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III Domenica dopo Pasqua - In Terra Santa, Festa della Madonna del Carmelo

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Il Card. Burke a Lecce

San Giorgio in Terra Santa (festa del 16-17 novembre)

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“Protexísti me, Deus, a convéntu malignántium, allelúja: a multitúdine operántium iniquitátem” (Ps. 63, 3 – Intr.) - SANCTI GEORGII, MEGALOMARTYRIS, DRACONEM NECANTIS

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Oggi non è un santo romano, ma un martire orientale, che, con la sua palma e la sua corona, viene a rendere più splendido il trionfo del Redentore resuscitato dai morti.
Il culto di san Giorgio ha l’Oriente per patria, ma fu importato a Roma durante il primo periodo bizantino.
La leggenda ha cinto dei suoi veli la storia del Megalomartire, che sarebbe appartenuto, si crede, alla città di Lydda (l’odierna Lod) o Diospolis di Palestina, nei pressi dell’attuale Aeroporto Internazionale di Tel Aviv Ben Gurion (già noto come Aeroporto di Lod), in cui, nel 303, egli avrebbe trovato la morte per aver lacerato gli editti di persecuzione contro i cristiani. Da quando Costantino vinse il pagano Licinio, san Giorgio fu soprattutto celebrato in Oriente come difensore armato della Chiesa, come il suo τροπαιοφόρος, tropaiophóros, vale a dire colui che porta il trofeo della vittoria riportata contro il nemico, come san Lorenzo e san Sebastiano a Roma. Non soltanto il culto di san Giorgio riempì quest’immensa regione che oggi ancora prende dal lui il suo nome, la Georgia, ma penetrò nelle liturgie etiopiche, copte, siriache e latine. In Europa, san Giorgio divenne uno dei santi più popolari nel Medioevo, e l’Inghilterra lo venera ancora come suo celeste patrono.
Il Geronimiano annuncia la passione di san Giorgio il 25 aprile ed i Copti celebrano la sua festa il 18. Ma il sinassario ed il typicon bizantini lo commemorano il 23. Questo è il giorno che san Giorgio è festeggiato a Roma da quando il papa Leone II (682-683) gli dedicò una basilica al Velabro su cui diremo (L. Duchesne, Le Liber Pontificalis, tomo I, Paris 1886, p. 360).
A Roma, sin dall’alto Medioevo, si elevarono delle chiese e degli altari in onore di san Giorgio, in Vaticano, presso il mausoleo di Augusto (cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 325; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 254); appunto al Velabro (MarianoArmellini, op. cit., pp. 630-632; Ch. Huelsen, op. cit., pp. 255-256), ed altrove.
Quando, nel VI sec., Belisario restaurò le mura di Roma, piazzò sulla porta di San Sebastiano un’iscrizione con la quale la protezione di questo luogo era affidata ai martiri orientali Conone e Giorgio (Per grazia di Dio ai santi Conone e Giorgio):


Calco della pietra di volta della Porta di San Sebastiano, Roma

Tuttavia il santuario più famoso, in cui il popolo veniva più volentieri per implorare il patronato del Megalomartire e che poteva vantare un’importante reliquia del santo (il cranio), fu sempre, durante tutto il Medioevo, la basilica Sancti Georgii in Velabro; fu per questo che Gregorio II vi istituì la messa stazionale il giovedì di Quinquagesima. Le origini di questa basilica sembrano anteriori al V sec., poiché, in un’iscrizione del 482, si fa già menzione di un lector de Belabru. La sua dedicazione definitiva ai martiri soldati, Giorgio e Sebastiano, però, data soltanto ai tempi di Leone II (682-683) (Cfr. MarianoArmellini, op. cit., pp. 630-632; Ch. Huelsen, op. cit., pp. 255-256).
In questa chiesa si conserva la reliquia della testa di san Giorgio.
Proprio questa veneranda chiesa fu funestata da uno degli attentati mafiosi nel luglio 1993, che provocarono il crollo del porticato antistante l’edificio sacro. Esso però è stato ricostruito.
Una chiesa dedicata al nostro martire è stata edificata negli anni ‘60 del XX sec. nella zona Acilia sud.
La messa di oggi è quella dei Martiri nel tempo pasquale.
Il Sacramentario Leoniano contiene anch’esso la messa di san Giorgio con le collette ed il prefazio propri.
Durante il periodo bizantino, in cui, a Roma, le letture si succedevano in greco ed in latino, il passo del Vangelo, letto in questo giorno – simile a quello del 14 aprile – in cui Gesù si paragona ad una vigna e suo Padre è paragonato ad un agricoltore(in greco γεωργός, geôrgós), ricorda molto graziosamente il nome del martire eponimo della festa.
Fuori del tempo pasquale, la messa è dal Comune: In virtute, ma le collette sono proprie.
Nessuno stato, nessuna condizione è lontana da Dio e dal paradiso. Alla scuola della perfezione cristiana, si può passare dalla caserma al martirio, dal servizio delle armi agli onori degli altari, perché la virtù è indipendente dalle circostanze esterne della vita sociale. È santo, infatti, colui che serve Dio con perfezione nello stato dove la Provvidenza divina l’ha posto.

Pavel Ryzhenko, Egli ha scelto la Fede! ovvero Martirio di S. Giorgio, 2002

Paolo Veronese, Martirio di S. Giorgio, 1564 circa, Chiesa di San Giorgio in Braida, Verona


Pieter Pauwel Rubens, S. Giorgio ed il dragone, 1606-08, Museo del Prado, Madrid


Pieter Pauwel Rubens, Martirio di S. Giorgio, Musée des Beaux-Arts, Bordeaux


Marteen de Vos, Cristo trionfante sulla morte e sul peccato con i SS. Giorgio, Pietro, Paolo e Caterina d'Alessandria, 1590 circa


Mattia Preti, S. Giorgio a cavallo, 1658 circa, Chiesa conventuale di S. Giovanni, La Valletta, Malta

Mattia Preti, Martirio di S. Giorgio, Chiesa di S. Giorgio, Qormi, Malta

G. Pagliarini, Martirio di S. Giorgio, 1844, Duomo, Pirano

Le Antifone mariane

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Nell'approssimarci della festa della Vergine Maria, madre del Buon Consiglio, venerata nel santuario a Lei dedicato nella città di Genazzano, volentieri lancio questo contributo che abbiamo ricevuto.


Le Antifone mariane

di Giannicola D'Amico

Nella prassi delle nostre parrocchie, chi si occupa del servizio musicale, pur quando rispettoso di certi “canoni” liturgici, ha un momento di esaltante libertà nel c.d. canto finale.
Anche i più scrupolosi, infatti, si sentono autorizzati in quel punto della Messa a comportarsi più a briglia sciolta: si passa dall’organista serio che si diverte un po’ con Provesi, p. Davide da Bergamo o qualche trascrizione di Wagner, fino alla canzone di Vasco Rossi all’uscita del feretro, nel funerale di qualche povero giovane morto tragicamente o un’Ave Maria di Shubert mentre sortisce di chiesa la bara della vecchia zia (“perché le piaceva tanto!”), passando attraverso sviamenti più “raffinati” come quello ascoltato qualche tempo fa quando, in una fedelissima città del Nord-est, al termine di una celebrazione nella festa di Maria Regina, si è cantato il “Regina Caeli”.
Un tempo il canto finale, o per la “Recessione”, era un punto fermo e solitamente non creava imbarazzi né ai musicisti nella scelta, né ai fedeli nel sentirsi propinare canti impropri, e in più contribuiva a dare una nota ulteriore di cattolicità alla celebrazione (cosa che non guasta, soprattutto oggigiorno): in tutto l’anno liturgico, infatti, a fine Messa si usavano le Antifone mariane (dette anche maggiori).
Qualcuno le ricorderà: Alma Redemptoris Mater, Ave Regina coelorum, Regina coeli e Salve Regina.
Si sapeva con certezza “dottrinale” che la prima si impiegava dall’Avvento fino alla Purificazione, la seconda serviva fino al Sabato Santo, la terza era peculiare del tempo di Pasqua e l’ultima si cantava dalla Ss.ma Trinità in avanti (il c.d. tempo ordinario).
Nulla vieta di eseguirle anche oggi. Anzi!
Scolorite dall’ingiusto oblio in cui sono cadute (soprattutto le prime due), a volte è sufficiente rimetterle in esercizio per poco: i fedeli anziani le ricordano ancora e i giovani possono impararle presto.
Si tratta infatti di forme antifonali semplici, prive di salmo: in pratica di preghiere alla Vergine – in un latino facilissimo  - messe in canto e inoltre quelle consacrate dall’uso comune, nella forma semplice (esistono le versioni nel c.d. tono solenne), sono state per secoli dei veri cavalli di battaglia del nostro popolo.
Dico secoli, ma ormai potrei dire “un millennio” e anche più, perché queste quattro piccole perle di sapienza liturgico-musicale ci giungono dai recessi più affascinanti del Medioevo cristiano.

