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I terroristi? Possono essere di tutto, ma non islamici. Così vuole il “politicamente corretto”

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Rilanciamo volentieri questo contributo di Paolo Deotto da Riscossa cristiana, che ci fa rileggere le pagine scritte da San Giovanni Bosco sull’Islam; pagine attualissime alla luce dei recenti attentati di Bruxelles, che hanno dimostrato come l’idea stessa di integrazione – così come concepita nell’ambito occidentale – è fallimentare, fondata com’è sulla debolezza e sul sonno dell’Europa, dimentica delle sue radici cristiane (cfr. L.G., Lo Stato Islamico “mostra i muscoli” all’Europa, debole e addormentata, in Corrispondenza romana, 24.3.2016) ed hanno mostrato come la distinzione tra “islam moderato” ed “islam integralista” sia alquanto artificiosa e, diremmo, innaturale dell’islam stesso (cfr. Sergio Rame, Il divieto choc dei capi islamici: “Non pregate per vittime infedeli”, in Il Giornale, 28.3.2016 ed in Riscossa cristiana, 28.3.2016. V. anche Claudio Cartaldo, Il vescovo ora parla chiaro: “Islam e Corano violenti”, in Il Giornale, 29.3.2016, che raccoglie le notazioni del coraggioso vescovo polacco monsignor Tadeusz Pieronek).
In senso analogo a Paolo Deotto si esprimeva, nella sua pagina Facebook, lo scrittore Antonio Socci: «BERGOGLIO E WOODY ALLEN
Pur di non parlare di islamismo, cioè dell’ideologia di morte che produce terroristi e stragi in tutto il mondo, papa Bergoglio oggi ha detto: “Dietro gli attentati terroristici di Bruxelles ci sono i fabbricatori, i trafficanti di armi”. E allora all’origine della strage dell’11 settembre ci sono i fabbricanti di aeroplani? E dietro all’Isis che nel febbraio 2015 ha tagliato la testa a 23 cristiani egiziani innocenti, c’è l’industria dell’acciaio che fabbrica le lame? Si resta basiti davanti a tanta superficialità (che serve solo a non dire la verità): IL PROBLEMA E’ L’IDEOLOGIA DELL’ODIO CHE ARMA I CUORI, NON I MEZZI MATERIALI CHE SI USANO! PERCHE’ SI AMMAZZA ANCHE CON LE NUDE MANI O CON LEGGI CRIMINALI E SENTENZE DI TRIBUNALI CHE CONDANNANO A MORTE ASIA BIBI SOLO PERCHE’ CRISTIANA! Se non ci fosse da piangere, perché ci sono tante vittime innocenti, mi verrebbe da dire che Bergoglio per queste baggianate s’ispira a una celebre battuta di Woody Allen: “La psicoanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani”. Più o meno lo stesso concetto e la stessa profondità di giudizio. Ma la tragedia è che Bergoglio non fa il comico. Fa il Papa ...» (v. qui).

I terroristi? Possono essere di tutto, ma non islamici. Così vuole il “politicamente corretto”

di Paolo Deotto

Rileggiamo le chiare parole di San Giovanni Bosco sull’islam.

I morti di Bruxelles e a Pasqua quelli di Lahore. Ma attenzione, non si parli di terrorismo islamico! Al più, si può parlare di “fondamentalisti”, di califfati “sedicenti”. Il conformismo dei pavidi e degli imbroglioni non conosce confini. Di fronte a una galleria di buffonate, in cui si arriva ad addossare la responsabilità del terrorismo ai “mercanti di armi”, rileggiamo le chiare parole di San Giovanni Bosco sull’islam.

Chi non è giovanissimo ricorda il cupo periodo in cui in Italia imperversarono le “Brigate Rosse”, gruppi di terroristi di ispirazione marxista, che colpivano le persone considerate “nemici della classe operaia”, che dopo ogni atto criminale lasciavano scritti in cui spiegavano la loro origine politica, lo scopo delle loro azioni. Eppure in quegli anni il bigottismo dominante prescriveva che le Brigate Rosse dovevano essere “presunte”, anzi, probabilmente erano gli onnipresenti “fascisti” che organizzavano tutto per screditare la sinistra. La quale sinistra, dominata dal PCI, aveva finanziato il Movimento Studentesco e poi le altre varie forme di criminalità che ne erano derivate e in parte si trovava come l’apprendista stregone, ma in parte aveva tutto l’interesse a continuare a favorire il terrorismo per tenere sulla corda gli svirilizzati democristiani.
Comunque i criminali rossi, per quanto si sgolassero a rivendicare la loro origine marxista, “non” dovevano essere rossi.
Ora accade un fenomeno simile per il terrorismo islamico. Naturalmente lo sdegno è unanime, la condanna è unanime, poi il repertorio prevede il dolore, la rabbia e la ferma volontà di non cedere al terrorismo (questa non l’ho mai capita. Cedere cosa?). Ma il repertorio prevede anche che non si parli di terrorismo islamico, che non si faccia l’ovvio collegamento con una pseudo-religione che, nata dalla violenza, esprime violenza. È nella sua stessa essenza. No, siamo in piena orgia di dialogo e quindi, se si parla di califfato, questo è “presunto” (e invece il califfato mondiale è proprio uno degli impegni del bravo islamico), come afferma la signora Boldrini Laura (clicca qui); e aggiunge che per combattere il terrorismo bisogna addirittura favorire l’immigrazione. Certo, la signora Boldrini va capita. È in un’età critica per una donna (55 anni al 28 aprile), le rughe iniziano a farsi strada, in particolare quelle sul collo si fanno più evidenti, e quindi un turbamento generale può facilmente portare a straparlare. Però, le castronerie sono e sempre restano castronerie.
Oppure abbiamo Bergoglio, che ogni tanto condanna le stragi di cristiani, bontà sua, ma si guarda bene dal parlare di terrorismo islamico. Certo, anche Bergoglio va capito, è umano voler difendere i propri amici e quindi cercare di minimizzare o nascondere le loro colpe, ma, suvvia, attribuire la colpa del terrorismo ai mercanti di armi (clicca qui) è un tantino comico. Anzitutto i mercanti di armi hanno il loro vero business nelle grandi forniture. I pochi chili di esplosivo o i pochi mitragliatori con cui fare qualche bella strage rappresentano gli spiccioli e, per la cronaca, restando in Europa, nacque un fiorente mercato d’armi “fai da te” dopo il dissolvimento dell’esercito jugoslavo con relativo saccheggio di armerie. Ma, a parte ciò, non sono certo i “mercanti di armi” a spingere fanatici assassini a farsi saltare in aria. Il delinquente professionale tutela sé stesso. Il delinquente islamico, imbevuto di falsità, arriva a un punto di demenza tale da uccidere uccidendosi.
Su questo tema, abbiamo letto ieri un articolo, in buona parte condivisibile (clicca qui), di Vittorio Feltri. E a proposito delle curiose elucubrazioni da Santa Marta, Feltri scrive:


Comunque sia, il conformismo e l’ignoranza dilaganti impongono di non parlare di terrorismo islamico, perché l’islam è buono, è bello, è bravo. Non è ben chiaro se sia buono, bello e bravo come il luteranesimo, ce lo faranno sapere. Probabilmente sono buoni, belli e bravi ex aequo, perché la nuova religione mondiale è in via di formazione e prevede il “todos Caballeros”. In attesa comunque di aggiornamenti, può essere utile rileggere una sintesi semplice, chiara e senza pruriti buonisti sull’islam. La scrisse San Giovanni Bosco che, essendo cattolico e santo, non aveva paura a parlare chiaro. Parlava chiaro perché gli interessava solo difendere e diffondere la Vera Fede. Non aveva tanti interessi mondani da coltivare, come i quattro cialtroni che in questo tempi sciagurati infestano e distruggono la civiltà.
Pubblichiamo qui di seguito le pagine sull’islam contenute nel libro “Il cattolico istruito nella sua religione”, pubblicato nel 1853 dal Sacerdote Giovanni Bosco, prete cattolico. Nel libro si immagina il colloquio tra un padre e i figli; col padre, che istruisce i figli sulle verità di Fede, interloquisce il figlio maggiore. Buona lettura a tutti, e preghiamo il Signore che ci doni presto santi sacerdoti come Giovanni Bosco.










Anima immortale o resurrezione dei morti? Et-et, cioè tutte e due

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Rilanciamo volentieri, in questo mercoledì di Pasqua nel quale tradizionalmente erano benedetti gli Agnus Dei, quest’interessante contributo tratto da Riscossa cristiana.


Anima immortale o resurrezione dei morti? Et-et, cioè tutte e due

“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10, 28).

di Carla D’Agostino Ungaretti

L’esortazione rivoltaci da Gesù, nel Discorso Apostolico secondo Matteo, è piena di significati e di conseguenze sui quali l’umanità dovrebbe seriamente tornare a riflettere, soprattutto in questa travagliata epoca che ha determinato il trionfo del materialismo e l’affievolimento (per non dire la totale scomparsa) del senso del peccato[1]. Due sono i punti salienti di quell’esortazione: da un lato, l’immortalità dell’anima e da un altro, l’esistenza del demonio e dell’inferno. In questa mia riflessione, non certo da teologa o da esegeta ma da cattolica “bambina”, mi soffermerò sul primo dei due problemi, rimandando il secondo a un’occasione futura, sempre Deo favente.
Con il termine “anima” si intende comunemente l’elemento spirituale dell’uomo che, a differenza di quello corporeo, non conoscerebbe l’esperienza della morte. È un tema particolarmente coinvolgente, oltre che affascinante, perché è strettamente connesso con quello che ciascuno di noi immagina sia il nostro destino escatologico.  Che cosa ci aspetta dopo la morte fisica? L’annientamento eterno, indistinto e inconsapevole, un sonno profondo dal quale non ci sarà risveglio, come sostengono i materialisti e i laicisti più sfegatati (e in questo caso non dobbiamo aspettarci nulla, perché saremo completamente incoscienti), ovvero la sopravvivenza di quella componente totalmente immateriale del nostro essere che i credenti chiamano “anima” e i non credenti “mente”, anche se i due termini non sono esattamente sinonimi? E se c’è una sopravvivenza, ci aspetta il premio per la nostra vita virtuosa e la nostra fedeltà a Dio o il castigo eterno per i nostri peccati? Il problema è enorme e non può essere liquidato tanto facilmente non pensandoci mai come fanno molti, perché allora ci accomuneremmo agli animali[2].
Lo studio dell’anima è affascinante, come dicevo poc’anzi, non solo per l’ “homo religiosus”, ma anche per l’antropologo, perché gli consente di studiare le modalità con le quali l’essere umano di tutti i tempi e di tutte le latitudini ha immaginato il suo destino dopo la morte, segno che l’aspirazione a una qualche forma di immortalità è sempre stata presente nel cuore e nella mente degli uomini. Infatti tutte le civiltà e tutte le religioni ritengono che “qualche cosa” dell’essere umano sopravviva dopo la morte fisica.
Le neuroscienze moderne però creano alcuni problemi al riguardo e pretendono, senza peraltro riuscirci, di trovare soluzioni totalmente materialistiche. Secondo Edoardo Boncinelli, un primo e più naturale significato del termine “anima” sarebbe “una sorta di energia vitale e di principio organizzatore che permea gli esseri viventi,  ne sostiene l’attività e ne coordina le funzioni”[3] . Inoltre egli riporta, condividendola, l’opinione di F. Crick, secondo il quale la parte più immateriale e, innegabilmente, spirituale dell’uomo sarebbe da identificare con la capacità di tradurre un impulso elettrico nel suo significato. La mente – termine che molti preferiscono usare invece di “anima” – trasformerebbe qualcosa di implicito (neurostato) in qualcosa di esplicito(psicostato). Il passaggio da uno stato all’altro è detto “binding”, ma Boncinelli riconosce onestamente che gli scienziati non sanno che cosa sia esattamente, né come avvenga quel passaggio. Se esso si identifica con una presa di coscienza collettiva e può essere interpretato come capacità di dare un significato, allora si può pensare che esso abbia a che fare con la capacità linguistica dell’uomo. Boncinelli distingue l’autocoscienza, cioè la capacità dell’uomo di raccontare in parole quello che sta vivendo, dalla coscienza fenomenica, di carattere cognitivo – affettivo che si fa fatica a comunicare adeguatamente. Poiché il potersi esprimere implica capacità di progettazione e azione, tale capacità secondo lui sarebbe la caratteristica dell’autocoscienza[4].
“Sarà … !” commenta, certamente non persuasa, la vostra amica cattolica “bambina”. Ma piuttosto si domanda: “Chi ha “progettato e instillato” nel cervello umano quell’ “energia vitale, o principio organizzatore” che gli scienziati non sono neppure riusciti a capire come funzioni  e, tanto meno, riuscirebbero a fabbricare  in laboratorio, se non Qualcuno la cui intelligenza trascende enormemente le capacità umane?”  A questa domanda gli scienziati non rispondono.
Ma come è stato trattato nei secoli il problema dell’anima e dello spirito – termini che io, invece, preferisco usare – di quelle parti, cioè,  impalpabili della persona umana che non si vedono ma che è impossibile negare, perché sono sempre stati capaci di produrre effetti straordinari e, loro sì, ben visibili?[5] Al tempo, ormai purtroppo lontano, del mio liceo classico – frequentato come usava una volta, ossia sul serio, e non secondo la deleteria moda post sessantottina – la filosofia greca mi aveva particolarmente appassionato. Infatti, avendo io ricevuto una rigorosa educazione cattolica basata sul Catechismo di S. Pio X – fatto come tutti sanno di domande e risposte, facilissime da memorizzare, che mi aveva insegnato come, dopo la morte, l’anima non muore col corpo, ma va in Paradiso o all’inferno –   inizialmente avevo trovato nei grandi filosofi greci, e soprattutto in Platone, una straordinaria assonanza con il messaggio cristiano, come se Dio avesse instillato in quella grande mente, una sorta di anteprima di quella Parola che sarebbe stata pronunciata secoli dopo.
E infatti un po’ è avvenuto davvero così, anche se soltanto un po’: infatti già Platone, nel Fedone, aveva intuito che l’anima è razionale, spirituale e immortale, tanto che la filosofia patristica aveva trovato nella sua dottrina una straordinaria armonia con la frase di Gesù che ho citato in epigrafe. Ma più tardi, progredendo negli studi e nel cammino di fede, ho capito che le cose non stanno esattamente in questi termini, o meglio l’anima è, sì, immortale, ma è tale perché così Dio, creandola, l’ha voluta e non già perché essa vive, eterna ed increata, nel Mondo delle Idee ed esce dalla sostanza di Dio per entrare in un corpo, come credeva Platone. Secondo lui, filosofo per molti versi affascinante a causa delle poetiche immagini mitologiche di cui si serve per illustrare il suo pensiero, essendo l’anima totalmente distinta dal corpo, l’uomo non può essere costituito da corpo e anima insieme, ma “è” l’anima, e solo quando morendo si sbarazza del corpo, egli può godere del suo destino immortale.
Invece, a differenza di Platone, secondo il pensiero ebraico dell’Antico Testamento Dio crea l’anima dal nulla, ed essa forma un tutt’uno con il corpo. Nell’Antico Testamento non esiste alcuna forma di dualismo tra anima e corpo, infatti sappiamo che per gli antichi Patriarchi l’idea di immortalità e di premio dopo la morte coincideva con la speranza di avere una lunga discendenza. Disse il Signore ad Abramo: “Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande … Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”. E soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore che glielo accreditò come giustizia”  (Gen 15, 1 ss). Perciò  in Abramo, nei Patriarchi  e nei libri successivi alla Genesi non si rintraccia una chiara visione della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Anzi: “Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità … tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere” , afferma il Qoèlet (Eccle 3, 20)[6] , ma ciò non significa che esso riveli una sorta di antropologia materialistica, perché l’uomo è anche spirito (in ebraico “ruah”). Dio solo è la fonte della vita e l’uomo vive perché ha ricevuto da Lui il soffio vitale, grazie al quale è capace di entrare in relazione con Lui. Ma il termine più usato nella Scrittura è il “cuore”, sede dei sentimenti e dei pensieri, sede della vita, parte del cervello, fattore di unità dell’uomo .“Allevia le angosce del mio cuore / liberami dagli affanni”  implora il Salmo 25, 17 .
Ricordo che al liceo il mio professore di filosofia faceva notare ai suoi allievi il diverso atteggiamento di Socrate e di Gesù di fronte alla morte. Socrate, secondo  Platone, bevve la cicuta deliberatamente e serenamente perché per lui la morte significava liberazione dalla prigionia del corpo; invece Gesù, vero uomo oltre che vero Dio, ebbe paura  della morte, come ce l’hanno tutti gli uomini di questo mondo. Giunto al Getsemani, “cominciò a sentire paura e angoscia … e diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. (Mc 14, 34). “Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte … ” (Eb 5, 7). Infatti la morte è un evento orribile perché è la conseguenza del peccato, cioè della disobbedienza volontaria a Dio, pericolo dal quale Dio stesso aveva chiaramente messo in guardia Adamo ed Eva (Gen 2, 17). Il peccato, perciò, ha provocato la morte, cioè la  separazione eterna dal Padre che invece è il Dio della Vita. Gesù accetta la morte solo perché in essa riconosce la volontà del Padre per la redenzione dell’uomo[7]; perciò i cristiani tengono ben distinto il concetto dell’immortalità dell’anima, tipico della filosofia greca, da quello  della resurrezione dei morti che, rispetto al primo,  per opera di S. Paolo, rappresenta un notevole passo avanti.
Anche Paolo, nelle lettere, rivela una visione unitaria dell’uomo che sarebbe composto addirittura da tre elementi: spirito, anima, corpo (1Ts 5, 23). L’unica opposizione che egli esprime è tra quella tra “sarx” (carne), con significato negativo indicante la parte istintuale e passionale dell’uomo, e “soma” (corpo), indicante l’uomo tutto intero, luogo in cui interagiscono la parte materiale e quella spirituale. Nella visione paolina l’uomo è un corpo animato o un’anima in quanto corpo: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente , santo e gradito a Dio” (Rm 12, 1). Ma il corpo, che è composto di carne e anima insieme, vive in conflitto con lo spirito. Lo spirito spinge l’uomo verso Dio, ma il corpo sente la tentazione della carne: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste” (Gal 5, 16, 17). Ma come mai avviene tutto questo, dato che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio? Perché la vita  dell’uomo è stata contagiata per sempre dal peccato originale e può guarire e tornare all’originaria comunione con Lui non liberandosi del corpo (come diceva Platone), né con l’osservanza della legge (come nell’Antico Testamento) e tanto meno con le sue sole forze – come sostenevano la gnosi e l’eretico Pelagio, la cui dottrina fu dimostrata totalmente errata sia teologicamente che filosoficamente  da S. Agostino – ma solo per i meriti dell’incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo.
Ciò nonostante, l’uomo rimane libero di peccare perché in lui rimane sempre la tendenza a soddisfare la carne; perciò la vera liberazione, secondo Paolo, non avverrà dal corpo (come diceva Platone) ma sarà la liberazione del corpo, tutto intero, da ciò che gli impedisce di diventare spirituale, e dalla morte, che è la più temibile conseguenza del peccato. Infatti l’aspetto qualificante del Nuovo Testamento non è l’immortalità dell’anima – sulla quale non si discute perché, come ha detto Gesù,  non può essere uccisa – ma la resurrezione dei corpi.
La visione biblica e patristica dell’uomo presenta di lui una visione unitaria: l’anima conferisce una dimensione all’uomo tutto intero ed è l’uomo tutto intero ad essere redento e salvato nella vita nuova donatagli da Dio attraverso Cristo. Paolo stesso constatò di persona la differenza culturale con l’ellenismo quando si presentò davanti ai colti e smaliziati Ateniesi dell’Areopago per parlare loro della Resurrezione di Cristo: “Ti sentiremo su questo un’altra volta” gli risposero i più educati, mentre altri lo derisero, “ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti fra questi anche Dionigi  membro dell’Areopago e una donna di nome Damaris” (At 17, 34). Le donne, a cominciare da Maria di Nazareth e da sua cugina Elisabetta, sono sempre state più ricettive degli uomini alla Parola di Dio.
Il Simbolo Apostolico, professione di fede dell’inizio del III secolo, parla di “resurrezione della carne”, mentre il Simbolo Niceno – Costantinopolitano – che recitiamo ogni domenica durante la S. Messa ed è una rielaborazione del primo per opera del Concilio di Costantinopoli del 381- preferisce l’espressione, più completa, “resurrezione dei morti” a significare, cioè, l’uomo tutto intero, composto di anima e di corpo. Infatti nella resurrezione la creazione intera viene ricondotta, per intervento divino, a un nuovo progetto cosmico, nel senso etimologico greco di “ordine”, “armonia”.  “La creazione stessa … nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio … tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto … anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. (Rm 8, 22 ss)[8] .
Allora crolleranno le limitazioni dello spazio e del tempo nelle quali ora viviamo immersi, saremo come apparve Gesù ai discepoli lo stesso giorno  della Resurrezione “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano”, come fu visto da Tommaso otto giorni dopo, sempre “a porte chiuse”(Gv 20, 19- 26) e vedremo Dio faccia a faccia.
E che ne è dell’anima dopo la nostra morte e finché il resto dell’umanità è ancora immersa nelle dimensioni dello spazio e del tempo? Se l’anima è immortale, come ha detto Gesù, non possiamo credere che muoia anch’essa, così come muore fisicamente il corpo, in attesa di risorgere con esso alla fine dei tempi. La Chiesa ha sempre impegnato la sua autorità di “Mater et Magistra” nell’insegnarci che le anime dei grandi Santi, che in duemila anni di storia hanno vissuto e operato nel solco tracciato dalla Parola di Dio osservandola in grado eroico, ora sono presso di Lui, vedono Lui faccia a faccia e vedono e assistono noi con le loro preghiere. Ma non solo loro, anche se solo a loro è riservato il culto pubblico: il grande mistero della Comunione dei Santi – cioè di tutti coloro, anche i più ignoti, le cui anime si sono salvate – ci insegna che possiamo e dobbiamo pregare per loro, nella certezza che anche loro continuano ad amarci e a proteggerci, come le persone che abbiamo amato e che ci hanno preceduto nell’incontro con Dio.
Ho condotto questa mia umile e necessariamente incompleta riflessione da cattolica “bambina” sull’anima e sulla Resurrezione promessaci da Cristo, Bibbia alla mano e davanti agli occhi, non certo elaborati trattati filosofici e teologici, ma il testo di filosofia del mio antico liceo classico, come si conviene appunto a una cattolica “bambina”. Perciò non pretendo di aver detto nulla di eccezionale ma, mentre ringrazio il Signore per avermi fatto il dono della fede, spero che Egli  si serva delle mie povere parole per instillare nel cuore e nella mente di chi prova la terribile tentazione del dubbio, qualche piccolo seme di speranza, perché “nella speranza siamo stati salvati … e se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8, 24 – 25).

