Quantcast
Channel: Scuola Ecclesia Mater
Viewing all 2409 articles
Browse latest View live

L'Ora Santa. Dalla Roccia dell'Agonia alla chiesa si S. Pietro in Gallicantu

$
0
0
(Cliccare sull'immagine per il video)

(Cliccare sull'immagine per il video)

(Cliccare sull'immagine per il video)


L’orologio della Passione

L’archeologia conferma l’Uomo della Sindone

$
0
0
In questo Venerdì Santo, un’interessante riflessione sulla flagellazione del Figlio di Dio.
L’articolo è riprodotto anche da Il Timone, 22.3.2016.

Giacomo Cavedone, Cristo deriso, 1614, collezione privata, Bologna

Nicolò Grassi, Flagellazione di Gesù, 1720, Szépművészeti Múzeum, Budapest

Anton Raphael Mengs, Flagellazione di Cristo, 1769, Palacio Real, Madrid

William-Adolphe Bouguereau, Flagellazione di Nostro Signore Gesù Cristo, 1880



L’archeologia conferma l’Uomo della Sindone

di Flavia Manservigi

L’Uomo della Sindone è Gesù? Per molti studiosi, l’impressionante coincidenza tra i segni di tortura che hanno lasciato un’impronta sul telo e il racconto della Passione che si trova nei Vangeli è sufficiente a dimostrare tale identità. L’Uomo della Sindone, come Gesù, fu incoronato di spine e il suo costato fu trafitto da una lancia. Come il Salvatore, l’Uomo della Sindone fu flagellato abbondantemente – come dimostrato dalla serie di numerosi piccoli segni di forma irregolare impressi sul Lenzuolo, traccia inequivocabile delle ferite provocate dai colpi di sferza -, come se quella fosse l’unica pena cui era stato condannato, mentre in seguito fu anche crocifisso. Ciò concorda pienamente con il Vangelo di Giovanni, che parla delle due condanne inflitte a Gesù da Pilato.

L’ipotesi di una possibile identificazione tra i supplizi subiti dall’Uomo della Sindone e quelli inferti a Gesù comporta la necessità di verificare se effettivamente i segni presenti sul telo siano compatibili con le forme di tortura che erano applicate nel I secolo nel mondo romano.

Per quanto riguarda la flagellazione, in ambito romano essa era codificata secondo un rigido protocollo legislativo, e prevedeva l’utilizzo di un’ampia gamma di strumenti, di cui il più terribile in assoluto - utilizzato per punire i reati più gravi - era l’horribile flagrum, un flagello dotato di corregge terminanti con estremità contundenti, in grado di battere e lacerare le carni. Secondo gli studiosi, sarebbe stato usato proprio questo strumento per flagellare l’Uomo della Sindone; molti sindonologi ritengono inoltre che questo flagrum fosse del tipo taxillatum, ossia dotato di taxilli (piccoli ossicini di animale, altrimenti noti come astragali).

È opportuno precisare, però, che il termine taxillatum non è mai usato nelle fonti storiche: è stato infatti coniato solo nel XVI secolo dal filologo e umanista Giusto Lipsio per rendere la parola greca “astragalato”. Meglio quindi, per riferirsi a questo strumento, parlare di flagrum ’dotato di astragali’. È inoltre opportuno considerare che questo tipo di flagrum non era usato dai soldati Romani a scopi punitivi, ma veniva utilizzato dai sacerdoti della dea orientale Cibele durante rituali di autoflagellazione. L’associazione tra Gesù, l’Uomo della Sindone e il flagrum ’astragalato’ è quindi molto improbabile.

Tuttavia, diverse fonti databili all’epoca romana e ai primissimi secoli dell’Era Cristiana ci parlano di flagra dotati di estremità contundenti, quindi compatibili con le tracce sindoniche: il Codice Teodosiano, così come vari autori - tra cui Zosimo e Prudenzio - descrivono le plumbatae, palline di metallo che erano poste all’estremità degli orribili flagelli per imprimere ancor più orribili punizioni.

Numerosi dizionari di Archeologia Romana e Cristiana, datati tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, ci informano che esemplari di questo tipo di flagrum sarebbero stati rinvenuti a Ercolano e nelle catacombe di Roma, e sarebbero quindi databili a periodi vicinissimi a quello in cui visse Gesù. Ad oggi, non abbiamo notizie in merito ai flagra di Ercolano: essi sono stati probabilmente dispersi in qualche collezione privata, o potrebbero essere stati smembrati in più parti.

Discorso diverso vale per i flagra delle catacombe, di cui quattro esemplari sarebbero oggi conservati presso i Musei Vaticani, dove essi sono catalogati come flagelli bronzei romani (invv. 60564-60567). La comprovata esistenza di questi flagra dalla forma compatibile con le tracce sindoniche sembrerebbe togliere ogni dubbio circa la possibilità che l’Uomo della Sindone sia stato flagellato con strumenti utilizzati in ambito romano nell’epoca in cui visse Gesù.

È però necessario precisare che i quattro flagelli erano esposti insieme ad altri reperti, a loro volta classificati come strumenti di tortura, ma che in realtà avevano ben altri usi: uno di questi, inventariato come ‘graffione’, è stato in seguito identificato con un porta lucerne etrusco. Da qui il dubbio che anche i flagelli siano in realtà qualcosa di diverso, non legato all’ambito della tortura; tale eventualità è avvalorata dalla somiglianza tra le terminazioni di questi reperti con quelle di alcuni oggetti rinvenuti nella necropoli villanoviana di Verucchio (RN), classificati come pendenti ornamentali o stimoli per cavalli. Il problema circa l’esatta identificazione dei quattro ‘flagelli’ dovrà quindi essere oggetto di ulteriori approfondimenti.

Ciò non toglie che l’uso di flagelli dotati di corregge terminanti con oggetti contundenti, quindi compatibili con i segni visibili sull’impronta sindonica, fosse sicuramente diffuso in un’epoca prossima al periodo in cui visse Gesù: questo dato è attestato da fonti storiche e letterarie, come abbiamo visto.

Inoltre, il fatto che in un’epoca non lontana dal I secolo si facesse uso di flagelli terminanti con estremità contundenti è dimostrato anche da altre testimonianze: all’interno di un numero del Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica datato al 1859, l’etruscologo Gian Carlo Conestabile della Staffa riporta la notizia del ritrovamento, nella zona di Volterra, di un oggetto identificato con un flagello di bronzo, formato da «sei lunghe catenelle che vanno a riunirsi tutte in un’asta serpeggiante […]; tre di quelle catenelle sono doppie, e tre semplici, formate da anelli e fornite in punta di una pallina».

Gli Etruschi, quindi, usavano flagelli terminanti con estremità contundenti; dagli Etruschi, i Romani avevano mutuato non solo la pratica della flagellazione, ma anche l’uso di alcuni strumenti per flagellare: è ipotizzabile, quindi, che i Romani avessero ‘ereditato’ anche questo oggetto.

Sebbene, quindi, le testimonianze archeologiche ad oggi in nostro possesso non siano totalmente sicure, ciò non toglie che esista compatibilità tra gli strumenti in uso per la flagellazione nei primissimi secoli dell’Era Cristiana e i segni visibili sull’impronta lasciata dall’Uomo della Sindone.

Ovviamente questo dato, da solo, non rappresenta la prova definitiva del fatto che Gesù e l’Uomo della Sindone siano la stessa persona; tuttavia, l’analisi delle fonti porta ad avvalorare la possibilità che l’Uomo della Sindone abbia subito una tortura tipica dei luoghi e dei tempi in cui Gesù visse, operò e accettò di caricare sulle proprie spalle la croce più grande per la salvezza dell’umanità.

Le meditazioni proposte da La NBQ per la Settimana Santa:



Il luogo del processo di Gesù dinanzi a Pilato

$
0
0
È stato scoperto il luogo dove Gesù fu processato da Pilato?
A questo interrogativo nel dicembre 2014, forse, si è data una risposta, venendo resa nota la scoperta dei resti del palazzo di Erode, nel quale Gesù fu processato da Pilato. La notizia è stata diffusa in Italia ed all’estero nei primi giorni del 2015 (cfr. Gerusalemme, gli archeologi scoprono il luogo del processo a Gesù, in La Stampa, 5.1.2015; Ivan Francese, Scoperto il palazzo di Erode: qui venne processato Gesù?, in Il Giornale, 5.1.2015; F.Q., “Gesù fu processato qui?”. Per gli archeologi Usa trovato il palazzo di Erode, in Il Fatto quotidiano, 5.1.2015; Mario Iannacone, Il luogo del processo a Gesù: nuove ipotesi, in Avvenire, 6.1.2015. Cfr. anche Site of Jesus’ trial unearthed? Archaeologists believe they have found remains of Herod’s palace in Jerusalem, under former Turkish prison near Tower of David Museum, in The Columbian, Jan. 9th 2015; Ruth Eglash, Archaeologists find possible site of Jesus’s trial in Jerusalem, in The Washington Post, Jan 4th, 2015; Robin Ngo, Tour Showcases Remains of Herod’s Jerusalem Palace—Possible Site of the Trial of Jesus, in Bible History Daily, Oct. 12, 2015).

«Questo è il luogo dove Gesù è stato processato»

di Chiara Rizzo

Da pochi giorni sono visitabili i resti del palazzo di Erode a Gerusalemme. Intervista all’archeologo statunitense Shimon Gibson, che ci spiega cosa spinge gli studiosi a ritenerlo il luogo del processo a Cristo
Da neanche una settimana nella città vecchia di Gerusalemme, accanto alla porta di Giaffa, sono visibili al pubblico per la prima volta i resti del palazzo di Erode il Grande, scoperti nel 2000 durante gli scavi alla Torre di David. Avvolto per anni nel mistero, quel palazzo (costruito nel 25 a.C.) sarebbe stato occupato all’epoca in cui visse Gesù dal procuratore romano a Gerusalemme Ponzio Pilato, e proprio qui Cristo potrebbe essere stato processato e condannato alla crocifissione. Ne è convinto per esempio l’archeologo statunitense Shimon Gibson, da anni impegnato a Gerusalemme in diversi scavi: «Mancano le iscrizioni che confermino con certezza cosa sia successo in quel luogo, ma tutti gli indizi, archeologici, storici ed evangelici, fanno pensare che fosse proprio questo il luogo del processo a Gesù», dice. Gibson, docente di Archeologia all’Università del North Carolina e capo del dipartimento archeologico dell’Università della Terra Santa, racconta a tempi.it il lungo lavoro con cui ha unito uno per uno, in quindici anni, i tasselli della ricerca storica fino a convincersi che il palazzo di Erode «sia il luogo dove Gesù è stato processato».

