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Comunione in stato di peccato in aforisma di S. Brigida di Svezia
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Le devozioni mariane in Terra Santa
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La crisi della Chiesa alla luce del segreto di Fatima
Dopo la clamorosa rivelazione del teologo tedesco P. Döllinger, torna a far parlare di sé il c.d. Terzo Segreto di Fatima. Ne avevamo parlato anche noi nei giorni scorsi (v. qui).
Si conferma, alla luce delle parole dell’amico e confidente di Benedetto XVI, quel che lo scrittore e giornalista cattolico Antonio Socci aveva sempre sostenuto, e fatto proprio in un celebre libro, e cioè che del Terzo Segreto fosse stata rivelata, nel 2000, solo una parte: per l’esattezza quella riguardante la visione, ma non quella relativa alle spiegazioni fornite dalla Vergine a Giacinta e Lucia (le quali, uniche tra i tre pastorelli, potevano udire la voce della Madonna: Francesco aveva la visione, ma non ne udiva la voce. Per questo, la Vergine autorizzò le sue compagne a rivelare al bambino le parole dette). La Sala Stampa ha smentito le clamorose rivelazioni del prof. Döllinger (il quale, a sua volta, ha confermato, parola per parola, quanto aveva rivelato: cfr. Fatima forever. Dollinger risponde a BXVI, in Chiesa e postconcilio, 23.5.2016). Ma si è trattata di una strana smentita. In ogni caso, come notato di recente dallo stesso Socci, la smentita è, in un certo qual modo, veritiera, perché la Santa Sede, a partire da Giovanni XXIII, ha considerato rivelazione (privata) soprannaturale solo la visione, mentre le parole della Vergine sono state ritenute mere elaborazioni, interpretazioni e riflessioni di suor Lucia. Per cui, ciò che è stato stimato come soprannaturale è stato effettivamente rivelato nel 2000. Manca, ovviamente, l’altra parte, quella didattica della santa Vergine, ritenuta, a torto, non soprannaturale nel clima euforico, e contrario ai “profeti di sventura”, instauratosi col Concilio Vaticano II (cfr. Antonio Socci, La verità sul terzo segreto di Fatima e perché se ne torna a parlare (se ne astengano i dilettanti), in blog Lo straniero, 28.5.2016).
Sta di fatto che proprio quella parte didattica, ovvero la spiegazione che la Madonna offrì della visione, sta rivelandosi drammaticamente vera. Ed i frutti sono sotto gli occhi di tutti.
Nella festa della Beata Vergine Maria Regina, a conclusione del mese mariano di maggio, rilanciamo questo contributo del prof. De Mattei proprio sul tema della crisi della Chiesa alla luce del Terzo Segreto, tradotto in inglese dall’immancabile Rorate caeli.
Marco Palmezzano, Incoronazione della Vergine con i SS. Benedetto e Francesco d'Assisi, 1494-96, Pinacoteca, Brera |
Paolo Veronese, Incoronazione della Vergine, 1555, Sacrestia, Chiesa di S. Sebastiano, Venezia |
Giorgio Vasari, Incoronazione della Vergine, 1571, Chiesa di S. Caterina, Livorno |
Bernardo Lorente Germán, Incoronazione della Vergine Immacolata, XVII-XVIII sec., Collezione Carmen Thyssen-Bornemisza, Malaga |
Guido Reni, Madonna della Sedia, 1624-25, Museo del Prado, Madrid |
Juan Luis Zambrano, Incoronazione della Vergine, 1638 circa, collezione privata, Madrid |
Diego Rodriguez de Silva y Velázquez, Incoronazione della Vergine, 1635-36, Museo del Prado, Madrid |
Copia di Diego Rodriguez de Silva y Velázquez, Incoronazione della Vergine, XVIII-XIX sec., Museo del Prado, Madrid |
Pedro de Calabria, Incoronazione della Vergine, XVIII sec., Museo del Prado, Madrid |
Luigi Mussini, Incoronazione della Vergine, XIX sec., Cattedrale, Siena |
La crisi della Chiesa alla luce del segreto di Fatima
di Roberto de Mattei
L’anno del centenario di Fatima (2016-2017) è stato aperto, il giorno di Pentecoste, da una notizia che ha suscitato clamore. Il teologo tedesco Ingo Döllinger ha riferito al sito One Peter Five che, dopo la pubblicazione del Terzo Segreto di Fatima, il cardinale Ratzinger, gli avrebbe confidato: «Das ist noch nicht alles!», «Non è ancora tutto».
La Sala Stampa Vaticana è intervenuta con un’immediata smentita in cui si dice che «il Papa emerito Benedetto XVI rende noto “di non aver mai parlato col prof. Döllinger circa Fatima” e afferma chiaramente che le esternazioni attribuite al prof. Döllinger su questo tema “sono pure invenzioni, assolutamente non vere” e conferma decisamente: “La pubblicazione del Terzo Segreto di Fatima è completa”».
La smentita non convince chi, come Antonio Socci, ha sempre sostenuto l’esistenza di una parte non divulgata del segreto che parlerebbe dell’abbandono della fede da parte dei vertici della Chiesa. Altri studiosi, come il dott. Antonio Augusto Borelli Machado, giudicano integrale e tragicamente eloquente il segreto divulgato dalla Santa Sede. Sulla base dei dati a nostra disposizione, non si può affermare oggi con assoluta certezza né che il testo del Terzo Segreto sia integrale, né che esso sia incompleto. Ciò che invece appare assolutamente certo è che la profezia di Fatima è incompiuta e che il suo compimento riguarda una crisi nella Chiesa senza precedenti.
Va ricordato a questo proposito un importante principio ermeneutico. Il Signore, attraverso rivelazioni e profezie che nulla aggiungono al deposito della fede, ci offre talvolta una “direzione spirituale” per orientarci nelle epoche più oscure della storia. Ma se è vero che le parole divine proiettano luce sulle epoche tenebrose, è anche vero il contrario: gli eventi storici, nel loro drammatico svolgimento, ci aiutano a comprendere il significato delle profezie.
Quando, il 13 luglio del 1917, la Madonna annunziò a Fatima che se l’umanità non si fosse convertita, la Russia avrebbe diffuso nel mondo i suoi errori, queste parole apparivano incomprensibili. Furono i fatti storici a svelarne il significato. Dopo la Rivoluzione bolscevica dell’Ottobre 1917 fu chiaro che l’espansione del comunismo era lo strumento di cui Dio voleva servirsi per castigare il mondo dei suoi peccati.
Tra il 1989 e il 1991, l’impero del male sovietico si è apparentemente sgretolato, ma la scomparsa dell’involucro politico ha permesso una maggiore diffusione nel mondo del comunismo, che ha il suo nucleo ideologico nell’evoluzionismo filosofico e nel relativismo morale. La “filosofia della prassi”, che secondo Antonio Gramsci riassume la rivoluzione culturale marxista, è divenuta l’orizzonte teologico del nuovo pontificato, tracciato da teologi come il cardinale tedesco Walter Kasper e l’arcivescovo argentino Víctor Manuel Fernández, ispiratori dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia.
In questo senso non è dal segreto di Fatima che dobbiamo partire per comprendere l’esistenza di una tragedia della Chiesa, ma dalla crisi nella Chiesa per comprendere il significato ultimo del segreto di Fatima. Una crisi che risale agli anni Sessanta del Novecento, ma che con l’abdicazione di Benedetto XVI e il pontificato di Papa Francesco ha conosciuto un’impressionante accelerazione.
Mentre la Sala Stampa si affrettava a disinnescare il caso Döllinger, un’altra bomba esplodeva con ben maggior fragore. Nel corso della presentazione del libro del prof. don Roberto Regoli, Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI, svoltasi nell’aula magna della Pontifica Università Gregoriana, mons. GeorgGänswein enfatizzava l’atto di rinuncia al pontificato di Papa Ratzinger con queste parole: «Dall’undici febbraio 2013 il ministero papale non è più quello di prima. È e rimane il fondamento della Chiesa cattolica; e tuttavia è un fondamento che Benedetto XVI ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d’eccezione».
Secondo l’arcivescovo Gänswein, le dimissioni del Papa teologo sono «epocali» perché hanno introdotto nella Chiesa cattolica la nuova istituzione del Papa emerito trasformando il concetto di munus petrinum, “ministero petrino”. «Prima e dopo le sue dimissioni Benedetto ha inteso e intende il suo compito come partecipazione a un tale “ministero petrino”. Egli ha lasciato il Soglio pontificio e tuttavia, con il passo dell’11 febbraio 2013, non ha affatto abbandonato questo ministero. Egli ha invece integrato l’ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune. (…) Dall’elezione del suo successore Francesco il 13 marzo 2013 non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l’appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è “Santità”; e per questo, inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano – come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo successore e a una nuova tappa nella storia del papato. (…) Con un atto di straordinaria audacia egli ha invece rinnovato quest’ufficio (anche contro l’opinione di consiglieri ben intenzionati e senza dubbio competenti) e con un ultimo sforzo lo ha potenziato (come spero). Questo certo lo potrà dimostrare unicamente la storia. Ma nella storia della Chiesa resterà che nell’anno 2013 il celebre Teologo sul Soglio di Pietro è diventato il primo “Papa emeritus” della storia».
Questo discorso ha un carattere dirompente e, da solo, dimostra come siamo non oltre, ma più che mai dentro la crisi della Chiesa. Il Papato non è un ministero che possa essere “allargato”, perché è un “ufficio”, attribuito personalmente da Gesù Cristo ad un unico Vicario e ad un unico successore di Pietro. Ciò che distingue la Chiesa cattolica da ogni altra chiesa o religione è proprio l’esistenza di un principio unitario e inscindibile incarnato nella persona del Sommo Pontefice. Il discorso di mons. Gänswein suggerisce una Chiesa bicefala e aggiunge confusione ad una situazione già fin troppo confusa.
Una frase collega la seconda e la terza parte del Segreto di Fatima: «In Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede». La Madonna si rivolge a tre pastorelli portoghesi e li rassicura che il loro Paese non perderà la fede. Ma dove si perderà la fede? Si è sempre pensato che la Madonna si riferisse all’apostasia di intere nazioni, ma oggi appare sempre più chiaro che la perdita maggiore della fede, sta avvenendo tra gli uomini di Chiesa.
Un «vescovo vestito di bianco» e «vari altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose» sono al centro del Terzo Segreto, su uno sfondo di rovina e di morte, che è legittimo immaginare non solo materiale, ma spirituale. Lo conferma la rivelazione che suor Lucia ebbe a Tuy il 3 gennaio 1944, prima di scrivere il Terzo Segreto e che dunque è ad esso indissolubilmente legata. Dopo la visione di una terribile catastrofe cosmica, suor Lucia racconta di aver sentito nel cuore «una voce leggera che diceva: ’nel tempo, una sola fede, un solo battesimo, una sola Chiesa, Santa, Cattolica, Apostolica. Nell’eternità il Cielo!».