[1] Con grande soddisfazione di Eugenio Scalfari che, come grande risultato delle sue frequentazioni personali con Papa Francesco, ha messo più volte in risalto questo affievolimento.

[2] Aldo Grasso riferisce che nell’Enciclopedia Einaudi 1977 – 1982,  monumento allo scientismo novecentesco politicamente corretto, compare la voce “corpo” ma non la voce “anima”, perché (secondo l’editore) compito dell’Enciclopedia è “rischiarare la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione attraverso conoscenza e scienza” Cfr. IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016, pag. 4. Il Prof. Grasso aggiunge di aver letto la voce “corpo” e di averci capito poco, segno (aggiungo io) che neppure il compilatore di quella voce ha le idee chiare in proposito.

[3] Cfr. E. Boncinelli, I segreti della mente? Molecole, cellule e circuiti nervosi”, IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016, pag. 4.

[4] Cfr. E. Boncinelli, Quel che resta dell’anima, Milano, Rizzoli, 2015, pag. 29 e seguenti.

[5] Basti pensare a quello che sono stati capaci di fare in ogni tempo i  grandi Santi della Chiesa, lasciando che lo Spirito Santo guidasse le loro anime sulla strada tracciata da Dio.

[6] Mentre rifletto su questo versetto del Qoèlet, mi viene in mente che esso dovrebbe piacere agli animalisti che, come è noto, negano la superiorità dell’uomo rispetto agli animali. Chissà che, leggendolo, non arrivino pian piano ad apprezzare la Sacra Scrittura approdando prima o poi al Cristianesimo? Le vie del Signore sono infinite e forse questo potrebbe essere un “preambulum fidei”, come dice S. Tommaso d’Aquino. Ma forse lavoro di fantasia e mi do troppe arie da filosofa consumata …

[7] Anche l’Apocalisse presenta la morte come l’ultima nemica che sarà sconfitta (20, 14).

[8] Questa notissima frase della Lettera ai Romani mi offre lo spunto per un’ulteriore riflessione, forse poco ortodossa, ma allora mi aspetto di essere corretta da chi ne sa più di me. E’ noto che le piante e gli animali non hanno un’anima immortale quindi sarebbero fatti di pura materia, ma se è vero che anche la materia spera di essere redenta alla fine dei tempi, non possiamo sperare che anche per loro, sue creature, Dio abbia progettato una sorta di resurrezione finale, senza ritenere necessario rivelarlo all’uomo? Sono stata molto criticata per questa mia ipotesi, ma io penso che se Dio ha creato il mondo per amore, non può abbandonare nel nulla eterno quelle altre sue creature, ontologicamente  inferiori all’uomo e del tutto incolpevoli del peccato da lui commesso.

Con i Sacramenti non si scherza - Presentazione a Roma dell'ultimo libro di don Nicola Bux

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Giorni fa, notiziando della pubblicazione dell’ultima fatica di don Nicola Bux, Con i sacramenti non si scherza (Cantagalli, 2016) (v. qui), con introduzione di Vittorio Messori, avevamo preannunciato che il libro sarebbe stato presentato anche a Roma. Per cui, dopo Lecce, in cui la presentazione sarà il prossimo 2 aprile (v. qui), è oggi noto il programma per la Capitale, che riprendiamo dal sito del Coordinamento nazionale Summorum Pontificum.

CON I SACRAMENTI NON SI SCHERZA


Sarà presentato fra breve a Roma il nuovo libro di Don Nicola Bux, Con i sacramenti non si scherza (Cantagalli, 2016), che fa seguito, dopo quasi sei anni, al notissimo Come andare a Messa e non perdere la fede (Piemme, 2010). Come tutti ricordano, il libro del 2010 ebbe un successo editoriale particolarmente significativo, e lanciò tra il grande pubblico un convincente grido di allarme circa la grave perdita di consapevolezza liturgica dilagante nella Chiesa, facendone prendere intelligenza a molti, laici ma anche sacerdoti, e dimostrando in termini accessibili ad ogni lettore la verità della notissima convinzione del cardinal Ratzinger: «la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia».

Non stupisce affatto, dunque, che il libro di Don Bux, pur non essendo specificamente dedicato alla liturgia tradizionale, avesse trovato allora un’accoglienza particolarmente favorevole tra i fedeli legati alla Messa antica; Messa che Don Bux ama sinceramente, celebra spesso e diffonde con passione. D’altra parte, i fedeli del Populus Summorum Pontificum sanno bene, per diretta esperienza, che la liturgia tradizionale è il solo rimedio dimostratosi davvero efficace per contrastare le innumerevoli derive liturgico-teologiche che non lasciano indenni quasi nessuna parrocchia e nessuna celebrazione.

Con questo suo nuovo lavoro, Don Bux giunge ad arricchire ulteriormente la sua denuncia del grave male liturgico che colpisce oggi la chiesa, e che possiamo comprendere, come ci ricorda l’autore, attraverso le parole di Isaia, citate espressamente da Gesù: «questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani» (Is 29,13 in Mc 7,6-7).

Non si tratta, naturalmente, di una denuncia fine a se stessa: lo zelo amaro è quanto di più lontano non solo dagli intenti di Don Bux come autore, ma, soprattutto, dalla sua personalità e dalla carità sacerdotale che lo contraddistingue. Egli è un eccellente diagnosta, e sappiamo tutti come la buona diagnosi sia la premessa ineludibile della cura di ogni malattia, e, quindi, anche delle malattie, spirituali prima ancora che liturgiche, che affliggono la Chiesa. Gli scritti di Don Bux, infatti, indicano anche un indirizzo terapeutico: se per tanti versi ed a tanti pastori sembra oggi indispensabile una Chiesa in uscita, bisogna prestare anche grande attenzione a chi spera, prega e, con l’aiuto del Signore, si adopera perché la Chiesa prima di tutto rientri in se stessa.

Con i sacramenti non si scherza, che si avvale dell’introduzione di Vittorio Messori, sarà presentato mercoledì 6 aprile, alle h. 17,30, presso l’Hotel Columbus, in via della Conciliazione 33, a Roma. Interverranno S. E. Rev.ma il Signor Cardinale Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, S. E. Rev.ma il Signor Cardinale Raymond Leo Burke, Cardinale Patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta, e il Dott. Ettore Gotti Tedeschi, che discuteranno del libro con i giornalisti Paolo Rodari, de La Repubblica, e Guillaume Ferluc, di Paix Liturgique (nonché, ci piace ricordarlo, stretto collaboratore del CNSP e Segretario Generale del CISP, che organizza ogni anno il grande pellegrinaggio internazionale a Roma del Populus Summorum Pontificum). L’incontro sarà moderato da Jacopo Coghe, di “Generazione Famiglia”.

“Rudi amíctu, nudis pédibus incédens, humi cubábat. Cibi abstinéntia fuit admirábili: semel in die post solis occásum reficiebátur, et ad panem et aquæ potum, vix áliquid ejúsmodi obsónii adhibébat, quo vesci in Quadragésima licet: quam consuetúdinem, ut fratres sui toto anni témpore retinérent, quarto eos voto adstrínxit” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI FRANCISCI DE PAULA, CONFESSORIS ET ORDINIS MINIMORUM INSTITUTORIS

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Questa festa in onore dell’umile taumaturgo della «Carità» addormentatosi nel Signore a Plessis-lès-Tours, in Francia, il 2 aprile 1507, beatificato nel 1513 e canonizzato nel 1519 dal papa Leone X, ebbe vicende travagliate. In effetti, fu dapprima introdotta nel 1557 come semidoppia. Soppressa da san Pio V nel 1568, Sisto V la ristabilì nel 1585 come doppia; Clemente VII la riportò al rito semidoppio nel 1602. Paolo V la elevò nuovamente al rito doppio nel 1613 come festa di fondatore di ordine religioso.
Due templi insigni, nella Città santa, ricordano il soggiorno che vi fece san Francesco di Paola, quando, per ordine di Sisto IV, si recò in Francia alla corte di Luigi XI, all’epoca morente, colpito da grave malattia, ed il quale aveva richiesto al Pontefice che gli inviasse qualche uomo santo in grado di guarirlo. La chiesa dedicata alla Santissima Trinità sull’antico Collis ortorum o Pincio, fu costruita nel 1495, da Carlo VIII, re di Francia, per i religiosi Minimi (cfr. Giuseppe Caridi, Francesco di Paola. Un Santo europeo degli umili e dei potenti, Salerno editrice, Roma, 2016, p. 199), laddove il loro Fondatore avrebbe predetto che sarebbe divenuta un giorno la sede della sua famiglia a Roma. È la famosa chiesa di Trinità dei Monti(MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 339-341; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 543. Sulla predizione di san Francesco di Paola, cfr. Bollandisti, Supplementum historicum ad Acta S. Francisci de Paula, collectum ex variis auctoribus, cap. IV, S. Francisci de Paula discessus ex Italia miraculis illustratus, § 32, in Acta Sanctorum, Aprilis, vol. X, Dies II, Paris-Roma 1865, p. 204).
Un secondo tempio, sotto il titolo di San Francesco da Paola, si eleva sull’Esquilino, vicino al titolo di Eudossia e, come la Santa Trinità sul Pincio, è rimarchevole per le sue opere d’arte e la ricchezza dei suoi marmi (Armellini, op. cit., pp. 207-208). Nel suo convento vicino abitò, per molti anni, il venerabile Bernardo Maria Clausi.
Il nostro Santo è famoso, oltre che per gli strepitosi miracoli ottenuti per sua intercessione, anche per la pratica penitenziale. Per l’ordine che fondò, egli impose, oltre ai classici voti di povertà, obbedienza e castità, anche un quarto voto, il c.d. voto quaresimale perpetuo, cioè la promessa solenne di nutrirsi dei soli cibi previsti nelle regole antiche dalla Chiesa per il tempo di Quaresima (e che sono tuttora in uso nella Chiesa orientale), ossia niente carne e suoi derivati, latticini, uova e grasso animale sia dentro che fuori il convento. Il Santo non specifica altri cibi di cui nutrirsi. Dai processi di canonizzazione, tuttavia, si comprendono gli alimenti di cui l’eremita si nutriva: vegetali vari come fave, ceci, piselli, lattuga, minestre di legumi, pane, frutta come fichi, castagne, melograni, noci, prugne, acqua fresca, qualche sorso di vino, quando stava male interrompeva questa dieta e si nutriva di pesce. Nelle Regole per i suoi frati prescrive appunto il pesce, a condizione che sia molto semplice, e di poter nutrirsi di carne in caso di malattia grave e con prescrizione del medico (cfr. Debora Ruffolo – Angela Altomare, A tavola con San Francesco di Paola, in PdV – Parola di Vita, 23.11.2015).
Tali regole sono state modificate – ahimé – alterando lo spirito del Santo Fondatore con le innovazioni del Vaticano II negli anni ’80 del secolo scorso, prevedendosi la possibilità di cibarsi dei latticini e di tutti i derivati della carne ed una maggiore libertà per i frati di cibarsi di carne quando sono fuori convento.
La messa di san Francesco di Paola è quella del Comune dei semplici Confessori, come il 31 gennaio, ma le collette e la prima lettura sono proprie.
La prima preghiera mette in rilievo l’umiltà profonda del taumaturgo di Paola, umiltà che attribuì alla famiglia religiosa istituita da lui il titolo di Ordine dei Minimi.
La prima lettura è simile a quella assegnata alla festa di san Paolo, primo eremita, il 15 gennaio. Bisogna donare tutto per possedere tutto, cioè dare tutto il creato e la creatura per guadagnare così il Creatore.
La colletta seguente s’ispira ad un testo antico e fa allusione all’uso primitivo dei fedeli che, all’offertorio, presentavano essi stessi al sacerdote celebrante il pane ed il vino necessari al sacrificio.
L’umile semplicità ed il candore dell’anima sono le condizioni più propizie perché la grazia di Dio possa agire senza incontrare ostacoli. Così si spiega il numero straordinario di prodigi operati da san Francesco di Paola, anche di quelli senza uno scopo di grande importanza apparente, come, per es., il giorno in cui, a tavola del re di Napoli, risuscitò dei pesci già cotti e serviti (cfr. Bollandisti, op. cit., § 30, p. 203. Cfr. anche LibellusDe vita et miraculis S. Francisci, scriptus ab uno ex disciplis, quadriennio ante Sancti obitum, ex Ms. Gallico Conventus Bruxellensis, cap. II, Conventus Pauliani exordia: Virtutes S. Francisci: miracula in dicto conventu facta, § 12, ivi, p. 110. L’A. anonimo ambienta l’episodio della resurrezione dei pesci non a Napoli, ma nel convento calabrese del Santo, dinanzi ai suoi confratelli. Comunque, del miracolo vi sono le deposizioni rese da vari testimoni, tra i quali quella di tale Maestro Pietro Gennensio, resa nel processo informativo canonico cosentino, il 18 luglio 1512: Processus informativi ad Canonizationem, cap. VI, Alii Pauliani testes eodem die auditi, § 48, ivi, p. 131) e dall’abate basiliano del monastero di S. Gregorio, tale Ambrogio Copula, nel 1517 (LeoneX, Bulla beatificationis, Processus Calabricus, cap. IX, Processus factus in casati S. Blasii, § 128, ivi, p. 183). Nel suo amore umile e fiducioso, il nostro Santo possedeva il cuore di Dio ed, ispirandosi alla carità, la piegava dove voleva.


Autore ignoto, S. Francesco di Paola, XVI sec., Chiesa del SS. Salvatore, Bologna

Lavinia Fontana, S. Francesco di Paola benedice il figlio di Luisa di Savoia, 1590, Pinacoteca nazionale, Bologna


Pietr Paul Rubens, Miracoli di S. Francesco di Paola, 1627-28, Paul Getty Museum, Malibu


Bartolomé Esteban Murillo, Visione di S. Francesco di Paola, 1670 circa, Paul Getty Museum, Malibu

Bartolomé Esteban Murillo, S. Francesco di Paola, XVII sec., museo del Prado, Madrid


José Jiménez Donoso, Visione di S. Francesco di Paola, 1690, museo del Prado, Madrid

Juan de Parla, S. Francesco di Paola in preghiera, 1691, museo del Prado, Madrid

Ambito di Jusepe de Ribera, S. Francesco di Paola, 1640 circa, Hermitage, San Pietroburgo

Ambito di Jusepe de Ribera, S. Francesco di Paola, XVII sec.


Benedetto Luti, S. Francesco di Paola attraversa lo stretto di Messina sul mantello, 1694, Museo Regionale, Messina

Juan de Espinal, Gli ugonotti bruciano il corpo di S. Francesco di Paola il 13 aprile 1562, XVII sec.