Lei ha svolto un’ampia indagine, incrociando testi evangelici e di storici. Quali indizi l’hanno convinta?
Tito Flavio Giuseppe (37-100 d.C.), uno storico romano di origine ebraica, nel 70 d.C. scriveva: «Pilato, dopo aver sentito che costui (Gesù) era accusato dagli uomini di più alto rango, lo aveva condannato». Il più celebre Tacito, intorno al 115 d.C., cioè 80 anni circa dopo la morte di Cristo conferma: «Cristo era stato condannato alla pena di morte durante il regno di Tiberio, per sentenza del procuratore Ponzio Pilato, e la rovinosa superstizione (il cristianesimo, ndr) fu momentaneamente soffocata». Passiamo alla descrizione nei documenti dei luoghi di questa condanna. Anzitutto sappiamo, da tutti i Vangeli, che dopo l’arresto al Getsmani Gesù fu portato nella casa del sacerdote Caifa per essere interrogato. Nel vangelo di Giovanni (18; 15-19) si apprende che «lo condussero prima da Anna: egli era infatti suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno». L’esatta locazione della casa di Caifa non è nota: tuttavia, la tarda tradizione bizantina l’ha collocata nella zona occidentale della città, proprio non lontano dai resti del palazzo abitato dall’allora governatore romano. Il vangelo di Marco non dice molto sul luogo in cui si tenne il processo, se non che la folla «accorse» da Pilato, «mentre egli sedeva in tribunale» (Mc, 15; 8). Matteo aggiunge però che Pilato «sedeva sul suo scranno in tribunale», in greco il “bema”. È un primo indizio. Lo scranno di Pilato potrebbe essere della stessa specie di quello usato dal figlio di Erode il Grande, il tetrarca Filippo, descritto dallo storico romano Flavio Giuseppe che raccontava si trovasse nel palazzo di Erode: «Il trono su cui sedeva quando emetteva giudizi lo seguiva ovunque egli andasse».

Una cartina elaborata dal professor Gibson
mostra sull’angolo a sinistra l’area del palazzo di Erode,
comprendente un 
praetorium.
Con i trattini viene indicato il
probabile percorso della via verso il Golgota

Passiamo al secondo indizio.
Nel Vangelo di Marco si ha l’impressione che il processo a Gesù si sia tenuto in un’area all’aperto, dato che leggiamo: «Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la corte» (Mc 15; 16). La stessa impressione si ha nel testo di Matteo: «Allora i soldati condussero Gesù nel pretorio, e radunarono attorno tutta la coorte» (Mt 27; 27). Alcuni studiosi hanno in passato ritenuto che il pretorium fosse un edificio interno. Ma una coorte romana in media raggruppava 600 soldati e sarebbe servito un luogo più ampio, aperto. In effetti, secondo Flavio Giuseppe il palazzo di Erode aveva un’area residenziale verso nord, protetta da tre alte torri (i resti di una delle quali sono oggi stati recuperati) e da un muro di difesa, con un largo e meraviglioso giardino, e un accampamento militare, cioè proprio un “praetorium”. Accanto al palazzo sono stati ritrovati i resti di una porta, che io ritengo essere quella “degli Esseni”: una porta che avrebbe rappresentato una via d’accesso speciale per il re Erode, poi per il Governatore, e per i soldati e accanto alla quale sono stati ritrovati i resti di un’ampia corte dove potrebbe essersi radunata la folla all’epoca del processo. Il palazzo consisteva di due ali gemelle, cioè due palazzi squadrati. Le zone di servizio, come le cucine o i magazzini, si trovavano a nord del palazzo nell’area attualmente occupata dalla corte della cittadella e corrispondono con i resti visibili oggi. Il palazzo era elevato proprio su un imponente piattaforma, parte della quale ora è stata scoperta con gli scavi archeologici sotto il Giardino Armeno. Si tratta di un terzo importante indizio.

Perché?
I governatori romani, nei territori controllati, dispensavano la giustizia in un’arena pubblica, come una corte, o una piazza adiacente il praetorium, con uno scranno del giudice posto su una piattaforma rialzata, cui si accedeva da una scalinata. È questo che in latino viene definito “tribunale”, con la stessa parola usata nei vangeli. Il palazzo di Erode calzerebbe perfettamente a questa descrizione del tribunale, ma anche a quella evangelica. Il vangelo di Giovanni offre infatti ulteriori informazioni sul luogo in cui si è tenuto il processo: «Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi (i sacerdoti, ndr) non vollero entrare per non contaminarsi. Uscì dunque Pilato verso loro»; «Pilato allora rientrò nel pretorio» (Gv 18; 28-29). Ci suggerisce che il processo ebbe luogo in uno spazio aperto dove si trovava la folla dei Giudei infiammata, con Pilato che interrogava Gesù all’interno del palazzo, al piano del pretorio, dove Cristo fu anche flagellato. Poi Giovanni aggiunge: «Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale (in greco “bema”, cioè lo scranno), nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà». Gabbatà, secondo lo storico Flavio Giuseppe, in aramaico significava “luogo elevato”, ed è così che egli descriveva il tribunale usato dai romani proprio in una parte del palazzo di Erode. Uno strato di roccia su una parte del sito corrisponde esattamente al luogo elevato descritto come tribunale dallo storico e dall’evangelista Giovanni. Litòstroto in greco significa invece pavimento lastricato di pietre. Il luogo scoperto oggi contiene proprio una corte interna pavimentata in pietre. In effetti il palazzo sarebbe stato il luogo ideale per condurre un processo pubblico, seppur sommario, perché l’accampamento militare o “praetorium” e le tre torri consentivano ai romani di monitorare la folla accalorata radunata nella vicina corte. Molto probabilmente Gesù fu caricato della croce nel praetoriumaccanto al palazzo, e da lì condotto verso la Porta Gennath o del Giardino, da cui fu fatto salire al Golgota.

Tuttavia nella via crucis attuale, sin dal medioevo si considera come tribunale il luogo chiamato “Fortezza Antonia”. Perché secondo lei non sarebbe quello giusto?
È molto difficile che fosse quello dal momento che serviva principalmente come torre di osservazione militare. Si affacciava sul Monte Tempio, l’attuale spianata delle moschee, e i soldati potevano da lì tenere sempre d’occhio la folla dei fedeli, per evitare insurrezioni o proteste. La torre era sì elevata, ma era troppo stretta per servire da residenza del governatore e da quartier generale dei soldati. Della struttura non è sopravvissuto quasi nulla se non la base in roccia, che ho misurato personalmente: 90 metri per 40, contro i 140 metri per 140 del palazzo di Erode che hanno convinto maggiormente la quasi unanimità degli archeologi.

Fonte: Tempi, 12.1.2015

La morte di Gesù ed il mistero del velo squarciato

$
0
0
In questo Venerdì Santo, riproponiamo volentieri una riflessione di Rino Cammilleri sul mistero del velo del Tempio squarciato (v. anche qui per il suo significato teologico).
Ecco come lo spiega Vittorio Messori (Patì sotto Ponzio Pilato, Torino, 1992, SEI, pp. 327-329):
Mentre le tenebre accompagnano l’agonia di Gesù, ecco, subito dopo la sua morte, il secondo dei «segni»: «Il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso». Così Marco (15,38), ricalcato parola per parola da Matteo (27,51), mentre Luca usa l’espressione «si squarciò nel mezzo» (23,45). Anche qui, naturalmente, è importante, anzi decisivo il segno religioso, il significato teologico. Sentiamo ancora Benoit: «Questo velo è un simbolo, era la separazione che escludeva i pagani dalla religione di Israele. Si tratta probabilmente del velo del Santo, piuttosto che di quello che copriva l’accesso al Santo dei Santi. Era la cortina che nascondeva l’interno del tempio agli ebrei che non fossero sacerdoti e soprattutto (sotto pena di morte) ai non ebrei. Questo velo proteggeva in maniera esclusiva il segreto della religione giudaica, l’intimità di Jahwé presente solo lì, all’interno del tempio. Squarciare il velo significava sopprimere il segreto e l’esclusività. Il culto ebraico cessa di essere privilegio di un popolo, il suo accesso ora è aperto a tutti, anche ai gentili. Ecco il senso profondo di questo fenomeno». Senso profondo sul quale ritorna tra l’altro la Lettera agli Ebrei, dove la cortina del tempio è la carne stessa di Cristo, torturata e morta (Eb 10,19 s.). Dunque, continua Benoit, «questo dettaglio dei vangeli è raccontato per insegnare ai cristiani che, attraverso la morte del Cristo, il culto d’Israele è abolito, la religione diviene universale e Gesù stesso, penetrando per primo nel Tempio che è nei Cieli, apre l’accesso della salvezza a tutti gli uomini». È dunque a simile profondità religiosa che il credente deve soprattutto guardare, evitando il letteralismo che ha spinto qualcuno a osservare che si registrano talvolta, in Medio Oriente, colpi di vento di tale forza da sradicare e sollevare in alto persino grandi tende sotto le quali vive una famiglia beduina. II vento che, portando su Gerusalemme la sabbia del deserto, oscurò il sole, avrebbe potuto anche (dicono) strappare il velo liturgico. Ci si espone però, in questo modo, a due difficoltà: entrambe le due cortine del tempio erano alte sui venti metri e larghe dieci, e di tale peso che (stando a Giuseppe Flavio) per portarle periodicamente a lavare occorrevano decine di sacerdoti, i soli autorizzati a penetrare in quello spazio e a toccare gli arredi. Comunque, quale che fosse la forza del vento, mai avrebbe potuto squarciare quell’enorme cortina «in due, dall’alto in basso» o «nel mezzo» come precisano i vangeli. Resterebbe la possibilità di pensare a un effetto del terremoto di cui parla l’evangelista Matteo, visto che anche dallo stesso Giuseppe Flavio abbiamo notizia di qualche sisma che, proprio in quegli anni, danneggiò il tempio. Pur non escludendo, dunque, un evento reale (per il quale Dio sarebbe intervenuto direttamente: e per lo squarciare la cortina del tempio non occorrevano perturbazioni alle leggi della fisica; o avrebbe agito attraverso cause seconde come un terremoto, se non una singolarissima folata di vento), pur nulla escludendo, dunque, meglio osservare che non siamo poi neppure qui del tutto ai di fuori della storia: anzi abbiamo un segnale ulteriore di radicamento in Israele. In effetti, tutti e tre i vangeli usano, per indicare il velo del tempio, la parola katapétasma, che è il termine tecnico corretto, confermato da altre fonti. C’è, qui, dunque un altro elemento di «continuità» tra i vangeli e la società ebraica prima del 70: un indizio tra i tanti che i redattori conoscevano bene la realtà di cui parlavano; una conferma ulteriore che proprio nella Palestina di prima della catastrofe del 70 si è formata la tradizione evangelica. E una considerazione che può estendersi anche agli eventi che il solo Matteo aggiunge: lo scoperchiamento di tombe, la risurrezione di «molti santi», il loro ingresso nella «Città Santa». Vedemmo che si tratta di uno «scenario» tipicamente ebraico per indicare il Gran Giorno di Jahwé. Dunque, anche questi particolari - che per certa critica sarebbero la conferma di ciò che uno studioso ha definito «lo scatenamento di fantasie nate negli angiporti ellenistici» - sono al contrario, per chi conosca le cose, una garanzia di inserimento nella tradizione ebraica.

Cristo rimuove il velo del Tempio, XVIII sec.