Queste parole rappresentano la negazione radicale di ogni forma di relativismo religioso a cui la voce celeste contrappone l’esaltazione della Santa Chiesa e della Fede cattolica. Il fumo di Satana può invadere la Chiesa nella storia, ma chi difende l’integrità della Fede contro le potenze dell’inferno vedrà, nel tempo e nell’eternità, il trionfo della Chiesa e del Cuore Immacolato di Maria, definitivo suggello della tragica, ma entusiasmante, profezia di Fatima.
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L'inno greco alla Vergine santissima: "Axion estin" - "E' veramente giusto". A conclusione del mese di mariano
Icona della Panaghia Axion estin, la cui festa si celebra l'11 giugno, conservata presso la chiesa metropolitana della Dormizione della Vergine, a Karyes, capitale del Monte Athos |
Versione russa dell'icona della Vergine Axion estin |
Informazioni sull'inno Ἄξιον ἐστίν, Axion estin, attribuito nella seconda parte a S. Cosma di Maiuna o l'Innografo o di Gerusalemme o l'Agiopolita o il Poeta o il Melode (+ 773) e nella prima all'arcangelo S. Gabriele, che l'avrebbe ispirata ad un monaco del Monte Athos un sabato del 980, sono in Cantuale antonianum, 8.12.2014, nonché in Anamnesised in Full of Grace, Oct. 6, 2012.
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“Cilício ac flagéllis frequénter usa, carnem nónnisi infírma valetúdine, vinum in Nativitátis et Resurrectiónis Domínicæ tantum celebritáte; complúres vero dies, nihil omníno degustávit. Oratióni dédita, brevíssimum humi carpébat somnum. Dæmónem vero sub lucéntis ángeli forma sibi illúdere conántem agnóvit prótinus, et conjécit in fugam” (Lect. IV – II Noct.) - SANCTÆ ANGELÆ MERICIÆ, VIRGINIS ET FUNDATRICIS SOCIETATIS S. URSULÆ
Sant’Angela è la fondatrice delle Orsoline, alle quali diede la regola del Terz’ordine di san Francesco. La sua festa fu introdotta nel calendario della Chiesa universale da Pio IX nel 1861. I devoti pellegrinaggi di Angela in Palestina ed a Roma ricordano in una certa maniera quelli che, circa due secoli prima, santa Brigida di Svezia aveva compiuto; queste due sante brillarono per una stessa fede e trovarono lo stesso credito presso i Papi, così che Clemente VII non voleva permettere più ad Angela di allontanarsi dalla Città eterna. Dopo aver raggruppato intorno a lei uno sciame di sacre vergini che si dedicavano all’educazione cristiana delle fanciulle, Angela, carica di meriti, s’involò verso il cielo il 27 gennaio 1540.
Roma cristiana ha dedicato alla santa una chiesa, a pianta ottagonale, nel quartiere Nomentano, costruita nel 1955 e consacrata nel 1967. Essa è titolo cardinalizio dal 2014. Fu visitata da Giovanni Paolo II nel 2001.
La messa è quella del comune Dilexísti, come per santa Pudenziana, il 19 maggio, salvo le collette, che sono proprie.
La nostra Santa fu canonizzata nel 1807 da papa Pio VII; quindi, inscritta nel calendario dal papa Pio IX nel 1861, alla data del 31 maggio con rito doppio. Dal 1955, la festa fu fissata al 1° giugno per lasciare il posto alla festa di Maria Regina introdotta da parte di Pio XII.
Sant’Agostino osserva che, nel Vangelo, ogni anima cristiana è designata sotto il nome di vergine, in quanto si astiene dai piaceri illeciti e conserva pura da ogni macchia di peccato il suo corpo ed il suo cuore (cfr. Sant’Agostino d’Ippona, Sermo 93, De verbis Evangelii Mt 25, 1-13: “simile erit Regnum Cœlorum decem virginibus” et cetera,cap. III, § 3, in PL 38, col. 574B: «Sed si bonum est abstinere ab illicitis sentiendi motibus, et ideo unaquæque anima christiana virginis nomen accepit; quare quinque admittuntur, et quinque repelluntur? Et virgines sunt, et repelluntur. Parum est quia virgines sunt: et lampades habent. Virgines, propter abstinentiam ab illicitis sensibus; lampades habent, propter opera bona»; «Ma se è un bene astenersi dai moti illeciti dei sensi e perciò qualunque anima cristiana ha ricevuto il nome di vergine, per qual motivo cinque di esse vengono fatte entrare e cinque sono respinte? Sono vergini eppure sono respinte. Non basta che siano vergini, ma hanno anche le lampade. Sono vergini in quanto si astengono dalle sensazioni illecite, hanno le lampade in quanto fanno le opere buone»).
Bisogna notare l’ordine seguito nella preghiera sulle oblazioni: dapprima, gli esercizi della via purgativa, per sbarazzarci dal peccato; poi le opere della via illuminativa, per costruire su queste prime rovine il nostro edificio spirituale.
Romanino, Matrimonio mistico di S. Caterina d’Alessandria con i SS. Lorenzo, Orsola ed Angela Merici, 1540 circa, Brooks Memorial Art Gallery, Memphis |
Luigi Marai, S. Angela Merici, XIX sec., museo diocesano, Verona |
Domenico Caretti, S. Angela Merici, Museo mericiano, Brescia |
Corpo incorrotto di S. Angela, chiesa omonima, Brescia |
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Le grandi manovre per “repubblicanizzare” l’Italia
Nella grande festa del sacro Cuore di Gesù, si rilancia questo contributo di Cristina Siccardi: saggio quantomeno pertinente in questa nostra epoca di negazione della regalità sociale del Signore, non potendo dimenticare giusto le parole che Egli stesso rivolse alla sua umile serva, S. Margherita M. Alacoque: «Non temere nulla. Io regnerò malgrado i miei nemici» (cfr. Giovanni Ricciardi, «Non temere nulla. Io regnerò malgrado i miei nemici», in 30Giorni, 2011, fasc. n. 3. V. qui).
Giuseppe Alessandro Catani, Sacro Cuore con Maria e S. Giuseppe e le anime purganti, XIX sec., Chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, Roma |
Le grandi manovre per “repubblicanizzare” l’Italia
di Cristina Siccardi
Il 1° giugno di 70 anni fa, vigilia del referendum istituzionale, Pio XII si rivolse al Sacro Collegio e, attraverso la radio, agli elettori italiani e francesi (anche in Francia, infatti, si votava, per le elezioni politiche), con queste allarmanti parole, che presagivano il nostro presente: «Domani stesso i cittadini di due grandi nazioni accorreranno in folle compatte alle urne elettorali.
Di che cosa in fondo si tratta? Si tratta di sapere se l’una e l’altra di queste due nazioni, di queste due sorelle latine, di ultramillenaria civiltà cristiana, continueranno ad appoggiarsi sulla salda rocca del cristianesimo, sul riconoscimento di un Dio personale, sulla credenza nella dignità spirituale e nell’eterno destino dell’uomo, o se invece vorranno rimettere le sorti del loro avvenire all’impassibile onnipotenza di uno Stato materialista, senza ideale ultraterreno, senza religione e senza Dio. Di questi due casi si avvererà l’uno o l’altro, secondo che dalle urne usciranno vittoriosi i nomi dei campioni ovvero dei distruttori della civiltà cristiana. La risposta è nelle mani degli elettori; essi ne portano l’augusta, ma pur quanto grave responsabilità!».
I distruttori della civiltà cristiana, attraverso il referendum istituzionale, vinsero, ma non il 2 giugno nelle urne, bensì diversi giorni dopo, con gli inganni. La notte fra il 12 e 13 giugno, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, il presidente Alcide De Gasperi assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano.
Per Umberto II fu un vero e proprio colpo di Stato e lasciò volontariamente il Paese il 13 giugno, indirizzando agli italiani un proclama, senza attendere la definizione dei risultati e la pronuncia sui ricorsi, che saranno respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno.
La monarchia in Italia era una minaccia per i rivoluzionari, così come lo era stata per i giacobini: occorreva tagliare la testa al Re. Se il cattolico Luigi XVI era stato ghigliottinato il 21 gennaio 1793, in Italia con il cattolico Re Umberto si decapitò la Monarchia per volontà dei Comunisti, dei Socialisti, di molti democristiani, fra cui lo stesso Alcide De Gasperi in comune accordo con le aspirazioni repubblicane degli Stati Uniti.
Interessante quanto riporta un documento redatto a Roma il 21 marzo 1946 dall’Ambasciatore argentino in Italia, Carlos Brebbia, e indirizzato al Ministro degli esteri dell’Argentina Juan J. Cooke: «Una repubblica turbolenta con maggioranza socialista e comunista, realizzandosi in Roma, costituirebbe una minaccia costante per la cristianità rappresentata dalla autorità spirituale del Papa. L’appoggio del Vaticano a favore della monarchia è ostensibile ed evidente affinché i cattolici sappiano a favore di chi dovranno votare. I vescovi hanno ordinato l’apertura dei conventi di clausura affinché le monache partecipino alle elezioni e durante l’ultimo Concistoro tutti i cardinali presenti a Roma accolsero l’invito del luogotenente (il Principe Umberto, che diverrà Re dal 9 maggio al 2 giugno 1946) per presenziare a un ricevimento dato in onore dei nuovi porporati nei salotti del Palazzo del Quirinale, al quale assistette il Corpo Diplomatico e l’alta società romana (…). Alcuni si chiedono se le elezioni si terranno veramente il 2 giugno. Si può rispondere affermativamente a meno che ciò non venga impedito da cause esclusivamente interne (…) È da osservare che anche quando la differenza tra monarchici e repubblicani fosse di poca importanza, il fatto che alcune centinaia di migliaia di italiani non abbiano potuto partecipare alla votazione, potrebbe indurre la parte perdente a reclamare l’invalidità dei risultati».
Parlare di Monarchia è ancora un tabù. Il Comunismo in Italia, come altrove, ha lavorato sulla diffamazione, sull’odio e sull’oblio, metodi efficacissimi per depennare le scomodità e le coscienze, così da poter creare rivoluzionari modelli e arrivare a mettere addirittura sul trono dell’opinione pubblica odierna un Marco Pannella, un’incoronazione che ha trovato la sua legittimazione persino nella Santa Sede.