Josef Ferdinand Fromiller, La Vergine appare al beato Ermanno, XVIII sec., Monastero, Ossiach

Johann Baptist Straub, Beato Ermanno lo storpio, 1751 circa, chiesa abbaziale, Andechs

L’antifona per l’Avvento e il tempo di Natale, “Alma Redemptoris”, è attribuita al beato Ermanno di Reichenau (Ermanno il contratto), ovvero uno dei più grandi melografi e musicisti del Medioevo, vissuto subito dopo il Mille e di cui proprio nel 2013 celebrammo il millennio della nascita, e, probabilmente autore anche della “Salve Regina”.


Alcuni propendono per assegnare a S. Bernardo la paternità di quest’ultima antifona, ma – come si può vedere – è comunque un campionario di tutto rispetto!
Una certa tradizione vuole, invece, risalente addirittura allo stesso S. Gregorio Magno il “Regina coeli” che si canta da Pasqua a Pentecoste e, dai tempi di Benedetto XIV, sostituisce anche l’Angelus nello stesso periodo, mentre “Ave Regina coelorum”, di composizione più tarda, resta l’antifona della Quaresima, ma in verità essa copre il periodo dell’anno liturgico che segue la festa della Candelora, ovvero dalla Settuagesima sino a Pasqua.
Ognuna di esse medita una particolare “caratteristica” mariana, connessa strettamente con il periodo liturgico, pertanto è bene evitare di spostarle dalla collocazione che la tradizione ha loro assegnato: in Avvento si invoca Maria che partorisce il Santo Genitore (“Figlia del tuo Figlio”), mentre dopo la Purificazione si saluta la Vergine quale “porta attraverso cui la Luce è sorta nel mondo”, poi con la Resurrezione si invita la Madonna, Regina del cielo, a rallegrarsi perché il divin Figlio “è risorto, come aveva detto!” ed infine con la “Salve Regina” le si chiede aiuto ed intercessione misericordiosa.
Reintrodurre stabilmente questi quattro brevi brani in canto gregoriano a servizio della liturgia, come si può vedere, è opera meritoria, ma in questi auspici ci sono illustri precedenti.
Solo per citarne uno fra i tanti: mons. Elia dalla Costa, indimenticato arcivescovo a Firenze, quando era vescovo a Padova negli anni Trenta, nelle sue lettere pastorali invitava preti e musicisti a deporre canti melensi ed insignificanti per far luogo alle antifone gregoriane, considerate di sicura aderenza liturgica.
La storia si ripete, ma con due differenze.
La prima è che i canti da bandire oggi non sono più solo insignificanti come cent’anni fa, ma a volte, oltre che musicalmente brutti, proprio dottrinariamente e liturgicamente perniciosi.
La seconda è che i vescovi si occupano di meno di queste cose. Molto meno. Purtroppo…..

“Deíparæ Vírginis et rosárii cultor exímius, illíus præcípue aliorúmque Sanctórum patrocínio a Deo postulávit, ut in cathólicæ fídei obséquium vitam sibi et sánguinem fúndere licéret” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI FIDELIS A SIGMARINGA, MARTYRIS

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Oggi avanza, con la palma in mano, un umile figlio del Poverello di Assisi, il protomartire della nuova riforma dei Minori Cappuccini, che, in circostanze molto simili a quelle che incontrò san Bonifacio, apostolo della Germania, fecondò nuovamente del suo sangue questa terra sterilizzata dall’eresia.
Fu martirizzato nel 1622. Tra il febbraio e l’aprile di quell’anno il nostro Santo, per incarico del Nunzio di Lucerna e del suo ministro provinciale, operava come missionario apostolico nella regione del Prättigau (Pretigovia), politicamente soggetta all’Austria, dove però la popolazione era in buona parte passata alla fede zwingliana. In una fase di gravissime tensioni, aggravate dalle ingerenze di potenze estere, come Francia, Spagna e Repubblica Veneta, l’arciduca Leopoldo V d’Austria fece occupare la regione dall’esercito, sotto la guida del colonnello Luigi de Baldirone, provocando l’ira del popolo con una serie di azioni di violenza. In questa situazione esplosiva, Fedele continuava a esporre la fede cattolica con prediche, dispute e colloqui, nonostante l’opposizione e la quasi totale chiusura al suo annunzio. Conoscendo il grande peso dell’azione sotterranea dei predicatori zwingliani e prevedendo con chiarezza il suo martirio, redasse il cosiddetto Mandato di punizione o I Dieci articoli della religione, con cui - tra l’altro - l’autorità civile proibiva il culto protestante, mandava in esilio i suoi ministri e obbligava tutti i cristiani a partecipare, nei giorni domenicali e festivi, alla predica cattolica. Di esso sorprendeva il punto 6, secondo cui nessuno poteva essere costretto ad accogliere la fede cattolica, a confessarsi e a partecipare alla messa.
La pubblicazione del Mandato, il 19 aprile, fece l’effetto di un segnale per la sollevazione generale del popolo. Il 23 aprile Fedele celebrò la Messa e salì sul pulpito nella chiesa di Grüsch, dove gli giunse l’invito a predicare il giorno successivo, la domenica 24 aprile, a Seewis. Ma non era che un pretesto, per eliminare il temibile protagonista dell’azione controriformistica. Salito sul pulpito della chiesa di quel luogo, trovò un biglietto che gli preannunciava che quella sarebbe stata la sua ultima predica. Era consapevole che sarebbe stato ucciso, ma tenne ugualmente il suo sermone. Mentre iniziava la predica - secondo una tradizione egli spiegava il passo di Ef 4, 5-6 - scoppiarono vivaci reazioni nell’uditorio e qualcuno fece perfino fuoco verso il predicatore senza colpirlo. Fedele discese dal pulpito, s’inginocchiò davanti all’altare maggiore e lasciò la chiesa per una porta laterale, per dirigersi a Grüsch. Dopo pochi metri, si vide accerchiato da un gruppo di rivoltosi, circa venticinque, che gli chiesero se era disposto ad accogliere la loro fede. Rispose che certo non per tale motivo era venuto in quella valle, ma per la speranza che un giorno avrebbero aderito alla sua fede. Dopo un momento di esitazione, uno dei ribelli colpì il suo capo con la spada. Il martire, cadendo con la testa spaccata in ginocchio, esclamò: “Gesù, Maria. Vieni in mio aiuto, o Dio!”. Solo un enorme fanatismo spiega l’inaudita ferocia con cui gli assassini infierirono sul suo corpo con forconi, mazze ferrate e bastoni.
Il giorno successivo, festa di san Marco, il sagrestano Giovanni Johanni seppellì il cadavere. Mentre il capo del martire nell’ottobre del 1622 fu esumato e portato nella chiesa dei cappuccini di Feldkirch, il resto del corpo venne solennemente tumulato nella cripta del duomo di Coira il 5 novembre dello stesso anno. Fu canonizzato nel 1746 da papa Benedetto XIV. Il 16 febbraio del 1771 la sua festa fu estesa alla Chiesa universale da un altro figlio di san Francesco divenuto pontefice, papa Clemente XIV, con rito doppio. Di III classe dal 1960. È patrono della regione di Hohenzollern e dei giuristi. I suoi attributi sono la mazza, la spada e la palma.
San Fedele, il martire, con i santi Veronica Giuliani, la mistica stigmatizzata, e Lorenzo da Brindisi, il dottore della Chiesa, forma la triplice corona più recente del grande ordine francescano, quello dei Cappuccini, fondato nel 1517.
Roma cristiana ha dedicato a quest’insigne martire una chiesa nel 1973 nel quartiere Pietralata (Chiesa di San Fedele da Sigmaringa).
La messa è tratta dal Comune dei Martiri, ma la prima colletta è propria e con la lettura evangelica già assegnata alla festa dei martiri Tiburzio, Valeriano e Massimo.
Fuori del tempo pasquale, la messa è quella In virtute. Tuttavia le orazioni sono quelle indicate.
La grazia del martirio non è il privilegio delle prime generazioni cristiane, poiché Dio l’accorda in tutti i tempi. Generalmente, essa suppone una virtù consumata ed una fedele corrispondenza ad un’altra catena di grazie, che, nei disegni di Dio, devono servire di preparazione a questa grazia finale che immola a Dio, nello spargimento del sangue, il sacrificio totale dell’essere.