Lucas Valdés, Gli ugonotti bruciano il corpo di S. Francesco di Paola il 13 aprile 1562, XVIII sec., Museo de Bellas Artes de Sevilla, Siviglia


Lucas Valdés, Ritratto miracoloso di S. Francesco di Paola completato da un angelo, 1700-10, Museo de Bellas Artes de Sevilla, Siviglia

Pietro Bianchi (detto Il Creatura), Estasi di S. Francesco di Paola, 1728 circa, musée du Louvre, Parigi


Sebastiano Ricci, S. Francesco risuscita il bambino morto di sua sorella, 1733, San Rocco, Venezia

Giandomenico Tiepolo, Vergine in gloria tra i SS. Francesco di Paola e Lorenzo, 1775-80, Musée des Beaux-Arts, Strasburgo

Fundone (attrib.), Lactatio di S. Francesco di Paola alla presenza di S. Leonardo, 1706 circa, Castello, Melfi

Paolo de Matteis (attrib.), S. Francesco di Paola, XVIII sec., collezione privata



Anonimo, S. Francesco di Paola riceve la Charitas, XVIII sec., collezione privata

Francesco Fontebasso, S. Francesco di Paola in meditazione ed un suo confratello, XVIII sec., Musée des Beaux-Arts, Bordeaux

Nicolas Gosse, Luigi XI ai piedi di S. Francesco di Paola, 1843, Musée Anne-de-Beaujeu, Moulins

Antonio Cifrondi, S. Francesco di Paola, XVIII sec., collezione privata

S. Francesco di Paola ed un suo compagno attraversano lo stretto di Messina a bordo del mantello del Santo

Non è qui! E' Risorto ! Nel cuore della cristianità: la Basilica del Santo Sepolcro tra archeologia, storia e religione

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La miracolosa reliquia delle Sacre Spine di Cristo

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Abbiamo già avuto modo di parlare delle reliquie della Corona di Spine di Gesù (v. qui, qui e qui).
In occasione dell’ultima coincidenza della festa dell’Annunciazione col Venerdì Santo diverse Sacre Spine, sparse per l’Italia ed anche all’estero, sono “fiorite” o si sono insaguinate o si sono semplicemente arrossate.
Tra queste, oltre a quella di Andria, che abbiamo già segnalato, vi è stata in particolare quella di San Giovanni Bianco, in Val Brembana, nel bergamasco: qui l’ultima volta che si verificò il prodigio della Spina, che approdò in questo luogo nel 1495, fu nel 1932 (giacché nel 2005 nulla sarebbe avvenuto). La particolarità è che qui il prodigio non si è verificato il Venerdì Santo, ma la sera di Pasqua, come è stato anche annunciato ufficialmente dal vescovo di Bergamo: v. Andrea Lavelli, La Sacra Spina della Passione è tornata a fiorire, in La nuova bussola quotidiana, 31.3.2016; Mad. Ber., Mesi sotto osservazione (dal notaio) Poi sulla Sacra Spina sono comparse le prime gemme, in Corriere della sera – Bergamo, 29.3.2016 (per le foto v. Le gemme della Sacra Spina, ivi); Davide Agazzi, La Sacra Spina fiorisce, campane a festa a San Giovanni Bianco: “È miracolo” come nel 1932, in Bergamonews, 28.3.2016. V. anche il comunicato ufficiale del Vescovo di Bergamo, in Diocesi di Bergamo, 28.3.2016.
















Rilanciamo, in questa Domenica in Albis, un contributo di Cristina Siccardi.

La miracolosa reliquia delle Sacre Spine di Cristo

di Cristina Siccardi

Nella Basilica di San Nicola, nel cuore della città antica di Bari, e nella Cattedrale di Andria, sempre in Puglia, sono conservate due Sacre Spine della Corona di Cristo ed entrambe sono legate ad un evento miracoloso, che anche quest’anno, il 25 marzo u.s. si è puntualmente verificato, ma con fenomeni singolari, rispetto alle volte precedenti, per entrambi i casi.
Si tratta di un prodigio divino straordinario: ogni volta che il 25 marzo, giorno in cui ricorre la memoria liturgica dell’Annunciazione, cade nel giorno del Venerdì Santo, le Spine rosseggiano nella tonalità del rubino. Ad Andria il miracolo fu osservato per la prima volta nel 1633: le macchie violacee, presenti nella Spina, si ravvivarono, fino a farsi «fresco sangue». La scorsa volta il fatto celeste era avvenuto il Venerdì Santo del 2005, mentre le due date coincideranno nuovamente nel 2157.
Nella Legenda aurea (raccolta medievale di biografie agiografiche) di Jacopo da Varagine, frate domenicano e Vescovo di Genova, si narra che la Croce sulla quale morì Gesù Cristo, come pure la Corona di spine e altri strumenti della Passione, furono raccolti e nascosti da alcuni discepoli. Intorno al 320 la madre dell’Imperatore Costantino, Elena, fece sgomberare, a Gerusalemme, le macerie che si erano accumulate intorno al Golgota e fu proprio allora che tornarono alla luce le reliquie della Passione di Nostro Signore.
Sempre secondo Jacopo da Varagine, Elena avrebbe portato a Roma una parte della Croce, un chiodo, una spina della Corona e un frammento dell’iscrizione che Pilato aveva fatto affiggere alla Croce. A Gerusalemme restarono altre reliquie, fra le quali l’intera Corona di spine. Intorno al 1063 essa fu portata a Costantinopoli, dove rimase fino al 1237, quando l’Imperatore latino Baldovino II la consegnò ad alcuni mercanti veneziani, ottenendo un considerevole prestito (13.134 monete d’oro). Alla scadenza del prestito, San Luigi IX, Re di Francia, sollecitato da Baldovino II, acquistò la Corona e la custodì a Parigi, ospitandola nel proprio Palazzo fino a quando fu terminata la Sainte-Chapelle, inaugurata nel 1248.
Il tesoro della Sainte-Chapelle fu in gran parte distrutto durante la Rivoluzione Francese e con esso anche la Corona, privata di quasi tutte le sue Spine. Tuttavia, durante il viaggio verso Parigi, ne erano state tolte molte per essere donate a chiese e santuari per ragioni meritorie particolari; altre spine furono donate dai successivi sovrani francesi a principi ed ecclesiastici come segno d’amicizia. Per tali ragioni, in Francia e soprattutto in Italia, si trovano sparse in diverse chiese.
Leggiamo, nel verbale redatto dal notaio Francesco Saverio Perchinunno che, insieme ad una Commissione scientifica ha osservato i fatti di Bari del 25 marzo: «Si è rilevata fra le ore venti e minuti quaranta (h 20,40) e le ore ventuno e minuti quaranta (h 21,40) una lieve modificazione cromatica tendente al rosso in corrispondenza della base della scheggiatura apicale della Spina. Tale cromatismo soggettivamente rilevato da ciascun membro della Commissione trova supporto in documentazione oggettiva fotografica digitale. Inoltre, rivisitando i fotogrammi a forte ingrandimento, si è rilevata nella porzione centrale del fusto della Spina la presenza di macchie cromatiche che complessivamente lasciano intravedere un’immagine assimilabile ad un volto umano maschile. In precedenza non si è rilevata alcuna significativa variazione cromaticaIl presente verbale viene chiuso essendo le ore ventitré e minuti trenta (h 23,30)».
Ad Andria, invece, il notaio Paolo Porziotta ha redatto un verbale nel quale si dichiara: «Verso le ore 16.10, si è rilevata la presenza di un lieve rigonfiamento di colore bianco a forma sferica, a mo’ di gemma, posto a 3mm. circa dall’apice, lato destro della Spina, più precisamente sul bordo della scheggiatura apicale. Successivamente, verso le ore 17.10, si sono rilevate a occhio nudo, una seconda gemma, posta all’apice della Spina, e una terza gemma, posta 4/5 mm. sotto la prima; ancora più verso la base della Spina, il residuo del precedente prodigio dell’anno 2005 è sembrato rifiorire. Tanto è stato constatato direttamente, oltre che dalla Speciale Commissione, anche da mons. Raffaele Calabro, il quale alle 17.40, durante l’omelia dell’azione liturgica del Venerdì Santo ha annunciato ai fedeli: In questa circostanza ho il piacere di annunciare a voi tutti in maniera solenne che il miracolo ha avuto inizio».
Il mondo soprannaturale comunica con il mondo naturale, spesso e volentieri, attraverso i segni, miliardi di segni, personali e pubblici. Un universo di tracce e indicazioni che raggiungono la collettività oppure le singole persone; alcune le accolgono come bene prezioso e le fanno proprie: questi “doni” celesti confortano, offrono sostegno, coraggio, fiducia e speranza nei combattimenti quotidiani; altri individui, che resistono ai cenni e ai segnali paterni di Dio, dimostrandosi indifferenti, scettici e a volte amaramente ostili, o non se ne avvedono o li disprezzano, e così facendo non solo non possono usufruire della consolazione celeste, ma rigettano anche il buon “seme” che può derivare da essi. Come raccontano le migliaia di pagine scritte nel corso dei secoli, ai Santi e, in particolare, ai mistici, è dato il privilegio di colloquiare direttamente, senza intercapedini, con Gesù, la Madonna, gli Angeli o altri Santi.
Gli esempi agiografici sono innumerevoli: sperimentano visioni, apparizioni, sogni, rivelazioni, voci esterne o interne a sé. I segni, invece, sono comunicazioni indirette: il Cielo si fa presente ai peccatori, più distanti da Dio rispetto ai Santi, con segnali più o meno palesi, più o meno velati. A Bari e Andria il Signore ha nuovamente comunicato, ha manifestato la sua presenza attraverso segni sensibili, che contengono più significati, ma la cui decodificazione resta arcana: nella Basilica di San Nicola le macchie cromatiche rossastre hanno creato addirittura un’immagine dal volto umano; mentre nella Cattedrale della seconda città la Sacra Spina ha gemmato di bianco… Che cosa vorrà dire tutto ciò? Autorità religiose, notai, illustri professori, medici, esperti, tecnici alla guida di una tecnologia d’ultima generazione sono convenuti per monitorare prodigi che restano misteriosi, ma che avvengono e che la scienza può soltanto diligentemente osservare.
A Bari, per esempio, il colore della Sacra Spina è stata documentata, minuto per minuto, mediante una telecamera iperspettrale colorimetrica, mentre l’illuminazione è stata fornita da una sorgente a led a luce fredda. Tutto è ora perfettamente registrato e per chi ha Fede, ancora una volta, viene confermata la presenza d’amore costante del Redentore in mezzo a noi, attraverso fatti eccezionali, e in noi, quando quotidianamente si fa Carne e Sangue.

Anticristo, "amore", piacere in un aforisma di S. Ildegarda di Bingen

No, non è terrorismo. È jihad

Next: “Vincéntius, honésta stirpe Valéntiæ in Hispánia natus, ab ineúnte ætáte cor gessit seníle. Qui dum caliginósi hujus sæculi lábilem cursum pro ingénii sui módulo consideráret, religiónis hábitum in órdine Prædicatórum décimo octávo ætátis suæ anno suscépit; et emíssa solémni professióne, sacris lítteris sédulo incúmbens, theologíæ láuream summa cum laude consecútus est. Mox obténta a superióribus licéntia, verbum Dei prædicáre, Judæórum perfídiam argúere, Saracenórum erróres confutáre tanta virtúte et efficácia cœpit, ut ingéntem ipsórum infidélium multitúdinem ad Christi fidem perdúxerit, et multa Christianórum míllia a peccátis ad pœniténtiam, a vítiis ad virtútem revocárit” (Lect. IV – II Noct.) - SANCTI VINCENTII FERRERII, CONFESSORIS
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Nella festa dell’Annunciazione (traslata quest’anno dal 25 marzo, in cui cadeva il Venerdì Santo), rilancio questo contributo da Tempi, che mostra, come conclude l’autore, «la vera natura del terrorismo risiede non tanto nell’azione jihadista sul territorio europeo, quanto semmai nell’ostinazione degli europei a negare la realtà aumentando così più che il baratro tra se stessi e i propri torturatori, quello tra se stessi e la verità delle cose e del mondo che, letteralmente, li circondano». Ciò in coerenza con quanto ha sostenuto il patriarca cattolico della chiesa greco-melchita siriana Gregorio III Laham, e cioè «Molti di coloro che sono emigrati erano dei terroristi. Vogliono distruggere: non solo la Siria, ma anche l’Europa. Il nostro più grande problema è l’emigrazione. Cinquanta dottori sono partiti solo dalla nostra comunità. Noi dobbiamo aiutare la gente a restare, a non partire» (cfr. Giorgio Nigra, Il patriarca di Siria: “Molti immigrati vogliono distruggere l’Europa”, in Il primato nazionale, 30.3.2016).
Invochiamo, perciò, la protezione della Vergine, che, come nei tempi passati, salvò l’Europa dall’incipiente pericolo islamico.

Jacopo Torriti, Annunciazione, 1296, abside, Basilica di S. Maria Maggiore, Roma





Beato Angelico, Annunciazione o Pala di Cortona, 1433-34, Museo diocesano, Cortona

Emmanuel Tzanfournaris, Annunciazione, 1570-1625, Museo Benaki, Atene


Caravagggio, Annunciazione, 1608-10, Musée des Beaux-Arts, Nancy

Luca Giordano, Annunciazione, 1672, Metropolitan Museum, New York 

Matthias Stom o Stomer, Annunciazione, XVII sec., Galleria degli Uffizi, Firenze

Placido Costanzi, Annunciazione, XVII sec., collezione privata

Francesco de Mura, Annunciazione, XVIII sec., collezione privata

Arthur Hacker, L'Annunciazione, 1892, Tate Gallery, Londra

William Brassey Hole, Annunciazione, XX sec. 

Basilica dell'Annunciazione intorno al 1925

Paolo VI nella Basilica dell'Annunciazione a Nazaret il 5 gennaio 1964. La Basilica è com'era prima delle trasformazioni/deformazioni dell'arch. Muzio del 1969.

No, non è terrorismo. È jihad

di Aldo Vitale

Se esaminati in un’ottica storica, gli attacchi all’Occidente da New York 2001 a Bruxelles 2016 non sono che fasi di una guerra islamica contro la “miscredenza”