Affermava Palmiro Togliatti nel 1944 a proposito del futuro della monarchia in Italia: «Accantoniamo questo problema, dichiariamo solennemente tutti uniti che questo problema lo risolveremo quando tutta l’Italia sarà stata liberata e il popolo potrà essere consultato, allora vi sarà un plebiscito, vi sarà un’Assemblea Costituente, decideremo allora del modo di liberarsi dall’istituto monarchico, se il popolo vuole liberarsi, di proclamare un regime repubblicano come era nelle nostre aspirazioni».
Le loro intenzioni si sono concretizzate e la mentalità italiana si è trasformata, secolarizzandosi a grandi falcate. Se anche gli italiani in maggioranza erano monarchici, che importava? Se anche le votazioni non si potevano svolgere in Alto Adige (sotto amministrazione alleata), in Venezia Giulia (sotto amministrazione alleata e jugoslava), che importava? Se mancavano all’appello gli abitanti delle province di Zara, Istria, Trieste, Gorizia, Bolzano, che importava? Se mancavano alle urne migliaia e migliaia di militari ancora prigionieri all’estero e gli internati civili, che importava? Era il Regime a decidere, secondo le sue aspirazioni, non il popolo.
Agli elettori furono consegnate sia la scheda del referendum per la scelta fra Monarchia e Repubblica, sia quella per l’elezione dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente, cui sarebbe stato affidato il compito di redigere la nuova Carta costituzionale. I votanti furono 24.946.878, pari all’89,08% degli aventi diritto al voto. Questi i risultati ufficiali del referendum: Repubblica 12.718.641 voti, pari al 54,27%; Monarchia 10.718.502 voti, pari al 45,73%; le schede nulle furono 1.509.735 (Fonte: Ministero dell’Interno – Archivio storico delle elezioni). La Monarchia è un nervo scoperto perché fa paura poiché l’Italia era cattolica e monarchica, per essenza.
Tuttavia La Grande Storia di Rai3 oggi non può più negare, come è accaduto nella trasmissione andata in onda il 27 maggio u.s.: 2 giugno 1946 – 70 anni dalla Repubblica (http://www.lagrandestoria.rai.it/dl/portali/site/page/Page-7f9d45d4-8c78-461e-9787-601bf8c90a52.html). Così, mentre si snocciolano documenti che sottendono incongruenze, manomissioni, sottrazioni di voti, nonché grandi manovre orchestrate da Togliatti, da Alcide De Gasperi, dall’allora Ministro degli Interni Giuseppe Romita, allo stesso tempo Paolo Mieli getta acqua sul fuoco e si affretta a dire che non è il caso di guardare ai complotti… ma i toni antisabaudi oggi si sono chetati, perché la vera Storia può essere imbavagliata, ma non uccisa: ormai ci sono troppe documentazioni e testimonianze che attestano ciò che avvenne 70 anni fa.
I seggi si chiusero alle 14.00 del 3 giugno. Lo spoglio non iniziò con le schede della scelta istituzionale, bensì con quelle dei deputati all’Assemblea Costituente e 35% dei suffragi andò alla Democrazia Cristiana. Le operazioni referendarie furono gestite da tre ministri di sinistra del primo gabinetto De Gasperi: il ministro per la Costituente, il socialista Pietro Nenni, per l’Interno Romita e per la Grazia e Giustizia Togliatti. Presero a dipanarsi ore elettrizzanti. Dopo un accentuato ritardo nell’afflusso dei verbali da parte del Ministero della Giustizia, nelle prime ore del 4 giugno la percentuale repubblicana si collocava fra il 30 e il 40 %.
Dirà Romita: «… le cifre erano lì, col loro linguaggio inequivocabile! (…) Non era possibile eppure era vero, verissimo, paurosamente vero: la monarchia si presentava in netto vantaggio. Mi accasciai nella poltrona (…) Il telefono squillò più volte (…) La monarchia sta vincendo, mormorai… Che cosa avrei detto a Nenni, a Togliatti, a tutti gli altri che non volevano l’avventura del referendum?» (M. Caprara,L’ombra di Togliatti sulla nascita della repubblica. Le pressioni del Guardasigilli sulla Corte di Cassazione, in Nuova Storia Contemporanea, 6 (novembre-dicembre 2002), p. 135).
Il Sud era per la maggioranza monarchico, il Nord repubblicano. C’era stata fretta nell’indire il referendum per due ragioni: mancavano moltissimi all’appello, come si è detto, inoltre non si voleva dare l’opportunità a Umberto II, molto amato dal popolo, di dargli tempo per una campagna elettorale a proprio favore. Il Re, infatti, ebbe soltanto 40 giorni appena, ma non si risparmiò e riempì le piazze. Umberto II, che aveva un’immagine pubblica diversa e affabile rispetto a quella del padre, era incapace di finzioni a causa della sua profonda rettitudine morale, della sua signorilità ovunque e comunque, ma anche della sua profonda fede cattolica.
Sarebbe bastato un suo ordine per scatenare una nuova guerra civile, tutta l’Arma dei Carabinieri sarebbe stata al suo fianco, così come le truppe del generale polacco Władysław Anders. Ma rifiutò a priori di versare altro sangue sulla patria. La coscienza innanzi a tutto. Pio XII dimostrò la sua benevolenza: al Re, espropriato dallo Stato italiano di tutti i suoi beni, donò una somma di denaro per i primi duri tempi dell’esilio in Portogallo.
Papa Pacelli, quel 1° giugno, aveva ancora dichiarato: «Da una parte (…) è lo spirito di dominazione, l’assolutismo di Stato che pretende di tenere nelle sue mani tutte le “leve di comando” della macchina politica, sociale, economica, di cui gli uomini, queste creature viventi, fatte ad immagine di Dio e partecipi per adozione della vita stessa di Dio, non sarebbero che ruote inanimate. Da parte sua, invece, la Chiesa si erge serena e calma, ma risoluta e pronta a respingere ogni attacco. Essa, madre buona, tenera e caritatevole, non cerca, no! la lotta; ma appunto, perché madre, è più ferma, indomita, irremovibile, con le sole forze morali del suo amore, che non tutte le forze materiali, quando si tratta di difendere la dignità, l’integrità, la vita, la libertà, l’onore, la salute eterna dei suoi figli. (…) Noi proviamo, anche più sensibilmente che d’ordinario, un immenso dolore nel mirare la società umana più che mai allontanatasi da Cristo, e al tempo stesso una indicibile compassione allo spettacolo delle calamità senza precedenti, con cui essa è afflitta a cagione della sua apostasia. Perciò Ci sentiamo mossi ad elevare di nuovo la Nostra voce per ricordare ai Nostri figli e alle Nostre figlie del mondo cattolico l’ammonimento che il Salvatore divino non ha cessato di inculcare attraverso i secoli nelle sue rivelazioni ad anime privilegiate che si è degnato di scegliere per sue messaggiere: Disarmate la giustizia punitrice del Signore con una crociata di espiazione nel mondo intero; opponete alla schiera di coloro, che bestemmiano il nome di Dio e trasgrediscono la sua legge, una lega mondiale di tutti quelli che Gli rendono l’onore dovuto e offrono alla sua Maestà offesa il tributo di omaggio, di sacrificio e di riparazione, che tanti altri Gli negano».
Nello Statuto Albertino, in vigore fino al 1948, stava scritto all’Art. 1: «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». Mentre con l’Art. 1 della Costituzione venne stabilito che: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». L’«impassibile onnipotenza di uno Stato materialista», come aveva paventato il Sommo Pontefice, «senza ideale ultraterreno, senza religione e senza Dio», era stata ufficialmente sancita.
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IV Pellegrinaggio Pugliese "Summorum Pontificum" - Bari, 2 giugno 2016 - Alcune foto
L'album completo con il reportage fotografico del Pellegrinaggio è consultabile sul blog Porto di mare.
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Immagini della presentazione del libro "Con i sacramenti non si scherza" di don Nicola Bux - Bari, Sala consiliare, Palazzo della Provincia, 1° giugno 2016, con S. Em.za card. Raymond. L. Burke ed il prof. Ettore Gotti Tedeschi
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L'origine della potestà di governo in un aforisma di papa Leone XII Della Genga
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“Discípuli autem Pauli et Bárnabæ, suis facultátibus Christiános, qui in Judæa erant, sustentábant, eo mitténtes pecúniam per Paulum et Bárnabam. Qui perfúncti illo caritátis offício, adhíbito Joánne, cui cognómen erat Marcus, rediérunt Antiochíam” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI BARNABÆ APOSTOLI
San Paolo attribuisce costantemente a Barnaba il titolo di apostolo, che la liturgia, anche orientale, gli ha conservato (Ο Απόστολος Βαρνάβας). Si tratta di una designazione speciale e di un’elezione di Barnaba da parte dello Spirito Santo, che lo destinò con l’Apostolo delle Genti all’evangelizzazione dei Gentili, come, in principio, diresse Pietro verso i circoncisi. Il Paraclito stesso, negli Atti degli Apostoli, ci ha fatto l’elogio di Barnaba, chiamandolo vir bonus, et plenus Spiritu Sancto et fide, uomo buono, pieno di Spirito Santo e fede (At. 11, 24); e Paolo, malgrado la divergenza momentanea delle loro vedute riguardo il discepolo Marco, cugino di Barnaba, ha sempre conservato per il suo primo compagno d’armi, Barnaba appunto, un profondo sentimento di venerazione.
La vita di Barnaba, dopo la sua separazione da san Paolo, ci è quasi interamente sconosciuta. Andò dapprima a Cipro con Marco; ma poi? Quando l’apostolo rimase due anni prigioniero a Roma, troviamo san Marco in sua compagnia. Dove era suo cugino, di cui san Paolo aveva un tempo citato ai Corinzi l’immensa autorità come associata alla sua? «Numquid non habemus potestatem mulierem sororem circumducendi, sicut et ceteri Apostoli, et fratres Domini, et Cephas? Aut ego solus et Barnabas non habemus potestatem hoc operandi»; «Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? Ovvero solo io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare?» (1 Cor. 9, 5-6).
Che cosa sapevano di Barnaba i Corinzi, e quale ragione aveva Paolo di associarselo, dopo un sì grande numero di anni trascorsi dalla loro separazione? Si erano ritrovati forse di nuovo e Barnaba poteva rivendicare, pur’egli, come Paolo, dei diritti sui Corinzi? Questo sembrerebbe emergere dall’argomentazione dell’apostolo. Gli antichi attribuivano inoltre a Barnaba una lunga epistola, molto venerata da Clemente di Alessandria e da Origène, ma di cui le critiche moderne gli rifiutano generalmente la paternità. Tuttavia gli argomenti di questi ultimi non sembrano assolutamente convincenti, e la domanda rimane aperta.