Ambito toscano, S. Fedele incoronato dalla fede, XVIII sec., Museo diocesano, Volterra

Giovanni Battista Tiepolo, SS. Fedele da Sigmaringen e Giuseppe da Leonessa, che abbattono l’eresia, 1752-58 circa, Galleria Nazionale, Parma


Pascalis Kehrer e Rudhart Fidelis, Altare con martirio di S. Fedele e reliquiario del capo del santo, 1911, Chiesa dei Cappuccini, Feldkirch

Reliquia del teschio di S. Fedele, Chiesa dei Cappuccini, Feldkirch

Reliquie di S. Fedele, Cripta, Cattedrale, Cur

A che serve il Battesimo? Ovvero la vera fratellanza in Cristo ed il battesimo di sangue

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Due fatti di cronaca recente hanno posto l’attenzione su chi debba intendersi come “fratello della fede e figlio di Dio”.
Cominciamo dal fatto più recente.
Il 22 aprile, il vescovo di Bari si è incontrato con alcuni copti ed islamici per meditare, o pregare, per le vittime del naufragio poco al largo delle coste libiche lo scorso sabato notte (cfr. Corriere del mezzogiorno, 22.4.2015).
Il vescovo barese, parato da serioso impiegato, non è nuovo a simili iniziative, in stile media-ecumenical (v. qui).
Non è questo, però, il punto.
Non si sta facendo una questione del suo stile … . Ma del fatto che, intervistato al TG3 Regionale della Puglia, si sia spinto ad affermare che i musulmani «sono nostri fratelli e figli di Dio». In una precedente ed analoga occasione dell'ottobre scorso aveva affermato che cristiani e musulmani sono «fratelli nella fede e figli dello stesso Dio».
Ci stupisce che un vescovo ignori che la Rivelazione e cioè che la figliolanza di Dio, propriamente detta, non venga né dalla carne né dal sangue, ma sia una grazia di Dio, richiedendo che sia ricevuta il battesimo. Basta soffermarsi al celebre Prologo di Giovanni per rendersi conto di questa Verità, giacché l’Evangelista afferma «quotquot autem receperunt eum, dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius» (Johan. 1, 12). Per cui, asserire che cristiani e musulmani siano figli dello stesso Dioè quantomeno temerario.
A meno che non avesse voluto intendere – in maniera infelice – che i cristiani ed i musulmani in quanto uomini e, dunque, creature, abbiamo un medesimo Creatore. Ma se era questo il senso, allora l’espressione, a nostro avviso, andava detta meglio dal Pastore barese.
Riguardo all’altra, cioè “fratelli nella fede” l’espressione anche qui è equivoca.
Pure qui non avremmo avuto nulla da obiettare se l’espressione fosse riferita non alla fede, ma volesse indicare la generica fraternità universale, che deriva direttamente dalla comune discendenza di tutti gli uomini da Adamo ed Eva.
Se così non fosse e cioè se il vescovo barese avesse voluto intendere in senso proprio l’espressione “fraternità di fede”, le cose cambiano.
Se non erriamo, i Padri della Chiesa avevano affermato che potevano definirsi fratelli nella fede solo quelli che facevano professione di fede nella stesso Dio (Triuno) e potevano recitare il “Padre nostro”.
Spiegava S. Agostino che se siamo fratelli (nella fede), «invochiamo uno stesso Dio, crediamo in uno stesso Cristo, sentiamo lo stesso Vangelo, cantiamo gli stessi salmi, rispondiamo lo stesso Amen, ascoltiamo lo stesso Alleluia e celebriamo la stessa Pasqua» (En. in Ps. 54, 16).
Aggiungeva S. Cipriano, con riferimento alla preghiera del Pater: «Il Padre Nostro è per noi una preghiera pubblica e comune e, quando preghiamo, non preghiamo per uno soltanto, ma per tutto il popolo, perché tutto il popolo è uno» (De Oratione Dominica, 8). Significativamente l'Istruzione del Sant’Offizio del 20 dicembre 1949 all'episcopato cattolico sul “movimento ecumenico” affermava: «Benché in tutte queste riunioni e conferenze si debba evitare qualsiasi communicatio in sacris, però non è proibita la recita comune del Padre Nostro, o di una preghiera approvata dalla Chiesa cattolica con cui le stesse riunioni vengono aperte e chiuse» (A.A.S., 1950, pp. 142 ss).
In effetti, il santo Dottore d’Ippona chiamava gli eretici donatisti "fratelli", perché confessavano «l'unico Cristo» e si trovavano, loro malgrado, «in un solo corpo, sotto un unico capo», facendo parte dell'unica Chiesa indivisibile, nonostante i limiti e le divisioni della Chiesa visibile. Per cui, concludeva S. Agostino, parlando dei “fratelli donatisti”, che questi «Cesseranno di essere nostri fratelli, allorché avranno cessato di dire: Padre nostro» (En. in Ps. 32, 3, 29, en. 2).
Dunque, il vescovo barese avrebbe dovuto domandarsi – se avesse inteso riferirsi ad una fratellanza nella fede – se gli appartenenti all’islam invochino Dio con la preghiera del Padre nostro. Oppure egli avrà pensato che l’islam sia una sorta di appendice eretica del Cristianesimo così com’era intesa nel Medioevo. Non a caso Dante pone nella sua Commedia la figura di Maometto tra gli scismatici, rappresentando l’islam come un’eresia del Cristianesimo. Ma si tratta di una visione ampiamente superata dalla storiografia … .
Il secondo episodio a cui vorremmo far riferimento è correlato al martirio dei cristiani etiopi di cui abbiamo già parlato alcuni giorni fa.


Si è appreso che, tra gli stessi, vi sarebbe stato un musulmano. Questi avrebbe accettato di unirsi – nella morte – con i cristiani, morendo da apostata dell’islam.
Abbiamo detto “musulmano” (ed i media buonisti hanno parlato di “giusto nell’islam”, sic!), ma in verità avremmo dovuto parlare di un vero e proprio cristiano, che, con la sua morte, ha ricevuto il suo battesimo di sangue (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1258). Infatti, questa persona sarebbe morta da “apostata dall’islam”, per i cristiani, con i cristiani, per la stessa ragione dei cristiani, a causa dei cristiani e nello stesso contesto dei cristiani. Non consta che, morendo, abbia fatto professione di fede nell’islam. Per cui, possiamo ritenere – in base alle circostanze – che egli sia morto da martire cristiano, conseguendo la corona incorruttibile, così come morirono, durante l’epoca delle persecuzioni, alcuni martiri – che oggi noi veneriamo – i quali, pagani, all’ultimo momento, si aggregavano al gruppo di cristiani votati a morire, decidendo di morire con loro, per loro e nello stesso loro contesto.
Questa è la vera fratellanza. Nella fede, per la quale la Chiesa canta: «Hæc est vera fratérnitas, quæ vicit mundi crímina: Christum secúta est, ínclita tenens regna cæléstia». Né vale affermare che il presente caso sia analogo a quello del prof. Mahmoud Al ‘Asali, poiché – in quest’ultima vicenda – proprio le circostanze non consentono di affermare che lo stesso sia stato ucciso con i cristiani, nello stesso contesto dei cristiani e quale apostata dall’islam!
Il titolo dell'articolo, che riporta la notizia, perciò suona alquanto discutibile.


È musulmano, ma sceglie di morire con i cristiani


Tra gli etiopi uccisi in Libia dall’Is c’era anche Jamal Rahman: si sarebbe offerto come ostaggio per non abbandonare un amico. Lo racconta il Pime

DOMENICO AGASSO JR

ROMA. Era anche lui tra i 28 etiopi uccisi (decapitati) dall’Isis in Libia e mostrati nell’ennesimo video dell’orrore di Al Furqan, la macchina della propaganda del califfato. È stato ucciso pure lui, Jamal Rahman, migrante, sebbene fosse di famiglia musulmana. Perché? Perché si sarebbe offerto come ostaggio per non lasciare solo un amico cristiano.
È una storia raccontata da Giorgio Bernardelli su MissionLine, rivista del Pontificio Istituto Missioni estere (Pime). A confermare la notizia «è stata una fonte del tutto insospettabile: un miliziano degli al Shabab, i fondamentalisti islamici della Somalia».
Su questa vicenda ci sono due versioni di spiegazione: una riferita da «un quotidiano on-line del Somaliland»: sostiene la «stranezza» dicendo che «si era convertito al cristianesimo durante il viaggio»; l’altra, che il Pime ritiene «molto più verosimile, raccolta sempre in ambienti jihadisti: il musulmano Jamaal “follemente” si sarebbe offerto come volontario ai jihadisti come ostaggio, per solidarietà con l’amico cristiano con cui stava compiendo il viaggio. Forse pensava che la presenza di un musulmano nel gruppo avrebbe perlomeno salvato la vita alle altre persone»; così non è avvenuto: è stato assassinato anche Jamal, «come un apostata».
La storia e la scelta di Jamal Rahman richiamano quelle di Mahmoud Al ‘Asali, il docente universitario musulmano che la scorsa estate a Mosul «si era schierato pubblicamente contro la persecuzione nei confronti dei cristiani della città». Anche lui ha pagato questo comportamento con la morte.