«Era necessario ripigliare ogni cinque anni lo Stato, altrimenti era difficile mantenerlo: e chiamavano ripigliare lo Stato mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo»: così scriveva Niccolò Machiavelli nei suoi Discorsi sulla prima deca di Tito Livio (III,1), lasciando intendere appunto che il terrore è lo strumento di chi governa per conservare e mantenere il potere.
La rivoluzione francese, il socialismo sovietico, il nazionalsocialismo e molteplici altri casi lungo il corso della storia occidentale hanno sempre mostrato che il terrore consiste nella pratica della violenza messa in atto dal potere in carica per tutelare se medesimo oltre ogni ragionevolezza, anche a costo di colpire se stesso: celebre in tal senso il caso del commissario per gli affari interni dell’Unione Sovietica Nikolaj Ezov, che dopo aver messo in piedi la macchina delle purghe fu a sua volta dalla stessa colpito e sostituito dall’ancora più temibile Lavrentij Berija; più celebre ancora, e quasi prototipico, il caso di Robespierre, che dopo aver praticato il terrore tramite l’uso indiscriminato della ghigliottina fu, in una specie di esemplare contrappasso dantesco, decapitato a sua volta.
Soprattutto con l’avvento del marxismo prima e del leninismo poi, che hanno rovesciato i mezzi di oppressione della borghesia contro il sistema borghese medesimo, il terrore è divenuto il perfetto strumento di lotta politica, non più in vista del semplice mantenimento dell’ordine costituito, ma al fine dell’abbattimento e del sovvertimento dell’ordine stesso.
Il terrore si consolida nell’alveo del marxismo come prediletto strumento di lotta diventando vero e proprio terrorismo, fino alle note ed articolate teorizzazioni sul tema di Ernesto Che Guevara e fino alla pratica delle Brigate rosse esemplarmente offerta nei convulsi italiani “anni di piombo” e anche nei primi anni del XXI secolo con gli assassini di Massimo D’Antona e Marco Biagi.
Il terrorismo di lotta sviluppatosi all’interno di un contesto politico per sovvertirne la struttura, è divenuto presto, tuttavia, un terrorismo diverso, mutagene, che ha acquisito la velleità di essere dimostrativo, come nel caso del cosiddetto terrorismo internazionale di cui il XX secolo abbonda in macabri esempi in tutto il mondo.
Il terrorismo, tuttavia, possiede in sostanza almeno tre requisiti: la oppositività, cioè l’essere messo in pratica per opporsi al sistema costituito, sia esso statale o internazionale; la dimostratività, cioè l’essere messo in pratica per dimostrare l’esistenza di una fazione diversa ed eterogenea rispetto al contesto politico e giuridico circostante (si pensi all’Eta); la episodicità, cioè l’essere condotto in singoli momenti, tra loro non consequenziali, che sfruttano determinate circostanze favorevoli di luogo e di tempo, e che proprio per questo possono mutare ponendo fine alla realizzabilità di un nuovo attacco terroristico.
Tutto ciò premesso, occorre riconoscere che quello islamico non è terrorismo, ma si tratta di vero e proprio jihad, cioè dello sforzo di ricondurre al “Dar al-Islam”, cioè ai “territori sottomessi”, ovvero già islamizzati, il “Dar al-Harb”, cioè i “territori della guerra”, ossia quelli che ancora devono essere islamizzati.
Lo si deduce da diversi elementi che prescindono dalle mere dichiarazioni, lapalissiane, di coloro che partecipano a questo tipo di scontro al quale, per l’appunto, mancano quei suddetti requisiti che invece caratterizzano il terrorismo.
Le prove in tal senso possono essere molteplici, ma su tutte quella storica sembra imporsi con preponderante evidenza.
Con un sintetico excursus di date ed eventi si può già cogliere ciò che qui s’intende, cioè il fatto che gli attacchi condotti dai vari gruppi islamici non sono attacchi terroristici, ma operazioni belliche a tutti gli effetti che trovano nella dottrina e nella prassi del jihad la loro naturale collocazione.
Si consideri, del resto, che l’Islam da secoli, dopo una veloce “blitzkrieg” di sottomissione della penisola arabica, del nord-Africa e dei territori balcanici, ha tentato e tenta, talvolta anche con alterne fortune, di conquistare l’Europa.
Nel 622 Maometto si reca a Yathrib e già appena nel 635 la Siria e la Palestina diventano islamiche: ha così inizio la lunga e paziente lotta di conquista ed espansione armata dell’islam. Nella primavera del 638 viene conquistata Gerusalemme che rimarrà islamica ininterrottamente per tre secoli, cioè fino alla prima crociata. Nel 640 Mesopotamia, Armenia, Persia, Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria sono sottomesse. Nel 711 è la volta della Penisola iberica, che nel 773 vedrà la proclamazione dell’emirato di Cordova divenuto poi califfato nel 929. Nel 721 le truppe islamiche attraversano i Pirenei penetrando nella Francia meridionale, arrivando a conquistare Avignone e Arles, e a pochi chilometri da Lione. Nel 732 la marcia di conquista trova una battuta d’arresto a Poitiers-Tours in cui le truppe minoritarie di Carlo martello riescono ad avere la meglio sulle quattro volte più numerose truppe moresche. Il 17 giugno 827 le truppe moresche sbarcano in Sicilia a Mazara del Vallo, conquistando in breve Marsala e Agrigento; nell’estate dell’831 vengono espugnate Palermo, Messina, Modica e Ragusa; Enna cade nell’859; ultima Siracusa la cui popolazione viene trucidata nella primavera dell’878 dopo un estenuante assedio. Nel 1444 gli eserciti europei si radunano a Varna, in Bulgaria, per fermare l’avanzata moresca. Nel maggio del 1453 Costantinopoli viene soggiogata all’islam dopo mesi di assedio. Il 28 luglio 1480 la flotta del Sultano Maometto II sbarca ad Otranto, e il 14 agosto vengono sterminate 12 mila persone e soprattutto sono decapitati gli 813 otrantini che si sono rifugiati nella cattedrale con il vescovo Stefano Pendinelli rifiutandosi di rinnegare la propria fede. Il 18 maggio 1565 viene assediata Malta dalla flotta ottomana. Nel luglio del 1571 è la volta di Cipro. Il 7 ottobre 1571 la flotta ottomana viene fermata a Lepanto dalla provvidenziale flotta radunata nel Mediterraneo tramite la partecipazioni di quasi tutte le potenze navali europee dell’epoca. L’11 settembre 1683 ben 140 mila ottomani assediano Vienna difesa da uomini di ogni culto cristiano (cattolici, protestanti e ortodossi) provenienti da tutta Europa. L’11 settembre 2001 vengono distrutte le torri gemelle di New York. A Madrid nel 2004 e a Londra nel 2005 vengono condotti attacchi dinamitardi, rispettivamente, sulla linea ferroviaria e nelle linee della metropolitana. Tra l’1 e il 3 settembre 2004 1.200 persone nella scuola di Beslan, in Russia, vengono prese in ostaggio da 32 militanti islamici che ne uccidono 331 in tre giorni. Nel gennaio 2015 a Parigi si consuma l’attacco armato alla redazione di Charlie Hebdo. Il 13 novembre 2015 ben 7 attacchi dinamitardi e armati per le strade di Parigi causano 150 morti e il doppio dei feriti. Infine, il 22 marzo 2016 il Belgio subisce l’attacco che provoca una trentina di morti e più di 200 feriti negli attentati all’aeroporto Zaventem di Bruxelles e alla metropolitana della stessa capitale belga.
Appare evidente, dunque, che non si tratta di meri atti terroristici, ma di ulteriori fasi di una vera e propria guerra, il jihad, che l’islam ha dichiarato e conduce da secoli contro tutti coloro che non sono islamici in genere e contro l’Occidente in particolare.
Se tutto ciò non fosse ancora sufficiente, si possono e si devono considerare le riflessioni di uno dei più grandi studiosi del fenomeno del jihad come David Cook, che per l’appunto cita le stesse fonti islamiche e tanto chiarisce: «Al-Ghunaymi si sofferma su questo punto. I musulmani non combattono per respingere un’aggressione; combattono per porre fine alla miscredenza […]. Il jihad è la tematica maggiore che attraversa l’intera civiltà musulmana ed è, perlomeno, uno dei fattori principali dello stupefacente successo della fede nell’islam […]. Il jihad praticato dai gruppi contemporanei rientra nelle definizioni classiche: è comprovato dalla scrupolosa attenzione che questi gruppi mostrano nei confronti delle norme giuridiche classiche e contemporanee, dalla forte accentuazione delle ricompense spirituali del jihad, dall’affermazione frequentemente ribadita di combattere per la gloria dell’islam […]. Il jihad combattente non scomparirà mai del tutto, semplicemente perché troppo ben attestato nelle fonti musulmane in lingua araba e perché costituisce, per i musulmani, per le conquiste che ha loro consentito, una delle prove più importanti della verità dell’islam».
Ciò nonostante, l’Occidente in genere e l’Europa in particolare continuano a negare l’evidenza, cioè che si tratti di jihad e si trincerano dietro l’ipocrisia dell’atto terroristico dimostrando la propria mancanza di consapevolezza circa l’effettività della tragica realtà, in ciò, paradossalmente, dando forse ragione a Leo Löwenthal per il quale proprio in una mancanza di consapevolezza consiste il terrorismo: «Un sistema terroristico raggiunge il suo apice quando la vittima non è più consapevole del baratro che c’è tra sé e i propri torturatori».
In tale evenienza, tuttavia, occorre ammettere amaramente che la vera natura del terrorismo risiede non tanto nell’azione jihadista sul territorio europeo, quanto semmai nell’ostinazione degli europei a negare la realtà aumentando così più che il baratro tra se stessi e i propri torturatori, quello tra se stessi e la verità delle cose e del mondo che, letteralmente, li circondano.
Foto Ansa


“Vincéntius, honésta stirpe Valéntiæ in Hispánia natus, ab ineúnte ætáte cor gessit seníle. Qui dum caliginósi hujus sæculi lábilem cursum pro ingénii sui módulo consideráret, religiónis hábitum in órdine Prædicatórum décimo octávo ætátis suæ anno suscépit; et emíssa solémni professióne, sacris lítteris sédulo incúmbens, theologíæ láuream summa cum laude consecútus est. Mox obténta a superióribus licéntia, verbum Dei prædicáre, Judæórum perfídiam argúere, Saracenórum erróres confutáre tanta virtúte et efficácia cœpit, ut ingéntem ipsórum infidélium multitúdinem ad Christi fidem perdúxerit, et multa Christianórum míllia a peccátis ad pœniténtiam, a vítiis ad virtútem revocárit” (Lect. IV – II Noct.) - SANCTI VINCENTII FERRERII, CONFESSORIS

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Ecco l’angelo del giudizio, come si chiamava lui stesso. Durante lo scisma d’Occidente, allorché la tunica senza cuciture della Chiesa, a causa della disputa tra molti pretendenti al Pontificato, era sul punto di essere lacerata e la corruzione dei popoli cristiani sembrava preludere alla fine del mondo, Vincenzo Ferrier, con la sua parola energica ed i suoi miracoli, ricondusse alla penitenza una grande moltitudine di fedeli.
All’inizio, fu il confessore e Maestro del Palazzo Apostolico dell’antipapa aragonese Pedro de Luna (Benedetto XIII) e sostenne il suo partito con vigore. Ma quando, in seguito l’ingiustizia delle pretese dell’ambizioso Spagnolo fu riconosciuta, san Vincenzo Ferrier se ne staccò e predisse anche che sarebbe venuto il tempo in cui i bambini avrebbero giocato a palla col suo cranio. E fu come aveva annunciato, perché nel 1811, i francesi che occuparono il castello (Castillo Palacio) di Illueca, residenza dei Luna, dove giaceva la sepoltura del corpo di Pedro de Luna, ne staccarono il cranio e gettarono il resto dalla finestra. Solo il teschio è oggi conservato.
Il nostro Santo morì a Vannes, in Bretagna, il 5 aprile 1419. Fu canonizzato nel 1456 da Callisto III. La sua festa fu istituita da Clemente IX (+ 1669) come semidoppia ad libitum nel 1667 ed obbligatoria nel 1706. Benedetto XIII l’elevò al rango di doppia nel 1726.
La messa è dal Comune, come il 23 gennaio, salvo la prima colletta che è propria.
Dio non abbandona mai la Chiesa, e la storia insegna che, precisamente al tempo delle grandi crisi religiose o politiche, manda sempre dei grandi santi, per salvare i popoli dalla rovina. Noi amiamo mettere in rilievo una particolarità liturgica menzionata nella vita di san Vincenzo Ferrier e riportata nella V Lezione del Mattutino di oggi: Quotidie Missam summo mane cum cantu celebravit. I nostri padri, ed oggi ancora gli orientali, consentono difficilmente a leggere la messa; essi avevano l’abitudine di cantarla, come l’aveva fatto Gesù nel Cenacolo con gli Apostoli.





Statua di S. Vincenzo, Rettoria di S. Vincenzo Ferreri, Milazzo



Juan Macip Navarro – Juan de Juanes, SS. Ludovico d’Angiò e Vincenzo, XVI sec., Cattedrale di Santa María de Valencia, Valencia


Francisco Ribalta, Sermone di S. Vincenzo Ferrer, XVII sec., Hermitage, San Pietroburgo

Urbano Fos, S. Vincenzo Ferrer, sec. XVII, Museo del Prado, Madrid

Alonso Cano, Predica di S. Vincenzo Ferrer, 1644-45, Fundación Banco Santander, Madrid

Anonimo, S. Vincenzo, XVIII sec., Chiesa del Santissimo Nome di Maria, Roma

Emanuele Alfani, S. Vincenzo, XVII sec., Basilica di S. Sisto Vecchio o all'Appia, Roma.
Durante una delle sue continue peregrinazioni, San Vincenzo si trovò a dover sostare in una locanda per rifocillarsi. L'oste servi della carne, ma il Santo nel vederla ebbe dei dubbi e pregò il locandiere di portargli tutta la carne che aveva. I suoi dubbi si rivelarono esatti: quella carne era umana e precisamente di un bambino. San Vincenzo allora si raccolse in preghiera, mise insieme tutti i pezzi ricevuti, ricompose il bambino e lo fece resuscitare tra lo stupore dei presenti e il pentimento dell'oste. Nel quadro, accanto al bambino, si vedono i pezzi del suo corpo.

Joaquín Gutiérrez, S. Vincenzo, XVII sec., Museo de Arte del Banco de la República, Bogotà

Maestro italiano, S. Vincenzo Ferrer, XVIII sec., collezione privata

Guglielmo Borremans, S. Vincenzo predica al popolo, 1722, museo diocesano, Caltanisetta

Saverio De Musso, S. Vincenzo predica alle folle, XVIII sec., chiesa di S. Domenico, Giovinazzo

Giuseppe Antonio Luchi detto il Diecimino, S. Vincenzo, 1756, Museo Nazionale di Palazzo Mansi, Palazzo Mansi, via Galli Tassi, Lucca

Anonimo, S. Vincenzo, XIX sec., casa dei Domenicani, Tolosa

Presentazione a Roma del nuovo libro di don Nicola Bux: "Con i sacramenti non si scherza"

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Come già annunciato in precedenza, sarà presentato quest’oggi a Roma - per puro caso quasi alla vigilia della presentazione dell'esortazione post-sinodale (sebbene la data della presentazione fosse stata fissata tempo prima ed il libro fosse stato consegnato alle stampe oltre un anno fa) - il nuovo libro di don Nicola Bux, prefato da Vittorio Messori, che avevamo anticipato sin dall’inizio del mese scorso (v. qui) ed avevamo ricordato pochi giorni orsono (v. qui) e già presentato, in anteprima, a Lecce lo scorso 2 aprile (v. qui). 
A Roma, il card. Burke approfondirà, nel corso della presentazione, gli aspetti giuridico-canonici correlati ai sacramenti ed il card. Sarah quelli teologico-liturgici. Il dott. Gotti Tedeschi si soffermerà sui sacramenti nell'attuale contesto.
Il libro sarà presentato a Milano il 2 maggio. Si prevede anche una prossima presentazione a Bari.
Una curiosità: l’immagine di copertina, chiaramente ironica, allusiva e "non convenzionale", che pare abbia stupito molti e che era stata da noi suggerita all'Autore, è reale nel senso che si tratta della foto di un matrimonio celebrato– si fa per dire – in Inghilterra, nel Devon, nell’estate 2010, con tanto d'invitati pur essi vestiti, come gli sposi, "a tema" (v. quiquiqui e qui).



Nicola Bux. Coi Sacramenti non si scherza

Mercoledì 6 aprile alle ore 17,30: presentazione del libro di Don Nicola Bux Con i Sacramenti non si scherza, ed. Cantagalli, Siena 2016.
Roma, Palazzo della Rovere (Hotel Columbus), Via della Conciliazione 33


Interessante la Prefazione curata da Vittorio Messori [qui]

Scrive don Nicola Bux, affrontando la trattazione del sacramento dell’ordine: “I caratteri distintivi del sacerdozio sono nel conferimento e nell’esercizio dei tre munera, ossia compiti o uffici: insegnare , santificare e governare”. Quanto al “governare”, non so se don Nicola ne abbia modo o motivo. Sul “santificare” non ho dubbi: so quanto sia instancabile nel tenere fede alla sua chiamata di mediatore tra sacro e profano, tra Dio e uomo, amministratore convinto e competente com’è dei sacramenti. Venendo all’insegnare: beh, proprio questo suo nuovo libro è una conferma in più di come prenda sul serio il munus affidatogli alla consacrazione sacerdotale. Oltre a molti altri libri è, questo, il terzo che dedica alla liturgia nella Chiesa di sempre e, soprattutto, di oggi. 
La sua grande competenza, da ben noto e stimato cattedratico del tema, è messa al servizio dell’insegnamento attraverso queste opere: non, dunque, per gruppi selezionati di studenti ma per ogni cattolico, praticante abituale o saltuario che sia. O anche, come càpita sempre più spesso, semplicemente per una donna o per un uomo in ricerca. Infiltrata dalla corrente oggi prevalente in Occidente e che tende a creare una sorta di società liquida, dove tutto sembra, appunto, liquefarsi in tutto, anche la Chiesa pare voler dissolvere i contorni netti della fede in una sorta di brodo indeterminato e rimescolato dal “secondo me” di certi sacerdoti.
Non ostacolati, anzi istigati, dai teologi che sappiamo. Ebbene: della fede, i sacramenti sono l’espressione, il frutto, il dono più alto e prezioso. Ecco, dunque, il nostro liturgista dedicarsi al tema, con la passione consueta, seguendo l’utile schema già impiegato nei libri precedenti. Innanzitutto, cioè, chiarire, per ognuno dei sette “segni efficaci” l’oggetto, il significato, la storia. Poi – necessaria, e più che mai attuale – l’avvertenza circa le deformazioni, gli equivoci, le aggiunte o le sottrazioni che oggi minacciano quel sacramento. Dunque, una catechesi in uno stile che sa essere al contempo dotto e divulgativo, seguìta da una sorta di “manuale per l’uso”. L’efficacia è confermata anche dall’ottimo successo che i libri hanno avuto non solo in Italia ma anche nei Paesi nella cui lingua sono stati tradotti.
Don Bux sa essere severo verso certi suoi confratelli e verso quel loro prurito “creativo” che li induce a intaccare una disciplina liturgica che non è inutile formalismo bensì sostanza stessa del sacramento. Ma i suoi avvertimenti non hanno il tono sprezzante o imperioso dell’inquisitore o, peggio, dell’ideologo con le sue sbarre e le sue gabbie. In lui, il richiamo all’ordine è espresso, in fondo, con la comprensione di chi ben sa quale sia la cultura deformata e deformante in cui anche gli uomini di Chiesa sono immersi. E ben sa, oltretutto, quanto incompleta e magari sospetta sia la formazione (se ancora è tale) che viene impartita troppo spesso allo sparuto gruppo dei seminaristi superstiti. Pare di cogliere nel professore che qui scrive una sorta di pietas per i poveri preti, pur dietro il rimbrotto. Ad essi, da confratello specialista ma non per questo chiuso nella torre d’avorio accademica, ad essi, dunque addita non solo una lista di errori e di equivoci, ma anche la direzione verso la quale muoversi per cercare di rimediare.
Alla base di tutto quanto succede nella Catholica ormai da decenni, c’è quanto l’autore denunciava anche nei libri precedenti: quella “svolta antropocentrica che ha portato nella Chiesa molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio”. La sociologia invece della teologia, il Mondo che oscura il Cielo, l’orizzontale senza il verticale, la profanità che scaccia la sacralità. La sintesi cattolica – quella sorta di legge dell’et-et, di unione degli opposti che regge l’intero edificio della fede – è stata troppo spesso abbandonata per una unilateralità inammissibile. 
Quanto ai sacramenti in particolare: da laico, sarei tentato di lanciare una sorta di monito ai sacerdoti. Attenti, mi verrebbe da dire, non sappiamo che farcene, (ne abbiamo già troppi) di sociologi, sindacalisti, politologi, psicologi, ecologi, sessuologi e, in genere, di tuttologi! Attenti, perché non c’è bisogno di preti, frati, monaci che esercitino i mestieri che dicevo, per giunta spesso da improbabili orecchianti. Non si dimentichi mai che quella che soltanto il consacrato può esercitare, quella dove non ha e non può avere “concorrenza”, è la funzione di tramite, di legame, tra l’uomo e Dio. Nell’amministrazione, appunto, dei sacramenti. E’ il “santificare” il munus che – per ridurci all’essenziale - ne giustifica l’esistenza e la presenza. Ottimo, se ben condotto, l’impegno clericale nel sociale, nella cultura, in ogni campo dell’attività, della cultura, del lavoro umani. Ottimo ma non indispensabile: anche noi laici quegli impegni sappiamo esercitarli e li esercitiamo, assai spesso, ben meglio. Da professionisti e non da dilettanti. Ma solo un uomo cui sono state imposte le mani scandendo sul suo capo le parole alte e terribili tu es sacerdos in aeternum, solo un uomo così può assicurarci il perdono di quel Cristo di cui è tramite; e può trasformare, nella fede, il vino e il pane nel sangue e nella carne del Redentore. Lui solo. Nessun altro al mondo.
Le folle si accalcano, per un istinto profondo, attorno all’altare e al confessionale di padre Pio, spintonando per essere il più vicini possibile alla sua eucaristia e per potere avere il privilegio di affidare a lui i peccati che Gesù giudicherà. Ma non si conoscono folle, se non di studenti iscritti a quel corso, attorno alla cattedra del chierico teologo che spiega che è puerile credere alla realtà anche “materiale” dell’eucaristia. E che è una sceneggiata, indegna del cristiano adulto, pensare che il perdono dei peccato passi attraverso uno strumento, un uomo come noi. Già: ma al contempo, invisibilmente, diverso. Diverso perché consacrato.
Post Scriptum. Proprio il giorno dopo avere concluso le pagine qui sopra, ho ricevuto l’ultimo libro di Hans Küng: Morire felici? Il teologo svizzero (che si offende se qualcuno non lo definisce “cristiano”, anzi “cattolico”) è tra i promotori ed attivisti di Exit, la più nota ed attiva organizzazione in Europa per la “morte assistita”, cioè l’aiuto fattivo per l’eutanasia. Con macabra ipocrisia, chi chiede di farla finita è trattato come in un confortevole albergo e, al momento da lui desiderato, è fatto accomodare sulla poltrona di un salotto silenzioso e deserto. Una infermiera pone sul tavolino un bicchiere con una bevanda dal sapore gradevole ma spaventosamente tossica e se ne va, chiudendo la porta. Porta che sarà riaperta poco dopo per constatare la morte e portare via il cadavere. Ipocrisia macabra, dicevo: Exit si limita a mettere a disposizione un luogo tranquillo e a posare sul mobile un veleno mortale: che può farci se quel signore, o quella signora, decidono di bere la mistura? Sono liberi, perbacco, nessuno li obbliga.
Il “cattolico” Küng è prete e non ha mai chiesto di abbandonare il sacerdozio, anche se nessuno lo ha mai visto con un clergyman o, peggio, con paramenti ecclesiastici, ed egli stesso si stupirebbe molto se qualcuno lo chiamasse “don Hans”. Già nel capitolo introduttivo di questo suo pamphlet che intende dimostrarci quanto suicidio ed eutanasia siano “biblici”, anzi “evangelici”, non manca, come sempre, di scagliarsi contro quella Catholica che lo ha ordinato, che gli ha dato il potere di amministrare i sacramenti. Scrive, dicendo di desiderare il vero bene dell’uomo, cosa che non fanno i disumani monsignori romani: “Vorrei una Chiesa che aiutasse l’uomo a morire, anziché limitarsi a dargli l’estrema unzione. Si tratta di aiutare a morire bene una persona che vuole dire addio alla vita”.
Impegno sociale sino agli estremi, dunque: una struttura creata e gestita dalla Chiesa che accolga gli aspiranti suicidi e li aiuti a raggiungere il loro fine, rapidamente e senza dolore. Questa è la carità, questo il dovere della comunità cristiana!
È forse caritatevole limitarsi a quel sacramento, a quell’estrema unzione (o unzione degli infermi, come oggi si dice ) che si limita ad accompagnare alla morte biascicando antiche parole e procedendo ad anacronistiche unzioni, non occupandosi però delle sofferenze fisiche del morituro? Lui, Küng, non ha dato e non da il buon esempio, pilastro illustre com’è di Exit, di quella agenzia “sociale” che accoglie, con premura cristiana, chi altrimenti sarebbe costretto a gettarsi nel fiume o dalla finestra o a farsi stritolare dal treno?
È con amarezza che ho qui spiacevole conferma della domanda che, sopra, mi facevo: dimentichi come sono del loro ruolo di insondabile valore, di un ruolo che nessun altro al mondo può esercitare, che ce ne facciamo di preti così? Chi, accanto al suo letto di morte, chi vorrebbe un professore di teologia nella prestigiosa università di Tübingen e non lo scambierebbe volentieri col più oscuro e magari indotto dei preti, ancora consapevole, però, del valore tanto misterioso quanto efficace - nel senso vero - del sacramento?