Il corpo di san Barnaba sarebbe stato scoperto miracolosamente, verso il 478, nell’isola di Cipro, a Salamina: lì sarebbe stato martirizzato mediante lapidazione dai giudei (secondo i tardivi Atti apocrifi del suo martirio, però, messagli una corda al collo, sarebbe stato trascinato sul luogo dove sarebbe stato bruciato ancora vivo e le ceneri disperse). Secondo la leggenda, il Santo sarebbe apparso in sogno al vescovo Antemio di Costanzia (presso Salamina), al quale avrebbe indicato il luogo della sua sepoltura sotto un carrubo; lì vi sarebbe stato sepolto da Giovanni Marco, l’evangelista. Recatosi sul posto, il vescovo trovò la tomba con le ossa di san Barnaba. Sul petto del Santo vi era una copia del Vangelo di Matteo. Il vescovo, quindi, si recò dall’imperatore Zenone, portandogli quel Vangelo. L’imperatore, quindi, riconobbe l’autocefalia alla Chiesa cipriota dal patriarcato di Antiochia; accordò lo scettro imperiale al vescovo ed il privilegio di poter firmare con inchiostro rosso gli atti.
Sul luogo della tomba di Barnaba, Artemio fece costruire non distante una chiesa. Scavi recenti nei pressi della chiesa attuale e del relativo monastero, hanno rilevato l’esistenza in loco di una precedente chiesa con due tombe vuote: quella dell’Apostolo Barnaba e del vescovo Antemio.
Nel XVI sec. sant’Antonio Maria Zaccaria fondò a Milano una nuova famiglia di religiosi, che presero il nome di Barnabiti, dalla chiesa di San Barnaba presso cui dimoravano. San Francesco di Sales li stimava molto, tanto che diceva graziosamente di sé che pur’egli era barnabita, cioè figlio della consolazione.
Nel rito bizantino si celebrano l’11 giugno i santi Bartolomeo e Barnaba. Questo sarebbe l’anniversario della scoperta del corpo di Barnaba nell’isola di Cipro nel 478 (cfr. Martyrologium romanum ... Accesserunt notationes ... auctore Caesare Baronio, Romæ 1630, p. 233). Beda ha scelto questa data per far menzione dell’apostolo che ebbe un sì grande posto di rilievo dopo i Dodici nella Chiesa primitiva.
La festa di san Barnaba è, invece, entrata abbastanza tardi nel Calendario romano, mentre appare già nel calendario di marmo di San Giovanni Maggiore a Napoli, nell’IX sec. Nello stesso secolo apparve nei calendari inglesi ed in quello di San Gallo. Alla fine del secolo, il sacramentario di Modena dava le orazioni della sua messa. Esse riprendevano quelle di san Nicomede al 1° giugno nel Gregoriano. Ma è soprattutto dal X e dall’XI sec. che la festa dell’apostolo si propagò. Tuttavia, nell’XI sec., ancora numerose chiese, quella di Vich per esempio, l’ignoravano ancora. A Roma, il nome dell’apostolo di Cipro si trovava, fin dalla prima ora, accostato a quelli di Stefano e di Mattia nella seconda sezione della grande Intercessione contenuta nel canone romano: Nobis quoque.
La festa è attestata a Roma nell’XI sec. e si sviluppò nel XII. Nel Messale del Laterano si trovano le stesse orazioni del sacramentario di Modena risalente a tre secoli prima. Esse rimasero tali sino al 1970. Per il resto, il messale attribuisce a san Barnaba i testi propri degli Apostoli, facendo legge come epistola At. 5, 40-42. Allorché il culto di san Barnaba era ben attestato in Vaticano sin dall’XI sec., non si saprebbe dire il perché il calendario e l’antifonario di San Pietro lo passino sotto silenzio. È vero che l’antifonario presenta un vuoto inspiegabile nel santorale di giugno. Non vi si trova alcun nome del santo tra il 31 maggio ed il 24 giugno (così ricorda Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, pp. 244-245).
Rito doppio maggiore. Nel codice delle rubriche del 1960, è la sola festa di III classe ad aver conservato il Credo.
Il catalogo Torinese delle chiese di Roma nel XIV sec. menziona, vicino alla Porta Maggiore, una piccola chiesa, Sancti Barnabæ de porta, servita da un solo prete. Ogni traccia n’è persa attualmente (cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 803; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 205).
Nel 1957 gli è stata dedicata una chiesa nel quartiere Prenestino-Labicano in stile neoromanico.
La messa manca di unità nella sua redazione, chiedendo in prestito i suoi canti ad altre feste più antiche. Le orazioni sono riprese dall’antica messa della dedicazione della basilica di San Nicodemo al 1° giugno, festa in seguito scomparsa.
L’antifona per l’introito è quella del 30 novembre.
Le collette si ispirano a quelle della festa di san Giorgio.
Nella prima si chiede di ottenere da Dio, per l’intercessione ed i meriti di Barnaba, i favori divini. Tutto ciò che otteniamo da Dio è sempre l’effetto della sua misericordia; non solo perché siamo dei peccatori indegni delle sue grazie, ma anche perché il dono del Signore è un’effusione del suo amore, e questo è di un tal valore che non sopporta alcun paragone. Per questo, il Sapiente ha potuto dire: «Si dederit homo omnem substantiam domus suæ pro dilectione, quasi nihil despiciet eam»; «Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio» (Ct 8, 7).
La prima lettura è tratta dagli Atti degli Apostoli (At 11, 21-26; 13, 1-3), e riguarda il primo viaggio di Barnaba ad Antiochia e la sua elezione all’apostolato. Barnaba doveva essere già un personaggio molto considerato e di grande merito quando i Dodici lo destinarono ad una missione così difficile e così importante quale quella della diffusione del Vangelo nella capitale della Siria, Antiochia. Il Santo fece d’altronde onore a questa scelta, e siccome era perspicace, comprese immediatamente che Saulo poteva essere l’uomo della situazione. Andò a cercarlo a Tarso dunque, e avendolo portato con lui sulla riva dell’Oronte, l’uno e l’altro seppero imprimere alla comunità di Antiochia un tale spirito di espansione e di iniziativa che i discepoli del Nazareno ricevettero per la prima volta il nome che, da allora, attraverso i secoli, avrebbe dovuto designarli per sempre: Cristiani.
Paolo si trovava allora in sottordine, così che, negli Atti, occupa l’ultimo posto tra i preti di Antiochia. Ma il Signore si compiace degli umili, e può, dalle semplici pietre, suscitare dei figli di Abramo; un giorno di liturgia solenne, mentre l’assemblea badava ai digiuni ed alla preghiera, ordinò di riservargli Saulo e Barnaba per la grande missione alla quale li destinava presso i Gentili. In quel tempo di fede eroica, si era ristabilita, tra la comunità dei fedeli e lo Spirito Santo, l’antica familiarità di cui Adamo, nell’Eden, aveva goduto un tempo con Dio. Il Paraclito interveniva direttamente negli affari della comunità, per mezzo dell’effusione dei suoi carismi. Parlava e gli si rispondeva; ordinava e gli si ubbidiva; istruiva e lo si ascoltava.
Quando, dunque, ad Antiochia, in occasione dei digiuni solenni, fece intendere la sua voce: Segregate mihi Saulum et Barnabam, riservatemi Saulo e Barnaba, nessuno vi fece opposisione né mise ritardo nell’eseguire il comando ricevuto: i sacerdoti, ieiunantes et orantes, imponentesque eis manus, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani – ecco i tre elementi primitivi che accompagnano, dai tempi apostolici, la collazione della potenza gerarchica – consacrandoli Apostoli.
Il graduale è tratto dal Sal. 19 (18), come quello della festa di san Marco fuori del tempo pasquale. In un modo figurato, questi astri che indorano coi loro raggi il cielo della Chiesa e narrano dovunque la gloria di Dio, sono i predicatori del santo Vangelo.
La lettura evangelica è tratta da san Matteo (Mt 10, 16-22). Gesù dichiara che manda i suoi apostoli come pecore in mezzo ai lupi, non per far loro la guerra, ma affinché dai lupi ne facciano degli agnelli. Prosegue che le pecore che vanno nel mezzo dei lupi non devono ripromettersi necessariamente di conservare sempre intatto il loro vello; il corpo è in pericolo, ma è sufficiente che l’anima non perisca. Una grande prudenza non sarebbe dunque opportuna; per questo il Salvatore vuole che sia unita alla semplicità della colomba. Al posto della prudenza umana sulla quale non conviene appoggiarsi troppo, Gesù sparge al contrario nei suoi araldi una prudenza tutta divina, suggerendo loro, al momento opportuno, ciò che dovranno rispondere davanti ai giudici nei tribunali; perché, come Egli soffre nei suoi martiri, così, con la loro bocca, rende continuamente, come dichiarò un tempo a Pilato, testimonianza alla verità.
L’offertorio è lo stesso della festa di san Mattia, il 24-25 febbraio così come l’antifona di Comunione. Durante il tempo pasquale, tutti i canti della messa sono improntati alla festa di san Marco, il 25 aprile.
Il primo gesto di Barnaba, quello di disfarsi dei suoi beni e di depositarne il valore ai piedi degli Apostoli, fu ciò che lo designò alla missione dell’apostolato. L’araldo evangelico deve essere libero da ogni imbarazzo e legame terrestre, affinché, indipendente dagli uomini, reso agile come uno spirito, mostri agli altri, con la sua vita stessa, che cerca solamente le anime: «Da mihi animas, cætera tolle»; «Datemi anime e prendetevi il resto» (Gen 14, 21).
Paolo Veronese, S. Barnaba guarisce un malato, XVI sec., Musée des Beaux-Arts, Rouen |
Fabritius Barent, Lapidazione di Paolo e Barnaba a Listra, XVII sec., collezione privata |
Ambrosius Francken I, detto il Vecchio, Paolo e Barnaba scelti come apostoli dallo Spirito Santo, XVII sec., Koninklijk Museum voor Schone Kunsten Antwerpen, Anversa |
Jacob Jordaens, SS. Barnaba e Paolo a Lystra, 1616 circa, Hermitage, San Pietroburgo |
Michel Corneille il vecchio, Paolo e Barnaba a Listra, 1644, musée des Beaux-Arts, Arras |
Nicolaes Berchem, Paolo e Barnaba a Listra, 1650, Musée d’Art, Saint-Etienne |
S. Barnaba, chiesa del Palazzo Nazionale di Mafra, Mafra, Portogallo |
SS. Pietro, Barnaba e Giulio, XIX sec., Chiesa di S. Barnaba, Marsiglia |
Sarcofago di S. Barnaba, Monastero di Salamina, Cipro |
Cranio di S. Barnaba, Monastero di S. Rosa, Conca dei Marini. La reliquia fu donata dal Vescovo di Pozzuoli mons. Girolamo Dandoli, nato a Conca nel 1772 |
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Cambiamento degli uomini e mutamento ed adeguamento della Chiesa in un aforisma di San Josemaria Escrivà de Balaguer
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Un grave atto di profanazione in Cile: studenti assaltano una Chiesa, ne prendono il Crocifisso e lo distruggono in piazza
Una notizia che non ha trovato spazio sui maggiori organi di stampa: alcuni studenti in Cile, scesi in piazza per protestare contro il governo del paese, incredibilmente hanno incredibilmente preso d’assalto una chiesa e distruttone il relativo Crocifisso.
