pensare che, pochi anni dopo la sua morte (nel 1622), quella che era stata la sua compagnia si presentò a Stratford per recitare davanti al popolo, ma fu invece pagata per allontanarsi. Il teatro era già “attività non grata”.
La grande stagione teatrale elisabettiano-giacobita aveva costituito un ultimo baluardo di indipendenza, una esigua fetta di vita quotidiana che il governo non era riuscito a controllare completamente. A contatto diretto col popolino, gli attori non disdegnavano battute satiriche sui potenti, né gli autori erano facili da imbrigliare. Anche lo stile era stato all’insegna della massima libertà: incuranti del pesante classicismo che andava affermandosi oltremanica, i drammaturghi inglesi avevano rigettato ogni regola prestabilita. In ciò Shakespeare era stato maestro, scatenando l’immaginazione, mescolando stili e registri, aprendo abissi di significato; il che conferisce (ancora oggi) alle sue opere una complessità tale da lasciarle sempre aperte a molteplici strati interpretativi.
Un linguaggio magico
Amava giocare baroccamente con le parole: più significati avevano, più gli piacevano. Giustamente famosi sono i suoi “puns”, basati su omofonie, in frasi ambigue che mescolavano i figli (sons) con i soli (suns), le suole delle scarpe (soles) con le anime (souls). E gli piaceva inventarne di nuove, quando la lingua che aveva a disposizione si rivelava insufficiente a rendere ciò che gli sgorgava dalla mente. Perché il linguaggio, ci dice il suo Prospero nella Tempesta, è magia e permette di costruire «torri svettanti tra le nubi».
Ebbene, a un certo punto del Seicento tutto questo non piacque più. Una nuova sensibilità si stava facendo strada. In quel fatidico giorno di quattrocento anni fa, l’uomo del futuro di Britannia non era certo Shakespeare, ritiratosi dalle scene quasi in sordina, forse chiedendo solamente di essere lasciato in pace a invecchiare e morire tra i suoi. L’astro nascente, l’uomo che si sarebbe adattato perfettamente alla nuova era fino a diventarne il profeta, non era un letterato né tanto meno un attore, bensì un uomo della medesima generazione ma con i piedi ben per terra: giurista, cortigiano, filosofo, scienziato. Parliamo di Francis Bacon (1561-1626).
Le sue opere (tutte in prosa) sono all’insegna dei tempi nuovi; portano nomi come The Advancement of Learning (1605), Novum Organum (1620), Augmentis Scientiarum (1623), The New Atlantis (1627). Era un entusiasta del progresso, oltre che della strada recentemente intrapresa dalla Britannia verso la costruzione di un impero. A Bacon si richiamarono, nel 1662, i fondatori della Royal Society, il club di scienziati che andò a costituire, in una peculiare collaborazione tra puritanesimo e scienza, uno dei pilastri dell’Illuminismo.
Il nuovo astro nascente
In nome dell’empirismo, Bacon e soci decretarono obsoleta e defunta tutta la tradizione: non solo quella scientifica, ma anche quella filosofica e letteraria. Fu di fronte a lui, e a tutto il movimento razionalista che ne seguì, che l’eredità di Shakespeare parve uscire sconfitta. Furono Bacon e i suoi seguaci a indicare il cammino. Basta con la magia teatrale, basta con la fantasia, basta con la creazione poetica e con tutte quelle inutili favole. Non è finita: basta anche con i barbarismi nella lingua. Basta con le espressioni ambigue, finiamola di usare parole passibili di interpretazioni diverse e opposte.
Sulla falsariga di Calvino i nuovi intellettuali, tutta gente molto seria, decretarono che, in nome della chiarezza, a ogni parola dovesse corrispondere un solo significato. Tagliarono ogni orpello, semplificarono discorsi e frasi. Più avanti, toccò all’amara satira swiftiana prendersi gioco di loro.
Bacon sdoganò altresì una nuova interpretazione della scienza: non più semplicemente studio della natura, ma manipolazione e dominio. Suo è il detto tantum possumus quantum scimus: praticamente, sapere è potere. Nella sua personale utopia, la Nuova Atlantide, egli vagheggia (profeticamente) un mondo governato dagli scienziati, teorizzando la liceità di ogni tipo di esperimento. La natura va soggiogata e aggiogata, non servita. Potere, sperimentazione illimitata, tecnocrazia: pare di essere nel futuro. Cioè, ai giorni nostri. Probabilmente i nostri giochi da apprendisti stregoni avrebbero affascinato Bacon, laddove Shakespeare fa invece dire al suo Macbeth: «Io oso fare tutto ciò che si addice a un uomo; chi osa di più non è un uomo».
Bacon fu pragmatico anche nella vita: seppe appoggiarsi agli uomini giusti (come il conte di Essex) per poi abbandonarli al momento opportuno. Così, sebbene con un certo ritardo rispetto a quanto avrebbe voluto, divenne molto ricco e molto famoso e, sotto re Giacomo, entrò nientemeno che nel Consiglio Privato.