LA MORTE DI GESÙ E IL MISTERO DEL VELO DEL TEMPIO CHE SI SQUARCIÒ NEL MEZZO

di Rino Cammilleri (da Il Timone, gennaio 2014)

Dicono i Vangeli che, appena morto Gesù, il velo del Tempio si squarciò. I Vangeli, stringati resoconti storici, ci vengono ripetuti da duemila anni ogni domenica e, come accade delle cose cui si è fatta l’abitudine, finiscono col divenire parte del panorama consueto. Mi si passi l’esempio, è come vedere per la prima volta un bel paesaggio. La sua bellezza desta meraviglia e piacere ma, se si va ad abitare proprio lì davanti, in pochi giorni la meraviglia e il piacere svaniscono. L’abitudine, insomma, uccide lo stupore e un importante dettaglio, a furia di starci sotto il naso, rischia di non venire mai colto. Così è per il velo del Tempio cui accennavamo, un particolare che a noi forse dice poco ma che per gli astanti di allora deve essere stato sconvolgente. 
A ben rifletterci, tutto nella morte di Gesù fu anormale, a cominciare da quel condannato che, fino all’ultimo respiro, non aveva smesso di dire di essere il Messia atteso. Già questa ostinazione, sovrumana in chi sta per morire, avrebbe dovuto inquietare coloro che quella condanna avevano provocato: è pensabile che un truffatore truffi anche mentre è in agonia?. Poi abbiamo le tre ore di tenebre, da mezzogiorno alle tre (le ore di solito più luminose, specialmente in un giorno di aprile). Non era un’eclisse, sia perché la Pasqua ebraica si svolgeva in plenilunio (dunque, la luna era dall’altra parte della terra e non poteva perciò essere davanti al sole), sia perché le eclissi durano pochi minuti. Infine il velo: «Ed il velo del Tempio si squarciò nel mezzo» (Lc 23,45); «Ed il velo del Tempio si squarciò in due dall’alto in basso» (Mc 15,38). 
Matteo, il cui racconto è rivolto agli ebrei (i quali potevano facilmente verificarlo, magari chiedendo ai più anziani), dice di più: «Ed ecco che il velo del Tempio si squarciò in due, dall’alto in basso, e la terra si scosse, e le pietre si spezzarono, e si aprirono le tombe, e molti santi, i cui corpi riposavano, risuscitarono e, usciti dalle tombe, dopo la sua risurrezione entrarono nella città santa e apparvero a molti» (27,51). Qualcuno si stupì di quel che accadeva, in primisil centurione e il suo manipolo sotto la croce. Matteo: «Il centurione e gli altri che con lui stavano a guardia di Gesù, vedendo il terremoto e quanto era accaduto, furono presi da terrore, dicendo: “Veramente costui era Figlio di Dio”» (27,54). Già: avevano sentito chiaramente il Nazareno raccomandare il suo spirito al Padre prima di morire. «E tutti i gruppi che avevano assistito a questo spettacolo, considerando le cose avvenute, se ne tornarono percuotendosi il petto» (Lc 23,48). Costoro, tuttavia, essendo sul Golgota, non potevano sapere quel che accadeva al velo del Tempio. Ma di certo lo seppero i sacerdoti, e a maggior ragione quel Sinedrio che aveva fatto di tutto perché Gesù finisse in croce. 
Il cosiddetto Velo del Tempio, infatti, non era una tenda qualsiasi, e non solo per il suo aspetto simbolico. Di veli, nel Tempio di Gerusalemme, ce n’erano due: uno stava davanti all’altare dell’incenso, dove i sacerdoti accedevano ogni giorno; l’altro separava la zona riservata ai sacerdoti da quella del Santo dei Santi, nella quale poteva entrare solo il Sommo Sacerdote una volta all’anno nel Giorno dell’Espiazione. Fu quest’ultimo il velo che si squarciò. E i sacerdoti del cortile dell’incenso lo trovarono diviso in due, dall’alto in basso. Ma la meraviglia sta nel fatto che si trattava di un drappo enorme. Alto quasi venti metri e spesso dieci centimetri. Dice lo storico Flavio Giuseppe che neanche la forza di due cavalli, uno di qua e uno di là, sarebbe riuscita a lacerarlo. Per tirarlo giù, arrotolarlo e portarlo a lavare ci volevano decine di uomini (pare una settantina). Perché un velo (Parokhet, questo il suo nome in ebraico) e non una normale è più pratica porta? Perché così obbligava la Scrittura: «Farai poi una cortina di porpora violacea e scarlatta, di cremisi e di lino fine ritorto, lavorato a ricamo, con cherubini, e l’appenderai a quattro colonne d’acacia ricoperte d’oro, con ganci d’oro e posate sopra quattro basi d’argento. Metterai la cortina sotto i fermagli; e, al di là della cortina, nell’interno, vi collocherai l’Arca della Testimonianza; e la cortina servirà da divisione tra il luogo Santo e quello Santissimo» (Es 26,30). Infatti, ancora oggi nelle sinagoghe si usa un velo Parokhet, che fa da sipario sulla parte anteriore dell’Aron Kodesh, dove si conservano i rotoli della Torah. Ma la lacerazione del Velo del Tempio di Erode, all’ora della morte di Cristo, dovette per forza essere un fatto che destò sensazione e la cui notizia fece il giro di Gerusalemme. La città, ricordiamolo, in quei giorni era affollatissima per la ricorrenza della Pasqua, cui accorrevano ebrei da ogni parte del mondo. 
E vediamolo da vicino, questo fatto impressionante, avvenuto, oltretutto, in concomitanza con un terremoto e mentre Gerusalemme era ancora avvolta dal misterioso oscuramento del sole. Perché gli evangelisti, senza tema di smentita, affermano che il Parokhetsi strappò «dall’alto in basso»? Evidentemente il drappo era, sì, lacerato ma non del tutto: la parte più bassa, quella che toccava terra, doveva essere rimasta intatta. Dunque, lo strappo era partito dall’alto. Ma poteva ciò essere accaduto per effetto dello scuotimento tellurico? Difficile, se non impossibile. I terremoti spezzano gli oggetti rigidi, pietre, travi, vetri. E un drappo, per quanto ampio, è morbido e flessibile. La testimonianza unanime che il Parokhet si squarciò dall’alto in basso, per quanto laconica ed essenziale, fa pensare ad alcune cose. Una: il velo non era caduto per terra ma era ancora in piedi. Due: lo squarcio non era artificiale, perché, anche adoperando diverse pariglie di cavalli, si sarebbe proceduto necessariamente nella parte bassa. Tre: che parecchi uomini robusti si siano arrampicati per venti metri onde procedere al taglio dall’alto è semplicemente assurdo, dato il luogo e le circostanze. Non solo: sarebbe mancato il movente. E ricordiamoci che lì potevano entrare solo i sacerdoti. Infine, sappiamo che il Parokhetera una tenda, plausibilmente agganciata a occhielli metallici che scorrevano in una sbarra orizzontale o fornita essa stessa di occhielli che scorrevano in una sbarra oppure direttamente (ma non permanentemente) fissati all’architrave. Per tutto ciò, uno squarcio repentino e dall’alto non poteva essere che di natura soprannaturale. Qualcuno ha osservato che il fatto richiama lo stracciarsi delle vesti del Sommo Sacerdote quando sentì il Nazareno ammettere che, sì, il Messia era davvero lui. Adesso era Dio stesso che, alla morte di suo Figlio, stracciava la veste che Lo ricopriva (il Santo dei Santi era la sede della Presenza di Dio). 
Dio, insomma, se ne andava dal suo Tempio? Se dobbiamo credere al solito Giuseppe Flavio, non ancora. Nella Guerra giudaica scrive che l’abbandono definitivo del Tempio da parte di Dio avvenne esattamente trentatré anni dopo, nel 66. Nella Pentecoste di quell’anno a Gerusalemme si udì nel Tempio una moltitudine di voci che gridavano «Noi ce ne andiamo da qui!». Pochi mesi dopo scoppiò la rivolta antiromana che doveva concludersi nel 70 con la distruzione del Tempio. 
Vale solo la pena di accennare al dato che il Tempio, da allora, non fu più ricostruito. E non fu fatto perché mai più si poté. L’unico tentativo seriamente intenzionato fu quello dell’imperatore Giuliano, non a caso detto l’Apostata, nel 362. Giuliano, per fare un dispetto ai cristiani, non solo permise agli ebrei di ricostruire l’antico Tempio ma finanziò pure l’opera. Narra lo storico Ammiano Marcellino che l’incarico fu dato ad Alipio di Antiochia, che era stato prefetto vicario in Britannia e che operò di concerto col governatore della provincia. Solo che, durante i lavori per lo scavo delle fondamenta, «paurosi globi di fuoco» eruppero dal terreno bruciando gli operai. E non una volta sola. Alla fine, poiché i lavoranti erano sempre ricacciati indietro da queste vampate improvvise, fu giocoforza mollare l’impresa e chiudere il cantiere. L’imperatore, poi, fu subito preso da più gravi incombenze, soprattutto quella campagna contro i Persiani nella quale doveva trovare la morte. Tornati gli imperatori cristiani, naturalmente non se ne parlò più. Nel VII secolo Gerusalemme fu occupata dai Persiani, che però ci rimasero poco perché cacciati dai bizantini dell’imperatore Eraclio. Poi fu il turno degli arabi musulmani. I quali, ancora oggi, hanno sul luogo in cui sorgeva il Tempio la moschea di Al-Aqsa, uno dei loro luoghi più sacri. Pare che un eventuale nuovo Tempio non possa sorgere altro che là, nel punto esatto in cui Abramo stava per sacrificare Isacco. Ma questa è un’altra storia…

La Corona di spine. Dal Golgota fino a noi

$
0
0
Abbiamo avuto modo di parlare delle sacre spine che rinverdiscono (v. qui).
Ecco un interessante studio storico su di esse.

La Corona di spine. 
Dal Golgota fino a noi

di Giovanni Battista Alfano

Una costellazione di luoghi, date e volti ben illustrata e documentata permette di seguire idealmente, ma in modo storicamente certo, le tappe del viaggio della Corona di Spine dalla Terra di Gesù fino alla sua attuale collocazione a Notre-Dame di Parigi. Anche la storia incrementa la devozione verso una Reliquia di così estrema importanza.

La storia della Santa Corona di Spine di Nostro Signore Gesù Cristo può dividersi in quattro periodi.
1) Dalla Passione di Nostro Signore sino a tutta la permanenza della Sacra Reliquia in Gerusalemme (ossia dall’inizio dell’Era volgare fino al 1092).
2) Traslazione della Corona da Gerusalemme a Costantinopoli e permanenza in questa città (dal 1092 al 1238).
3) Traslazione della Corona da Costantinopoli a Parigi e sua deposizione nella Sainte-Chapelle del Palazzo Reale (dal 1238 al 1799).
4) Traslazione della Corona dalla Sainte-Chapelle di Parigi alla Biblioteca Imperiale e poi a Notre-Dame, ove si trova tuttora (1799 - 1806 - epoca presente).