Un atto inspiegabile, ma che dimostra un diffuso sentimento anti-cristiano anche in paesi tradizionalmente “cattolici” e non legati ai barbari vandalici dell’Isis …
L’odio anticristiano cova sotto la cenere e di tanto in tanto viene fuori come una fiamma guizzante, in attesa che possa emergere in tutta la sua virulenza e riversarsi contro i simboli ed i seguaci dell’Agnello … .
Assaltano la chiesa, prendono il crocifisso e lo demoliscono in piazza. E non è l’Isis
di Leone Grotti
Non è opera dello Stato islamico, ma degli studenti in Cile. La protesta contro il governo di ieri è finita con un incredibile atto di profanazione
Hanno assaltato la chiesa, abbattuto e bruciato il pesante portone di legno, staccato il crocifisso di tre metri che campeggiava dietro l’altare e dopo averlo portato in piazza, tra risa e grida, l’hanno distrutto calpestandolo, colpendolo con bastoni e staccandogli testa, braccia e gambe. Non è opera dello Stato islamico in Iraq, Siria o Libia ma di centinaia di studenti in Cile.
CONTRO IL GOVERNO. La triste riedizione del calvario ha avuto luogo giovedì a Santiago, capitale del paese sudamericano, e ha posto fine a una protesta studentesca contro il governo. Il movimento studentesco, sempre più forte e radicalizzato nel paese, protestava contro la mancata attuazione delle riforme economiche e sociali promesse dal presidente di sinistra Michelle Bachelet. Anche la riforma del sistema dell’istruzione è stata rimandata a causa della mancanza di fondi.
«SINTOMO MOLTO PREOCCUPANTE». Gli studenti erano in parte armati, con il volto coperto e dotati di maschere anti-gas per resistere ai lacrimogeni della polizia. Gli agenti in assetto anti-sommossa sono riusciti a fatica a disperdere la folla usando gli idranti, non prima che questa però abbia vandalizzato e profanato la chiesa della Gratitudine nazionale.
Il ministro degli Interni Mario Fernandez ha dichiarato ai giornalisti preoccupato: «Ciò che abbiamo visto è un sintomo molto preoccupante di quello che alcune persone vogliono cominciare a fare al nostro paese». La Chiesa cattolica ha chiesto che i responsabili non rimangano impuniti.
Fonte: I Tempi, 10.6.2016
Il ministro degli Interni Mario Fernandez ha dichiarato ai giornalisti preoccupato: «Ciò che abbiamo visto è un sintomo molto preoccupante di quello che alcune persone vogliono cominciare a fare al nostro paese». La Chiesa cattolica ha chiesto che i responsabili non rimangano impuniti.
Fonte: I Tempi, 10.6.2016
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Sant’Antonio da Padova campione della fede
Nella vigilia della festa del grande Santo Dottore di Padova, rilanciamo questo contributo di Cristina Siccardi, pubblicato alcuni giorni fa su Corrispondenza romana.
Antonio d'Enrico detto Tanzio da Varallo, S. Antonio da Padova con aspetto adolescente, 1616-18 circa, Pinacoteca civica, Varallo Sesia |
Sant’Antonio da Padova campione della fede
di Cristina Siccardi
Fra alcuni giorni, il 13 giugno, sarà la festa di sant’Antonio da Padova, francescano e Dottore della Chiesa: memoria e devozione utili in questi nostri tempi di remissività ecclesiastica all’errore. Ma se la Chiesa annovera un campione della fede come sant’Antonio (Lisbona, 15 agosto 1195 – Padova, 13 giugno 1231) lo si deve proprio alla volontà di san Francesco di convertire le genti e non lasciarle nella menzogna.
Era il 1219 quando il Santo di Assisi organizzò una spedizione missionaria fra i musulmani. Per portare la Buona Novella furono scelti Berardo, Ottone, Pietro, Accursio, Adiuto, i primi tre erano sacerdoti, gli altri erano due fratelli laici. Originari delle terre ternane, furono fra i primi ad abbracciare la vita minoritica, ma furono anche i protomartiri dell’Ordine francescano.
La loro opera di predicazione si svolse nelle moschee di Siviglia, in Spagna. Vennero però catturati, malmenati e condotti davanti al sultano Almohade Muhammad al-Nasir, detto Miramolino; in seguito furono trasferiti in Marocco con l’ordine di non predicare più in nome di Cristo. Nonostante questo divieto i cinque francescani continuarono a diffondere la Verità portata da Gesù Cristo e per tale ragione furono nuovamente imprigionati. Dopo essere stati sottoposti più volte alla fustigazione, furono decapitati il 16 gennaio 1220.
Le loro salme vennero trasferite a Coimbra. Fu allora che Fernando Martins de Bulhões, che aveva precedentemente conosciuto i martiri durante il loro passaggio in Portogallo per essere diretti in Marocco, prese la decisione di entrare tra i Francescani. E divenne Fra’ Antonio, guida mirabile, potente predicatore, convertitore di un numero incalcolabile di anime. Ma il suo segreto era ciò che egli stesso consigliava: «Assai più vi piaccia essere amati che temuti. L’amore rende dolci le cose aspre e leggere le cose pesanti; il timore, invece, rende insopportabili anche le cose più lievi.».
Senza sosta e forte nel Vangelo, esortava alla pace, alla mitezza, all’umiltà, trattando con particolare severità coloro che chiamava «cani muti», ovvero i detentori del potere e i notabili, che avrebbero dovuto guidare e proteggere le popolazioni, ma presi dai loro interessi economici e mondani non se curavano. Nei Sermoni Fra’ Antonio scriverà: «La verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell’odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone, essi incorrerebbero nell’odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti. Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo».
Questo egli insegnava, ma ciò, oggi, scandalizza anche molti pastori della Chiesa, spesso proni e succubi delle follie e dei malesseri del mondo, causati da ideologie materialistiche, contrarie non solo a Dio, ma alla natura del creato e dell’uomo stesso.
Il Santo moralizzò la società, ma fondamentale fu anche la sua predicazione contro i cristiani eterodossi. A quel tempo i movimenti ereticali più importanti erano i Catari (che significa «i puri»), detti anche Albigesi (dal nome della città di Albi, nella Francia meridionale) e i Patarini, diffusi in Lombardia. Essi si caratterizzavano per un profondo desiderio di rinnovamento spirituale, ma la direzione intrapresa era erronea: avevano una visione del Messia come creatura più divina che umana, inoltre erano ostili alle cose terrene, compreso il potere temporale del papato. Non sapevano perciò armonizzare spiritualità e materia, come è proprio del Cattolicesimo.
Di rinnovamento spirituale, nella Chiesa di quel tempo, ce n’era un gran bisogno, ma se da una parte erano emerse le esasperazioni degli eretici che combattevano contro quella Chiesa, posizionandosi dunque al di fuori di essa con ira e livore, dall’altro il Francescanesimo riuscì a rinnovare positivamente e con metodi cattolici quella stessa Chiesa che si era macchiata di errori umani, e lo fece modificandola dall’interno. È proprio nei momenti in cui la Chiesa è in crisi e ha bisogno di essere rivitalizzata che arrivano i rivoluzionari che vogliono smantellare il passato per fare tutto nuovo. Ma il sano rinnovamento poggia il suo stabile perno sulla rocca della Tradizione, unico riferimento, come afferma San Paolo, per trasmettere ciò che i primi Apostoli ricevettero dal fondatore della Chiesa.
Sant’Antonio era molto abile nello smontare le eresie anticattoliche: oltre ad una valente dialettica, possedeva intelligenza, acume e lungimiranza, dimostrando come la riflessione teologica e antieretica era impossibile senza solide basi dottrinali; proprio per tale motivo insistette per ottenere la fondazione, nel 1223, del primo studentato teologico francescano a Bologna, presso il convento di Santa Maria della Pugliola. San Francesco, che pure aveva sperato che la preghiera e la dedizione potessero essere sufficienti per la rigenerazione benefica della Chiesa, si trovò ad approvare l’iniziativa del confratello, che diede un volto dotto all’Ordine: «A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Mi piace che tu insegni teologia ai nostri fratelli, a condizione però che, a causa di tale studio, non si spenga in esso lo spirito di santa orazione e devozione, com’è prescritto nella regola».
Terra di predicazione antieretica per Sant’Antonio fu anche la Francia, dove egli giunse nel tardo autunno del 1224, e qui rimase un paio di anni: Provenza, Linguadoca, Guascogna le regioni principali della sua seminagione miracolosa. Mentre gli intellettuali ammiravano in lui l’acutezza dell’ingegno e la bella eloquenza, la sua genuina amabilità recuperava gli erranti, portandoli al pentimento.
Nel novembre del 1225 Fra’ Antonio partecipò al Sinodo di Bourges, convocato dal primate d’Aquitania per valutare la situazione della Chiesa oltralpe e per pacificare le regioni meridionali. All’arcivescovo Simone de Sully, che si lamentava degli eretici, il Santo, invitato quel giorno a predicare, dichiarò: «Adesso ho da dire una parola a te, che siedi mitrato in questa cattedrale… L’esempio della vita dev’essere l’arma di persuasione; getta la rete con successo solo chi vive secondo ciò che insegna». Quell’Arcivescovo, riportano le cronache, chiese ad Antonio di confessarlo.