Litanie Maggiori con Litaniae Sanctorum


“Marcus, discípulus et intérpres Petri, juxta quod Petrum referéntem audíerat, rogátus Romæ a frátribus, breve scripsit Evangélium” (Lect. IV – II Noct.) - SANCTI MARCI EVANGELISTÆ

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Oggi si celebravano a Roma i Robigalia, rimpiazzati più tardi con la processione cristiana che si svolgeva lungo la via Flaminia sino al ponte Milvio e raggiungeva in seguito San Pietro. La festa dell’evangelista Marco dové dunque attendere sino quasi al XII sec. prima di essere iscritta regolarmente nel Calendario romano. Questo ritardo è tanto più sorprendente se si considera che san Marco fu tra i primi araldi, che, con san Pietro, annunciarono a Roma la Buona Novella; inoltre, egli scrisse il suo Vangelo nella Città eterna su domanda degli stessi romani, e quando un po’ più tardi Paolo vi subì il suo primo imprigionamento, Marco gli prestò con Luca un’affettuosa assistenza, come aveva già fatto in favore del Principe degli Apostoli.
Tuttavia questa dimenticanza, che si poteva tacciare d’ingratitudine, non è isolata. Anche Giovanni ha predicato a Roma e vi ha trovato il martirio nella caldaia di olio bollente. E tuttavia, si direbbe quasi che la sua presenza nella Città eterna non abbia lasciato alcuna traccia; così fu anche per Luca ed altri insigni personaggi dell’età apostolica.
Quest’anomalia si spiega tuttavia facilmente. All’origine, le commemorazioni liturgiche dei santi avevano un carattere locale e funerario, essendo esclusivamente celebrate presso le loro rispettive tombe. Siccome né Giovanni, né Luca, né Marco, né, a nostra conoscenza, altri primi compagni degli Apostoli finirono i loro giorni a Roma, i dittici romani non registrarono la loro deposizione o natalis. I calendari del Medioevo a Roma, dipendendo principalmente da queste liste, fa sì che si spieghi il loro silenzio. Presso il portico in Pallacinis, nella prima metà del IV sec., il papa Marco eresse una basilica che, con il tempo, prese il nome dell’evangelista omonimo (oggi è denominata Basilica di San Marco Evangelista al Campidoglio) (Cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 459-463; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 308-309). Altre chiese egualmente, nel Medioevo, furono dedicate a san Marco, come quelle de calcarario, in macello, ecc. Ma la splendida basilica del papa Marco le superò tutte in celebrità tanto per la sua bellezza quanto per l’importanza eccezionale che essa acquistò nella storia.
Tra il 1970 ed il 1972 fu costruita, nel quartiere Giuliano-Dalmata, la chiesa di San Marco evangelista in Agro Laurentino, titolo cardinalizio dal 1973 ed affidata ai frati minori conventuali.
La Chiesa d’Egitto celebra il 25 aprile «san Marco, il contemplatore di Dio». Bizantini, siriani e latini lo fanno lo stesso giorno. Iscritto in questa data nel martirologio di Beda, il nome di san Marco apparve alla fine dell’VIII sec. nel calendario di Montecassino e, nel IX, in quello di Napoli. Dall’853, il sacramentario di Rodrado di Corbie e, poi, verso l’870, quello di sant’Amando danno le orazioni della festa (K. Gamber, Codices liturgici latini antiquiores, Coll. Spicilegii Friburgensis subsidia1, Freiburg/Schweiz 1968, tomo 2, p. 356, n. 763. Questo sacramentario era passato, dall’inizio del X sec., nell’uso di Sens. Cfr. E. Bourque, Etude sur les Sacramentaires romains, Seconda parte, tomo II, Roma 1958, p. 52). Ma a quest’epoca, il culto di san Marco è già attestato a Venezia (829). Esso dové conoscere una diffusione quasi universale attraverso i secc. X ed XI.
Oggi le Litanie maggiori terminavano con la messa stazionale a San Pietro. La processione litanica non è dunque in alcuna relazione con la festa di san Marco, sebbene, quando questa è rimessa in un altro giorno, non si trasferiscono per questo le Litanie maggiori. Non era un fatto eccezionale che, per la festa di Pasqua, se cadeva il 25 aprile, la processione si celebrasse allora il martedì seguente.
Nel basso Medioevo, scomparve da Roma ogni ricordo delle Robigalia con il percorso tradizionale del classico corteo della gioventù romana lungo la via Flaminia. La processione aveva il costume di recarsi dal Laterano alla basilica di San Marco e da questa si dirigeva verso San Pietro; questo rito rimase in vigore sino alla seconda metà del XIX sec.
Le antifone ed i responsori della messa di san Marco sono tratti dalla messa Protexisti, che è quella dei martiri durante il tempo pasquale. Tuttavia, le collette e le letture sono proprie.
Spesso, nella sacra Scrittura, la parola di Dio è paragonata ad una fonte d’acqua, che spegne gli ardori della sete, rinfresca la terra arida, la feconda e fa rinverdire le piante.
Nell’alto Medioevo, le fontane pubbliche rivestivano per questa ragione un certo carattere religioso, in tanto perché simboleggiavano il Verbo e la grazia divina. Ne abbiamo una prova, tra le altre testimonianze, in un puteal che esiste ancora sotto il portico della basilica di San Marco de Pallacina, con questa legenda:

DE • DONIS • DEI • ET • SANCTI • MARCI • JOHANNES • PRESBITER • FIERI • ROGABIT
OMNES • SITIENTES • VENITE • AD • AQVAS • ET • SI • QVIS • DE • ISTA • AQVA • PRETIO
TVLERIT • ANATHEMA • SIT

(L’iscrizione è riportata in Armellini, op. cit., p. 462).
È meraviglioso, nello spirito del Medioevo, quest’anatema lanciato contro colui che avesse trafficato da questo putealpoiché questa sola simboleggiava l’acqua della grazia, la quale non poteva essere venduta per della moneta senza rendersi colpevole di simonia.
Il testo di Ezechiele, letto in questo giorno (Ez 1, 10-14), descrive i simboli dei quattro Vangeli, che, dettati dallo stesso Spirito, riflettevano in un quadruplice raggio la luce e la saggezza del Verbo eterno di Dio. Quando l’occhio umano, oscurato dal velo dell’infedeltà e delle passioni, volle leggere la Sacra Scrittura, lo stimò senza dubbio il libro più semplice e puerile che si potesse immaginare. Al contrario, con una fede umile, quando l’occhio puro e forte del credente si fissa su queste sacre pagine, la vista resta come abbagliata da tale luce divina, e l’intelletto creato, penetrando i segreti della Sapienza increata, sente la vanità di tutti i ragionamenti umani. È a questo stato di sublime ignoranza che fu elevato san Paolo – e dopo di lui molti altri santi - di cui dichiara non trovare nel linguaggio terreno né parole né concetti atti ad esprimere ciò che ha visto.
Il Vangelo di oggi è simile a quello della festa di san Tito, il 6 febbraio, ed è il testo della vocazione e della missione dei settantadue discepoli del Salvatore. Secondo ogni probabilità, Marco non fu di questo numero, ma chiamato più tardi al seguito del Signore, compì anche lui perfettamente le opere dell’apostolato.
Degli storici recenti hanno voluto vedere nei documenti scritturistici qualche allusione al carattere un poco timido di san Marco.
Quando, la sera dell’arresto di Gesù, il giovane (νεανίοκος) Marco, fu svegliato di soprassalto dal suo sonno, uscì semplicemente sulla strada avvolto nel suo ampio lenzuolo di tela, fu fermato, ed egli, tutto spaventato, si sbarazzò abilmente del lenzuolo e scappò nudo dalle mani dei soldati.
La tradizione identifica questo misterioso ragazzo, appunto, con lo stesso evangelista, il quale avrebbe inserito così nel suo Vangelo un episodio autobiografico. Alcuni Padri vi vedono lo stesso san Giovanni evangelista o anche Giacomo, il fratello del Signore. In epoca moderna, gli esegeti vi hanno visto persino Giovanni Battista o Lazzaro o Pietro o Paolo o un non meglio identificato altro testimone oculare. Altri autori vi hanno scorto un personaggio simbolico, cogliendo una similitudine con il patriarca Giuseppe, che preferì rimanere fedele a Dio fuggendo nudo piuttosto che cadere tra le braccia della moglie del suo signore Potifar. Una terza chiave di lettura vede nel personaggio un simbolo del battesimo, in quanto il catecumeno è invitato a spogliarsi dell’uomo vecchio per rivestirsi di Cristo al fine di poterlo seguire. Per una ricostruzione di queste diverse interpretazioni, Maurizio Compiani, Fuga, silenzio e paura: la conclusione del Vangelo di Mc. Studio di Mc 16, 1-20, Roma 2011, pp. 125 ss., partic. pp. 129-13; Giacomo Perego, La nudità necessaria. Il ruolo del giovane di Mc 14, 51-52 nel racconto marciano della passione-morte-risurrezione di Gesù, Milano 2000, partic. pp. 25 ss.
Sta di fatto che quest’incidente dovette tuttavia impressionare molto il giovane Marco e dovette influire sul suo carattere timoroso; era fatto piuttosto per lavorare docilmente in una posizione subordinata che assumere la responsabilità di iniziative ardite.
Nato probabilmente a Cipro ed allevato in seno ad una famiglia distinta di Gerusalemme (la madre si chiamava Maria), ed essendo cresciuto tra gli Apostoli, il giovane Marco (il cui nome era in realtà Giovanni mentre Marco era il nome verosimilmente il patronimico), accompagnò suo cugino Barnaba e san Paolo nella loro prima missione apostolica in Panfilia e finì per perdere coraggio a causa dell’audacia dei due missionari giudei, che, in terra pagana, trattavano liberamente coi Gentili esecrati dalla Torah, facendoli parte all’eredità dei figli di Abramo.
In questa circostanza, Marco sentì che non era ancora suonata la sua ora per questo servizio di avanguardia, e, congedandosi dai due missionari, tornò al porto tranquillo di Gerusalemme. Tuttavia portava il germe della vocazione all’apostolato, ed è per questo che non si sentì a riposo nella pacifica dimora del Cenacolo.
Qualche tempo dopo lui volle fare come ammenda onorevole di quella che egli considerava come una debolezza e propose ai due apostoli di accompagnarli nella loro seconda missione. Ma questa volta, Paolo che conosceva il carattere ancora insufficientemente maturato di Marco, temé che la sua presenza fosse piuttosto un ostacolo che un aiuto per la conversione dei greci, e rifiutò di accettarlo (At 15, 38); perciò partì senza suo cugino nella direzione di Salamina.
Quando infine, nel 61-62, Paolo è prigioniero a Roma, ritroviamo al suo fianco l’evangelista Luca e Marco, il quale, dopo una breve assenza in Asia Minore ed a Colossi, grazie alla seconda lettera inviata a Timoteo, è chiamato di nuovo vicino a Paolo, come una persona mihi utilis in ministerium (2 Tim 4, 11). Si vede che il disaccordo momentaneo tra l’Apostolo, Barnaba e suo cugino, non aveva lasciato alcuna traccia in queste anime grandi e generose. Durante il viaggio di Paolo in Spagna, Marco dimorò a Roma e servì da interprete a Pietro, di cui, a domanda dei fedeli, mise in seguito per iscritto le catechesi, incentrate sulla dimostrazione della divinità e della potenza del Signore (di qui la rappresentazione dell’Evangelista mediante il leone, simbolo di forza e potenza, ma anche di resurrezione).
Dopo il martirio dei due Apostoli, un’antica tradizione riporta che Marco andò ad Alessandria, dove, all’inizio del IV sec., si vedeva il suo sepolcro.
La vicenda di Marco c’insegna che quando Dio chiama, non bisogna tirarsi indietro per timore del pericolo e della propria debolezza. In questo caso, la grazia ricopre i difetti della natura, come accadde, appunto, per il nostro santo. Il suo carattere era naturalmente timido ed ebbe un primo momento di debolezza quando fuggì nell’Orto, ma la grazia finì per prendere su di lui il sopravvento, tanto che divenne l’«interprete» di Pietro, l’Evangelista glorioso, l’apostolo dell’Egitto ed il fondatore del trono dei patriarchi di Alessandria, eredi cristiani della potenza degli antichi Faraoni.
I versi del papa Gregorio IV, sotto il mosaico absidale del titulus Marci in Pallacine non sono senza interesse:

VASTA • THOLI • PRIMO • SISTVNT • FVNDAMINE • FVLCRA
QVAE • SALOMONIACO • FVLGENT • SVB • SIDERA • RITV
HAEC • TIBI • PROQVE • TVO • PERFECIT • PRAESVL • HONORE
GREGORII • MARGE • EXIMIO • CVM • NOMINE • QVARTVS
TV • QVOQVE • POSCE • DEVM • VIVENDI - TEMPORA • LONGA
DONET • ET • AD • CAELI • POST • FVNVS • SYDERA • DVCAT

La volta dell’abside si eleva su un solido fondamento;
Come il tempio di Salomone, essa risplende, irradiata dal sole.
In Tuo onore, o vescovo Marco, si eleva questa volta
Colui, il quarto, porta l’illustre nome di Gregorio.
A tua volta, domanda per lui a Dio una lunga vita
E dopo la sua morte, il regno celeste.

Dunque, nel IX sec., questo tempio continuava ad essere dedicato, non all’Evangelista d’Alessandria, ma al MARCVS PRÆSVL, vale a dire al Papa che aveva fondato il Titolo de Pallacines e che vi era sepolto.

Andrea Mantegna, S. Marco, 1448-49 circa, Stadelsches Kunstinstitut, Francoforte

José (o Jusepe) Leonardo, S. Marco, 1630

Emmanuel Tzanes, S. Marco evangelista, 1657, Μουσείο Μπενάκη (Museo Benaki), Atene

Vladimir Lukich Borovikovsky, S. Marco, 1804-1809, Hermitage, San Pietroburgo

Johann Matthias Ranftl, Vergine col bambino in trono tra i SS. Marco ed Orsola e compagne martiri, 1854, collezione privata

Sytov Alexander Kapitonovich, Santo Evangelista Marco, 1995

La Chiesa copta, che si considera erede di S. Marco

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Beatificazione di gruppo per 80 preti uccisi dai partigiani comunisti

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Mentre il 25 aprile i laicisti italioti ricordano la c.d. liberazione, mentre i più ne approfittano per recarsi al mare o per rilassarsi, i cattolici fanno memoria dei martiri uccisi dai partigiani comunisti durante quegli anni drammatici (v. anche qui), così come avvenne nella Spagna comunista negli anni '30 del secolo scorso, durante la c.d. guerra civile.
Per ricordare nomi e date del martirio dei preti uccisi dai partigiani, v. qui.

«Beatificazione di gruppo per 80 preti uccisi dai partigiani comunisti»

di Andrea Zambrano

«Questi sono i nostri beati». È questa l'ambiziosa “proclamazione” che il mensile di apologetica cattolica Il Timone propone ai lettori in occasione del 70esimo anniversario della Liberazione. Un dossier accurato e coraggioso, quello del mese di Aprile, in cui si affronta partendo dalla storia del beato Rolando Rivi, ucciso dai partigiani comunisti in odio alla fede sul finire della seconda guerra mondiale, le storie degli altri preti uccisi dalla violenza rossa. E ci si chiede che fare della loro memoria adesso che la Chiesa, con la beatificazione del seminarista martire, ha sancito che nel biennio '44-'46 si moriva in odium fidei.

È nato così un dossier di 12 pagine nel quale raccontare le storie degli oltre 80 preti uccisi dai partigiani la cui morte può essere attribuita a odio politico religioso. L'ambizione, spiega già nel titolo il mensile è chiara: «Proporre la beatificazione collettiva: saranno i nostri martiri del Triangolo della morte».

L'operazione è trasparente: «Dei 150 preti uccisi dalla violenza rossa, nel clima di vendette e ritorsion, un buon numero trovò la morte perché apertamente simpatizzante del Regime fascista e dunque compromesso, anche se un prete ucciso, da una parte o dall'altra, porta sempre dietro di sé un aberrante sacrilegio. Pochi cadono vittime di errori e vendette personali per questioni banali: eredità, prestiti etc...». «Ma c'è un numero – fa notare la rivista – che una ricerca storica degna di tal nome deve incaricarsi di definire in maniera scientifica e che attualmente si aggira sulle 70-80 unità che trova la morte in un contesto ideologico-politico».

In sostanza, secondo quanto ricostruisce il Timone, furono uccisi perché tenacemente anticomunisti. Avevano capito che mentre si combatteva la guerra di Liberazione le formazioni marxiste stavano utilizzando quel vasto movimento insurrezionale in vista di un'imminente rivoluzione comunista. Si tratta per lo più di preti emiliani e friulani, uccisi perché dal pulpito condannavano non solo le aberrazioni della guerra, ma anche l'ideologia marxista che ispirava i princìpi di molte brigate partigiane.

Il dossier si avvale di testimonianze di preti scampati ad agguati che erano finiti nella lista nera, come quella di don Raimondo Zanelli, oggi 85enne. Ma anche di documenti, tra cui lettere e diari, in cui viene mostrata la pianificazione strategica della caccia al prete da parte dei partigiani comunisti che non accettavano un disimpegno nella causa della Resistenza da parte di quei preti che non condividevano le impostazioni ideologiche delle Brigate Garibaldi.

Ma la parte centrale del dossier racconta le storie di religiosi il cui ricordo oggi rischia di perdersi defintivamente con la morte degli ultimi testimoni. Da don Luigi Lenzini, la cui causa di beatificazione è già a Roma a don Umberto Pessina, ucciso per il suo zelo anticomunista e sulla cui morte la giustizia ha detto una parola definitiva solo 40 anni dopo aver vinto la cortina di fumo del Pci che conosceva i veri assassini e lasciò condannare un innocente. Ma c'è anche don Francesco Bonifacio, il santo degli infoibati. Senza dimenticare le storie di don Augusto Galli, ucciso perché nella lista nera e infamato successivamente con l'attribuzione di un'amante, e don Giuseppe Iemmi, che dal pulpito condannò l'uccisione di un fascista e venne freddato dai partigiani.