Fu quindi tra coloro che, nel 1619, accontentarono la Virginia Company, a dispetto di ogni legge, autorizzando la deportazione nelle colonie americane di 165 ragazzini tra gli otto e i sedici anni. Sei anni dopo, a seguito dei maltrattamenti che subirono, erano rimasti vivi solo in dodici. Ma non per questo le deportazioni si fermarono: negli anni successivi, grazie a quell’apripista, il governo aggiustò il tiro e si fece carico di deportare soprattutto piccoli irlandesi (tanto per cambiare) accusati di qualche delitto.
La carriera politica di Bacon si concluse con una ignominiosa accusa di peculato che gli macchiò la reputazione; ma tant’è. La modernità guarda ai risultati, non alla forma; al fine, non ai mezzi.
Tanto Bacon guardava al radioso futuro della sua patria, quanto Shakespeare, pur nella più audace sperimentazione formale, aveva guardato al passato. Invece che avanti, e diversamente dai drammi di altri autori, le opere shakespeariane guardano indietro, a un mondo perduto tra i fasti dell’antica Roma e le nebbie del Medioevo. Un mondo simboleggiato dal fantasma di Amleto, figura idealizzata di un tempo che ancora credeva nel purgatorio e nell’efficacia dei sacramenti; oppure dal John of Gaunt del Riccardo II, che parla dei valori che avevano reso la vecchia Inghilterra rinomata in tutta la cristianità. Praticamente tutti i drammi shakespeariani sono ambientati in una terra o in un tempo remoti e tutti i personaggi positivi guardano al passato con nostalgia.
Riguardo al presente, invece, i commenti che escono dall’intero Canone sono lapidari, trancianti, il quadro desolante: sono tempi «crudeli», «astuti», «cattivi». Un opportunista come Fitzwater (sempre nel Riccardo II) vuole approfittare dell’arrivismo e della perdita di valori imperanti per prosperare «in questo mondo nuovo», mentre nel Mercante di Venezia gli insidiosi tempi moderni tendono a intrappolare i saggi.
Quando si viveva per l’onore
I drammi storici esaltano il mondo cavalleresco e l’antico codice d’onore, proprio come Falstaff, per contrasto, lo irride (e finisce male). Personaggio picaresco e quasi donchisciottesco, Falstaff è però agli antipodi di don Chisciotte in quanto rifiuta l’eroismo (autentico) dei suoi tempi, mentre l’anti-eroe di Cervantes vorrebbe vivere in quei tempi eroici ma si scontra con lo stemperarsi degli ideali in una modernità che, in nome del pragmatismo e dell’utile, li ha rifiutati. Falstaff e don Chisciotte non sono che due facce di una stessa medaglia: un’elegia sui bei tempi andati in cui si viveva per l’onore. Fu così, guardando al passato attraverso il presente, che entrambi gli autori si assicurarono senza saperlo un posto nel futuro. Ora, indovinate quando morì Cervantes? Lo stesso giorno, il 23 aprile del 1616 (qualche studioso ipotizza il 22, ndr).
Non si capisce perché, ma alcuni di coloro che rifiutano di attribuire l’opera shakespeariana al suo legittimo autore, e cercano invece qua e là altri cervelloni (preferibilmente universitari) che ne siano più degni, ritengono senza ombra di dubbio che il misterioso autore sia proprio Francis Bacon. Ma i due appartenevano a mondi completamente diversi e a due mentalità che non avrebbero potuto essere più lontane; senza contare che Bacon, nella sua fredda e prosaica razionalità, non diede mai segni di particolare sensibilità poetica.
Persino i loro nomi paiono porli in campi diametralmente opposti: mentre “Shake-spear” è un nome da antico guerriero, “Bacon” si limita a evocare il materialismo di chi apprezza la buona tavola. «Mentre l’uno guardava sempre indietro con nostalgia al tempo in cui l’Inghilterra era parte della cristianità», soggiunge Peter Milward, «l’altro guardava sempre avanti, in avida anticipazione, verso la nascita di un Impero Britannico sempre più potente». Tra i due, però, alla fine, non fu Bacon ad aggiudicarsi il titolo di “uomo del Millennio”.
Per spiegare ciò che si interpose tra il mondo di Shakespeare (di Cervantes, di Dante) e il nostro (e di Bacon), T. S. Eliot parlò di «dissociazione di sensibilità». A un certo punto, cioè, nel corso del Seicento, il pensiero intellettuale fu scollato dall’esperienza emotiva. Prima di allora, gli uomini erano dotati di una sensibilità che «poteva divorare qualsiasi tipo di esperienza». Dopo, furono costretti a scegliere tra il pensare e il sentire. Quel 23 aprile del 1616 fu allora uno spartiacque tra passato e futuro, tra tradizione e modernità. Il mattino dopo l’Occidente si risvegliò un po’ più pratico, un po’ più serio, un po’ più povero. E un po’ più “dissociato”.