La Santa Corona a Gerusalemme. I testimoni

È opinione che la Santa Corona di Spine che trafisse il venerato Capo di Nostro Signore Gesù Cristo sia stata riposta, insieme ai chiodi, nel sepolcro in cui fu messo il Corpo del Redentore, come si soleva praticare dagli Ebrei, che col cadavere interravano tutto ciò che era servito a giustiziare il condannato.
È anche opinione, ed è da ritenersi che sia stato proprio così, che, dopo la Risurrezione di Gesù, quelle sacre reliquie, insieme alla Sindone, siano state raccolte dalla Vergine Maria o dagli Apostoli o dalle pie donne, e custodite a Gerusalemme per essere oggetto di venerazione presso i primi cristiani.
Documenti dei primi tre secoli dell’Era volgare non ne abbiamo. Essi incominciano col IV secolo e ci assicurano che la Santa Corona nel primo millennio del Cristianesimo era conservata a Gerusalemme e vi rimase almeno fino al 1092.
Una prima testimonianza di quell’epoca remota, la più antica, a quanto pare, è data da un passo di una lettera di san Paolino[1]. L’insigne Vescovo di Nola ne parla in una lettera che porta il n. 49 della raccolta. La lettera fu scritta quando san Paolino era già vescovo; poiché egli vi si chiama «exigui gregis pastor» (n. 14). Dunque non prima del 409; ma, in quale anno preciso è impossibile dire. È una delle lettere più belle e, senza dubbio, sotto vari aspetti, molto interessante. San Paolino la scrisse per implorare l’interessamento di un suo amico potente a Roma, Macario, in favore di un tal Secondiniano, padrone di una nave danneggiata gravemente da una tempesta, e di un certo Valgio, scampato miracolosamente dal naufragio, contro l’avidità rapace di un uomo che voleva impadronirsi del vascello. Una nave di questo Secondiniano era partita dalla Sardegna, carica di grano. Violenta tempesta l’aveva colta, e sbattuta per 23 giorni dalla Sardegna a Roma, da Roma in Campania, dalla Campania in Africa, dall’Africa in Sicilia, dalla Sicilia finalmente nel Bruzio. Dell’equipaggio, tranne il vecchio Valgio, non c’era più nessuno sulla nave. L’equipaggio s’era buttato in mare, sperando di salvarsi, ma si annegò. Valgio, abbandonato dai compagni, nella sentina, non fu solo. Con lui, che da tempo anelava al Battesimo, fu sensibilmente il Salvatore, mentre il martire di Nola, Felice, sedeva a poppa. Valgio, approdato nel Bruzio, accorse a Nola per ringraziare san Felice, e raccontò la storia meravigliosa a san Paolino. E san Paolino la riproduce in questa lettera con particolari estremamente pittoreschi. Il Salvatore che lavora per Valgio, e con Valgio, vuole che egli lavori di giorno, ma lo lascia andare a riposare la notte; e poi, quando è ora di svegliarlo, gli si accosta adagio, lo tocca teneramente perché non si ridesti con un soprassalto spaventoso, arriva a accarezzargli delicatamente l’orecchio. È tanto l’entusiasmo da cui è preso Paolino a questi particolari del racconto, che se non fosse per il timore di una ferita egli taglierebbe la sommità dell’orecchio a Valgio, per conservarla come reliquia. È a questo punto che vien fuori, per analogia, il ricordo dei luoghi santi della Palestina e delle reliquie della Passione. Scrive san Paolino: «Si va a Gerusalemme per vedere e toccare i luoghi nei quali fu corporalmente presente Cristo, e ove si ammirano i ricordi della sua Passione; ebbene, se è motivo di consolazione e di frutto spirituale il solo vedere quei luoghi, il riportarne un po’ di polvere o una scheggia minuta del legno della croce, che grazia maggiore e più abbondante non è quella di vedere quell’uomo [Valgio] a cui il Salvatore ha parlato, che ha riscaldato col suo seno, adagiato sulle sue ginocchia, di carezzare colui che Cristo ha toccato con le sue mani?
“Si ergo religiosa cupiditas est loca videre in quibus Christus ingressus et passus est, et resurrexit, et unde conscendit, et, aut de ipsis locis exiguum pulverem, aut de ipso crucis ligno aliquid saltem festucae simile sumere et habere benedictio est, considera quanto maior et plenior grafia sit, vivum senem vel testimonio divinae veritatis inspicere.
Si praesepe nati, si fluvius baptizati, si hortus orantis Magistri, si atrium iudicati, si columna districti, si spina coronati, si lignum suspensi, si saxum sepulti, si locus resuscitati evectique, memoria divinae quondam praesentiae celebratur, quam religiose aspiciendus est hic, quem alloqui Dei sermo dignatus est, cui se facies divina non texit”» (n. 14 - col. 407 della PL, vol. LXI). Dunque nei primi anni del secolo V la Corona di Spine doveva trovarsi in Gerusalemme esposta alla venerazione dei fedeli. Altra testimonianza della presenza della Corona di Spine in Gerusalemme in questa epoca è data dal Breviarium de Hierosolyma, dove si legge esistere «Corona de spinis [...] in media basilica».
Così anche quella di Antonino Piacentino, del secolo VI, che nel suo Itinerarium ricorda la Corona di Spina «in ipsa ecclesia Sion»[2]. Ecco perché da questa città, fin dal 323, sant’Elena avrebbe inviato due Spine alla Chiesa di Santa Croce di Gerusalemme in Roma e altre a Trèves, città antica nella Gallia, ora compresa nella Prussia Renana.
Cassiodoro, verso il 575, nel suo Commentarium ad Psalm. LXXXVII, accenna alla Corona di Spine in Gerusalemme.
In questo stesso VI secolo san Gregorio di Tours, pur non indicando la località ove si trovava la Reliquia, già accennava ai segni straordinari su di essa riscontrati, e scriveva: «Ferunt etiam ipsos Coronae sentes quasi virides apparare; quae tamen si videantur aruisse foliis, quotidie tamen revirescere virtute divina» (De Gloria Martyrum, Lib. I., cap. VII).
Nell’801 Hassan, governatore di Gerusalemme, dava una Spina a Carlo Magno. Nell’870, Bernardo il Monaco, ci assicura che la Corona era venerata nella città di Gesù. Foucher, abbate di San Benigno, nel 944 porta da Gerusalemme una Spina nel suo monastero a Digione. Nel 1044, la città di Avignone riceve una Spina dal Vescovo Benedetto I, reduce da Terra Santa. Intanto nel 1092 l’imperatore Alessio I Comneno, in una lettera a Roberto di Fiandra, fra le reliquie allora conservate a Costantinopoli, cita la Corona di Spine (Exuviae Sacrae Const. II, p. 203). Dunque in tale anno la Santa Reliquia è già passata da Gerusalemme a Costantinopoli.

La diaspora delle Spine

Nondimeno in questo primo periodo è da ritenere che varie Spine già si trovassero anche presso gli Imperatori d’Oriente, o perché avevano visitato i Luoghi Santi, o perché le avevano ricevute in omaggio. Il certo è che gli stessi Imperatori o Patriarchi di Gerusalemme ne facevano dono. Se non si pensa così, le notizie si imbrogliano in tal modo che non si riesce a trovare una via di uscita. Difatti si dice che nel 565, san Germano, vescovo di Parigi, avesse avuto in dono una Santa Spina dall’Imperatore d’Oriente, quando passò per Bisanzio (Baron. Ann. 561, n. 14); tale reliquia nel Medioevo si trovava a Saint-Germain-des-Prés di Parigi. Ma si tratta di una testimonianza poco attendibile, perché non è affatto sicura la peregrinazione di san Germano. Nel 770 vi è notizia che Costantino Copronimo abbia donato a Carlo Magno alcune Spine. Nel 798 l’imperatrice Irene inviò otto Spine a Carlo Magno che furono depositate nella Basilica di Aix-la-Chapelle e poi distribuite ad altre chiese. Nel 799, come riferisce Aimoin, religioso dell’Abbazia di Fleury, Carlo Magno ricevette dal Patriarca di Gerusalemme, Thomas, molte reliquie, tra cui una Santa Spina, che poi passarono al monastero di Charroux. Analogamente, anche dopo la traslazione della Corona da Gerusalemme a Costantinopoli (1090), qualche Spina dovette rimanere in Palestina, o nella stessa città di Gesù o presso privati. Difatti nel 1104, Ugo del Cassero, reduce dalla Terra Santa, portò una Spina a Fano, in Italia. Così anche Enrico il liberale, il fondatore della Chiesa di Saint-Etienne a Troyes, portò da Terra Santa una Spina (1179). E verso il 1290 la cittadina di Megli, presso Genova, ebbe una Santa Spina dall’ammiraglio Ageno, reduce dalla Palestina.

Misterioso approdo a Costantinopoli

Non sappiamo con certezza come, quando, e perché le reliquie della Passione di Nostro Signore, compresa la Santa Corona, siano passate a Costantinopoli; probabilmente affinché fossero state meglio custodite nel tesoro del palazzo imperiale.
È assolutamente sicuro il documento già citato con cui è riferito che Alessio Comneno nel 1392 abbia ricordata la Santa Corona come già presente a Costantinopoli. E nel 1100 lo stesso Imperatore diede un frammento della Corona a Raymond de Saint-Gilles, che lo depositò a Saint-Trophime d’Arles.
Durante la Quarta Crociata (1202-1203) il card. Capuano portò da Costantinopoli ad Amalfi varie reliquie della Passione, tra cui una Santa Spina. Nel 1205, Nivelon de Cherizy, vescovo di Soissons, reduce da Costantinopoli, donava una spina alla sua Cattedrale. Nel 1206, Enrico, imperatore di Costantinopoli, regalò una Spina al Conte Alberto di Moha; poi la reliquia passò alla Chiesa di Huy. Nello stesso anno, il medesimo Imperatore, ne donò un’altra a suo fratello Filippo, marchese di Namur; poi la Reliquia passò alla chiesa di Saint-Antin nella stessa Namur. Tra il 1224 e 1232 un monaco di Clairvaux, a nome Hugues, portò una Spina da Costantinopoli alla sua Abbazia. Ed è in questo periodo che ebbero Spine in Italia la Chiesa di Belluno e qualche altra, tra cui Amalfi.

Da Parigi un felice riscatto

Fondato poi a Costantinopoli l’impero greco-latino dopo la Quarta Crociata, bandita nel 1202, ne fu affidato, nel 1228, il governo a Baldovino di Fiandra che era stato capitano della spedizione.
Dieci anni dopo, Baldovino venne in Francia per chiedere aiuto contro i nemici del suo Impero; e frattanto gli giunse notizia che i suoi ministri a Costantinopoli, per necessità finanziarie, stavano trattando con alcuni stranieri per impegnare la Santa Corona di Nostro Signore. Baldovino ne propose l’acquisto al santo re, Luigi IX, suo cugino; il Re, incoraggiato dalle istanze della sua piissima madre, accettò la proposta e mandò a Costantinopoli, con sua lettera, i domenicani padre Giacomo e padre Andrea per ritirare la Santa Corona. Ma la Corona, almeno come parola data, era già impegnata ai Veneziani, con diritto però di riscatto entro certi limiti di tempo. Si convenne che i domenicani con alcuni ambasciatori di Costantinopoli fossero andati a Venezia per portare la Corona, ma, nello stesso tempo, per riscattarla. Terminato il viaggio, la Santa Corona fu temporaneamente depositata nella Basilica di San Marco. Il riscatto fu eseguito al prezzo di 160.000 lire venete, pari a 135.000 lire torinesi, e la Santa Reliquia partì alla volta di Parigi. Il 10 agosto 1239, i domenicani arrivarono a Villeneuve, dove furono incontrati dal Re, con la madre Bianca, con i fratelli Roberto d’Artois e Carlo d’Angiò e da tutti i grandi di Francia; il giorno seguente entrarono in Sens, ove la Santa Corona fu esposta nella cattedrale[3]. Otto giorni dopo, la preziosa Reliquia faceva il suo ingresso a Parigi tra il tripudio e la devozione del popolo, e fu deposta nella cappella del Palazzo Reale, fino allora detta di San Nicola, che in seguito il Re rifece con ricchezza meravigliosa e che poi fu consacrata nel 1248 sotto il titolo di cappella della Santa Corona di Spine. Arricchita da papa Innocenzo III di moltissimi privilegi, fu chiamata comunemente la Sainte-Chapelle. Pervenuta la Santa Corona a Parigi, molte Spine furono in seguito donate dai Re di Francia alle Chiese di Francia, di Spagna e d’Italia (Exuviae Sacrae Costant., II, pp. 125 ss). Varie Spine furono portate anche nel Napoletano da Carlo I d’Angiò; basterà ricordare quelle donate alla Cattedrale di Napoli, nonché a Bari e ad Andria.
La Santa Corona rimase nella Sainte-Chapelle fino al 1791.
Anche dopo la traslazione della Santa Corona a Parigi dovettero rimanere a Costantinopoli delle reliquie di Spine presso chiese o privati. Difatti una delle Spine di Vicenza (non quella donata da Luigi IX a Bartolomeo di Braganza nel 1259) porta documento di essere venuta da Costantinopoli nel 1343. Così pure le Spine di Pavia furono dono di Manuele II Patologo, nel 1400. La Santa Spina di Belluno è dono di mons. Buffarelli, che verso il 1470 l’aveva ricevuta da un religioso, reduce da Costantinopoli.