Il Provinciale della Provenza, Giovanni Bonelli da Firenze, lo nominò prima Guardiano del convento di Le Puy-en-Velay e poi Custode (Superiore) di un nucleo di conventi intorno a Limoges. Un anno dopo la morte di San Francesco raggiunse Assisi: era il 30 maggio 1227, festa di Pentecoste e giorno d’apertura del Capitolo Generale dell’Ordine, nel quale si doveva eleggere il successore del Santo stigmatizzato. Molti prevedevano l’elezione di frate Elia, Vicario generale di Francesco e missionario in Oriente. Ma il suo temperamento era troppo focoso e così venne preferito il più prudente frate Giovanni Parenti, ex magistrato, nativo di Civita Castellana e Provinciale della Spagna. Quest’ultimo aveva accolto Fra’ Antonio nell’Ordine, stimandolo molto decise di nominarlo Ministro provinciale per l’Italia settentrionale, la seconda carica per importanza dopo la sua. Fu così che Sant’Antonio prese dimora a Padova, dove il suo culto è rimasto vivissimo.
La Basilica di Padova, dove tutto parla di Sant’Antonio e dove vi si recano ogni anno 6 milioni di pellegrini, è maestosa per bellezza e dimensioni, per ricchezze d’arte e per patrimonio catechetico. Così, anche quando narrazioni e spiegazioni non vengono fatte a causa di un dirottamento ideologico acattolico a vantaggio del rispetto umano, architetture, marmi e dipinti sostituiscono le manchevolezze dei responsabili dell’ignoranza religiosa odierna.
Nessuno può restare indifferente di fronte ad opere sublimi come l’Altare maggiore e il presbiterio, dominati dai capolavori di Donatello o come la Cappella dell’Arca, dove vi hanno lavorato i maggiori scultori veneti del Rinascimento (lungo le pareti sono disposti nove rilievi marmorei, con scene della vita e miracoli di Sant’Antonio, mentre al centro sorge l’altare-sepolcro del Santo), oppure come la Cappella del Beato Luca (che si apre nella parete nord della Cappella della Madonna: il Beato Luca da Padova fu discepolo e compagno di Sant’Antonio e probabilmente fu promotore della costruzione della Basilica), o ancora come la Cappella delle reliquie o del tesoro, eretta nel XVII secolo in stile barocco su progetto dell’architetto scultore Filippo Parodi: nelle tre nicchie sono esposti reliquiari, calici, ex voto, autografi di Santi…nella nicchia centrale, in uno spettacolare reliquiario dell’orefice Giuliano da Firenze (1436) è conservata la lingua incorrotta di Sant’Antonio e sotto di esso si trova il reliquiario di Balljana (1981), che custodisce l’apparato vocale del Santo, ritrovato nell’ultima ricognizione.
Le parole che uscivano dalla sua bocca erano richiamo prodigioso per le folle che riempivano le chiese e le piazze. Tra predicazioni ad libitum e molteplici ore nel confessionale, il frate taumaturgo compiva lunghi digiuni e lunghe adorazioni. La sua umiltà e il suo reale amore per Cristo, così come era accaduto per San Francesco, portarono ordine nella Chiesa, che riprese ad essere faro sicuro anche per molte anime che erano entrate in dolorosa e talvolta esacerbata o cinica confusione.
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Inno "O dei miracoli" in onore di S. Antonio da Padova
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Sant’Antonio da Padova, il “Martello degli Eretici”
"Fuit autem viri Dei id precipuum semper studium et conatus perpetuus, ut perniciosissimas 'vulpeculas quae demoliuntur vineam Domini' (Cantica 2, 15), nempe haereticos pestilentes et falsas doctrinas eorum, pro viribus oppugnaret, funditus destrueret ac radicitus extirparet".
Sancte Antoni, malleus hæreticorum, ora pro nobis.
Sancte Antoni, pavor infidelium, ora pro nobis.
Sancte Antoni, doctor errantium, ora pro nobis.
Sancte Antoni, cæcorum illuminator, ora pro nobis.
Nella festa di Sant’Antonio di Padova, il quale per la benemerita repressione dell’eretica pravità, meritò i titoli gloriosissimi di Martello degli eretici e Dottore Evangelico, chiediamo al Signore, Verità che dissipa le mortifere tenebre dell’errore, che conceda alla sua Santa Chiesa Cattolica, anche per l’intercessione della Debellatrice di ogni eresia, di trionfare su ogni nemico interno ed esterno che minaccia la purezza e l’ortodossia di quella fede che fu rivelata e affidata agli Apostoli da Cristo Gesù e tuttora da Roma apre a tutto il mondo la strada della salvezza eterna, promessa solo a coloro che perseverano nell’unico ovile del vero Pastore supremo e non si ribellano allo Spirito Santo andando fuori dalla casa paterna. Impetri parimenti il beato Antonio che tutti gli eretici e gli scismatici ritornino in seno alla Santa Romana Chiesa; e che noi possiamo star sempre saldi in questa stessa Fede, palesarla sempre senza alcun rispetto umano e difenderla fino alla morte.
Oremus Deus, qui errata córrigis, et dispérsa cóngregas, et congregáta consérvas: quǽsumus, super pópulum christiánum tuæ uniónis grátiam cleménter infúnde; ut, divisióne reiécta, vero pastóri Ecclésiæ tuæ se úniens, tibi digne váleat famulári. Per Christum Dominum nostrum. Amen (FONTE).
Nell'odierna festa del malleus haereticorum di ogni risma e di ogni tempo, rilanciamo, perciò, questo contributo.
Sant’Antonio da Padova, il “Martello degli Eretici”
di Alfredo Incollingo
Quando la Chiesa Cattolica tribola, le sue virtù divine risplendono più forti di prima. È nei momenti di grande tumulto che i grandi santi hanno fatto la loro comparsa. La Salvezza per la Chiesa di Cristo proviene da quegli uomini e quelle donne che combattono il “fumo di Satana” al suo interno e all’esterno con Fede, Speranza e Carità.
Nel tumultuoso XIII secolo, tra rivoluzioni materiali e spirituali, la Chiesa Cattolica fu sul punto di disgregarsi. Chierici disonesti e lontani da Cristo, laici approfittatori e regnati spergiuri avevano condotto Roma alla perdizione. Tuttavia alcuni “astri luminosi” illuminavano le strade ai fedeli dispersi, ricordando loro qual era la retta via: Cristo, la Stella Polare nel nostro firmamento, e le tante stelle, i tanti santi che hanno dedicato la loro vita a Lui.
Nel tumultuoso XIII secolo, tra rivoluzioni materiali e spirituali, la Chiesa Cattolica fu sul punto di disgregarsi. Chierici disonesti e lontani da Cristo, laici approfittatori e regnati spergiuri avevano condotto Roma alla perdizione. Tuttavia alcuni “astri luminosi” illuminavano le strade ai fedeli dispersi, ricordando loro qual era la retta via: Cristo, la Stella Polare nel nostro firmamento, e le tante stelle, i tanti santi che hanno dedicato la loro vita a Lui.
Sant’Antonio da Padova, al secolo Fernando de Bulhoes, fu il “Martello degli Eretici”, frate e teologo, ma anche uomo di carità, che diede se stesso all’annuncio apostolico, sfidando pubblicamente eresiarchi e chierici lestofanti.
Nel tempo delle grandi eresie e dello smarrimento personalità come quella del santo lusitano ci aiutano a ricordare l’Insegnamento di Gesù.
Nel tempo delle grandi eresie e dello smarrimento personalità come quella del santo lusitano ci aiutano a ricordare l’Insegnamento di Gesù.
Nacque probabilmente il 15 agosto 1195 a Lisbona in una nobile e ricca famiglia. Visse tra agi e piaceri, ma, come San Francesco d’Assisi, che conobbe e che decise di seguire, rinunciò a tutto per servire Cristo e fare opera apostolica.
La sua figura si lega indissolubilmente a quella del santo assinate. Presi gli abiti monacali fu trasferito a Coimbra; qui incontro alcuni frati francescani diretti in Marocco per convertire i musulmani. Si stupì per la disposizione d’animo dei primi francescani che non temevano la persecuzioni e attendevano al loro compito con devozione. Ebbe modo di conoscere San Francesco durante il Capitolo Generale dell’Ordine francescano nel 1221. Alla Porziuncola Antonio incontrò questa straordinaria personalità che lo affascinò per la sua umiltà e per la fede sincera che dimostrava. Fu un incontro edificante per il giovane monaco che sentì dentro di sé l’esigenza di seguire la stessa missione del frate assinate. Si distinse subito per le sue prediche erudite, chiare e dirette a rinnovare la fede in Cristo. Divenne francescano, un membro dell’Ordine che più di tutti era votato al rinnovamento e alla purificazione spirituale, e fu destinato dalla stesso Poverello d’Assisi allo studio teologico, a Bologna. La sua viva intelligenza, il suo nobile senso del dovere e la sua fede lo resero celebre come un grande predicatore, capace di convincere le folle e i dotti dell’epoca. Non ebbe timore di sfidare gli eretici sia in Francia, nelle regioni meridionali, sia in Italia: i catari francesi e i patari lombardi costituivano le prove più ardue. Fu in questi contesti che Sant’Antonio palesò la sua vocazione apostolica. Pubblicamente disputava con gli eresiarchi e convinceva gli astanti della falsità soggiacente le eresie, anche quelle più diffuse. Si ricordano una serie di fatti miracolosi che mettono in luce la sua straordinaria eloquenza e la sua fedeltà cristiana. Nel 1222 Antonio era a Rimini: qui la locale comunità catara disprezzava a tal punto il santo da ingiuriarlo in pubblico. Di fronte al rifiuto di ascoltarlo il frate iniziò a predicare ai pesci i quali miracolosamente si radunarono intorno a lui per comprendere il suo messaggio. Il miracolo più noto è il cosiddetto “miracolo eucaristico della mula”. Un eretico cataro volle sfidare Sant’Antonio nel provare la reale presenza di Cristo nell’Ostia consacrata, impostando così la “sfida”: avrebbe chiuso la sua mula in una stalla per alcuni giorni senza cibo; se l’animale, una volta libero, avesse trascurato il cibo per l’Ostia, l’uomo si sarebbe subito convertito. La mula liberata, quando si presentò il santo, lasciò il fieno per inginocchiarsi di fronte all’Ostia consacrata tra lo stupore dei presenti. L’eretico alla fine si convertì. Ben presto la fama di Sant’Antonio lo rese un predicatore amato dalle folle che si radunavano in continuazione per ascoltarlo. Di ritorno dalla Francia, vittorioso e notorio, si sistemò nel convento francescano di Padova dove iniziò la scrivere la sua opera più celebre, “I Sermoni”, un testo rimasto incompleto per la sua prematura scomparsa. Il lusitano assunse all’interno dell’Ordine numerosi incarichi divenendo anche “Provinciale” nel Nord Italia e continuando più intensamente la sua opera di evangelizzazione. In queste vesti partecipò a diversi Capitoli Generali ed ebbe numerosi incontri con Papa Gregorio IX, il tutto per decidere la costruzione e la sistemazione dell’Ordine fondato da San Francesco, in particolare il ruolo dello “studio” all’interno della vita monastica. Morì a soli 36 anni, il 13 giugno del 1231 a Padova, avendo contribuito non poco alla difesa e al rinnovamento del cattolicesimo. La sua devozione, il suo carisma e la sua fede al servizio di Cristo e della Sua Chiesa gli valsero l’appellativo di “Martello degli Eretici”, mai cedevole verso i nemici del Vangelo. Venne canonizzato nel 1232 da Papa Gregorio IX e riconosciuto “Dottore della Chiesa” nel 1946 da Pio XII, definito come “Doctor Evangelicus”.