Fonte: Chiesa e postconcilio, 5.4.2016

Un aforisma di S. Tommaso d'Aquino che confuta ante litteram l'eresia fideista circa la dimostrabilità dell'esistenza di Dio

Umanitarismo, passioni, tolleranza civile, peccato, in un aforisma del Ven. papa Pio XII

Divorzio, aborto, unioni civili in un aforisma profetico dell'On.le Amintore Fanfani

Card. Sarah: "Oggi i sacramenti sono vittime di deformazioni"

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Ieri si è svolta a Roma la presentazione dell’ultimo volume scritto da don Nicola Bux (v. qui), che sarà disponibile nelle librerie a partire dal 14 aprile prossimo.
La sala dell’Hotel Columbus, che poteva accogliere circa duecento spettatori, si è rivelata assolutamente insufficiente ad accogliere il gran numero di partecipanti all’evento, superiore a qualsiasi aspettativa, anche la più rosea.
Intanto è confermata la presentazione a Milano il prossimo 2 maggio e, probabilmente, il 1° giugno (ma la data è ancora da definire, sebbene appaia quella probabile) a Bari.
Una buona sintesi dell’incontro di ieri è stato offerto da La Stampa. Anche il blog Rossoporpora ne ha tracciato una sintesi (v. qui), ripresa da Chiesa e postconcilio. Per una recensione del libro, v. Marco Guerra, Il sacramento sconfigge il male dell'uomo, in La nuova bussola quotidiana, 7.4.2016.
In attesa che ci siano dati i testi delle relazioni degli intervenuti.

Fotografia della sala strapiena scattata da un partecipante e riprodotta su Facebook





Altre foto della presentazione - dibattito del libro

Da Chiesa e postconcilio

Sarah: oggi i sacramenti sono vittime di deformazioni

Il Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, insieme con il cardinale Burke e Ettore Gotti Tedeschi, ha presentato il libro di Nicola Bux «Non si scherza con i sacramenti» (Cantagalli), introduzione di Vittorio Messori. «Ho proposto al Papa lo stop alle foto durante le celebrazioni».

Il card. Robert Sarah
DI IACOPO SCARAMUZZI

ROMA. I sacramenti sono, oggi, vittime di abusi e «deformazioni» a causa di «cattive decisioni deliberatamente prese da non pochi sacerdoti» che, declassando ad esempio l’eucaristia «a nome di un fantomatico conflitto dei segni», «confondono i fedeli». E’ la denuncia del cardinale Robert Sarah, prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, che, insieme al cardinale statunitense Raymond Leo Burke, patrono del Sovrano militare ordine di Malta, e all’economista Ettore Gotti Tedeschi, ha presentato il libro «Con i sacramenti non si scherza» (Cantagalli, 222 pagine), prefazione di Vittorio Messori. 
La presentazione, organizzata dalla casa editrice in collaborazione con la Pia Fondazione Paventi di San Bonaventura e avvenuta ieri sera in un’affollata sala dell’hotel Columbus, su via della Conciliazione, è stata moderata da Jacopo Coghe (Generazione famiglia). Al dibattito sono intervenuti Paolo Rodari (Repubblica) e Guillame Ferluc (Paix Ltiurgique). Avevano inviato messaggi di adesione i cardinali Gehrard Ludwig Mueller, Peter Erdo, Mauro Piacenza, oltre al defunto cardinale Georges Cottier, i monsignori Enrico Dal Covolo, Jean Lafitte, Guido Marini, e lo stesso Vittorio Messori, che firma la introduzione, e che parteciperà ad una successiva presentazione del volume che si terrà a Milano il prossimo due maggio.  
Presenti in sala, tra gli altri, i cardinali Walter Brandumuller, Velasio De Paolis, José Saraiva Martins, mons. Agostino Marchetto, mons. Carlo Maria Viganò, mons. Guido Pozzo, e i parlamentari italiani Gaetano Quagliariello e Alfredo Mantovano. 
«Come è possibile anche solo immaginare di prendersi gioco della presenza di Dio?», ha detto Sarah nell’intervento di apertura. «I sacramenti sono segni efficaci, farmaci che rimettono dal peccato: si può scherzare con i farmaci che ti salvano e ti rimettono in salute?». Eppure, ha proseguito il porporato guineano, «come ci ha più volte ricordato Papa Benedetto XVI, in questi decenni del post Concilio assistiamo a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile, in un crescendo che non trova fine». E «per questo Papa Giovanni Paolo II scrisse l’enciclica Ecclesia de Eucharistia, a cui seguì l’istruzione Redemprionis sacramentum, che ribadiva come nei sacramenti è in gioco la lex credendi. La stessa preoccupazione ha mosso Papa Benedetto XVI a promulgare l’esortazione apostolica Sacramentum caritatis e il motu proprio Summorum pontificum».  
Per Sarah, «non scherzare con i sacramenti significa mettere al centro il sacramento dei sacramenti, il santissimo, oggi inspiegabilmente declassato a nome di un fantomatico conflitto dei segni, altrettanto è accaduto con la croce. Ma il tabernacolo fornisce l’orientamento ad Dominum, così necessario in questo tempo in cui tanti vorrebbero vivere come se Dio non esistesse, e fare ciò che vogliono». Oggi, per il prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, «sta avvenendo un passaggio culturale e generazionale nella percezione della liturgia, ma pochi se ne avvertono, malgrado il tanto parlare dei segni dei tempi». E «anche Papa Francesco scrive nella enciclica Lumen fidei che Gesù ci ha toccato», così come «il Concilio vaticano II parla di sacramenti della fede, perché i sacramenti non solo suppongono la fede, ma la nutrono e la irrobustiscono».  
Eppure, ha proseguito Sarah, oggi «si crede così poco nel loro potere di trasformazione. Oggi si va affermando il bisogno di capirli, di spiegarli di nuovo, a causa di deformazioni e cattive decisioni deliberatamente prese da non pochi sacerdoti che confondono i fedeli, i quali finiscono per non capirli». Per il porporato, «alcuni preti hanno modi da conduttore televisivo, capita di assistere a sacramenti trasformati in lunghe didascalie». Ma «per capire i sacramenti non bisogna aprire gli occhi, ma chiuderli. I sacramenti non si capiscono con gli occhi della carne, ma con quelli dello spirito». 
Quindi il cardinale ha aggiunto: «Ho incontrato il Papa sabato e gli ho detto: `se vogliamo ritrovare la vera liturgia Lei ha il potere di cacciare i fotografi dell’altare. Abbiamo trasformato le liturgie in uno spettacolo”». 
Nei loro interventi, il card. Burke ha tra l’altro sottolineato che dopo il Concilio vaticano II «si è diffusa una mentalità mondana, secolare, che ha disprezzato la ricca tradizione della Chiesa». Per Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, da tempo «si sta scherzando con i sacramenti in un modo che sta diventando insopportabile». 
La Chiesa, si legge in una presentazione del volume di Nicola Bux, «pare voler dissolvere i contorni netti della fede in una sorta di brodo indeterminato e rimescolato dal “secondo me” di certi sacerdoti. Ebbene, della fede, i sacramenti sono l’espressione, il frutto, il dono più alto e prezioso. Ecco, dunque, il nostro liturgista dedicarsi al tema, con la passione consueta. Per ognuno dei sette “segni efficaci” l’autore chiarisce l’oggetto, il significato, la storia. Poi – necessaria, e più che mai attuale – l’avvertenza circa le deformazioni, gli equivoci, le aggiunte o le sottrazioni che oggi minacciano quel sacramento. Dunque, una catechesi in uno stile che sa essere al contempo dotto e divulgativo, seguìta da una sorta di “manuale per l’uso”. Alla base di tutto quanto succede nella Catholica ormai da decenni, c’è quanto l’autore denunciava anche nei libri precedenti: quella “svolta antropocentrica che ha portato nella Chiesa molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio!”. La sociologia invece della teologia, il Mondo che oscura il Cielo, l’orizzontale senza il verticale, la profanità che scaccia la sacralità. La sintesi cattolica – quella sorta di legge dell’et-et, di unione degli opposti che regge l’intero edificio della fede – è stata troppo spesso abbandonata per una unilateralità inammissibile».

Fonte: La Stampa, 6.4.2016

Testo dell'intervento - in esclusiva - di S. Em.za card. Robert Sarah nel corso della Presentazione del nuovo libro di don Nicola Bux

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Pubblichiamo, in esclusiva assoluta, il testo dell’intervento di S. Em.za il card. Robert Sarah nel corso della presentazione del libro di don Nicola Bux lo scorso 6 aprile.
Ringraziamo sentitamente S. Eminenza per averci onorato con tale suo prezioso ed interessante contributo.


S. EM.ZA ROBERT Card. SARAH

Intervento

Presentazione del libro di Mons. Nicola Bux,
Con i Sacramenti non si scherza
Roma, 6 aprile 2016

La Lettera agli Ebrei esorta a conservare la grazia divina in noi, infatti: «per suo mezzo rendiamo a Dio un culto gradito a lui, con riverenza e timore; perché il nostro Dio è un fuoco divoratore» (12, 29). Il nostro culto, quindi, è gradito a Dio, se è compiuto con riverenza e timore, in quanto si svolge alla sua Presenza. Anche la colletta del lunedì della IV settimana di Quaresima recita: «O Dio, che rinnovi il mondo con i tuoi sacramenti, fa che la comunità dei tuoi figli si edifichi con questi segni misteriosi della tua presenza e non resti priva del tuo aiuto per la vita di ogni giorno». La Presenza divina (Shekinah), alla quale si rivolgeva il culto d’Israele, è diventata sacramento grazie al mistero dell’incarnazione, della passione e risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo.
Intorno a questo fatto, si sviluppa la ricerca e la riflessione di Nicola Bux nel libro che presentiamo, dando ragione anche del titolo: ‘Con i Sacramenti non si scherza’.
Come è possibile anche soltanto immaginare di prendersi gioco della Presenza di Dio? Com’è possibile scherzare con i sacramenti, che sono i segni efficaci – potremmo dire i farmaci, soprattutto il farmaco dell’immortalità che è l’eucaristia – per guarire dalle ferite del peccato e rimetterci in salute? Si può scherzare con i farmaci? Certamente no. Eppure, come più volte ci ha ricordato Benedetto XVI, assistiamo, in questi decenni del post-concilio, a «deformazioni della liturgia al limite del sopportabile», quasi un crescendo che non trova fine. Per questo, Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia, diede mandato per promulgare l’Istruzione Redemptionis Sacramentum, pubblicata nel 2004 dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, d’intesa con quella della Dottrina della Fede – perché nei Sacramenti è in gioco la lex credendi. La stessa preoccupazione ha mosso Benedetto XVI a promulgare nel 2007, l’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis e il Motu proprio Summorum Pontificum, convinto che solo dal rapporto tra il nuovo e l’antico, si sarebbe prodotto un contagio virtuoso, un arricchimento vicendevole per riequilibrare le sorti del rito romano. Quindi, bene fa l’Autore, a mettere in rapporto la fede e la liturgia dei sacramenti sia nella forma ordinaria che in quella straordinaria.
Non scherzare coi sacramenti significa, innanzitutto, mettere al centro il Sacramento dei sacramenti, il Santissimo, oggi inspiegabilmente declassato, in nome di un fantomatico conflitto di segni: si dice che il tabernacolo non può stare sull’altare dove il Signore si rende presente nella Messa. Altrettanto è accaduto con la Croce. Invece, il tabernacolo e in special modo la Croce, fornisce l’orientamento ad Dominum, così necessario in questo tempo, in cui tanti vorrebbero farne a meno del Signore, o vivere come se Dio non esistesse, in modo da fare tutto quello che si vuole. Don Bux ricorda, nell’introduzione del suo libro, le parole di Geremia: «Invece della faccia mi voltarono le spalle» (Ger 7, 23-24) e le commenta così: «se Dio è nel sacramento, la liturgia odierna è, di fatto, ‘di spalle a Dio’. Non è servito aver riscoperto la sua cosiddetta dimensione escatologica: il Signore che viene a visitarci, come diciamo nel Benedictus, per salvarci; e nemmeno l’ecclesiologia di comunione, che discende dallo sguardo alla Trinità, non dal guardarsi tra sacerdote e popolo. La “svolta antropocentrica” ha portato nella Chiesa molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio».
E in un altro passo del libro dice: «La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza, la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? La Chiesa volta le spalle al soprannaturale e cessa di consacrare il mondo. Così, “il cielo del cristianesimo è vuoto” – scrive il filosofo Umberto Galimberti – poiché, a suo giudizio, il cristianesimo non solo “ha perso la dimensione del sacro”, ma addirittura “ha desacralizzato il sacro” (Cfr. U. Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, Milano 2012). Lo ammette anche l’enciclica Lumen fidei: “La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti” (§ 17). Invece il sacro per i cristiani è la presenza di Dio e tutto ciò che gli attiene, pertanto: “Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno” (Ivi, § 40)». I sacramenti sono un mezzo speciale per entrare in contatto con Dio.
Nella crisi di senso che percorre il mondo, ecco la prospettiva di un libro sui sacramenti: aiutare i fedeli a riscoprire la liturgia sacramentale della Chiesa, nella sua pienezza di vita e di verità, e a rileggere la storia e il significato dei sacramenti cristiani, per rendere la propria fede vita vissuta, migliorando l’esistenza quotidiana dell’uomo. Ma anche a fornire uno strumento capace di soddisfare le curiosità di quanti si interessano del “problema fede”, dal punto di vista dell’evoluzione culturale e di costume.
L’uomo odierno la «la necessità di essere toccata dal Signore. Quella è la fede che troviamo sempre e questa fede la suscita lo Spirito Santo».
Con tale intento, il libro presenta i sacramenti in genere e, nella successione propria del Catechismo della Chiesa Cattolica, i sacramenti della iniziazione cristiana (battesimo, confermazione, eucaristia), della guarigione (riconciliazione, unzione degli infermi) e del servizio della comunione (matrimonio e ordine), senza escludere l’area estesa dei sacramentali. Li presenta nella forma ordinaria e in quella straordinaria del rito romano. Cerca di rispondere alle domande più dibattute, con l’intenzione di toccare le questioni più spinose. Specialmente l’interesse dei giovani all’antica liturgia dimostra che «Sta avvenendo un passaggio culturale e generazionale nella percezione della liturgia, ma pochi se ne avvertono, malgrado il gran parlare di ‘segni dei tempi’».
Nicola Bux afferma nell’Introduzione che nei sacramenti siamo «faccia a faccia con Cristo»: i sacramenti sono ciò che di visibile è rimasto di lui, dopo l’Ascensione, come ricorda san Leone Magno. La stessa sua Parola si è fatta carne; perciò non si può pensare che la Parola di Dio sia altra cosa dalla ‘carne’ e dalla virtus sacramentale. «Tutti i sacramenti sono conseguenza dell’incarnazione del Verbo in Gesù: se egli non si fosse fatto carne, non ci sarebbe la sua presenza e non sarebbero possibili i suoi atti, le sue azioni: “Gesù ci ha toccato e, attraverso i sacramenti, anche oggi ci tocca”, ricorda ancora Lumen Fidei (§ 31)». Essi sono certamente azioni di Cristo e della Chiesa, ma non sarebbero queste azioni efficaci se Egli non fosse presente.
Il Vaticano II parla di sacramenti della fede: «I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del corpo di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio; in quanto segni, hanno poi anche la funzione di istruire. Non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati ‘sacramenti della fede’ (Sacrosanctum Concilium, § 59)».
I sacramenti – ricorda l’Autore – non sono simboli vuoti che rinviano all’invisibile, ma realtà – da res, cosa – visibili dell’invisibile, in quanto essi contengono ciò che significano: contengono la virtus, cioè la potenza efficace che viene dalla persona divino-umana di Gesù Cristo; anzi, il sacramento eucaristico contiene la realtà della persona di Gesù in corpo, sangue, anima e divinità. La potenza viene dalla sua presenza. Eppure, si crede così poco nella loro efficacia e nel loro potere di trasformazione! Evidentemente, anche per essi vi è oggi un reclamato bisogno di capirli; pertanto, nasce il bisogno di spiegarli di nuovo, a causa delle deformazioni che i sacramenti subiscono per ignoranza, da parte, innanzitutto, di non pochi sacerdoti: di conseguenza i fedeli finiscono per non comprenderli.
L’Autore cerca, quindi, di comprendere meglio, nella loro potenza sacra, questi che gli orientali ancora oggi chiamano misteri – come in antico i padri latini - e di capire a quali deformazioni siano soggetti. Sant’Ambrogio ritiene che i misteri siano collegati ai sacramenti, nel senso che questi sono i misteri divini comunicati all’uomo, attraverso gli atti insigni che Gesù stesso ha compiuto e che la Chiesa ha ricevuto, adattandoli alla ricezione di quanti si convertivano al vangelo. Dunque, prima di tutto nei sacramenti ci sono i misteri di Cristo; perciò, non si può parlare della natura dei sacramenti, cioè della loro realtà intima, se non ci si apre ai misteri: cosa da non farsi – dice il vescovo di Milano – ai non iniziati. Emerge il metodo di Ambrogio: «la luce dei misteri riesce più penetrante se colpisce di sorpresa anziché arrivare dopo le prime avvisaglie di qualche sommaria trattazione previa»: è un giudizio davvero attuale, se si pensa a certi modi da conductor televisivo del prete nella celebrazione dei sacramenti. Infatti, constata D. Bux, capita di assistere ai sacramenti trasformati in lunghe didascalie: è il segno della sfiducia nell’efficacia del rito, in quanto sostituiamo, con le nostre parole, le parole della sacra liturgia, le parole di Cristo, le parole delle formule sacramentali, perché temiamo che le persone non capiscano; che presunzione è la nostra! Dimentichiamo che c’è una dimensione invisibile del mistero – come dice sant’Ambrogio – che penetra nel cuore di sorpresa, cioè senza preparazione, nel senso naturale o mondano della parola. Questo spiega perché la catechesi sia diventata sterile: senza i sacramenti, essa è come una dottrina gnostica, adatta per i sapienti e gli intelligenti.
Conclude l’Autore: «Da Ambrogio impariamo il metodo dei sacramenti: non dare troppe spiegazioni prima che essi abbiano illuminato i credenti, perché esse non sono efficaci: per capire i sacramenti non bisogna aprire gli occhi, ma chiuderli. La parola “mistero”, infatti, viene dal greco myo, che vuol dire chiudere gli occhi, proprio come accade quando vogliamo capire meglio: intelligere. I misteri perciò non si capiscono vedendo con gli occhi della carne, ma vedendo le perfezioni invisibili di Dio con gli occhi interiori. Questo ci farebbe dire che la liturgia non ha bisogno di essere vista con gli occhi fisici, bensì di essere vista con gli occhi dello spirito: è l’inizio della mistica».
E vogliamo concludere anche noi con le parole di Ambrogio, nell’Apologia del profeta Davide: «Ti sei mostrato a me faccia a faccia, o Cristo; ti scopro nei tuoi sacramenti» (S. Ambrogio, Apologia del profeta Davide, 12, 58, in PL 14, 875). 