Dalle mani degli empi rivoluzionari a Notre-Dame

Nel 1791 il Municipio rivoluzionario di Parigi fece mettere i suggelli al tesoro della Cappella Reale. Nondimeno Luigi XVI poté sottrarre alcune sante reliquie della Passione di Nostro Signore e con esse la Corona, che nel 12 marzo dello stesso 1791 fece trasportare all’Abbazia di Saint-Denis. Ivi le reliquie rimasero fino all’11 novembre 1793. Dopo questa data il Municipio di Saint-Denis le rinviò a Parigi, per farne un omaggio alla Convenzione, qualificandole quali oggetti adatti ad alimentare la superstizione nei popoli (!). Fu rotto il reliquiario e fuso. La Santa Corona venne spezzata in tre parti, che poi furono affidate ad una “Commissione d’arte”, incaricata della conservazione o meno di oggetti di discutibile importanza. Il Segretario di questa commissione, nel 1794, consegnò gli avanzi della Santa Corona all’abate Barthélemi, conservatore di monete antiche alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Ivi la Reliquia rimase fino al 1804. In tale anno il card. Belloy, Arcivescovo di Parigi, ne fece richiesta al Ministro dei Culti e degli Interni, che la rilasciò nel 26 ottobre dello stesso 1804. Così la Santa Corona nel 10 agosto 1806 fece il suo ingresso nella Cattedrale di Notre-Dame e l’Arcivescovo la chiuse in un ricco reliquiario che si vede tuttora; non senza averne donato alcuni pezzetti alle autorità ecclesiastiche presenti. Da quell’epoca nei Venerdì Santi la Corona è esposta alla venerazione dei fedeli. Dopo quest’ultima traslazione della Santa Corona pare che sia cessata ogni distribuzione di Spine, poiché non ne è rimasto che il solo serto, su cui si ritiene fossero inseriti i rami spinosi.
Sicché tutte le Sante Spine che sono sparse nelle diverse chiese, e nei conventi e privati, provengono da distribuzioni elargite, sin dai primi anni del Cristianesimo, dai centri di Gerusalemme e da Costantinopoli; molto più poi da Parigi dopo l’arrivo della Corona in questa città. Così la venerazione per le Sante Spine risale fino ai primi secoli del Cristianesimo. Né impari a questo sentimento è stata la venerazione che ad esse ha professata la nostra Italia, che conserva altre preziose reliquie della Passione, tra cui la Sacra Sindone.

[1] Dell’esattezza delle notizie su questo documento sono grato agli illustri professori Domenico Mallardo e Vitale de Rosa.

[2] Itinera Hierosolymitana, Ed. Geyer, 1898, p. 154, 24.

[3] Tutto ciò fu fedelmente descritto da Galter, arcivescovo di Sens, come si legge in Acta Sanctorum. 25 Aug. De S. Ludovico rege, XXX.

Immagini per meditare .... Venerdì Santo

$
0
0
Jozef Janssens, Pellegrini dinanzi ad una reliquia cristiana ovvero Venerdì Santo notte ovvero la Veronica mostra il sacro lino alla Vergine ed alle pie donne,1894, Anversa.
Il dipinto rappresenta la Veronica che la sera del Venerdì Santo mostra a Maria, sostenuta da Giovanni, e alle pie donne il velo, così come la scena è descritta dalla Beata Anna K. Emmerick nei Diari pubblicati da Clemente Brentano: “Questo santo gruppo giunse alla casa di Veronica e vi entrò, frattanto anche Pilato e i suoi soldati rientravano, passando per quella strada. Quando Veronica mostrò alle sante donne il volto di Gesù impresso sulla stoffa, esse non poterono trattenere il pianto”.

Herbert Gustave Schmalz, Ritorno dal Calvario, 1891

La Via Crucis del Venerdì Santo a Gerusalemme

$
0
0
 (cliccare sull'immagine per il video)

 (cliccare sull'immagine per il video)

Verificatosi il prodigio della Spina Santa in Andria ed in altri luoghi

$
0
0
Abbiamo avuto modo di parlare delle Sacre Spine della corona di Cristo e del miracolo del “rinverdimento” di alcune di esse (vqui e qui). 

Tali spine, alla luce degli studi fatti, dovrebbero appartenere ad un rovo denominato Zizyphus vulgaris lam, conosciuto anche con il nome di Zizyphus spina-Christi.

Verosimile ricostruzione della corona di spine

In particolar modo va segnalata quella conservata nella Cattedrale di Andria, nota come la “Grande Spina” sia per le dimensioni sia per i fenomeni che l’interessano allorché il Venerdì Santo viene a coincidere con la festa dell’Annunciazione nella quale si fa memoria dell’Incarnazione del Verbo ed in cui, secondo calendari e fonti medievali, si commemora la creazione di Adamo da parte di Dio. Essa ha una storia davvero affascinante, che la lega a S. Ludovico (Luigi) IX d'Angiò, re di Francia: una sua discendente, andata in sposa al duca di Andria, la portò nella città pugliese quale dote nuziale (vqui e qui. Per approfondimenti storici, vquiquiqui e qui).
Anche in quest’anno 2016, dopo quello del 2005, in un contesto di preghiera (vqui) e di fede del popolo di Dio (che manifesta una sorta di "divorzio" tra la sua fede e lo scetticismo di stampo simil-protestante di gran parte dell'attuale clero), il Signore ci ha fatto la grazia di contemplare la sua Potenza, con il rinnovarsi del prodigio della Spina Santa conservata nella città di Andria.
Quest’anno il prodigio si è manifestato in forma diversa rispetto alla volta precedente. Mentre nel 2005, all’apice della Spina comparve una gemma di color rubino che sembrava volesse sgorgare e tracimare dalla stessa, per poi rientrare e scomparire, e ricoprirsi, lungo tutta la superficie, di una peluria mucillaginosa bianco-argenteo o cenere, con delle escrescenze e protuberanze, quest’anno, invece, la Spina ha conosciuto un certo cambiamento di colore, ma nondimeno la comparsa improvvisa delle escrescenze. La particolarità è che quest’anno il fenomeno, a differenza di quello precedente, ha manifestato una certa durata. L'inizio del prodigio era stato annunciato ufficialmente da Mons. Raffaele Calabro, amministratore diocesano della Diocesi (il nuovo vescovo Mons. Mansi entrerà ufficialmente in diocesi il prossimo 3 aprile), durante la celebrazione pomeridiana del Venerdì Santo della Passione di N. S. Gesù Cristo (vquiqui la cronistoria dell'evento, qui la sequenza delle foto).

L'annuncio dell'inizio del miracolo durante la celebrazione della Passione del Signore


Mons. Mansi, neo-vescovo di Andria, in preghiera dinanzi alla Spina

Il fenomeno è stato accertato ufficialmente dalla Commissione scientifico-pastorale appositamente costituita che, dell’evento, ha redatto apposito verbale notarile. Peraltro va ricordato che la stessa Spina era stata sottoposta a ricognizione canonica nel febbraio scorso, onde poterne rilevare i crismi dell’ufficialità il colore e lo stato, al fine di evidenziare in maniera rigorosa e scientificamente ineccepibile il prodigio (v. quiqui, qui, qui e qui. Le immagini sono tratte dal sito della Diocesi di Andria).










Nel tardo pomeriggio di ieri era dato il seguente comunicato stampa: «Verso le ore 16.10, si è rilevata la presenza di un lieve rigonfiamento di colore bianco a forma sferica, a mo’ di gemma, posto a 3mm. circa dall’apice, lato destro della Spina, più precisamente sul bordo della scheggiatura apicale. Successivamente, verso le ore 17.10, si sono rilevate a occhio nudo, una seconda gemma, posta all’apice della Spina, e una terza gemma, posta 4/5 mm. sotto la prima; ancora più verso la base della Spina, il residuo del precedente prodigio dell’anno 2005 è sembrato rifiorire. Tanto è stato constatato direttamente, oltre che dalla Speciale Commissione, anche da mons. Raffaele Calabro, il quale alle 17.40, durante l’omelia dell’azione liturgica del Venerdì Santo ha annunciato ai fedeli: “In questa circostanza ho il piacere di annunciare a voi tutti in maniera solenne che il miracolo ha avuto inizio”» (v. qui, qui, qui, qui e qui. Cfr. qui il servizio televisivo di un'emittente locale).
L'evento è stato celebrato con l'emissione di un francobollo e di un annullo speciale delle Poste italiane (v. qui).
Pure a Bari, secondo notizie Ansa, si sarebbe verificato, sebbene di minor portata, un analogo fenomeno prodigioso sulla Sacra Spina conservata nella Basilica di S. Nicola: vi sarebbero state su questa variazioni cromatiche ed addirittura il delinearsi di un volto umano maschile (v. qui e qui). Pure di esso è stato redatto apposito verbale notarile. Anche per questa Spina era stata costituita una Commissione scientifica (v. qui). 
Altro fenomeno, a quanto si sa, si è verificato anche ad Umbriatico in Calabria (v. qui, qui, qui. Il video è qui. Per riferimenti storici, v. qui). Grande attesa vi è stata pure per la Spina di Castellammare di Stabia (v. qui, qui, qui, qui), sebbene pare che alcun fenomeno di rilievo si sia ivi verificato (v. qui). Pure Vasto ha una Spina analoga (v. qui) e così Aversa (v. qui, qui, qui e qui).
Siano rese grazie a Dio per queste conferme alla fede cattolica! Il prossimo appuntamento è per il lontanissimo 2157, vale a dire tra 141 anni!

Volto Santo conservato nella Cappella della Sacra Spina della Cattedrale di Andria











“Quid quaeritis viventem cum mortuis? Non est hic, sed surrexit" (Luc. XXIV, 5-6). Immagini per meditare la Resurrezione

Exultet iam angelica turba caelorum .... et pro tanti Regis victoria tuba insonet salutaris

La Verità della Resurrezione nell'arte sacra cristiana

$
0
0
In questo giorno di Pasqua, una bella riflessione di Cristina Siccardi.