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Il “martirio teologico” del diacono Rustico e gli errori di papa Vigilio (VI sec.)
Rilanciamo volentieri, nella festa dei SS. Vito e compagni martiri, quest’interessante contributo sulla storia della Chiesa, all’epoca del concilio di Calcedonia.
STORIA DELLA CHIESA IL “MARTIRIO TEOLOGICO” DEL DIACONO RUSTICO E GLI ERRORI DI PAPA VIGILIO (VI sec.)
di Don Roberto Spataro
È sempre molto istruttivo rivisitare la Storia della Chiesa.
Nel VI secolo dopo Cristo, il diacono romano Rustico, un teologo di prima classe, di cui ci resta un’opera di cristologia intitolata Disputatio contra Acephalos (con questo termine si indicavano i Monofisiti che negavano il dogma cristologico definito dal Concilio di Calcedonia nel 451) entrò in disaccordo con il Pontefice romano, Vigilio, al quale era legato da vincoli di parentela: era il figlio del fratello del Papa. Vigilio giunse a scomunicare il nipote e a deporlo dall’ordo diaconorum.
Entrambi si trovavano a Costantinopoli, dove una buona parte dell’aristocrazia romana si era rifugiata a seguito delle interminabili guerre gotiche che stavano devastando la penisola. Il Papa, eletto, stando ad alcune fonti, per una serie di torbide manovre, era stato di fatto arrestato dall’Imperatore Giustiniano e tradotto a Costantinopoli per confermare la condanna dei Tre Capitoli, fortemente voluta dall’Imperatore. “Tre Capitoli” sono tre autori, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro, Iba di Edessa, ritenuti eretici dai monofisiti. In realtà, erano autori che, pur ispirandosi ad una cristologia formulata in modo ancora immaturo, erano giustamente considerati ortodossi da coloro che difendevano il Concilio di Calcedonia. In altre parole, per i monofisiti condannare i “Tre Capitoli” significava rimettere in discussione le decisioni del Concilio di Calcedonia, il più importante nella storia della Chiesa per la definizione dello statuto ontologico di Gesù Cristo, due nature, integre e perfette, unite, senza divisione e senza confusione, in un’unica persona. Giustiniano, pur di placare le contese religiose che indebolivano l’Impero, sotto la pressione della moglie Teodora, dichiaratamente monofisita, era disponibile a sacrificare i “Tre Capitoli”, con una condanna post mortem, pur di placare la ribellione dei monofisiti.
Il Papa cedette e con il suo Iudicatum confermò la condanna. Successivamente, con un atteggiamento ondivago, confuso, ambiguo, ritrasse la condanna per poi ribadirla, sia pure con alcuni distinguo che aumentarono le incertezze. La Chiesa in Occidente reagì opponendosi alle decisioni del Papa. Le Chiese di Aquileia e Milano ruppero persino la comunione con Roma e si consumò un doloroso scisma ricucito dopo un secolo.
In queste infelici circostanze, operò il diacono Rustico, strenuo difensore del Concilio di Calcedonia, dotato di una pietas sincera e fervorosa, uomo di fede e di preghiera, animato dalle autentiche motivazioni di una coscienza religiosa sensibile e schietta. La sua intensa attività di corrispondenza aiutò l’episcopato a formulare un giudizio retto sulla “posta in gioco” e sull’atteggiamento assunto dal Pontefice che, cedendo alle minacce, alle lusinghe, alle pressioni della corte imperiale, con i suoi pronunciamenti, rischiava di rimettere in discussione il dogma cristologico.
Che cosa pensare del dissenso apertamente manifestato dal diacono Rustico nei confronti del Pontefice? Il clima generale dell’epoca imponeva di “schierarsi”: perché ogni moderazione appariva un cedimento o un compromesso. In tale situazione, il comportamento del papa Vigilio lasciava disorientati anche i suoi più fedeli collaboratori. Tutti erano ben consapevoli della pretestuosità della questione dei Tre Capitoli: la loro riprovazione serviva da “maschera” per coprire un atto teologicamente molto più grave: la condanna della definizione cristologica del Concilio di Calcedonia. L’atteggiamento vago e incomprensibile di Vigilio, giustificabile forse per le circostanze sfavorevoli in cui venne a trovarsi, non aiutava certamente a rasserenare gli animi di coloro che erano sinceramente e giustamente preoccupati di non intaccare l’autorità e il valore del IV Concilio Ecumenico. La storia recente aveva dimostrato che i tentativi di oscurarlo e di minimizzarlo erano sempre possibili e, una volta attuati, le loro conseguenze potevano risultare devastanti. Di qui la fermezza adoperata da Rustico e, in questo senso, ci sentiamo di giustificare il suo operato: il suo fu un “martirio teologico” per la difesa del bene più prezioso nella Chiesa, la fede in Gesù Cristo.
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La Messa nuova, culla del naturalismo devoto – Editoriale di giugno 2016 di “Radicati nella fede”
Con un lieve ritardo di alcuni giorni, rilanciamo l’editoriale di giugno di Radicati nella fede nella festa dei SS. Quirico e Giulitta (o Giuditta), martiri, e di S. Lutgarda, vergine. Lo stesso Editoriale è stato pubblicato anche su Chiesa e postconcilio.
Anonimo, SS. Quirico e Giulitta, Oratorio dei SS. Quirico e Giulitta, Boccioleto, Valsesia |
C. Fries, Martirio dei SS. Quirico e Giulitta, 1859, museo diocesano, Avezzano |
Autore anonimo, Martirio dei SS. Quirico e Giulitta, XVIII sec., museo diocesano Cesena-Sarsina |
Alessandro Guardassoni, Martirio dei SS. Quirico e Giulitta, 1882, museo diocesano, Bologna |
Gaspar de Crayer, S. Lutgarda abbracciata dal Cristo crocifisso, 1653 circa, Convento delle agostiniane nere (Klooster van de Zwartzusters-Augustinessen), Anversa |
LA MESSA NUOVA, CULLA DEL NATURALISMO DEVOTO.
Editoriale di “Radicati nella fede”
Anno IX n. 6 - Giugno 2016
Grazie a Dio non abbiamo obbedito.
Vi scandalizzeremo subito, ma ci sono provocazioni che sono salutari, che servono.
Grazie a Dio non abbiamo obbedito a quelli che, per mantenerci dentro la “pastorale ordinaria”, ci chiedevano, mentre ci concedevano obtorto collo qualche messa tradizionale, di non chiudere con la nuova messa uscita dal Concilio. Grazie a Dio non abbiamo obbedito: non abbiamo ceduto a una preoccupazione “politica”, quella di non cambiare quello che ormai fanno tutti, per un’obbedienza più grande, quella della custodia della fede.
Abbiamo appena celebrato la festa del Corpus Domini: che significato avrebbe adorare solennemente la presenza eucaristica del Signore e non difendere nel contempo il rito puro della messa?
Lo diciamo per tanti devoti, sacerdoti e laici, sinceramente preoccupati del rispetto del Corpo del Signore, ma non preoccupati dell’avvelenamento che attraverso la nuova messa si è prodotto nel corpo della Chiesa.
La nuova messa ha come addormentato il popolo cristiano dentro un Naturalismo devoto.
Il Naturalismo è nella Chiesa quel dimenticare costantemente la vita soprannaturale. Il Naturalismo è quel considerare del Cristianesimo prevalentemente gli aspetti umani, letti e giudicati secondo le categorie del nostro tempo, secondo le mode culturali del momento. Quelli che nella Chiesa tendono al naturalismo non negano Gesù Cristo, ma non ne considerano il potere diretto su tutta la realtà: è come se tutto non dipendesse da Lui.
Da che cosa lo si capisce? Dal fatto che, quando pensano all’andamento del mondo, non ricorrono a Dio per la soluzione dei suoi mali. Non ricorrono a Dio, per accodarsi al vano parlare del mondo che si riempie di parole vuote e retoriche.
Facciamo un esempio: a Fatima la Madonna chiese ai tre pastorelli di pregare e fare sacrifici perché la guerra finisse, indicando così che l’andamento del mondo e delle nazioni dipende dalla nostra obbedienza a Dio.
Ve lo immaginate oggi un documento vescovile o papale che parli esplicitamente così? Che indichi nel ritorno a Dio, nel ritorno a Gesù Cristo, la soluzione di tutti i gravi problemi del mondo, economici, politici, morali, spirituali? Anche i pastori che privatamente pensassero che il peccato degli uomini è davvero la radice di tutti i mali del mondo, se ne guarderebbero bene dal dirlo pubblicamente, tanto è terribilmente naturalista il clima che regna nella Chiesa oggi: eppure il messaggio di Fatima è perfettamente l’eco fedele di tutta la Sacra Scrittura.
Tante sono le cause di questa disastrosa situazione, ma tra queste la principale è stata la riforma del rito della messa.
La nuova messa, voluta moderna rispetto alla tradizione, per essere moderna si è inchinata al naturalismo, inaugurando un naturalismo devoto. E per favorire questa piega, ha dato della messa cattolica l’immagine dell’ultima cena: Gesù in mezzo, rappresentato dal prete, e una assemblea, la comunità dei discepoli, che lo ascolta e si nutre di lui. Anche la messa più seriamente celebrata, nel novus ordo, dà questa immagine. È la messa che, nel migliore dei casi, si ferma a “Gesù che viene in mezzo a noi”. Per questo la Chiesa ha messo, dal Concilio in poi, al centro l’uomo, e non più Dio. All’uomo si sacrifica tutto, anche la verità della rivelazione. All’uomo e ai suoi diritti si sacrifica tutto, anche Dio.
La nuova messa si ferma a Gesù, è questa la questione; si ferma a Gesù presente tra noi, ma non arriva mai a parlare dell’azione di Dio in noi, al secondo movimento, a quello che conta di più, che è la nostra elevazione a Dio. Manca alla messa moderna il movimento ascensionale.
È la vera e spaventosa vittoria del Protestantesimo, quella vittoria che fu impedita al Concilio di Trento e che ora si è praticamente compiuta.