Immagini per meditare in un contesto di negazione della Legge di Dio: Le Tavole della Legge portate da un Angelo

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Joseph Schonmann, Le Tavole della Legge portate da un Angelo, 1840 circa

Dostoevskij e la Leggenda del Grande Inquisitore. «Diremo che permettiamo loro di peccare perché li amiamo»

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A primeggiare nei sinodi e nei concili
Prima furono i santi dottori. Per edificare.
Poi furono solo i dottori. Per accomodare.
Infine giunsero gli ideologi. Per demolire.



Nell’attuale contesto ecclesiale suona quantomeno attuale il capitolo del romanzo di Dostoevskij, I Fratelli Kamarazov, La leggenda del Grande Inquisitore. Buona lettura.

Dostoevskij e la Leggenda del Grande Inquisitore. «Diremo che permettiamo loro di peccare perché li amiamo»

«Amare il prossimo come se stessi (…) è impossibile. Su questa terra siamo legati dalla legge dell’individualità. Il nostro io ci è di ostacolo»
F.M. Dostoevskij

LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE

Queste poche pagine vogliono essere una riflessione su un capolavoro nel capolavoro. Mi riferisco a La leggenda del Grande Inquisitore che Ivan racconta al fratello Alësa nell’opera di Dostoevskij I fratelli Karamazov.

Il racconto di Ivan

La Leggenda è nota: Gesù Cristo torna sulla terra (per la precisione a Siviglia nel XVI secolo), vi compie miracoli e subito viene acclamato dalle folle come Salvatore, ma prima che la gente lo riconosca come il Cristo, viene arrestato dall’Inquisizione. Nella cella di reclusione, mentre scende a notte, riceve la visita del novantenne capo dell’Inquisizione, che immediatamente Lo riconosce.
Inizia un lungo monologo, in cui il vecchio rimprovera a Gesù di essere tornato sulla terra a rovinare i suoi piani e a mettere in pericolo il suo progetto di pacifica convivenza  tra gli uomini. L’ideale evangelico di libertà – sostiene l’Inquisitore – è troppo duro per la maggior parte degli uomini (non per lui, cui Dio aveva dato le forze necessarie per seguirlo), condannati pertanto da esso alla inevitabile dannazione e dunque all’infelicità. Proprio questa considerazione lo spinse ad abbandonare l’ideale evangelico e a prendere parte al progetto di concedere almeno la felicità terrena ad un’umanità comunque incapace di raggiungere quella eterna. Questo progetto prevede la trasformazione dell’ideale evangelico in una morale più accessibile all’uomo, fatta di gesti esteriori alla portata di tutti. In questo modo, anche i deboli crederanno di poter raggiungere la felicità eterna, sottometteranno la loro libertà ai precetti della Chiesa e ne riceveranno in cambio una felice speranza nell’aldilà. Ecco allora tutta la terra schiava, illusa ma felice. Questo il progetto dell’Inquisizione: portare in terra la felicità a tutti, dato che quella celeste è al di fuori della portata di molti. Di più l’uomo non può pretendere.
Ora, Cristo tornando a Siviglia rischia di rovinare il progetto: riaffermando il vero ideale evangelico, tutti si renderebbero conto che solo a pochi eletti sono state date le capacità di realizzarlo. Che ne sarebbe allora del resto dell’umanità? Folle disilluse, che tentano invano di uniformarsi al Vangelo e cadono di continuo nel peccato, disperate nel vedersi destinate all’Inferno e all’infelicità. Cristo porterebbe la felicità solo a pochi eletti, l’Inquisizione la mette alla portata di tutti. Certo, seguendo l’Inquisizione l’uomo non raggiungerà il Paradiso, ma non l’avrebbe raggiunto comunque, a causa della propria naturale debolezza. Per lo meno, sarà felice sulla terra.
Per questo, al termine del lungo monologo, l’Inquisitore invita Cristo ad andarsene dalla terra e a non ritornare più.
Cristo bacia l’inquisitore e se ne va’. In silenzio. Così termina la Leggenda.

Chi è il Grande Inquisitore?

Il Grande Inquisitore è un uomo di chiesa, appartiene anzi ai più alti gradi gerarchici di questa chiesa che dice di essere depositaria e diffonditrice del messaggio della salvezza, ma egli non crede in quel Dio, nel cui nome tuttavia parla ed agisce. E non si può certamente dire che l’Inquisitore abbia perduto la fede per la rilassatezza dei costumi. Anzi ha «mangiato anche lui radici nel deserto», anche lui si è «accanito a domare la propria carne per rendersi libero e perfetto» .
Ma al messaggio della libertà, gli uomini non sono in grado di corrispondere, perché deboli e fragili. Sì, dice ancora il vecchio, «non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso ». Pertanto, con un tragico ribaltamento di prospettiva, egli riterrà di amare gli uomini, togliendo loro il peso della libertà e rendendoli “felici” nel docile appiattimento dello spirito e nella soddisfazione dei bisogni immediati. Un amore questo, che si tinge dei sinistri bagliori dei roghi… è giusto che uno muoia … per il bene di molti.

Il progetto del Grande Inquisitore

L’ampia e tragica pretesa del Grande Inquisitore è quella di “correggere” l’opera di Cristo: «Ma io ho aperto gli occhi, e non ho voluto servir la follia. Ho virato di bordo, e mi sono aggregato alla schiera di quelli che hanno corretto le Tue gesta». Ritenendo impraticabile ai più la strada della libertà indicata da Cristo, nel nome stesso di Lui, mentendo, alla strada impervia della libertà è stata sostituita la strada facile del servilismo felice, permettendo anche di peccare.
«Oh, noi li persuaderemo che allora soltanto essi saranno liberi, quando rinunzieranno alla libertà loro in favore nostro e si sottometteranno a noi… Oh, noi consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare. Diremo che ogni peccato, se commesso col nostro consenso, sarà riscattato, che permettiamo loro di peccare perché li amiamo e che, in quanto al castigo per tali peccati, lo prenderemo su di noi. Così faremo, ed essi ci adoreranno come benefattori che si saranno gravati coi loro peccati dinanzi a Dio. E per noi non avranno segreti. Permetteremo o vieteremo loro di vivere con le proprie mogli ed amanti, di avere o di non avere figli, – sempre giudicando in base alla loro ubbidienza, – ed essi s’inchineranno con allegrezza e con gioia. Tutti, tutti i più tormentosi segreti della loro coscienza, li porteranno a noi, e noi risolveremo ogni caso, ed essi avranno nella nostra decisione una fede gioiosa, perché li libererà dal grave fastidio e dal terribile tormento odierno di dovere personalmente e liberamente decidere. E tutti saranno felici, milioni di esseri, salvo un centinaio di migliaia di condottieri. Giacché noi soli, noi che custodiremo il segreto, noi soli saremo infelici».
Il tragico ateismo del Grande Inquisitore raggiunge il punto culminante e intensivo nell’identificazione con lui, con il Tentatore.
L’identificazione con lo spirito del Tentatore da parte del Grande Inquisitore, «… noi non siamo con Te, siamo con lui: ecco il nostro segreto!», fa sì che questi, nel confronto con Cristo nel buio della prigione Sivigliana, assuma la configurazione dell’Anticristo. Desunte dalla pagina del vangelo matteano (Mt 4, 1-11), le tre tentazioni si rivestono di un progressivo significato di sfida, di fronte all’insuccesso dell’opera di Gesù. Le tre tentazioni indicano l’unica strada da seguire, per raggiungere gli uomini deboli e dominarli nella illusione di una «quieta e umile felicità». Non saranno le pietre a trasformarsi in pane, ma il pane stesso, frutto del lavoro degli uomini, sarà loro sottratto e ridistribuito da chi ha il potere. E il miracolo sarà nell’aver tramutato in pane quel pane che, senza quel dominio che ha tolto la libertà, si sarebbe trasformato in pietra.
[...]

Le ragioni dell’Inquisitore

Il discorso dell’Inquisitore non può essere semplicemente rigettato come figlio di un patto col diavolo, pertanto falso a priori. L’Inquisitore (come dimostra anche la sua vicenda personale) è un uomo che ha preso estremamente sul serio il messaggio evangelico. Infatti, chi potrebbe negare che il comandamento dell’amore è qualcosa di “sovrumano”? L’amore sfugge al controllo della ragione. Si può stabilire intellettualmente che è giusto amare il prossimo, ma una volta fatto questo si è ancora infinitamente distanti dall’amarlo concretamente, dal provare amore per lui. Ancor più evidente è il caso del perdono. Il genitore di un figlio assassinato può ripetersi mille volte che è giusto perdonare (e già questo implica uno sforzo notevole...), ma non è ben più “naturale” (“umano”) che, nei confronti dell’omicida, provi un odio profondo, anziché vedere in lui un fratello?
Nessun ragionamento è in grado, automaticamente, di far nascere il minimo sentimento. Il comandamento dell’amore è al centro del Vangelo, ma l’uomo raramente riesce a “farsi ubbidire” quando comanda a se stesso di amare. Troppo fragile è la volontà umana, troppo debole la voce della ragione. L’Inquisitore sta lì a ricordarci la sproporzione tra le “pretese” di Cristo e le nostre capacità, di qui il rimprovero al “prigioniero” di aver sopravvalutato l’uomo: non siamo abbastanza forti per amare; solo alcuni, cui è stata concessa una grazia particolare, lo possono fare. La Chiesa si occupa degli altri.
[...]

Fonte: Il Timone, 9.4.2016

Il giubileo del perdono di Notre-Dame du Puy

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Nella domenica del Buon Pastore rilanciamo volentieri questo contributo di Cristina Siccardi.






Philippe de Champaigne, Il Buon Pastore, XVII sec., Musée des Ursulines, Mâcon


Philippe de Champaigne, Il Buon Pastore, XVII sec.,1650-60, Musée des Beaux-arts, Tours



Jean-Baptiste de Champaigne, Il Buon Pastore, 1650 circa, Palais des Beaux-Arts, Lille

Bartolomé Esteban Pérez Murillo, Il Buon Pastore, 1660 circa, museo del Prado, Madrid

Seguace del Murillo, Il Buon Pastore, XVII sec., collezione privata

Pedro Ruiz González, Il Buon Pastore, 1693, museo del Prado, Madrid

Cristóbal García Salmerón, Il Buon Pastore, XVII sec., museo del Prado, Madrid


Vicente López Portaña, Il Buon Pastore, 1801, Museo de Bellas Artes San Pio V, Valencia

Erzsebet Hikady, Il Buon Pastore, 1950 circa, collezione privata

Il giubileo del perdono di Notre-Dame du Puy

di Cristina Siccardi

La scorsa settimana abbiamo parlato delle Sacre Spine di Bari e di Andria, che il 25 marzo, contemporaneamente giorno dell’Annunciazione e del Venerdì Santo, hanno dato segni di vita: una ha trasudato sangue, dal quale di scorgeva un volto di uomo, l’altra ha gemmato di bianco.
Nello stesso giorno un’altra Spina è miracolosamente divenuta viva, quella custodita nella parrocchia di San Giovanni Bianco (Bergamo). Non accadeva dal 1932 (nel 2005, infatti, nella coincidenza delle due date, il miracolo non si era verificato) e prima ancora dal 1598. Fatto, quindi, rarissimo.
Ha dichiarato il Vescovo Francesco Beschi ai fedeli: «Care sorelle e cari fratelli, la venerazione della reliquia della Sacra Spina, custodita nella chiesa e dalla comunità parrocchiale di San Giovanni Bianco, si è storicamente alimentata ad un particolare segno, chiamato “fioritura”, che si verificherebbe in occasione della coincidenza del 25 marzo, solennità dell’Annunciazione di Maria, con la celebrazione del Venerdì Santo. Con grande gioia posso annunciare che il segno si è manifestato». Nelle fotografie è possibile notare germogli così turgidi e carnosi da dare l’idea che siano pronti a fiorire, davvero impressionante.
Questo segno manifesta che Cristo Risorto è particolarmente presente in questi tempi di colossale corruzione spirituale e morale: dissolvenza della Fede dentro e fuori la Chiesa, che si unisce ad un ripudio dei principi e dei valori fondanti l’esistenza. Se da un lato Satana e gli spiriti maligni «si aggirano per il mondo a perdizione delle anime» con assordante schiamazzo distruttivo e grande favor pubblico, dall’altro, nel silenzio costruttivo, Cristo Vivo opera e, allo stesso tempo, dà sostegno e coraggio a chi si avvede dei suoi richiami. Tempo di Grazia, dunque, perché «laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la Grazia» (Rm 5, 20).
E la Grazia ha dei percorsi ben precisi in Europa, il cui tessuto sociale ha perso la sua aderenza cristiana, ma le sue strade no, ricche come sono di Arte cristiana, la quale custodisce Tesori cristiani, miracoli cristiani, reliquie cristiane, apparizioni cristiane, come a Le Puy en Velay (Alta Loira), in Francia, dove quest’anno si celebra il XXXI Giubileo de «Le Grand Pardon de Notre-Dame du Puy»: proprio in questo Santuario si celebra la coincidenza dell’Annunciazione e del Venerdì Santo. Secondo la Tradizione, nel luglio del 47 la Vergine Santissima apparve sul Monte Anis ad una donna, Vila, guarendola da una grave malattia e due secoli dopo la Madonna riapparve nello stesso luogo ad una paralitica e la sanò. La cappella originaria venne, nel corso dei secoli, trasformata nell’attuale Santuario.
Fu Papa Giovanni XVI ad istituire nel 992 il primo Giubileo du Puy al fine di onorare la Madre di Dio e ricordare il nostro riscatto grazie a Dio fatto uomo, morto sulla Croce per la remissione dei nostri peccati. Incarnazione e Redenzione. Questo Giubileo di Le Puy coinciderà anche con il 300° anniversario della morte di Louis-Marie Grignon de Montfort, apostolo della devozione mariana e legato da grande devozione alla Cattedrale di Le Puy. La statua di Notre-Dame de France, che domina il Santuario, ricorda tutte le grazie private e pubbliche concesse alla nazione blu bianca rossa nel corso dei secoli. La bellissima preghiera della «Salve Regina» fu composta da Ademar de Monteil, Vescovo di Puy e venne cantata per la prima volta proprio in questa Cattedrale il 15 agosto 1096, nei giorni che avviarono la prima Crociata.
Una grande scalinata (134 gradini) conduce alla cattedrale in stile romanico; essa presenta influenze diverse, riconducibili all’Oriente e alla Spagna moresca. Il coro della cattedrale poggia direttamente su un alto spuntone roccioso. Sull’altare maggiore si trova la Vergine Nera, una statua che sostituisce una precedente effigie bruciata durante la Rivoluzione Francese (1794). Le Puy era una città molto importante nel mondo cristiano del primo millennio: «Via Podiensis», uno dei percorsi di Saint-Jacques de Compostelle.
Dall’alto del picco roccioso Corneille, la Statua della Madonna di Francia (alta 38,7 m e del peso di 835 tonnellate) domina la città; fu scolpita da Jean-Marie Bonnassieux, ricavando il ferro della fusione di 213 cannoni, offerti dal generale Pélissier, vincitore della guerra di Crimea (1860). Il monumento rappresenta la Santa Vergine nell’atto di indicare la città a Gesù perché la benedica.
Ma torniamo in Italia, dove si sta svolgendo, a Cagliari, una mostra molto importante, dal titolo In Hoc Signo. La mostra, allestita nella Fondazione Banco di Sardegna (via Salvatore da Horta 2) è dedicata all’Ardia e a «San Costantino», infatti in questo territorio l’Imperatore romano è venerato come Santo, così come accade per la Chiesa bizantina. L’Ardia è una manifestazione tradizionale che si tiene a Sedilo il 6 e 7 luglio di ogni anno e consiste in una rituale processione a cavallo con tre tappe finali di corsa per raggiungere il Santuario dedicato a Costantino I (localmente denominato Santu Antinu).
Vittorio Sgarbi è il curatore della mostra. Lo storico dell’Arte il 24 marzo u.s. ha dedicato, a ridosso della strage di Bruxelles, la sua striscia settimanale di Virus suRai2 proprio alla mostra In Hoc Signo poiché: «Quel segno della croce è il simbolo anche per l’arte contemporanea esposta a Cagliari, della consapevolezza della nostra civiltà cristiana» e, intervistato da Paolo Curelli della testata La nuova Sardegna (3 aprile 2016) ha affermato: «In hoc signo vinces rappresenta, ora più che mai, la forza dello spirito (…) Ancora una volta “non possiamo che dirci cristiani” e ritrovarci nel simbolo del crocifisso. La costituzione europea non afferma le nostre radici cristiane, più volte evocate da diversi pontefici, ma il cristianesimo è presente in ogni nostra città, mentre siamo ormai arretrati da questa posizione in una indifferenza che è contraddetta dalla nostra arte e dalla nostra storia. La croce vessillo di Sant’Antine, l’imperatore Costantino I, è la vera croce ritrovata da sua madre Sant’Elena (…) Costantino rappresenta la vittoria, militare, politica ma anche culturale. L’imperatore che evita il disfacimento dell’impero fondando Costantinopoli e che, infine, fa trionfare il cristianesimo con l’editto di Milano del 313 facendolo diventare istrumentum regni».
In questa mostra è esposta, fra le altre, un’opera del Maestro Giovanni Gasparro, pittore pluripremiato, di Fede cattolica, dal titolo In hoc signo vinces  Il sogno di Costantino, un vero e proprio capolavoro. Memore della visione pittorica di Piero della Francesca negli affreschi con le Storie della Vera Croce della Basilica aretina di San Francesco, l’artista ha ambientato la scena in un notturno, all’interno della tenda del campo di battaglia.
Rinunciando all’iconografia del sogno, egli ha optato per la visione: l’imperatore è folgorato estaticamente dal simbolo abbagliante della Croce di Cristo, sormontata dal Chrismon, il Chi Rho, monogramma cristologico: XP sono le prime due lettere della parola greca Χριστός, Christòs, monogramma che venne ripreso sul labaro, lo stendardo militare imperiale, per espresso volere di Costantino che, come scrive Gasparro nella nota esplicativa al suo dipinto: «sposò virilmente l’opzione monoteista cristiana quando ancora non era giunto a Roma per la Battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio. Apparvero a lui ed all’intero esercito, un incrocio di luci che sormontava il sole e la scritta ντούτνίκα, e Cristo stesso, nella notte successiva, gli avrebbe indicando in sogno, di usare il medesimo simbolo come vessillo in battaglia. Costantino seguì quellindicazione che si rivelò foriera di vittoria, tanto da spingere l’imperatore a legittimare il culto dei cristiani con l’editto epocale di Milano».
Nell’opera Costantino è sveglio, pienamente cosciente della visione. «È seminudo perché disarmato nel “subire” la visione della Croce di Gesù. Ho inteso fondere i due episodi storici dell’apparizione del Chi Rho all’esercito ed il sogno notturno». La luce che si diparte dalla Croce, squarciando le tenebre della notte, è «per me allusione strumentale a sottendere la luce della Grazia divina che vince le tenebre del peccato e della morte. L’alba del Cristianesimo nell’Occidente romano, ha avuto questo carattere. Di lì è nata la nostra Civiltà. Il piccolo bacile argenteo posto sul triclinio (la cui foggia è dedotta dai coevi esemplari pompeiani) è simbolo dell’accettazione del messaggio evangelico (forma del bacile concava, quindi accogliente), nonché la rifrazione e promanazione dello stesso messaggio al mondo, anche per merito di Costantino (allo stesso modo in cui l’argento riflette, come uno specchio, la luce emanata dalla Croce-Chrismon)».
Così, mentre le croci spariscono dalle scuole, dagli uffici pubblici, dalle chiese di moderna e apostatica fattura, e dai cuori della gente, le Sacre Spine sanguinano, gemmano, sono in potenza di fiorire, intanto la Tradizione avanza nel silenzio delle anime in orazione, nelle Sante Messe, sempre più diffuse, in Vetus Ordo, negli scritti come nel passa parola; e ci sono pittori di fama internazionale che dipingono magistralmente, al servizio della vera Arte e del vero Cattolicesimo. Come «In hoc signo vinces» («Con questo segno vincerai») valse per Costantino, allo stesso modo varrà per i credenti in Cristo.