La Verità della Resurrezione espressa dall’arte sacra cristiana

di Cristina Siccardi

L’Arte Sacra è un’espressione imprescindibile della Fede Cattolica. Quando la committenza ecclesiastica seguiva i dettami della Fede e non il mercato dell’Arte Contemporanea, estranea e spesso ferinamente contraria alla sacralità, si venne a creare per secoli e secoli un connubio perfetto fra teologia e arte, fra ecclesiastici e artisti, trasmettendo in tal modo ai loro contemporanei e ai posteri vera catechesi, vera arte e vera bellezza.
A questo proposito, per la Pasqua, non proponiamo le pseudo produzioni artistiche né di Graham Sutherland con il suo Noli me tangere, né di Giuliano Giuliani con il suo È risorto, non è qui!, bensì un affresco del Beato Angelico della cella 8 del Museo di San Marco a Firenze, che conduce a riflessioni di sicura elevazione spirituale.
È l’alba della Domenica di Pasqua. Le pie donne, che hanno acquistato «oli aromatici» per terminare l’unzione del corpo di Gesù, si trovano davanti al sepolcro vuoto. I Vangeli rivelano i nomi delle donne: Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome (la tradizione è solita identificare in lei l’anonima donna citata due volte dall’evangelista Matteo, quale moglie di Zebedeo e madre degli apostoli Giacomo e Giovanni).
San Luca, al posto di Salome, nomina Giovanna (Lc 24,10). Nell’affresco troviamo, nella parte inferiore, un sepolcro vuoto e sei figure, fra le quali anche la Madonna, la cui verginità è riconoscibile dalla veste molto accollata e dal velo turchese; inoltre, a differenza delle altre, che sono meste, ella abbozza una specie di sorriso e il suo volto è disteso e tranquillo. Un clima di estrema dolcezza e di mestizia tutto avvolge e l’armonia propria dell’autore, proveniente da una solidissima Fede, regna in ogni cosa.
I protagonisti in questo contesto sono due: Cristo, ai piedi del quale sta, ignara degli accadimenti ultimi, Santa Maria Maddalena, vestita di rosso e dalla quale emerge smarrimento misto ad una sorta di sconforto. Il suo rapporto speciale con Cristo la fa distaccare un poco dalle compagne e la troviamo così nell’atto di guardare all’interno della tomba vuota, facendosi schermo con la mano destra, mentre la sinistra si appoggia sull’orlo del sepolcro, quasi dovesse sostenersi per non venire meno. Dov’è l’amato Salvatore? Ed ecco che mentre la Maddalena guarda in giù, l’Angelo punta l’indice della mano sinistra verso su, mentre quello della mano destra designa il sepolcro, come a dire: il Figlio di Dio è passato dalla morte alla vita eterna, dalla terra al Cielo.
Scopo degli affreschi era quello di indurre nei monaci uno stato di contemplazione: parsimonia prospettica e immediatezza compositiva erano gli ingredienti indispensabili alla personale e diretta comunicazione con i misteri della Redenzione. Nell’estremo lato sinistro dell’opera Resurrezione, il Beato Angelico ha dipinto ancora San Domenico, raffigurato in ginocchio, per ricordare ai suoi confratelli e al mondo la dovuta adorazione di fronte a Cristo Signore.
Alle spalle delle donne si staglia, sullo sfondo delle tenebre, la cosiddetta «vesica piscis» o mandorla: un simbolo di forma ogivale ottenuto da due cerchi dello stesso raggio, intersecantisi in modo tale che il centro di ogni cerchio si trova sulla circonferenza dell’altro. Nel Cristianesimo questo simbolo viene riferito a Cristo, come è evidente nell’ichthys. L’autore toscano ha quindi racchiuso il Risorto in una mandorla di Luce ed è questa Luce ad illuminare la scena, perché dietro di Lui tutto è nero; indossa candide vesti e regge il velabro della vittoria (anche qui il pittore domenicano recupera un segno di antica tradizione iconografica), mentre nella mano destra tiene la palma del martirio.
La Maddalena ha il viso profondamente serio, tuttavia non piange e questo sta a dimostrare che la sua perplessità non è disperazione, ma angosciosa attesa di capire, perché la Fede è ancora nella sua anima, ma il suo stato è sospeso nell’incertezza dei sensi… Così, anche quando tutto sembra perduto – proprio come possono apparire i nostri tempestosi e apostati tempi, e come dimostra l’atteggiamento scosso di Maria Maddalena, che osserva, senza comprendere, nel vuoto sottostante – la presenza del vivente e trionfante Cristo è costante: «l’angelo disse alle donne: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto (…) Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 5; 20).

Auguri pasquali con il prefazio di Pasqua cantato dal venerabile Pontefice Pio XII ed un suo messaggio pasquale ancora attuale

$
0
0
È da molto tempo che non si ode risuonare il canto del Prefazio da parte di un Romano Pontefice.
Non c’è modo migliore, perciò, di diffondere il nostro augurio pasquale nella Resurrezione del Signore e nella Sua Vittoria sulla morte e sulle potenze diaboliche - come ci ricordano altri - che assaporare, attraverso alcuni video, la bellezza ed i fasti della liturgia romana attraverso il canto del Prefazio di Pasqua da parte del papa Pio XII, uno dei più grandi Vicari di Cristo del secolo scorso.
Dello stesso Romano Pontefice rimandiamo anche al Messaggio Urbi et Orbi pasquale del 5 aprile 1953, con un avvertimento ed un invito attualissimi: Il pericolo di oggi è la stanchezza dei buoni! Scuotete ogni torpore; riprendete l’usata virtù (v. Riscossa cristiana, 27.3.2016).
In hoc Paschali gaudio, benedicamus Domino: Surrexit Christus vere!









Antifona mariana del tempo pasquale: Regina Coeli laetare

$
0
0







Seguace di Rogier van der Weyden, Cristo risorto appare alla Vergine sua Madre, XVI sec.

IV Pellegrinaggio Regionale Pugliese Summorum Pontificum - 2 giugno 2016


Presentazione in anteprima del nuovo libro di don Nicola Bux - Lecce, 2 aprile 2016, ore 18,30

Vespri del giorno della Santa Pasqua ed a chiusura della Settimana Santa: il canto del "Magnificat"

$
0
0


Karl Pavlovič Brjullov (Карл Павлович Брюллов), Cristo risorto (Воскресший Христос), 1840, cattedrale, Mosca

Tiziano Vecellio, Cristo risorto appare alla Vergine sua madre, 1554, Chiesa parrocchiale, Medole

Robert Strange, Cristo appare alla Vergine, ispirato ad un quadro del Guercino, 1773 circa 

Laurent de La Hyre, Gesù risorto appare alle tre Marie, 1650, musée du Louvre. Parigi







Circa le ridicole bugie dei farisei contro la Risurrezione di Cristo

$
0
0
Il Vangelo di Matteo, sempre molto sensibile al giudaismo, riferisce che, il giorno della Resurrezione, le guardie, che erano state poste a guardia del sepolcro e che furono tramortite dal timore generato dalla potenza del Risorto, riferirono ai sommi sacerdoti ed agli anziani quanto era loro accaduto. Questi, quindi, riunitosi, pur senza negare la realtà della Resurrezione e senza negare l’attendibilità delle guardie poste a vigilanza del sepolcro (il Vangelo almeno non lo dice né lo lascia intendere!), nondimeno pensarono bene di corromperle, offrendo a queste una somma di denaro che S. Matteo dice essere “buona”, cioè cospicua. A condizione che diffondessero una versione di comodo: «Dichiarate: i suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa verrà all'orecchio del governatore noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni noia» (Matth. XXVIII, 13-14).
In buona sostanza, i sommi sacerdoti e gli anziani preferirono che si accreditasse una versione di comodo per la quale le guardie – che pure dovevano montare di guardia – si sarebbero “addormentate” durante il loro servizio (verosimilmente per addormentarsi tutte, esse dovevano aver ecceduto nel bere …) e, per giunta, durante il sonno, si sarebbero fatte sottrarre il corpo di Gesù dal sepolcro. Insomma, questi soldati avrebbero violato gravemente le consegne ricevute, facendosi per giunta beffare dai discepoli del Nazareno. In effetti, se fossero stati i discepoli di questi a trafugare il corpo del Maestro, essi dovevano essere evidentemente numerosi, cioè in numero tale da poter spostare la grossa pietra del sepolcro onde entrare nel sepolcro e trafugare il corpo del Crocifisso! Operazione questa che non poteva essere condotta in maniera silenziosa, tanto da non destare eventuali soldati ipoteticamente pur addormentati (anche se ubriachi)!
Per queste plurime violazioni, senz’altro quei militari si sarebbero esposti a gravi sanzioni, non esclusa la pena capitale.
Di qui la necessità per i giudei di offrire una somma di denaro “buona”. I soldati, annota l’evangelista, «preso il denaro, fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi» (Matth. XXVIII, 15). Una diceria, evidentemente, poco credibile giacché fondata sull’ammissione di gravi violazioni dei doveri militari da parte dei soldati posti a guardia del sepolcro. Una diceria che poteva essere comprata solo a suon di cospicue somme di denaro.

Circa le ridicole bugie dei farisei contro la Risurrezione di Cristo


Voi già sapete, o cristiani, che la notte della domenica in cui risuscitò Gesù Cristo, un angelo discese dal cielo e, suscitato un grande terremoto e rovesciata la pietra del sepolcro, vi si assise al di sopra con un aspetto fulminante; sicché le guardie poste dai Giudei al sepolcro, atterrite a quella vista, restarono tutte come morte. Voi sapete parimenti che il sepolcro fu poi visitato e rivisitato dalle sante donne e dai discepoli. […] Dove intanto si trovassero le guardie, l’Evangelio non lo dice. Esso dice solamente che, partite le donne dal sepolcro, Quae cum abiisent, alcuni soldati della guardia andarono  in città a riferire ai sommi sacerdoti tutto quello che era avvenuto […] vale a dire riferirono loro non solamente che il terremoto e l’aspetto minaccioso e terribile dell’angelo li aveva fatti dallo spavento tramortire, ma inoltre che, rovesciata dall’angelo la pietra del sepolcro, il corpo di Gesù Cristo non vi si trovava più. […] Ora i sacerdoti, assicurati così dalle guardie che il corpo di Gesù Cristo tra mezzo a inauditi prodigi era da sé sparito dal sepolcro, che dovevano essi pensare? Che dovevano fare? Essi dovevano pensare che Gesù Cristo era veramente risuscitato, come aveva promesso […]. Allora fu che i capi de’ Giudei ebbero ben a pentirsi d’aver posta al sepolcro quella guardia di cui tanto dapprima si gloriavano. O consigli degli uomini, quanto siete voi ciechi contro i consigli di Dio! Senza quella guardia, sarebbe stato facile ai capi de’ Giudei il dire che i discepoli avevano rubato il corpo di Gesù Cristo: ma con quella guardia era loro ben difficile il dirlo e più difficile ancora il provarlo.
Difatti che cosa far credere al popolo di quella guardia? Forse che i soldati fossero stati forzati dai discepoli? Ciò li avrebbe disonorati nel punto per loro delicato della bravura; ed essi lo avrebbero costantemente negato. Forse ch’essi, quando fu rubato il corpo di Gesù Cristo, si trovassero tutti addormentati? Ciò era cosa evidentemente ridicola a dire, ma pur più facile a farla dai soldati attestare. Per qual mezzo adunque ottenere da loro la testimonianza? Per mezzo del danaro. Guai, cristiani, infelice danaro! Quanti delitti ha esso mai cagionati nel mondo! Guai a chi lo dà per render gli altri complici del proprio peccato; e guai a chi lo riceve per rendersi complice del peccato altrui! […]
L’avarizia era una delle passioni favorite dei capi de’ Giudei; […] Chiamati pertanto i soldati, i capi de’ Giudei diedero loro una grossa somma di danaro, pecuniam copiosam dederunt militibus; ma col patto che andassero dicendo che i discepoli avevano rubato il corpo di Gesù Cristo mentre essi dormivano, vobis dormientibus.
Ma qui restava ancora un’altra difficoltà. Un soldato di guardia che si fosse lasciato prendere dal sonno era reo di morte. Quei soldati adunque, col dire che si erano tutti addormentati, si esponevano a pericolo d’esser tutti dal Governatore puniti di morte. Ma in tal caso i capi de’ Giudei presero sopra di loro stessi tutto questo affare: essi avrebbero acquietato il Governatore e messi i soldati al coperto d’ogni pena […]. Quanti delitti, o cristiani, e quanti deliri insieme in tutto questo procedere dei capi de’ Giudei! Si conosce la verità e si vuol farla passare per un’impostura; s’inventa un’impostura e si vuol farla passare per una verità; si fa attestare da guardie corrotte a prezzo d’oro ciò che non possono aver veduto, si fa dire a queste guardie ciò che le fa ree di morte e se ne promette loro l’impunità; insomma, purché l’odio contro di Gesù Cristo resti soddisfatto, si fanno passare per ragionevoli e giuste le assurdità più ridicole, insieme e le più esecrabili empietà. Tanto è vero, o cristiani, che le passioni talvolta arrivano a soffocare negli uomini ogni principio di retta coscienza e insieme di sana ragione.
Preso allora il danaro, i soldati andarono francamente spacciando la favola ch’era loro stata suggerita, sicut fuerant edocti: e questa favola si divulgò tra i Giudei e vi fu lungamente creduta: Et divulgatum est verbum istud apud Judaeos usque in hodiernum diem.
Insensati Giudei! Stupida credulità! I soldati, posti con tanta gelosia alla guardia del sepolcro, si sono addormentati tutti; e allo strepito inevitabile fatto per rovesciarne la pietra non se ne risvegliò neppure un solo; e i discepoli furono quelli che, rovesciata la pietra, hanno rubato il corpo di Gesù Cristo; e i testimoni irrefragabili ne sono i soldati, che tutti allora dormivano; e i soldati stessi sono quelli che pubblicano questo loro fallo degno di morte e fanno sapere a tutti che i discepoli hanno rubato quel corpo perché essi dormivano; e questi soldati non si accusano, non son fatti punire, anzi vengono assicurati dell’impunità, premiati, pagati profusamente; e i discepoli stessi, che per rubare il corpo di Gesù Cristo hanno infranti i sigilli pubblici e rubando quel corpo hanno cagionato un errore peggior del primo, un errore che rovescia sino dai fondamenti tutta la religione giudaica, questi discepoli si lasciano tranquilli nella città santa, in Gerusalemme, sotto gli occhi del Governatore insieme e dei sommi sacerdoti, senza perquisizioni, senza minacce, senza supplizj: ah! veramente mentita est iniquitas sibi, ps. XXV I, 12; si, cristiani, l’iniquità si smentisce da sé medesima, e la verità da tutte le parti si manifesta. […]
Divino Gesù, se la favola inventata contro di voi, dopo risorto, dai capi de’ Giudei e fatta credere al popolo giudaico ne ha fatti perire tanti tra loro eternamente, ah! non sia così di noi che crediamo e crediamo di tutto cuore la verità della vostra risurrezione. Deh! anzi questa fede, animata in noi dalle opere della santa carità e vincitrice per conseguenza di tutte le nostre passioni, che ce la potrebbero far perdere, questa fede ci tenga tutti a nostra santificazione e salute uniti inseparabilmente a voi, per viver tutti con voi la vita della vostra grazia sulla terra e la vita della vostra gloria nel cielo; vita che, al pari della vita vostra dopo risorto, sarà per tutti i secoli dei secoli immortale.