Le accuse per coprire quelle uccisioni venivano sempre giustificate attraverso un canovaccio che molto spesso ha retto alla prova degli anni anche per l'assenza di rigorosi processi giudiziari. Per alcuni lo spionaggio ai nazifascisti, per altri l'infamia di un'amante, per altri ancora l'attività anti-resistenziale o anche solo aver ospitato in canonica un fascista in fuga. Accuse politiche dunque. Ma come fa notare don Nicola Bux nel suo contributo, «per diminuire la portata del sacrificio dei cristiani fin dai tempi di Gesù, si è cercato di giustificare le uccisioni per motivi politici e non per odium fidei. In realtà le due cause si fondono perché l'amore per la Patria è una virtù cristiana e perché nel sangue dei sacerdoti uccisi anche di quelli di cui non si conosce neppure il nome è presente una teologia della persecuzione che ha sempre accompagnato la vita della Chiesa».

Ma c'è anche un aspetto che a 70 anni merita di essere ricordato: è la straordinaria avventura dei partigiani bianchi, cattolici, che morirono gridando “Viva Cristo Re” e che a differenza dei partigiani comunisti – come spiega lo storico Alberto Leoni – «agivano nel rispetto della popolazione civile». Si fanno largo le storie di Giuseppe Cederle o Aldo Gastaldi “Bisagno”, ma anche di Franco Balbis. E non possono mancare le vicende epiche dei partigiani uccisi da altri partigiani, come il caso del comandante cattolico della Sap di Reggio Emilia Mario Simonazzi “Azor” i cui assassini, certamente partigiani, non vennero mai trovati. A indagare sulla sua morte una figura straordinaria di cattolico, partigiano e giornalista: Giorgio Morelli, che diede vita ad un'avventura editoriale con la Nuova Penna, nella quale per primo denunciò le uccisioni ad opera dei partigiani comunisti nel Triangolo della morte. Per questo suo impegno venne fatto oggetto di un agguato e morì per le conseguenze dello sparo poco tempo dopo. Anche lui un martire del Triangolo rosso. 

Card. Burke: “Vorrei andare al Papa e dirgli le mie ragioni di coscienza, che vorrei seguire la verità, e nello stesso tempo desidero essere servo obbediente della Chiesa”

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Il Card. Burke ribadisce, in una recente intervista al quotidiano tedesco, Die Welt (il testo, in lingua tedesca, è leggibile qui e qui), il suo pensiero sul Sinodo e non risparmia – a giusto titolo – le sue critiche al suo “collega”, il card. Marx, che all’inizio dell’anno si era espresso in maniera decisamente eterodossa e di cui anche noi avevamo dato conto (v. qui).

Cardinal Burke criticizes German cardinal’s ‘ridiculous’ claim that German Church is not a ‘subsidiary of Rome’


ROME, April 24, 2015 (LifeSiteNews.com) – In an interview today with the prominent German newspaper, Die Welt, Cardinal Raymond Burke criticized Cardinal Reinhard Marx, who suggested German Catholic dioceses are not a “subsidiary of Rome” on the question of Communion for ‘remarried’ couples.
“I have not read Marx' declaration verbatim, but of course formulations like 'subsidiary of Rome' are ridiculous,” said Burke. “We are all oriented toward Peter, that is the unity of the Catholic Church. 'Subsidiaries’ – that is the language of business, that does not belong to the Church. That is where obedience counts.”
When asked about his resistance at the Extraordinary Synod of Bishops on the Family in Rome against effectively allowing a secular divorce for the Catholic Church, Burke responded: “Because we are not allowed to. We are bound to the teaching of the Church and her disciples. But, some synod fathers – and prominently among them Cardinal Walter Kasper – wanted to change exactly that.”
The interviewer claimed that Pope Francis himself supported the change, saying Burke “had resisted several times the path of opening toward the remarried and the homosexuals that has been supported by Pope Francis.” He asked Cardinal Burke what he would do if the pope “decides now against the indissolubility of marriage.”
Cardinal Burke replied: “I would have to go to the pope and tell him my conscientious reasons that I wish to follow the truth and in the same time wish to be an obedient servant of the Church. Obedience is such a high virtue.”
“I would have to speak in this case with the Holy Father, how I can stay loyal to the truth and in the same time not call off my obedience. But that is the reason why I speak so clearly because the Holy Father shall know that not all think like Cardinal Kasper.”
Cardinal Burke invited and called his audience to stand firm in the Faith, and to defend “the natural law, upon which the Church leans, because there is also now much confusion.” Burke referred here to the gender debate, and he said: “We are either man or woman, masculine or feminine, and true happiness stems from accepting and developing our sexual nature.” He continued: “The homosexual tendency is a form of suffering that afflicts certain people. […] But I do not believe that homosexuality is genetically caused. It depends much upon the environment. In my parish, I had homosexual couples who were very unhappy about their sexual life.”
Cardinal Burke stressed that one wants to strengthen virtues like loyalty and self sacrifice, “but this may not lead to a support of such sexual acts” as in homosexual relationships. He said: “A marital bond is only possible between people of different sexes. From the point of view of the Church, there can not exist a marriage between homosexuals.”
The cardinal also reminds the secular world at the end of his interview with Die Welt of the important role of the Catholic Church for the whole world: “Because she [the Church] keeps alive the consciousness of the dignity of man, because she respects life, the creation, because she holds sacred marriage and the family, because she knows repentance and forgiveness. A Lutheran recently said to me: 'We on our part have abolished the indissolubility of marriage, but I have always hoped that you Catholics will uphold it.”

“Tanta in ejus péctore alebátur divínæ caritátis flamma, ut indúsium quod erat cordi própius, sæpe véluti igne adústum, et binæ cóstulæ elátæ apparúerint” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI PAULI A CRUCE, CONFESSORIS ET FUNDATORIS

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Quest’apostolo dei tempi moderni, al secolo Paolo Francesco Danei, potente in opere ed in parole, e che rinnovò nelle sue predicazioni i prodigi dei primi anni della Chiesa, passò al Signore il 18 ottobre 1775 e fu sepolto nel Titolo di Pammachio, in cui oggi si celebra la sua festa solenne. Tuttavia, siccome il 18 ottobre è consacrato a san Luca, Pio IX decretò che la memoria di san Paolo della Croce fosse celebrata in tutta la Chiesa alla data del 28 aprile. Questo avvenne nel 1869, epoca in cui la tradizione liturgica era poco studiata e, nella pratica, era negletta. Ed è così che la messa di san Vitale, che è riportata da tutti gli antichi documenti e che appartiene davvero al fondo liturgico tradizionale della Città eterna, scomparve e non si conservò che la sua commemorazione.
Roma cristiana ha dedicato al nostro Santo una chiesa nel 1983 nel suburbio Gianicolense. La chiesa, dal 1985, è titolo cardinalizio (San Paolo della Croce a Corviale).
La messa di san Paolo, considerata sotto l’aspetto della sua composizione, ha tutti i meriti e tutti i difetti delle messe moderne. Il suo redattore non ha tenuto alcun conto del carattere musicale e salmodico delle antifone e dei responsori dell’Introito, dell’offertorio, ecc., tutte scelte che ignorava probabilmente.
Ha spigolato dunque semplicemente nelle epistole di san Paolo e di san Pietro dei testi relativi a Gesù Crocifisso e li ha disposti abilmente, come un mosaico, nella sua composizione. È così che nel Graduale si va dalla Lettera ai fedeli di Galazia a quella ai Corinzi e da questa alla secunda Petri; nel Tratto, si va da Pietro ai Corinzi e poi agli Ebrei, dimenticando totalmente che si tratta di parti liturgiche ritmiche e musicali per loro natura. In compenso, la composizione respira l’amore ed eccita alla devozione verso la Passione del Salvatore.
Il testo della prima lettura è quasi identico a quello della messa di san Giustino e forse è più adatto rispetto a quella. La congregazione religiosa fondata da san Paolo della Croce non si dedica alle opere parrocchiali, alle scuole né agli istituti di educazione, ma i suoi membri vanno di preferenza a predicare delle missioni nelle campagne e nelle povere borgate, annunciando Gesù Crocifisso ai peccatori. Bisogna notare che i Passionisti, oltre ai voti religiosi abituali, emettono nella loro professione quello di propagare tra i fedeli la devozione alla Passione del Salvatore.
La lettura del Vangelo è presa dalla festa da san Marco. Come non commuoversi al ricordo di questo nuovo apostolo del Crocifisso nel XVIII sec. che lo predicava tra le più dure penitenze e viaggiava sempre a piedi nudi! Capitò talvolta che in piena foresta i briganti loro stessi, inteneriti, stendessero i loro mantelli al passaggio di san Paolo della Croce, affinché i suoi piedi non fossero feriti dalle spine.
Si racconta, infatti, che un giorno col fratello andava in missione verso una località chiamata Montiano, quand’ecco, ad un tratto alcuni briganti a cavallo passarono accanto a loro. Il padre Paolo li salutò e parlò loro soavemente di Dio. Commossi i briganti invitarono i missionari a salire sui loro cavalli, tanto più che i piedi di quei padri erano insanguinati dagli sterpi che ostacolavano la via. Padre Paolo sorrise, ma non accettò. Fu un lampo: scesi da cavallo, i due banditi stesero a terra i loro mantelli, affinché i servi di Dio vi potessero passare sopra. Durante l’intera missione, in fondo alla Chiesa, padre Paolo, mentre predicava, scorse i due briganti e, terminata la missione, vennero a confessarsi, uno dopo l’altro, dal Santo, rinunciando al loro mestiere criminoso, conducendo da allora un’esemplare vita cristiana (Luigi-Teresa di Gesù Agonizzante, S. Paolo della Croce, Roma 1952, cap. XXIX).
La vita attiva della Chiesa proviene dalla sua vita di preghiera e di contemplazione; è un’illusione perniciosa dunque credere che si possa illuminare gli altri se prima non bruci in sé stessi la fiamma del santo amore. San Paolo della Croce e san Leonardo da Porto-Maurizio furono in Italia i due più grandi restauratori della vita apostolica nel XVIII sec.; l’uno e l’altro compresero che, per produrre degli apostoli e dei missionari, il ritiro dalla vita, la solitudine, il raccoglimento dello spirito, la rigida povertà, l’austera penitenza sono necessari; così san Paolo istituì la Congregazione dei Passionisti lontano dai rumori delle città e tra le rocce solitarie del Monte Argentario. Quanto a san Leonardo, egli si fece il promotore, in seno alla famiglia serafica, di una riforma particolare, adottata dai Conventi detti di ritiro, e che contribuì grandemente a mantenere vivo nei Minori l’ideale francescano primitivo.