Fonte: Corrispondenza romana, 6.4.2016

Cristiani martiri in Oriente e discussione sulle esigenze minime del Vangelo in Occidente in un aforisma del card. Sarah

Adulterio e fornicazione: la Chiesa riprende le Sacre Scritture senza cambiarle

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Nell’attuale contesto in cui tutto, in nome di una pseudo misericordia, viene rimesso in discussione o svuotato di significato, è bene ribadire con più forza la dottrina della Chiesa e la Legge divina, che non ammettono eccezione alcuna, neppure per motivi “pastorali”. Per questo, un cattolico non può accettare novità tali da minare i fondamenti della Rivelazione e della Tradizione della Chiesa, memore di quanto raccomandava San Paolo ai Galati: "Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n'è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! L'abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema! Infatti, è forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!" (Gal. 1, 6-10).
Nella festa, perciò, di San Leone Magno e di Santa Gemma Galgani, rilanciamo questo contributo quantomeno attuale.


Raffaellino del Colle, S. Leone Magno, 1535 circa, museo civico, Sansepolcro

Francisco de Herrera il Giovane, S. Leone Magno, XVII sec., museo del Prado, Madrid






Giovanni Gasparro, Torculus Christi. Torchio mistico con i Santi Gabriele dell'Addolorata e Gemma Galgani, 2013, collezione privata


Francesco  Nagni, Urna di S. Gemma,  XX sec., Santuario di Santa Gemma, Lucca.
Sulla stessa vi è la seguente epigrafe dedicatoria:
GEMMA GALGANI LUCENSIS VIRGO INNOCENTISSIMA QUAE DIVINI AMORIS AESTU MAGIS QUAM VI MORBI ABSUMPTA QUINTO AETATIS LUSTRO VIX EMENSO AD COELESTIS SPONSI NUPTIAS EVOLAVIT DIE XI M. APRILIS A. MCMIII PERVIGILIA DOMINICAE RESURRECTIONIS ANIMA DULCIS TE IN PACE CUM ANGELIS

Adulterio e fornicazione: la Chiesa riprende le Sacre Scritture senza cambiarle

di Pierfrancesco Nardini

Sempre più spesso si sente sminuire l’importanza da attribuire all’atto sessuale, soprattutto se “una tantum” e anche se al di fuori del matrimonio, all’attenzione con cui usarlo, alla sua sacralità. È anche capitato di sentir dire che non risultano nelle Sacre Scritture alcuni precetti insegnati dalla Chiesa nel corso dei millenni. Arrivando così a far intendere che alcuni “limiti” siano stati imposti dagli uomini, che così facendo hanno snaturato l’insegnamento di Cristo. Come se si potesse far credere che Gesù abbia tollerato cose tipo adulterio e fornicazione…
Non ci sono nelle Sacre Scritture le note indicazioni ecclesiastiche su matrimonio e sessualità? Siamo sicuri?
Prima di dimostrare come la Chiesa Cattolica abbia solo riportato fedelmente quanto presente nelle Sacre Scritture, preme ricordare che il cattolico deve seguire l’interpretazione data dalla Chiesa ai Testi sacri, pena il rischio di “protestantizzarsi”, cosa tra l’altro purtroppo abbastanza diffusa ai nostri giorni.
Il Concilio di Trento, e non solo, infatti, impone che «…nessuno, fidandosi del proprio giudizio, nelle materie di fede e morale, che fanno parte del corpo della dottrina cristiana, deve osare distorcere la sacra Scrittura secondo il proprio modo di pensare, contrariamente al senso che ha dato e dà la santa madre chiesa, alla quale compete giudicare del vero senso e dell’interpretazione delle sacre Scritture; né deve andare contro l’unanime consenso dei padri, anche se questo genere di interpretazioni non dovesse essere mai pubblicato…» (Concilio di Trento, Decreto sulla Vulgata, 8.4.1546).
Tanto da immettere il detto concetto anche nella Professione di fede tridentina (Bolla Iniunctum nobis, 13.11.1564): «E così pure accolgo la sacre Scrittura secondo quel senso che ha tenuto e che tiene per fermo la santa madre chiesa, cui spetta giudicare sul vero senso e sull’interpretazione delle sacre Scritture, né mai la riceverò o la interpreterò, se non secondo l’unanime consenso dei padri». E così anche il Concilio Vaticano I (1870) nella Costituzione dogmatica Dei Filius al capitolo 2 sulla Rivelazione.
D’altronde anche Sant’Agostino scrisse ai manichei: «Non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica» [Cf. Contra ep. man. 5, 6; cf. Contra Faustum 28, 2].

L’insegnamento dell’Antico Testamento

Nell’Antico Testamento vi è una profusione di indicazioni su matrimonio, adulterio e fornicazione.
Sin da Es. 20,14 l’adulterio è condannato. Nel Levitico è espressamente detto «Non ti congiungerai alla moglie del prossimo tuo, né ti contaminerai con tale unione» (Lv. 18, 20) ed evidenziata la gravità dell’adulterio, anche sulla base della gravità della pena (20, 10-21). Anche il Deuteronomio conferma quanto finora evidenziato (Dt 5, 18; 5, 21; 22, 22; 27, 20).
In Tb 4,13 è espressamente scritto «Tieniti lontano, figliuol mio, da ogni fornicazione, e non ti permettere mai di far peccato con una che non sia la tua moglie».
Nel libro dei Proverbi si spiega in maniera chiara come vengono intesi adulterio e fornicazione e come verranno gravemente puniti. Vale la pena riportare testualmente i versetti.
«20E perché invaghirti, figlio, di una estranea? e stringerti al seno una donna non tua? 21Mentre il Signore tien d’occhio tutte le vie dell’uomo e osserva tutti i suoi passi? 22Ma l’empio resterà schiavo delle sue inique passioni e stretto nelle funi di suoi peccati. 23Egli morrà perché non ebbe a cuore la correzione e dalla sua grande stoltezza resterà ingannato” (Pro 5, 20-23); “Ma l’adultero per la sua insensataggine, perderà l’anima” (Pro 6, 32); “4Dì’ alla sapienza: «Tu sei la mia sorella» e la prudenza chiamala tua amica; 5affinchè ti custodisca dalla donna altrui, dalla straniera che ha parole leziose” (Pro 7, 4-6); “26Perchè molti ne ha fatti cadere feriti e anche i più forti furono da essa fatti perire. 27Le strade dell’Inferno sono quelle della sua casa che scendono nei penetrali della Morte» (Pro 7, 26-27).
Sulla stessa linea Sap 3, 16. Nel libro della Sapienza, tra l’altro, nei capitoli 3, 4 e 5 si specificano la punizione e l’infelicità degli empi, la fine diversa del giusto e dell’empio e la sorte diversa del giusto e dell’empio dopo morte.
Sembrano sufficienti le citazioni appena riportate per rendere chiaro che la Chiesa non fa altro che seguire perfettamente quel che ha insegnato l’AT. Proseguiamo però la ricerca anche all’interno del NT, e in particolare dell’insegnamento di Gesù.

Nel Nuovo Testamento

Cristo, nel Nuovo Testamento, conferma il divieto di adulterio e fornicazione, specificando tra l’altro che si può cadere in quel peccato anche solo per il desiderio. E conferma anche la gravità del peccato di fornicazione, indicando come preferibile strappare da sé l’oggetto del proprio scandalo che rischiare di non salvarsi. Ricordiamo velocemente a chi vuol contestare che la parola salvezza non è menzionata da Gesù, che la Geenna sta a significare Inferno.
Nel Vangelo di Matteo, infatti, Gesù dice «27Voi avete udito che fu detto agli antichi: - Non commettere adulterio. - 28Io invece dico a voi: - Chiunque guarda una donna per desiderarla ha già, in cuor suo, commesso adulterio con lei. - 29Ora se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo devi strappartelo e gettarlo lungi da te; molto meglio per te che perisca un solo tuo membro, piuttosto che l’intero tuo corpo sia gettato nella Geenna. 30E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala via e gettala lungi da te; meglio per te perdere un solo membro, piuttosto che andare nella Geenna con tutto il corpo. 31Fu anche detto: - Chiunque rimanda la propria moglie, le dia il libello del divorzio. - 32Io invece dico a voi: - Chiunque manda via la propria moglie, salvo il caso di fornicazione, la rende adultera, e chiunque sposa la donna mandata via, commette adulterio» (Mt 5, 27-32).
Ed ancora: «19Dal cuore, infatti, vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. 20Queste son le cose che contaminano l’uomo…»
E come commenta Pio XI, nell’Enciclica Casti Connubi: «Queste parole di Cristo non possono andare annullate, neppure per consenso del coniuge, giacché esse rappresentano la legge medesima di Dio e della natura, che nessuna volontà umana può distruggere o modificare”, “E nessuna consuetudine o pravo esempio e nessuna parvenza di progresso umano potranno mai indebolire la forza di questo divino precetto. Perché come è sempre il medesimo «Gesù Cristo ieri e oggi e nei secoli» (Eb 13, 8), così è sempre identica la dottrina di Cristo, della quale non cadrà un punto solo, sino a tanto che tutto sia adempito».
C’è poi il famoso episodio della donna adultera a cui Cristo, dopo aver risposto ai farisei «Chi tra voi è senza peccato, getti per primo contro di lei la pietra» (Gv 8, 7), dice «neppur io ti condanno; va’ e d’ora innanzi non peccare più» (Gv 8, 11).
Sant’Agostino nell’omelia 33 su questo passo è esaustivo, sia nell’evidenziare la misericordia di Gesù, sia nell’anticipare chi vorrebbe trarre da quel “neppur io ti condanno” una interpretazione di apertura all’adulterio, e di conseguenza alla fornicazione e agli atti impuri, dimenticando il “Va’ e d’ora innanzi non peccare più”.
Il santo di Ippona, infatti, così commenta: «Neppure io ti condanno. Come, Signore? Tu favorisci dunque il peccato? Assolutamente no. Ascoltate ciò che segue: Va’ e d’ora innanzi non peccare più (Gv 8, 10-11). Il Signore, quindi, condanna il peccato, ma non l’uomo. Poiché se egli fosse fautore del peccato, direbbe: neppure io ti condanno; va’, vivi come ti pare, sulla mia assoluzione potrai sempre contare; qualunque sia il tuo peccato, io ti libererò da ogni pena della geenna e dalle torture dell’inferno. Ma non disse così.». Specificando poi, a disdire coloro che ricordano solo la misericordia di Dio, ma dimenticano la sua giustizia: «A coloro dunque che sono in pericolo per disperazione, egli offre il porto del perdono; per coloro che sono insidiati dalla falsa speranza e si illudono con i rinvii, rende incerto il giorno della morte. Tu non sai quale sarà l’ultimo giorno; sei un ingrato; perché non utilizzi il giorno che oggi Dio ti dà per convertirti? E’ in questo senso che il Signore dice alla donna: Neppure io ti condanno: non preoccuparti del passato, pensa al futuro. Neppure io ti condanno: ho distrutto ciò che hai fatto, osserva quanto ti ho comandato, così da ottenere quanto ti ho promesso».
In questo episodio, quindi, N.S. Gesù Cristo ci fa capire cosa vuol dire “condannare il peccato e accogliere il peccatore”.
Anche dopo l’ascensione al Cielo di Cristo, l’insegnamento rimane invariato.
Negli Atti degli Apostoli infatti si ribadisce il divieto alla fornicazione (At 15, 18-29 e At 21, 25), così come farà ripetutamente San Paolo, che spesso viene tirato in ballo a casaccio.
Si ricordano su tutti alcuni passi delle Lettere dell’Apostolo, dove si legge chiaro cosa egli pensasse di adulterio e fornicazione, e di conseguenza di quale fosse l’uso da farsi della sessualità. Anch’egli ricordando, tra l’altro, agli smemorati che Dio non è solo buono (che sembrerebbe quasi non esistesse un Giudizio particolare per ognuno di noi e tutti si salvino), ma è anche giusto.
Nella prima Lettera ai Corinzi, San Paolo è diretto ed impossibile da mal interpretare.
«9O non sapete che gente ingiusta non erediterà il regno di Dio? Non illudetevi; né fornicatori, né idolatri, né adulteri; 10nè effeminati, né pederasti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. 11E tale era qualcuno di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito Santo del Dio nostro. 12Tutto mi è lecito, ma non tutto giova; tutto mi è lecito, ma non mi lascerò dominare da cosa alcuna. 13I cibi sono pel ventre, e il ventre per i cibi; ma Dio questo e quelli ridurrà a nulla. Ma il corpo non è per fornicazione, bensì per il Signore, e il Signore per il corpo; 14e Dio come risuscitò il Signore, risusciterà anche noi per il suo potere. 15Non sapete che i nostri corpi sono membra di Cristo? or dunque le membra di Cristo le farò membra d’una meretrice? non sia mai! 16O non sapete che chi si unisce con una meretrice forma un corpo solo con lei? poiché saranno, dice, due in una carne sola. 17Ma chi s’unisce al Signore forma unico spirito con lui. 18Fuggite la fornicazione. Qualunque peccato faccia l’uomo è fuori del corpo; ma il fornicatore commette un peccato rispetto al proprio corpo. 19O non sapete che il corpo vostro è tempio del Santo Spirito che è in voi, [Spirito] che avete da Dio? e non siete di voi stessi, 20perché siete stati comprati a c» (1 Cr 6, 9-20).
Gli stessi concetti sono ribaditi, sempre con chiarezza inequivocabile, in Col 3, 5 («5Mortificate dunque le vostre membra terrene, cioè la fornicazione, l’impurità, la libidine, la prava concupiscenza, e l’avarizia che è un’idolatria; 6per le quali cose piomba l’ira di Dio sui figliuoli dell’incredulità») ed anche in Eb 13, 4 («Siano onorate le nozze in tutto, e il talamo sia senza macchia; gli impuri e gli adulteri Dio li giudicherà»).
Nel capitolo 4 della Lettera ai Tessalonicesi fa un apologia della purità e della castità («3Poichè questa è la volontà di Dio, la santificazione vostra; che v’asteniate dalla fornicazione; 4che ciascuno di voi sappia tenere il proprio corpo in santità e onestà» 1 Ts 4,3). Purità contrario di impurità. Impurità uguale fornicazione. Purità contrario fornicazione. Volontà di Dio uguale purità. Sembra chiaro.
Addirittura l’Apostolo in 1Cor 5,11 afferma che «con un siffatto (fornicatore tra gli altri, ndr) neppur mangiare dovete» ed in Ef 5,3 che non si deve neanche nominare la parola fornicazione.
E San Paolo esprime gli stessi concetti in tanti altri passi delle sue Lettere: si vedano ad esempio, Ef 5,32; in generale il capito 7 della prima Lettera ai Corinti (7,10; 7,39).
Questi passi da soli sono esaustivi circa la realtà dell’insegnamento delle Sacre Scritture in tema si matrimonio e sessualità.
Il Magistero della Chiesa Cattolica, dunque, non ha fatto altro che adeguarsi a quanto insegnato da Gesù e dall’AT, impegnandosi solo nella corretta interpretazione da dare ai vari passi. Questo si riscontra senza tema di smentita nel Magistero bimillenario. Limiterò la citazione dei testi, cercando di effettuare una cronologia fino ai tempi nostri.