Il Sacramento non è negato, ma è orribilmente stravolto: non è più inteso come azione trasformante di Cristo in noi, ma come presenza consolante. Si è dimenticato lo scopo dell’azione di Cristo in noi, cioè il trasformarci in Lui. E questa trasformazione nostra in Lui è assolutamente necessaria, perché Dio Padre è glorificato dal suo Verbo fatto uomo, Gesù Cristo, e non si compiace di noi se non vi vede il suo Verbo formato. “Noi siamo diventati non soltanto cristiani, ma Cristo” dice Sant’Agostino: quanti oggi si avvicinano a questa verità, quanti almeno intuiscono la grandezza dell’opera della grazia su di noi? Quanti colgono che questa è l’opera?
Oggi il sacramento è ridotto a consolazione per noi, la messa è ridotta a Gesù che condivide tutto di noi...e la tentazione demoniaca è trasformare Lui in noi. Per questo è incomprensibile, anche a tanti pastori della Chiesa, che vi siano delle condizioni per ricevere i sacramenti, e tutte le condizioni si riuniscono nel volere davvero morire a noi stessi perché Cristo sia affermato in noi. Oggi no, grazie anche alla nuova messa, tutti credono di aver diritto ai sacramenti per essere serviti da Cristo, senza volerLo servire.
La nuova messa ha favorito il Naturalismo, anche se devoto: Cristo è affermato a parole, ma nell’azione è come se non esistesse. E questo è esattamente il Protestantesimo eretico, che non crede all’azione trasformante della grazia sulla nostra natura.
E non basta celebrare con devozione la messa, se questa è la nuova messa, perché è stata immaginata come la Santa Cena e non come il Calvario.
Il Calvario ti dice che Dio ha sacrificato il suo unico Figlio perché tu possa essere strappato dal mondo di peccato e, trasformato in Lui dalla grazia che discende dalla Croce, piacere a Dio, e quindi essere salvato.
La Santa Cena senza il Calvario, ti dice che Dio viene in mezzo a noi; che quindi tu sei importante, che la tua vita e la vita del mondo è essenziale, che la natura è tutto, visto che Dio è venuto a servirla con la sua presenza; ecco il Naturalismo servito, anche se con un côté devoto.
È davvero la vittoria del Sacramento svuotato di vita, iniziata da Lutero e dai suoi compagni.
E tra noi i più pericolosi sono i Conservatori devoti, che pensano che con qualche “ritocchino” in senso tradizionale si possa rimediare a questo avvelenamento.
Solo la Messa della tradizione, e non qualche surrogato di essa, salva l’interezza dell’azione di Dio, e ce ne rende coscienti.
Dovere dei preti e dei fedeli è custodire il dono più prezioso di Dio, senza attendere oltre, perché il tempo si è fatto breve.
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La Verità genera odio e scandalo nei mondani in un aforisma di S. Antonio da Padova
Chissà se taluno, dalle parti dell'hotel Santa Marta in Roma, avrà mai incrociato il seguente Sermone del Santo Dottore di Padova (o di Lisbona):
Fonte: Il Timone, 17.6.2016
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Cultura, pastorale e Chiesa in un aforisma del card. Caffarra
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“Diutúrnæ valetúdinis incómmoda hílari vultu constantíque ánimo pértulit; de uno tantum cónqueri audíta est, quod, cum cibum cápere ac retinére nullo modo posset, ab Eucharística mensa ob sacraménti reveréntiam arcerétur. Verum, his in angústiis constitúta, sacerdótem rogávit ut allátum divínum Panem, quem ore súmere nequíbat, péctori saltem extérius admovéret. Précibus illíus morem gessit sacérdos; et mirum! eódem témporis moménto divínus Panis dispáruit, et Juliána seréno ac ridénti vultu exspirávit. Res supra fidem támdiu fuit, donec vírgineum de more curarétur corpus; invénta enim est circa sinístrum péctoris latus carni véluti sigíllo impréssa forma hóstiæ, quæ Christi crucifíxi effígiem repræsentábat” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTÆ JULIANÆ DE FALCONERIIS, VIRGINIS, INSTITUTRIX SORORUM ORDINIS SERVORUM BEATÆ MARIÆ VIRGINIS
Oggi la bella messa dei celebri martiri milanesi cede il posto a quella di santa Giuliana, della nobile famiglia fiorentina dei Falconieri, la cui festa, dopo la canonizzazione della Santa nel 1737, fu introdotta l’anno seguente nel Breviario con rito semidoppio da un papa che era suo compatriota, Clemente XII, Lorenzo Corsini; più tardi, Clemente XIII l’elevò al rito doppio nel 1762.
Santa Giuliana può essere considerata come una seconda fondatrice dell’ordine dei Serviti della Beata Vergine Maria; le circostanze che accompagnarono la sua ultima Comunione hanno avvolto quest’anima serafica di un profumo verginale, al punto di farne una delle figure più attraenti dell’agiografia eucaristica. Si sa difatti, da un’antica tradizione, che la santa Ostia penetrò invisibilmente nel petto della malata che non poteva comunicarsi, perché rigettava ogni cibo (cfr. Arcangelo Giani, Vita beatæ Julianæ de Falconeriis, CAPUT III. Contubernio Tertiariarum præfecta Juliana, sancte illud instituit; miraculosisque favoribus cumulata in morte, ut Beata colitur in suis Reliquiis, § 17, in Acta Sanctorum, Junii, vol. XXIV, t. IV, Dies XIX, Parigi-Roma 1867, p. 770). In effetti, quando le consorelle della Santa prepararono il corpo della vergine per la sepoltura secondo l’uso, rinvennero, sul lato sinistro del petto, impressa sulla carne come un sigillo, la forma di un’ostia, rappresentante l’immagine di Gesù crocifisso: «… Giuliana vie più infiammata di santo amore (ed oh! quanto è mai ingegnoso l’amore!) con lagrime e con preghiere supplicò il Sacerdote d’un’ altra grazia, che certamente non si aspettava : Deh! almeno - Ella disse - stendete un velo sul mio petto e sopra di quello posate per un poco l’Ostia Sacrosanta; affinché un gualche conforto prenda il mio cuore dalla vicinanza del mio Gesù. A tale inaspettata richiesta restò da prima sospeso e titubante il sacro Ministro; ma poi sentendosi internamente inclinato ad appagare così vivi ardori, disteso un velo sopra il di lei petto infuocato, posò quivi riverentemente, com’Ella bramava, la santa Eucaristia. Ed ecco il secondo stupendo ed inaudito prodigio; poiché appena fu collocata l’Ostia Sacrosanta sul castissimo petto di questa infervorata Vergine, che immantinente disparve; ed Ella raccolto sulle labbra tutto il suo spirito affettuosamente esclamando: Oh! dolce mio Gesù, con un soave sorriso placidamente spirò, volandosene quell’anima benedetta agli eterni gaudj del suo Sposo Celeste. …. curandosi a forma del costume il di lei santo Corpo, Giovanna Soderini amantissima discepola e compagna della nostra Santa, scoperse con sua gran maraviglia e fece osservare a tutte, come sul petto della medesima, allato al di lei cuore, cioè nel luogo stesso dove sopra era stata posata la Sacra Particola, vi era impressa in forma di sigillo la medesima figura dell’ Ostia coll’immagine della Croce; dal che nessuno più dubitò, che il Signore non si fosse in tal maniera prodigiosa unito a quel l’anima santa, avendo cosi voluto mirabilmente esaudire le di lei pie brame, ed oprare egli stesso quanto domanda dalle caste sue spose allor che dice: Pone me ut signaculum super Cor tuum» (Vita di S. Giuliana Falconieri Vergine fiorentina, Istitutrice del Terz’Ordine delle Serve di Maria Vergine, Roma, 1837, pp. 43-45).
La Chiesa di Roma ha dedicato alla nostra Santa una chiesetta nel quartiere Gianicolense (chiesa di santa Giuliana Falconieri) eretta nel XX sec.
La messa è del Comune, come il 10 febbraio, salvo la prima colletta che fa allusione chiaramente al miracolo eucaristico che abbiamo ricordato.
Come i pagani mettevano nella bocca delle morti la moneta destinata a pagare il trasporto della barca di Caronte, così, nel IV sec., c’era già un’antica tradizione della Chiesa romana, confermata da un gran numero di testi dei santi Padri, che a confortare l’ultimo istante dei fedeli vi era il cibo eucaristico: il Viaticum, il quale si depositava talvolta anche sul petto dei defunti. In seguito, la Chiesa modificò questa disciplina e dichiarò che bastava ai morenti ricevere come viatico questa Comunione, che segue la Confessione e l’estrema unzione o unzione degli infermi, senza che fosse necessario di un’altra Eucaristia al momento stesso dell’ultimo sospiro. Quest’antico costume romano riflette tuttavia la fede energica della prima età patristica, dove, di fronte al materialismo pagano, si voleva confessare solennemente il dogma dell’immortalità dell’anima e della finale risurrezione dei corpi di cui la divina Eucarestia è il pegno. O qual consolazione e grazia ricevere l’Eucaristia in quel momento supremo, nel quale si decidono le sorti eterne dell’anima, essere muniti del conforto del Pane Eucaristico! Non a caso, nell’inno risalente al XIV sec., musicato poi da Mozart, Ave Verum Corpus, si invoca: «Esto nobis praegustatum in mortis examine», «fa’ che noi possiamo gustarti nella prova suprema della morte». Santa Giuliana ricevé questa grazia in maniera del tutto particolare, potendosi unire al suo Sposo sotto le specie eucaristiche senza che passassero dalla sua bocca, entrate direttamente nel suo cuore verginale.
Osvaldo Micheli del Friuli, SS. Trinità tra i SS. Rosalia, Giuliana e Francesco di Paola, XVII sec., Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna |
Anonimo, Viatico di S. Giuliana, XVIII sec. |
Pierleone Ghezzi, Immacolata con Bambino e SS. Alessio Falconieri e Giuliana Falconieri, 1732, Castagnola di Chiaravalle (Ancona) |
Scuola di Pierleone Ghezzi, Crocifissione con i SS. Alessio Falconieri, Giuliana Falconieri ed Isidoro l'agricoltore, XVIII sec., museo diocesano Porto Santa Rufina |
Raffaello Giovannetti, S. Giuliana prende l'abito religioso dalle mani di S. Filippo Benizi, 1854, chiesa di Sant’Andrea, Viareggio |
Guido Nincheri, S. Giuliana, XX sec. |
Urna con le reliquie di S. Giuliana, Basilica della Santissima Annunziata, Firenze |
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