Fonte: Tempi, 23.6.2016
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L'indissolubilità del matrimonio in un aforisma di S. Josemaria Escrivà de Balaguer
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Approfittare dell'amore di Dio in un aforisma del card. Stefan Wyszyński
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La corruzione del matrimonio è la fine della società
Nella festa del Santo protomartire cappuccino Fedele da Sigmaringen, rilancio questo schietto ed interessante contributo di Ettore Gotti Tedeschi.
Paolo Pilaia, Martirio di S. Fedele, 1729-39, British Museum, Londra |
Martin Engelbrecht, Effige dell'allora beato Fedele da Sigmaringa, 1720-50, Wellcome Collection, Londra |
La corruzione del matrimonio è la fine della società
di Ettore Gotti Tedeschi
Nella Genesi si legge che Dio creò maschio e femmina affinché fossero una sola carne. L’uomo conseguentemente non dovrebbe osare separare ciò che Dio ha congiunto. Cristo successivamente riconferma l’unità e indissolubilità del matrimonio, come stabilito nella Creazione. Gesù Cristo fu piuttosto chiaro con i suoi discepoli quando dichiara l’unità e indissolubilità del matrimonio: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio…”.
Come può esser diventato possibile per un cristiano mettere in discussione le proprietà naturali del matrimonio se vuole continuare a seguire e imitare Cristo? Anche la Chiesa (naturalmente) ha sempre confermato con fermezza la dottrina di indissolubilità del matrimonio. Chi prende atto che è difficile o impossibile ai giorni nostri, per un cattolico, legarsi ad una persona per tutta la vita, rifiutando così l'indissolubilità del matrimonio cristiano e deridendo la fedeltà coniugale, invece di esser capito e scusato, andrebbe pertanto “costretto” misericordiosamente a fare gli esercizi spirituali di S. Ignazio (quelli di un mese!). Ciò al fine di convincerlo della definitività dell’amore coniugale, che ha proprio in Cristo la sua forza e il suo fondamento (Ef, 5-25).
Detta indissolubilità infatti si fonda sul disegno di Dio, manifestato nella Rivelazione, dove Dio stesso vuole e dona l’indissolubilità matrimoniale come frutto, segno ed esigenza, dell’amore assolutamente fedele che Dio stesso ha per la creatura umana e che Gesù vive verso la Sua Chiesa stessa (Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio). Questo vincolo che solo la morte può sciogliere è immagine di quello che esiste tra Cristo ed il Suo Corpo Mistico.
È proprio in questo secolo di degrado morale e dottrinale, di dissoluzione dei valori cristiani, che è necessario far conoscere e comprendere la rilevanza della dignità e stabilità matrimoniale: la salute morale oggi è assolutamente legata alla salute del matrimonio perché è la corruzione del matrimonio a decretare la fine certa della società. Ergo, è incomprensibile che, direttamente o indirettamente, si permetta di mettere in discussione il sacramento del matrimonio.
Gesù Cristo ha elevato il matrimonio a dignità sacramentale e da quel momento il matrimonio si inserisce nel divino oltreché nell’umano. Gesù Cristo propone poi anche un ideale superiore alle mete di perfezione umana trasformando il matrimonio in vocazione soprannaturale. Infatti la prima realtà che Cristo santifica fu proprio il (suo stesso) focolare domestico, la Sua Famiglia. E nella Sua Famiglia Gesù indica la famiglia cui identificarsi, esempio e fondamento della società umana, dove la Famiglia prende una dimensione sacra, dove i genitori prendono una missione “sacerdotale” (S. Tommaso) nella famiglia che va nutrita corporalmente, intellettualmente e spiritualmente. E ciò si realizza (solamente) con il sacramento del matrimonio, indissolubile.
San Marco nel suo Vangelo ci ricorda la provocazione dei farisei a Gesù contrapponendogli la legge mosaica sul ripudio della moglie o marito. Gesù spiega che Mosè aveva dovuto consentire al divorzio a causa della immaturità del popolo. Ma alla fine dell’esilio i profeti avevano già riprovato il divorzio. (Ml 2, 13-16). Scrive appunto il profeta Malachia (Ml 2, 13-16) rimproverando i sacerdoti infedeli di cui Dio non accetta le offerte: “Mi domandate il perché? Ecco la ragione: il Signore è testimone fra te e la donna verso la quale sei stato infedele, eppure era la tua compagna, la donna della tua alleanza. Non li ha fatti Dio in un solo essere, carne e soffio di vita? E quest’unico essere a cosa tende se non a una posterità data da Dio? Se alcuno per odio la ripudia, copre di ingiustizia la sua veste, dice il Signore...”.
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Morale, legislazione della Chiesa e Vangelo della salvezza per le popolazioni moralmente infiacchite in un aforisma del card. Biffi
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