L’insegnamento della Chiesa

Il 6 marzo 1254, in una lettera al vescovo di Firenze, Innocenzo IV scrive: «In ordine alla fornicazione che un uomo libero commette con una donna libera, non si deve in alcun caso dubitare che non sia peccato mortale, dato che l’apostolo afferma che sono esclusi dal regno di Dio sia i fornicatori che gli adulteri» 18 (§ 14).
Si noterà l’aderenza di tale affermazione a quanto insegnatoci da San Paolo in 1Cor 6,9.
Al Concilio di Firenze del 22 novembre 1439, nella Bolla sull’unione con gli armeni, Exsultate Deo, dopo aver ricordato che «Settimo è il sacramento del matrimonio, simbolo dell’unione di Cristo e della chiesa, secondo le parole dell’apostolo: “Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla chiesa” [Ef 5,32]», si ribadisce quanto da sempre insegnato: «Triplice è lo scopo del matrimonio: il primo consiste nell’accettare la prole e educarla al culto di Dio; il secondo nella fedeltà, che un coniuge deve osservare nei confronti dell’altro; il terzo nella indissolubilità del matrimonio, perché essa significa l’unione indissolubile di Cristo e della chiesa. Infatti, sebbene a causa dell’infedeltà sia permesso un regime di separazione, non è lecito, però, contrarre un altro matrimonio, poiché il vincolo del matrimonio legittimamente contratto è perpetuo».
Il concetto di fedeltà è ovviamente l’estremo opposto dell’adulterio e della fornicazione, così che il Concilio di Firenze, elevandola a scopo fondamentale del Matrimonio, condanna chiaramente i suoi opposti. E così vediamo che anche l’indissolubilità del Matrimonio cristiano è mantenuto identico a come insegnato da Cristo e nell’AT.
L’11 novembre 1563 il Concilio di Trento (Dottrina e canoni sul matrimonio), con Papa Pio IV, aveva chiarito che «Se qualcuno dirà che il matrimonio non è in senso vero e proprio uno dei sette sacramenti della legge evangelica, istituito da Cristo, ma che è stato inventato dagli uomini nella chiesa, e non conferisce la grazia, sia anatema» (Can. 1) e «Se qualcuno dirà che la chiesa sbaglia quando ha insegnato e insegna, secondo la dottrina del Vangelo e degli apostoli, che il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio di uno dei coniugi; che nessuno dei due, nemmeno l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio, può contrarre un altro matrimonio, vivente l’altro coniuge; che commette adulterio il marito che, cacciata l’adultera, ne sposi un’altra, e la moglie che, cacciato l’adultero, ne sposi un altro, sia anatema» (Can. 7).
Il Concilio di Trento tra l’altro ratifica anche l’unica possibilità di allontanamento dei coniugi, la separazione, che è anche l’unica che non intacca l’indissolubilità del Matrimonio, quando, al Canone 8 ammonisce: «Se qualcuno dirà che la chiesa sbaglia quando dichiara che, per molte cause, si può dare separazione di letto e di mensa tra i coniugi, a tempo determinato o indeterminato, sia anatema».
Sulla falsariga di quanto finora evidenziato, anche le 65 proposizioni condannate nel decreto del S. Uffizio del 2 marzo 1679, nel condannare le proposizioni n. 48 («Sembra molto chiaro che la fornicazione in se stessa non coinvolge nessuna malizia, e che è cattiva soltanto perché proibita, tanto che il contrario sembra completamente discordante dalla ragione») e n. 50 («Un rapporto sessuale con una donna sposata quando il marito è consenziente, non è adulterio; per cui è sufficiente dire nella confessione di avere fornicato») ribadiscono il divieto dei suddetti comportamenti e l’aderenza al perenne insegnamento.
Continuando in questo nostro veloce excursus ed arrivando ai giorni nostri, troviamo l’Enciclica di Pio XI Casti Connubi del 31 dicembre 1930, pietra miliare del Magistero in materia di Matrimonio.
Pio XI, con fermezza, insegnava: «Resti anzitutto stabilito questo inconcusso e inviolabile fondamento: che il matrimonio non fu istituito né restaurato da uomini, ma da Dio; non dagli uomini, ma dallo stesso Dio, e da Gesù Cristo redentore della medesima natura fu presidiato di leggi e confermato e nobilitato: le quali leggi perciò non possono andar soggette ad alcun giudizio umano e ad alcuna contraria convenzione nemmeno degli stessi coniugi»
Non era l’unica volta in cui Pio XI si sarebbe espresso, direttamente o meno, sulle cose inerenti i rapporti tra uomo e donna.
Nell’Enciclica Quadragesimo anno del 15 maggio 1931, infatti, spiegava: «Del resto la cristiana dottrina insegna, e la cosa è certissima anche al lume naturale della ragione, che gli stessi uomini privati non hanno altro dominio sulle membra del proprio corpo, se non quello che spetta al loro fine naturale e che non possono distruggerle o mutilarle o per altro modo rendersi inetti alle funzioni naturali, se non nel caso in cui non si può provvedere per altra via al bene di tutto il corpo».
E qualche anno dopo, il 19 marzo 1937, nell’Enciclica Divini Redemptoris: «Inoltre, come il matrimonio e il diritto all’uso naturale di esso sono di origine divina, così anche la costituzione e le prerogative fondamentali della famiglia sono state determinate e fissate dal Creatore stesso, non dall’arbitrio umano né da fattori economici …».
Arriviamo così ad un’altra pietra miliare, come è l’Enciclica Humanae vitae di Paolo VI (25 luglio 1968). Il Papa qui, tra le altre cose, conferma l’indissolubilità del Matrimonio: «È ancora amore fedele ed esclusivo fino alla morte. Così infatti lo concepiscono lo sposo e la sposa nel giorno in cui assumono liberamente e in piena consapevolezza l’impegno del vincolo matrimoniale. Fedeltà che può talvolta essere difficile, ma che sia sempre possibile, e sempre nobile e meritoria, nessuno lo può negare».
L’insegnamento che si deduce da duemila e passa anni di Cristianesimo è che «la sessualità si esercita veramente in maniera umana solo come parte costitutiva dell’amore con cui uomo e donna si legano l’un all’altra fino alla morte» (Denzinger). E su questa linea, integralmente, rimane Giovanni Paolo II.
Nell’altra pietra miliare dello scorso secolo, l’Esortazione apostolica Familiaris consortio del 22 novembre 1981, infatti, il Papa polacco così si esprime: «21. Di conseguenza la sessualità, mediante la quale l’uomo e la donna si donano l’uno all’altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l’intimo nucleo della persona umana come tale. Essa si realizza in modo veramente umano, solo se è parte integrale dell’amore con cui l’uomo e la donna si impegnano totalmente l’uno verso l’altra fino alla morte. … La donazione fisica totale sarebbe menzogna, se non fosse segno e frutto della donazione personale totale, nella quale tutta la persona, anche nella sua dimensione temporale, è presente si riservasse qualcosa o la possibilità di decidere altrimenti per il futuro, già per questo essa non si donerebbe totalmente».
Paolo VI e Giovanni Paolo II puntano molto, come altri documenti precedentemente citati, sul concetto di fedeltà, che contrasta con l’adulterio e la fornicazione, che sono infatti tendenti alla promiscuità e ad un uso distorto della sessualità, rispetto al fine che Dio ha pensato per la stessa.

Il Catechismo della Chiesa

Il Magistero della Chiesa Cattolica si è espresso anche tramite i Catechismi, ovviamente.
Partiamo dal Catechismo tridentino, per decreto del Concilio di Trento, Pio V, 1563.
Circa il Matrimonio, questo Catechismo si accoda alla Tradizione e insiste sulla sua indissolubilità, ricordando che questa è stata confermata da Gesù.
«294 Sempre con le parole di Cristo è facile provare che il vincolo matrimoniale non può essere spezzato da nessun divorzio». Riportandosi a Lc 16,18, insegna che «Il vincolo coniugale dunque può essere spezzato solo dalla morte. Anche l’Apostolo lo afferma, quando scrive: “La moglie legata alla legge, finché il marito vive; quando questi sia morto, essa è affrancata dalla legge e può sposare chi vuole, nel Signore” (1 Cor 7,39)».
Anche i continui richiami effettuati, con evidente aderenza alla Tradizione, mai deviando un concetto, una certezza di continuità di insegnamento sui concetti in oggetto. Il Catechismo tridentino, infatti, ricorda anche che l’Apostolo in 1 Cor 7,10 ribadisce che «Non io, ma il Signore comanda a coloro che sono uniti in Matrimonio: “La moglie non si allontani dal marito; qualora se ne allontani, non si risposi, o cerchi di riconciliarsi con il proprio marito”».
Si arriva anche a spiegare l’atteggiamento da tenere per un cattolico dinanzi ad una situazione estremamente complicata, così anticipando di secoli (o forse c’erano già a quei tempi determinate eccezioni) chi, con la solita tecnica dell’eccezione a base della contestazione, chiede cosa dovrebbe fare una donna che viene picchiata, una donna che ha il marito che la tradisce sistematicamente, ecc… tra l’altro sempre nello schema (mai provato come unico) uomo=cattivo donna=vittima.
«L’Apostolo lascia così alla moglie, che per una ragionevole causa abbandoni il marito, questa alternativa: che rimanga senza marito o si riconcili con lui. Né la Chiesa consente agli sposi di allontanarsi l’uno dall’altro senza gravissimi motivi».
Anche nella spiegazione del sesto comandamento “Non commettere atti impuri” il Catechismo “di Pio V” continua ad esporre quel che è stato insegnato da Cristo.
«333 Se il vincolo tra marito e moglie è il più stretto che esista e nulla può essere loro più dolce che il sentirsi vicendevolmente stretti da un affetto speciale, nulla, al contrario, può capitare a uno di essi di più amaro che sentire il legittimo amore del coniuge rivolgersi altrove. Ragionevolmente, perciò, alla Legge che garantisce la vita umana dall’omicidio segue quella che vieta la fornicazione o l’adulterio, affinché nessuno tenti di contaminare o spezzare quella santa e veneranda unione matrimoniale, dalla quale suole scaturire così ardente fuoco di carità. … Esso ha due parti: una che vieta apertamente l’adulterio; l’altra, più generale, che impone la castità dell’anima e del corpo».
Al canone 334 definisce l’adulterio «violazione del legittimo letto, proprio o altrui», specificando «Se un marito ha rapporti carnali con donna non coniugata, viola il proprio vincolo matrimoniale; se un individuo non coniugato ha rapporti con donna maritata, è contaminato dal delitto di adulterio il vincolo altrui».
Anche qui c’è una perfetta aderenza alla Tradizione, con un effluvio di citazioni di testi dell’AT e del NT, alcuni dei quali abbiamo commentato sopra (Gn 38,24; Dt 23,17; Tb 4,13; Sir 41,25; Mt 5,27; Mt 15,19; 1 Ts 4,3; 1 Cor 6,18; 1 Cor 5,9; Ef 5,3; 1 Cor 6,9).
Il Catechismo tridentino va oltre, sviscera anche l’impatto sociale di tali deviazioni, quando afferma che «L’adulterio è stato espressamente menzionato nel divieto, perché alla sconcezza che riveste in comune con tutte le altre forme di incontinenza, accoppia un peccato di ingiustizia verso il prossimo e la società civile».
Passando al Catechismo San Pio X (Breve), il canone 201 riporta che «Il sesto comandamento: Non commettere atti impuri ci proibisce ogni impurità; perciò le azioni, le parola, gli sguardi, i libri, le immagini, gli spettacoli immorali».
Nel Dragone, nota spiegazione al suddetto Catechismo, ci viene evidenziato che «cercare fuori dal matrimonio i piaceri connessi agli atti dai quali sorge la vita è contro la legge divina e naturale» con tutte le ripercussioni che si possono subire sul «santuario della società familiare, fondata sul matrimonio». Sono proibiti sia gli atti impuri esteriori, che quelli interiori dal nono comandamento.
Sempre nel Dragone, nella spiegazione al sesto comandamento, viene evidenziata la gravità dei peccati impuri: «La gravità del castigo (Sodoma e Gomorra per i loro vizi innominabili, ndr) indica la gravità del peccato. … Il peccato impuro contamina anche il corpo, che è tempio dello Spirito Santo, membro del corpo mistico di Cristo, e rende vano il fine per cui Dio ha creato i due sessi. … Quanto alla materia, il peccato impuro è sempre grave; se non vi è piena avvertenza o tutto il consenso può essere leggero».
La Tradizione della Fede Cattolica, inoltre, è precisa anche nelle distinzioni da effettuare tra le varie situazioni. Infatti la suddetta spiegazione al canone 201 precisa che «il peccato non consiste nel conoscere, e neppure nel sentire l’attrattiva per il male, ma nel volerlo. Non è peccato conoscere a tempo e luogo (p. es. prima del matrimonio) certi misteri delicati della vita, non è peccato neppure essere contenti di conoscerli, ma è peccato essere contenti e godere delle azioni cattive. Non è peccato sentire tentazioni contrarie alla purezza, quando non si siano volute e cercate, ma è peccato acconsentirvi».
Questo concetto è ribadito anche nel commento al nono comandamento, da sempre collegato con il sesto: il nono si “occupa” dei peccati impuri interni (pensieri e desideri), mentre il sesto di quelli esterni. La matrice comunque è sempre la stessa: «Il peccato è un atto della volontà che trasgredisce liberamente e consapevolmente la legge divina»
San Pio X, nel suo Catechismo breve, al canone 202 poi, ci spiega che «Il sesto comandamento ci ordina di essere “santi nel corpo”, portando il massimo rispetto alla propria e altrui persona, come opere di Dio e templi dove Egli abita con la presenza e con la grazia», tornando alla motivazione principale di questo divieto così assoluto presente dall’AT ad oggi: «Proibendo gli atti impuri esteriori, il sesto comandamento ordina la santità esterna del corpo. Ogni peccato impuro esteriore è una profanazione della propria o anche dell’altrui persona, che è sacra e merita il massimo rispetto…» (Dragone). I corpi sono «come opere di Dio e templi dove Egli abita con la presenza e con la grazia» e, ad essere coerenti con il nostro dirci cattolici, non si può non asserire la totale santità del nostro corpo, dato che lo stesso «Col Battesimo (…) è diventato membro visibile del corpo mistico di Cristo. Per questo San Paolo ci esorta: Glorificate e portate Dio nel vostro corpo (1 Cr 6, 20) e ci ammonisce:Non sapete che le vostre membra sono tempio dello Spirito Santo (1 Cr 19)».
Venendo in ultima battuta al Catechismo della Chiesa Cattolica, questo ci dà la definizione di adulterio e fornicazione, così riportandoci nuovamente e direttamente a Cristo.
«L’adulterio. Questa parola designa l’infedeltà coniugale. Quando due persone, di cui almeno una è sposata, intrecciano tra loro una relazione sessuale, anche episodica, commettono adulterio. Cristo condanna l’adulterio anche se consumato con il semplice desiderio (Cf. Mt 5, 27-28 sopra commentato). Il sesto comandamento e il Nuovo Testamento proibiscono l’adulterio in modo assoluto. I profeti ne denunciano la gravità. Nell’adulterio essi vedono simboleggiato il peccato di idolatria (Can. 2380)».
I canoni successivi spiegano che «L’adulterio è un’ingiustizia» (can. 2381), ricordando che il vincolo matrimoniale è segno dell’Alleanza e l’adulterio, che poi ha come conseguenza il divorzio, «lede il diritto dell’altro coniuge e attenta all’istituto del matrimonio».
«La fornicazione è l’unione carnale tra un uomo e una donna liberi, al di fuori del matrimonio. Essa è gravemente contraria alla dignità delle persone e della sessualità umana naturalmente ordinata sia al bene degli sposi, sia alla generazione e all’educazione dei figli. Inoltre è un grave scandalo quando vi sia corruzione dei giovani» (can. 2353).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al canone 1756, poi ci mette sull’avviso. Non si può sminuire millenni di insegnamento, pensando che la fornicazione “una tantum” non sia grave, quasi come se fosse la quantità di peccati a fare la gravità e non il tipo di peccato.
«Ci sono atti che per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze e dalle intenzioni, sono sempre gravemente illeciti a motivo del loro oggetto; tali la bestemmia e lo spergiuro, l’omicidio e l’adulterio» (can. 1756).
Sembra utile ricordare con San Tommaso d’Aquino che «Quando la volontà si orienta verso una cosa di per sé contraria alla carità, dalla quale siamo ordinati al fine ultimo, il peccato, per il suo stesso oggetto, ha di che essere mortale […] tanto se è contro l’amore di Dio, come la bestemmia, lo spergiuro, ecc…, quanto se è contro l’amore del prossimo, come l’omicidio, l’adulterio, ecc…[…] Invece, quando la volontà del peccatore si volge a una cosa che ha in sé un disordine, ma tuttavia non va contro l’amore di Dio e del prossimo – è il caso di parole oziose, di riso inopportuno, ecc. –, tali peccati sono veniali» (San Tommaso D’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 88, a. 2, c).

Alla luce della ricerca appena esposta appare di evidenza incontestabile che il cattolico, per dirsi coerentemente tale, non può in alcun modo non tenere conto dei precetti e degli insegnamenti della Chiesa Cattolica in materia di matrimonio e sessualità.
Men che meno un cattolico deve cadere nell’errore di un’interpretazione personale delle Sacre Scritture, non seguendo quella data dalla Chiesa Cattolica (errore condannato espressamente), correndo così il rischio di “protestantizzarsi” e cercare interpretazioni più aperte o affermare la non integrale aderenza dell’insegnamento della Chiesa ai testi sacri, né, ancora peggio, pensare di poter far credere che Cristo abbia tollerato adulterio e fornicazione.
Ultima considerazione è che la Chiesa in questa materia non è affatto retrograda, come si sente dire da molti, in ossequio al pensiero del mondo. Ella anzi è aderente al diritto naturale e a quello che è l’unico e convincente modo di intendere certi argomenti e di usare certe “funzioni” del nostro corpo, senza trasformarli in carne senza valore.
Il rimedio della castità pre-matrimoniale, ma anche, intesa in altro modo, all’interno del matrimonio, è la risposta più giusta alla questione in oggetto, e, soprattutto, ai giorni nostri, anche la più coraggiosa.

Fonte: Il giudizio cattolico, 30.1.2014
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