Autore anonimo, S. Paolo della Croce, XIX sec., Museo diocesano, Viterbo

Ignazio Tosi, S. Paolo della Croce verga le regole dei Passionisti, XIX sec., Accademia Urbense, Ovada


Pietro Maggi, S. Paolo della Croce in gloria, 1853, museo diocesano, Alessandria

Autore anonimo, Predica di S. Paolo della Croce mentre un angelo gli suggerisce le parole, XIX sec., museo diocesano, Civitavecchia-Tarquinia

Presto santa la Piccola Araba del Medio Oriente

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Sarà canonizzata il prossimo 17 maggio a Roma la beata Mariam (o Miriam)  Baouardy, "la piccola santa araba". Nata da genitori cattolico-melkiti, rimase presto orfana ed affidata ad uno zio paterno, di carattere ingiusto e violento.
Quando verso i tredici anni, lo zio, secondo il costume, senza consultarla, la fidanzò ad un egiziano, questa rifiutò. Lo zio, allora, molto contrariato, la considerò non più come nipote, ma come una domestica. Un giorno si trovò presso una famiglia islamica ed il padrone di casa, cominciando a biasimare la fede cristiana, invitò la ragazza a diventare pur'ella musulmana. Questa rifiutò e l'uomo, afferrata una scimitarra, le tagliò la gola. Pensando di averla uccisa, aiutato dai suoi parenti, avvolto il corpo lo depose in un luogo appartato. Era il 7 novembre 1858.
La ragazza più tardi raccontò che le sembrava di essere morta ed accolta in Paradiso dov'erano anche i genitori. Ma le fu detto che la sua esistenza non era ancora conclusa. Fu allora che si svegliò in una grotta, stesa su un letto, con a fianco una misteriosa religiosa vestita d'azzurro, che, silenziosamente e con affetto, dopo averle ricucito la ferita al collo, l'assisté amorosamente per tutta la convalescenza. Alla fine, le predisse che sarebbe diventata figlia carmelitana e sarebbe morta a Betlemme.
In seguito, più volte visitata da medici, anche atei, tutti constatarono come quella ferita sul collo, di circa una decina di centimetri, era davvero inspiegabile e che Mariam, secondo le leggi della natura, non avrebbe potuto sopravvivere ad un fendente come quello ricevuto, che aveva reso la voce della Santa per sempre rauca.
Dopo molte peripezie, riuscì a diventare monaca carmelitana, dove assunse il nome religioso di Maria di Gesù Crocifisso. Ma la sua vita religiosa non fu facile: sebbene arricchita da doni mistici e dalle stigmate, fu sempre vessata dal demonio. Addirittura, accettò dal Signore la prova di essere posseduta dal diavolo dal 26 luglio al 4 settembre 1868.
Durante quel periodo, nel quale dové molto soffrire ed offrire quelle sofferenze al Signore in espiazione per i peccati degli uomini, 
Durante gli esorcismi si voleva forzare il demonio, che possedeva la Santa, a parlare in latino: "No, no", disse, "non consentirò mai: questa lingua maledetta mi fa soffrire molto, è contro di me". Evidentemente il diavolo ben sapeva il carattere sacro che aveva la lingua latina e che Paolo VI cinquant'anni fa volle abolire dalla liturgia .... . 


 (cliccare sull'immagine per il video)

Per prepararci alla festa liturgica di S. Caterina da Siena - dal film "Io, Caterina" del 1957

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Prima delle mielose salse televisive, i film sui Santi erano - sebbene talora semplicistiche nelle ricostruzioni - di carattere ......
Questo film del '57 è un rifacimento di una precedente pellicola del 1947. Questo film di Oreste Palella narra la vita di Santa Caterina da Siena, dalla sua fanciullezza fino alla morte, passando dai giorni della sua missione più ardua, riportare il Papa a Roma dalla "cattività avignonese". Numerose furono gli esterni girati nelle nostre terre: Siena (Via del Costone, Duomo, Fortezza medicea, Palazzo Pubblico, Porta San Marco ecc.); Montalcino (Fortezza); Monteriggioni (Castello); San Gimignano (La Rocca).





La pellicola può vedersi per intero qui.


“Tanto fídei ardóre incénsus erat, ut pro ea mortem subíre optáret, eámque a Deo grátiam eníxe precarétur. Itaque hærétici necem, quam is paulo ante concionándo prædíxerat, illi intulérunt” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI PETRI (VERONENSIS) MARTYRIS

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Questo santo Domenicano (+ 1252), martire della fede nelle sue funzioni di inquisitore contro gli eretici manichei, fu molto onorato nel XV sec. in Italia, in cui si contava un buon numero di altari e di immagini in suo onore. L’introduzione della sua festa nel calendario della Chiesa universale risale a Sisto V; san Pio V l’aveva omessa nella nuova riforma del Breviario da lui promulgato.
La messa è quella del Comune dei Martiri nel tempo pasquale: Protexisti, come il 24 aprile, ma le collette sono proprie.
L’epistola è quella del Comune dei Martiri fuori del tempo pasquale; è stata scelta non solo perché tratta della risurrezione del Cristo, ma anche perché, descrivendo le difficoltà della vita, le persecuzioni e le pene sopportate da Paolo e da Timoteo nella diffusione della fede cristiana, traccia anche il programma di vita di ogni vero operaio evangelico. Quasi male operans. Ecco l’idea che il mondo si fa dell’apostolo di Cristo, e, sotto quest’imputazione, lo condanna a morte. Paolo osserva tuttavia che non si può incatenare la parola di Dio. Il martire è un seme di nuovi cristiani, e per un confessore della fede che è messo a morte, spuntano cento altri che continuano la sua opera.
La fede è il tesoro più prezioso non solo per ogni anima in particolare, ma anche per gli Stati e per il mondo in generale. In tempi profondamente religiosi, come il Medioevo, l’eresia era considerata come un crimine contro la fede e contro lo Stato e, dopo l’anatema della Chiesa, era punita, dal giudice laico, con le pene più gravi del codice penale. Chiunque abbia conoscenza degli orrori delle guerre religiose dovute ai discepoli di Lutero in Germania, ai Calvinisti ed agli Ugonotti in Francia, non potrà non lodare la prudente istituzione, per la Chiesa, dell’inquisizione che – salvo le deviazioni, per uno scopo politico, imposte dal governo spagnolo – doveva, nell’intenzione dei papi, proteggere l’unità religiosa e sociale della cristianità tutta intera.
È per questo che la repressione della propaganda eretica a cura dell’inquisizione era considerata veramente come un Sanctum Officium, poiché, salvaguardando il più grande bene che possiedono i popoli, cioè la fede, allontanava dagli Stati quei germi di odio, di rivoluzioni e di guerre, che così spesso nascono dalle dispute religiose.