[Brano tratto da un libro del 1837 intitolato Spiegazione pastorale ordinata degli Evangelj, scritto da Don Francesco Molena]

Fonte: Cordaliter, 28.3.2016

L’eresia regna sovrana nella Casa Pontificia! Lutero, Cantalamessa, e la Resurrezione dal modernismo

$
0
0
Sembra quasi di vivere un incubo. Pare realizzarsi il terribile vaticinio di Lutero contro il Papato e la Chiesa. Egli, seduto in Eisleben (oggi Lutherstadt Eisleben) alla mensa lautissima dei conti di Mansfeld, tracannando i migliori vini del Reno e riempiendosi il ventre delle carni di prelibate selvaggine, beffeggiava grossolanamente sia il Papa sia l’Imperatore sia i monaci; e sporchi lazzi faceva pure sul conto del diavolo, che aveva sempre nella bocca e nel cuore: quando, levatosi a un tratto di tavola, andò a scrivere, fra le risa di tutti i convitati, col gesso su una parete questo verso: Pestis eram vivus, moriens tua mors ero, Papa (così riferisce, R. P. Raffaele Ballerini S.J. , Chi fosse Martin Lutero, in La Civ. catt., a. XXXIV, serie XII, vol. IV, 1883, p. 270). Poco tempo dopo, il 22 febbraio del 1546, egli moriva soffocato dall’asma, disperandosi per sentirsi derelitto da Gesù Cristo e dannato.
Tuttavia, quel sinistro vaticinio pesa. Ed è singolare che oggi Roma si chini a questo funesto personaggio, causa della probabile dannazione di molti popoli!
Per cui, desta non poco sconcerto che il “predicatore della casa pontificia”, tale sig. Cantalamessa, si metta ad esaltare – per giunta durante la Predica del Venerdì Santo – la figura e gli errori di questo eresiarca, dando ad intendere che la Chiesa ed il suo Magistero avevano, per secoli, smarrito la luce della verità sul significato della giustificazione e che senza l’opera dell’eresiarca non l’avremmo riscoperto! C’è davvero da trasecolare.
Ma cediamo alle debite spiegazioni di P. Morselli sul punto.

Lutero, Cantalamessa, e la Resurrezione dal modernismo

di don Alfredo Morselli


L’ultima predica del venerdì santo 2016, pronunciata nella basilica di S. Pietro dal P. Raniero Cantalamessa, contiene affermazioni che feriscono profondamente il cuore dei buoni cristiani.
Si tratta di un’interpretazione falsa della dottrina della giustificazione di Lutero, ascrivendo allo stesso eresiarca un merito, quando invece il suo pensiero in materia è un grandissimo errore contro la Misericordia divina.
Riporto le gravi affermazioni del Predicatore della Casa Pontificia:
“…la giustizia di Dio è l’atto mediante il quale Dio rende giusti, a lui graditi, quelli che credono nel Figlio suo. Non è un farsi giustizia, ma un fare giusti. Lutero ha avuto il merito di riportare alla luce questa verità, dopo che per secoli, almeno nella predicazione cristiana, se ne era smarrito il senso. E’ di questo soprattutto che la cristianità è debitrice alla Riforma, di cui il prossimo anno ricorre il quinto centenario. “Quando scoprii questo, scrisse più tardi il riformatore, mi sentii rinascere e mi pareva che si spalancassero per me le porte del paradiso”. Ma non sono stati né Agostino né Lutero a spiegare così il concetto di “giustizia di Dio”; è la Scrittura che lo ha fatto prima di loro…”

Perché queste affermazioni sono così gravi? 
Quando insegno il catechismo ai bambini della I Comunione, e devo loro spiegare cosa vuol dire che la Grazia ci fa santi, faccio loro questo esempio:
“Una ricca signora aveva nella sua villa due domestiche: una si chiamava Linda l’altra Polverosa. Quando Polverosa spazzava, non avendo voglia di portare via la sporcizia, la nascondeva sotto il tappeto. Invece Linda puliva a fondo e portava via subito nell’inceneritore lo sporco raccolto. Chi delle due è la domestica migliore?”

I bambini rispondono in coro: “Linda!”
Al che pongo una seconda domanda:
“Secondo voi, quando Gesù ci lava con il suo Sangue nel Battesimo e nella Confessione, distrugge i nostri peccati per davvero, oppure li mette sotto un tappeto, facendo finta di non vederli?”

E i bambini in coro: “Li distrugge!”
Adesso traduco il tutto per i lettori “grandi”. Polverosa rappresenta la dottrina della giustificazione di Lutero, l’imputazione estrinseca della giustizia: secondo questa teoria (1), il buon Dio non distruggerebbe i peccati dell’uomo, ma gli imputerebbe - estrinsecamente e arbitrariamente - la sua giustizia; è così il predestinato (colui a cui è capitato in mano il più fortunato dei gratta e vinci, nella lotteria del servo arbitrio) si ritrova ad essere simul iustus et peccator, nello stesso tempo giusto e peccatore.
La giustificazione dell’uomo si riduce così ad essere un velo pietoso su un cadavere putrefatto.
Come può permettersi di asserire, il noto frate cappuccino, che “Lutero ha avuto il merito di riportare alla luce questa verità”?
Ad errore particolarmente grave, lo Spirito Santo ha suggerito a suo tempo un formidabile antidoto: il decreto sulla giustificazione (la Linda dell’aneddoto), promulgato dal Concilio di Trento, in data 13 gennaio 1547:
“Mediante la libera accettazione della grazia, l’uomo da ingiusto diventa giusto, da nemico amico, ed erede secondo la speranza della vita eterna”.
Possiamo e dobbiamo dunque credere fermamente che il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, ogni qual volta gli chiediamo perdono, distrugge radicalmente i nostri peccati, bruciandoli nel fuoco della fornace ardente della carità del suo Cuore; giacché una sola goccia del suo Sangue - che pur Egli ha voluto versar tutto quanto ne scorreva nel suo Corpo -salvum facere totum mundum quit ab omni scelere, può salvare tutto il mondo (e non solo pochi predestinati), da ogni peccato (numero, genere, varietà e profondità di radicamento nell’anima).
Questo i cattolici credono; Lutero non lo ha mai creduto.
Il pensiero di Lutero, tanto decantato dal P. Cantalamessa, è quanto di più subdolo si possa opporre alla vera Misericordia di Dio, quasi che questa possa lasciare il peccatore nella sua miseria, simul obiectum misericordiae et peccator; la vera misericordia non è quella che semplicemente ha compassione di Maria di Magdala, ma quella che ha fatto di lei un grandissima santa, avendone cacciato sette demoni; è quella che ha fatto sì che il ladrone Disma, che aveva riconosciuto la giustezza del supplizio a cui era sottoposto, entrasse per primo in Paradiso tra i figli di Adamo; è quella che ha fatto, del soldato che ha colpito - a nome di tutta l’umanità peccatrice - il Divin Cuore, San Longino...
La radicale sfiducia nella grazia di chi ha pur fatto del sola gratia la sua bandiera, fa capolino negli interventi di chi vuole sovvertire la dottrina della Chiesa sull’Eucarestia e sul matrimonio; si rivede un radicato pessimismo nei confronti di quei fratelli verso i quali si vorrebbe esercitare la misericordia. Da un lato le persone con tendenza omosessuale e i divorziati risposati sarebbero soggetti ad una concupiscenza invincibile - sempre di sapore luterano - giansenista -, per cui si ha persino paura a proporre loro la Verità di Cristo; dall’altro lato si dimentica che non c’è più nessuna condanna per coloro che sono di Cristo Gesù, che cioè la Misericordia di Dio non solo ci accoglie come siamo (lasciandoci simul iusti et peccatores), ma ci vuole veramente liberare, guarire, bruciare il nostro stato di peccato... far di noi dei grandi santi.
“Anziché gustarmi il gaudio della Resurrezione - mi vien da dire - mi ritrovo con le mani in mezzo alla sporcizia?”
Mi rispondo: “Gesù, attendo in questa notte non solo la Tua Resurrezione, ma anche quella della tua Chiesa. Lo so che questa, a differenza Tua, non è mai morta e non può morire; ma come il Tuo Corpo unito alla Divinità giaceva tutto legato dalle bende, così il Corpo della Chiesa, pur non esanime, giace come legato dai lacci del modernismo.
Come il Tuo Corpo reale è passato attraverso le bende, che non lo hanno potuto imprigionare, così il Tuo Corpo mistico possa svincolarsi oggi dai lacci del modernismo.
Buona Pasqua a tutti!

NOTE

(1) Riprendo qui ampi stralci di un mio precedente articolo: L’imputazione estrinseca della misericordia.

Fonte: blog MiL, Messa in latino, 27.3.2016

Le numerose apparizioni di Gesù risorto provano la Resurrezione

$
0
0
Tra le numerose apparizioni e manifestazioni del risorto, vi è stata senz’altro quella a sua Madre.
I Vangeli non menzionano, è vero, alcuna apparizione alla Vergine. Ma si tratta nondimeno di una verità da sempre creduta dal popolo cristiano. Scriveva il grande biblista domenicano Marie-Joseph Lagrange: «La piété des enfants de l’Église tient pour assuré que le Christ ressuscité apparut d’abord à sa très sainte Mère. Elle l’a nourri de son lait, elle a guidé son enfance, elle l’a comme présenté au monde aux noces de Cana, pour ne reparaître guère qu’auprès de sa croix. Mais Jésus a consacré à elle seule avec Joseph trente ans de sa vie cachée : comment n’aurait-il pas eu pour elle seule le premier instant de sa vie cachée en Dieu ? Cela n’intéressait pas la promulgation de l’Évangile ; Marie appartient à un ordre transcendant où elle est associée comme Mère à la Paternité du Père sur Jésus» ; «La pietà dei figli della Chiesa ritiene come certo che Cristo risorto apparve prima alla sua Santissima Madre. Lei Lo alimentò col suo latte, guidò durante la sua infanzia, per così dire, Lo presentò al mondo nelle Nozze di Cana, e non riapparve se non ai piedi della Croce. Ma Gesù consacrò solo a Lei e a San Giuseppe trent’anni della sua vita nascosta: come avrebbe potuto non dedicare solo a Lei il primo istante della sua vita nascosta in Dio? Non c’era interesse a divulgare questo dato nei Vangeli; Maria appartiene a un ordine trascendente, nel quale è associata, come Madre, alla paternità del Padre, in relazione a Gesù» (Marie-Joseph Lagrange, OP, L’Évangile de Jésus-Christ avec la Synopse évangélique, trad. a cura di P. C. Lavergne o.p., Librairie Lecoffre-Gabalda et Cie, Paris, 1954, p. 648-649).
Vi sarebbero, a fondamento, di questo convincimento almeno due ragioni: 1. la prima di ordine, diciamo, affettivo e naturale: Cristo amava profondamente sua Madre e, dunque, non poteva non renderla partecipe (così come del resto l’aveva resa socia e compartecipe della Passione), prima di ogni altra persona, della gioia della Resurrezione; 2. la seconda ragione possiamo definirla di ordine teologico: Maria è stata la prima redenta (in virtù del suo immacolato concepimento) e la prima credente, la quale meditava nel suo cuore, sin dalla divina Infanzia del Redentore, tutti gli avvenimenti che l’hanno interessato. Per questo, essendo la prima credente, anzi, diciamo, il prototipo della perfetta credente, il Signore non poteva far a meno di manifestarsi, prima che alla Maddalena ed agli altri discepoli, a sua Madre.
Anche l’apocrifo Vangelo di Gamaliele (risalente al VI sec.) ed i Padri hanno fortemente sostenuto quest’opinione. Abbiamo testimonianze di sant’Efrem Siro e di san Giovanni Crisostomo. Essi fondavano questa convinzione su un passo del Vangelo matteano (Matth. XXVIII, 1), secondo cui Gesù sarebbe apparso a «Maria Maddalena e l’altra Maria», intendendo per «altra Maria» la Madre di Gesù.
Il santo ortodosso Gregorio di Palamas, nella sua XVIII Omelia sulle Mirofore, ovverosia per la c.d. domenica delle mirofore, nega decisamente che la prima apparizione del Risorto sia stata per la Maddalena, bensì fu a favore della Madre: «… l’annuncio della Resurrezione del Signore prima fra tutti gli uomini, com’era del resto conveniente e giusto, l’ebbe dal Signore la Madre di Dio, ed ella prima di tutti lo vide risorto e godette della sua divina familiarità: né lo vide solo con gli occhi e lo sentì con le proprie orecchie, ma per prima ella sola toccò con le mani i suoi santi piedi, benché gli evangelisti non dicano in modo chiaro tutte queste cose, per non addurre come testimone la Madre e offrire occasione di sospetto agli increduli» (San Gregorio di Palamas, Omelia XVIII sulle Mirofore, § 3, in Georges Gharib – Ermanno M. Toniolo, Testi mariani del secondo millennio. 1. Autori orientali (secc. XI-XX), ed. Città Nuova, Roma, 2008, p. 350).
Con lui anche altri Padri, sia latini sia orientali, hanno affermato questa verità (S. Paolino di Nola, Isacco di Antiochia, Cesario di Arles, Eadmero, Amedeo di Losanno, Onorio di Autun, Giovanni Euchaita, S. Massimo il Confessore, Giorgio di Nicomedia, Simeone Metafraste, S. Bruno di Segni, Ruperto di Deutz, Sicardo da Cremona, S, Gregorio di Nissa, S. Giovanni di Tessalonica, ecc.), sebbene con varie argomentazioni, hanno sostenuto tale verità (cfr. Aristide Serra, Dimensioni mariane del mistero pasquale. Con Maria, dalla Pasqua all’Assunta, ed. Paoline, Milano, 1995, pp. 38 ss. Per riferimenti, v. anche Sergio Gaspari, Testimone privilegiata del Risorto, in Madre di Dio, 2007, fasc.  4; George Gharib, L’Apparizione del Risorto alla Madre e la festa della Risurrezione, ivi, 2006, fasc. 4, che offre anche interessanti spunti legati alla liturgia siro-occidentale).
Anche la Chiesa latina celebra, poi, sin dal termine della grande veglia di Pasqua, il saluto pasquale del Risorto alla Madre con il canto dell’antifona del Regina Coeli (come prescrive la terza Editio Typica del Missale Romanum approvato da Giovanni Paolo II e pubblicato nel 2002).
Il papa Giovanni Paolo II, a sua volta, ha sostenuto in diverse occasioni questa consolante verità (cfr. Omelia della Santa Messa nel Santuario di Nostra Signora de La Alborada, 31 gennaio 1985, § 6; Regina Coeli, 4 aprile 1994; Udienza generale, 21 maggio 1997. V. anche Salvatore Maria Perrella, Maria nel Mistero Pasquale, in L’Osservatore romano, 9.4.2009).
Pure i mistici l’hanno confermata. Ci narra, ad es., dom Prosper de Gueranger che «Nostro Signore ha voluto descrivere, egli stesso, quella scena in una rivelazione fatta a santa Teresa. Si degnò di confidarle che la sua divina Mamma era così profondamente abbattuta, da non resistere ancora molto senza soccombere al suo martirio e che, quando si mostrò a lei, appena uscito dal sepolcro, ebbe bisogno di qualche istante per ritornare in se stessa, prima di ritrovarsi in istato di godere una tale gioia; e il Signore aggiunge che le restò non poco vicino, perché questa sua prolungata presenza le era necessaria».
Nell’odierna festa del Lunedì dell’Angelo, perciò, è indicato rilanciare questo contributo di don Morselli sul tema delle apparizioni del Risorto.





Rogier van der Weyden, Pala di Maria o Miraflores, con scene della Natività, della Deposizione di Cristo e di Cristo risorto appare alla Vergine, 1440 circa, Staatliche Museen, Berlino

Filippino Lippi, Et prima vidit ... - Cristo risorto appare alla Vergine - Intervento di Cristo e della Madre, 1493 circa, Alte Pinakothek, Monaco

Guido Reni, Cristo risorto appare alla Vergine, 1608 circa, Fitzwilliam Museum, Cambridge


Guercino, Cristo risorto appare alla Vergine, 1629, Pinacoteca Comunale, Cento

Le numerose apparizioni di Gesù risorto provano la Resurrezione

di don Alfredo Morselli


Gesù, dopo la sua resurrezione, era apparso molte volte: negli anni successivi, i numerosi testimoni di queste apparizioni, erano rimasti in vita e la loro testimonianza, verificabile e credibile, rafforzava la fede dei primi cristiani. 
Esaminiamo, a questo proposito, 1 Cor 15, 1-28: 
[1] Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, [2] e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!
[3] Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, [4] fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, [5] e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. [6] In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. [7] Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. [8] Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. [9] Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. [10] Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. [11] Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto. 

Ad una prima occhiata, potrebbe sembrare che S. Paolo si preoccupi della fede nella Resurrezione di Gesù a Corinto, che volesse rafforzare questo punto della fede: ma i versetti successivi ci indicano che il dubbio di alcuni Corinti è un altro; si tratta della resurrezione dei morti: 
[12] Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?

Il v. 12b, evidenziato in grassetto, rivela chiaramente il dubbio di alcuni (quindi non di tutti) Corinti. 
Tutta l’argomentazione paolina successiva tende a dare una vera e proria dimostrazione teologica del fatto che i morti risorgono. Notiamo bene che la resurrezione dei morti è uno degli articoli della nostra fede “esistenzialmente” più difficile a credersi. Quando ci troviamo davanti ad un cadavere, con i tragici resti di una malattia o di un incidente, bisogna proprio farsi forza per credere che i nostri defunti risorgeranno! 
Detto questo, precisiamo ancora che, per sciogliere un dubbio, è necessario fondare il nostro ragionamento su delle certezze: non possiamo fondarci su un altro dubbio. E qual è la certezza su cui S. Paolo si appoggia per dimostrare che i morti risorgono? Vediamo che l’apostolo parte da due certezze; la prima è un fatto storico; la seconda un principio teologico.
Il fatto storico è la resurrezione di Cristo, il principio teologico è che Cristo è la “primizia” di coloro che risorgono, cioè il primo di una serie. 
Esaminiamo dunque ora lo sviluppo dell’argomentazione paolina: i morti risorgono perché…
1) Cristo è veramente risorto - la Resurrezione di Gesù è certa;
2) Cristo “è primizia di coloro che sono morti” (il primo “frutto” di un intero raccolto).
Se Cristo è veramente risorto - ed è risorto perché lo hanno visto in tanti, molti ancora viventi - e Cristo non risorge solo per conto suo, ma è il primo di una serie, allora tutti i morti risorgono. 
Fatte queste premesse, possiamo ora leggere il seguito di 1 Cor 15: dal v. 13 al 18 vediamo l’insistenza sul primo argomento (Cristo è veramente risorto - la Resurrezione di Gesù) 
[13] Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! [14] Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. [15] Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. [16] Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è veramente risorto - la Resurrezione di Gesù; [17] ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. [18] E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. [19] Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. 

A partire dal v. 20 troviamo il secondo argomento (Cristo primizia) 
[20] Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. [21] Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; [22] e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. [23] Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; [24] poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. [25] Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. [26] L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, [27] perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. [28] E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti. 

La teologia paolina sull’unità del genere umano in Adamo e sulla nuova unità in Cristo ci interessa meno, in vista del fine di questo scritto, che è quello di constatare che a Corinto, per provare teologicamente la resurrezione dei morti, viene presentato il fatto della resurrezione di Gesù, un fatto certo, accreditato da molte testimonianze, a più riprese, verificabili, credibili, autorevoli. Per provare il più incredibile dei misteri (la resurrezione dei morti) non può essere portato un argomento dubbio, o un mito; ci vuole una prova certa.
Capiamo allora come l’insistenza sulla parola “apparve” (4 volte) dei primi versetti serve a rafforzare la credibilità dell’argomento decisivo.

Conclusioni 

Siccome per provare la resurrezione dei morti è necessaria una prova certissima, e, per questo scopo, S. Paolo usa come argomento la resurrezione di Gesù, se ne conclude che a Corinto, circa 20 anni dopo la Resurrezione di Gesù, tutti erano sicuri che questa fosse storicamente accaduta
Perché tutti (anche “alcuni” che non credevano nella resurrezione dei morti) ne erano così sicuri?
Perché erano ancora vivi e rintracciabili i testimoni: alcuni Apostoli e “più di cinquecento fratelli” a cui Gesù era apparso “in una sola volta”.

Viewing all 2409 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>