Lorenzo Lotto, Madonna con Bambino, SS. Giovannino e Pietro martire, 1503, Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli

Sebastiano Ricci, S. Pio V tra i SS. Tommaso d’Aquino e Pietro martire, 1730-33, Santa Maria del Rosario (Gesuati), Venezia

“Doctrína ejus infúsa, non acquisíta fuit; sacrárum litterárum professóribus difficíllimas de divinitáte quæstiónes proponéntibus respóndit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTÆ CATHARINÆ SENENSIS VIRGINIS ET PRIMARIAE ITALIAE PATRONAE

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Il nome di questa Santa appartiene a Lui solo ed odora di un profumo di purezza verginale. Novella Deborah del Nuovo Testamento, risplendé nella Chiesa come una profetessa, restauratrice della Sede pontificale a Roma, oracolo dei papi e dei principi, mediatrice di pace tra i popoli in lotta, maestra chiarissima di numerose anime sulla strada della più sublime santità, prodigio di mortificazione, vittima dell’amore divino, la cui la fiamma l’ha consumata a Roma prematuramente nel fiore della sua giovinezza, ad appena trentatré anni (+ 29 aprile 1380).
Pio II, nella bolla di canonizzazione della Santa, ordinò di celebrare la sua festa la prima domenica di maggio. Clemente VIII la trasferì a questo giorno, che segue immediatamente quello della sua morte.
La messa è quella del Comune delle Vergini, come il 10 febbraio; tuttavia le collette sono proprie; esse furono composte dal gesuita Terenzio Alciati sotto Urbano VIII.
Il corpo verginale di Caterina riposa dal 1855 sotto l’altare maggiore della splendida chiesa di Santa Maria sopra Minerva, a Roma (Cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 485-491; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 346-347). Un altro tempio è dedicato al suo nome presso il monte Quirinale, nel rione Monti, e conserva il ricordo della famiglia spirituale dei Terziari domenicani che si erano raccolti intorno a lei (cfr. Armellini, op. cit., pp. 176-178). È la chiesa di Santa Caterina a Magnanapoli, che, attualmente, è la chiesa dell’ordinariato militare italiano.
Menzioniamo anche la piccola chiesa che si eleva a suo nome sulla via Giulia ed è legata all’arciconfraternita dei senesi, a cui oggi ancora appartiene (cfr. ibidem, p. 423; Huelsen, op. cit., p. 530).
Sul luogo dove morì la Santa nel 1380, di fronte al convento di Santa Chiara, fu eretto un monastero di domenicane, poi spostatosi, per ordine di san Pio V, a Magnanapoli, rimanendovi solo la cappella di santa Caterina (cfr. Armellini, op. cit., p. 491; Huelsen, op. cit., pp. 530-531).
Nel 1942, nel quartiere Gianicolense, presso la stazione di Trastevere, fu eretta la chiesa dei Santi Francesco e Caterina, Patroni d’Italia.
La Confessione di San Pietro, in Vaticano, è ancora tutta impregnata del suo virginale profumo. Caterina, negli ultimi mesi della sua vita, vi passava una buona parte delle sue mattinate, assorta in preghiera per il bene della Chiesa, al quale si era consacrata come vittima.
L’anima per la quale Dio è tutto ha pochi bisogni, ed il segno che possediamo veramente il Signore nel nostro cuore consiste nel fatto che il nostro spirito è staccato dei numerosi bisogni, piccole miserie e necessità che ci crea spesso la nostra mollezza e la nostra poca mortificazione. Santa Caterina passò una volta senza mangiare nulla dalla Quaresima al tempo successivo fino alla Pentecoste, nutrita unicamente dell’alimento sacramentale. Tuttavia, anche senza ricorrere a questi prodigi di penitenza, è certo che si nota come nella vita di tutti i santi quanto i loro bisogni erano ridotti, in proporzione inversa dell’imperiosa fame di Dio che provava la loro anima.
Figlia mia, tu pensa a me ed io penserò a te”, disse un giorno il Signore a santa Caterina da Siena: «Ceterum præfatæ nimis notandæ doctrinæ aliam valde notabilem addit Dominus: quæ, si non fallor, ex ipsa deducitur inclusive. Ait enim, dum alia vice ei apparuit: Filia, cogita de me: quod si feceris, ego cogitabo de te incunctanter» («Alla eccellente dottrina esposta, il Signore ne aggiunge un’altra, degna di nota, la quale, se non sbaglio, è una conseguenza della prima. Le riapparve infatti più tardi e le disse: “Figliola, pensa a me: se lo farai, io penserò subito a te”») (Beato Raimondo da Capua, Vita Catharinæ Senensis o Legenda major, parte I, cap. VI, § 97, in Acta Sanctorum, Aprilis, vol. III, Dies 30, Parigi-Roma 1866, p. 886. Cfr. anche Legenda minor, in Mélanges d’archéologie et d’histoire, 1912, p. 426: «Porro aliam doctrinam dedit Christus virgini dicens: filia cogita de mequod si facies etego cogitabo de te incunctanter»). Abbiamo, dunque, fiducia in Dio, sposiamo gli interessi della sua gloria, ed Egli si occuperà di quelli della nostra salvezza.



Melchiorre Caffà, Estasi di S. Caterina, 1666, Chiesa di Santa Caterina da Siena a Magnapoli, Roma

Carlo Dolci, S. Caterina, 1665-70, Dulwich Gallery, Londra

Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato, S. Caterina riceve da Gesù la corona di spine, XVII sec.


Fray Juan Bautista Maíno, S. Caterina da Siena, 1612-14, museo del Prado, Madrid



Giovanni Battista Tiepolo, S. Caterina da Siena, 1746, Kunsthistorisches Museum, Vienna



Pompeo Batoni, Estasi e stigmatizzazione di S. Caterina da Siena, 1743, Museo di Villa Guinigi, Lucca

“Sapiéntia réddidit justis mercédem labórum suórum, et dedúxit illos in via mirábili, et fuit illis in velaménto diéi et in luce stellárum per noctem” (Sap. 10, 17 – Intr.) - SANCTI JOSEPH OPIFICIS, SPONSI BEATÆ MARIÆ VIRGINIS

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Dopo aver riconosciuto ufficialmente le associazioni cristiane dei lavoratori italiani l’11 marzo 1945, Pio XII, rivolgendosi il 1° maggio 1955 a 200.000 lavoratori raccolti sulla Piazza San Pietro a Roma, dichiarò loro che istituiva una festa di san Giuseppe, lavoratore. Questa festa sarebbe stata celebrata ogni anno il 1° maggio in modo da poter esercitare, su tutti i lavoratori senza eccezione, la sua benefica influenza nel senso voluto dal Vangelo e preconizzato dalla Chiesa.


Essa, tuttavia, istituita nel 1955 e volta a rimpiazzare quella del Patronato di san Giuseppe il mercoledì della II settimana dopo l’Ottava di Pasqua, fu un insuccesso pastorale. All’infuori del commento di sant’Alberto Magno nel Mattutino (III Notturno), possiamo constatare quello che diviene la liturgia quando essa è considerata non più come lo scopo della pastorale, ma come un semplice strumento di questa.
Roma cristiana ha ricordato la figura del lavoratore san Giuseppe dedicandogli diversi luoghi di culto. Tra queste la Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, eretta nel rione Campitelli, presso il Foro romano, al di sopra del Carcere Mamertino, alla fine del XVI sec. ad opera della Congregazione dei Falegnami (Cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 539-540). Essa è stata istituita come diaconia nel 2012 col titolo di San Giuseppe dei Falegnami.
Nel quartiere Collatino, è stata eretta, nel 1958, la chiesa di San Giuseppe Artigiano.



Georges La Tour, Gesù Bambino nella bottega del padre carpentiere, 1642-45, Musée du Louvre, Parigi


Gerrit van Honthorst detto Gherardo delle Notti, Il Bambino Gesù nella bottega di S. Giuseppe, 1618-20, Hermitage, San Pietroburgo

Gerrit van Honthorst detto Gherardo delle Notti, S. Giuseppe legge a lume di candela (nella sua bottega), 1610-15, Chiesa di San Francesco a Ripa, Roma

Gerrit van Honthorst detto Gherardo delle Notti, Sacra Famiglia nella bottega di carpenteria di S. Giuseppe, 1610 circa



John Rogers Herbert, Il Salvatore soggetto ai suoi genitori a Nazaret, 1860

“Clamavérunt ad te, Dómine, in témpore afflictiónis suæ, et tu de cælo exaudísti eos” (Neh. vel 2 Esdr. 9, 27 – Intr.) - Ss. PHILIPPI ET JACOBI APOSTOLORUM

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Originariamente, l’apostolo Giacomo, festeggiato in questo giorno, il mese mariano, a Roma (e questo concordava con la tradizione orientale e con il Lezionario siriano di Antiochia, che lo ricordano il 30 aprile), era Giacomo il Maggiore, fratello di Giovanni, che fu in effetti messo a morte durante la festa di Pasqua (cfr. Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 234).
Tuttavia, poiché tra gli apostoli ed i discepoli del Signore vi erano più Giacomo e poiché il 1° maggio, a Roma, si festeggiava la dedicazione dell’«Apostoleion», in cui erano deposte alcune reliquie degli apostoli Filippo e Giacomo il Giusto, figlio di Alfeo, questi, col tempo, eliminò il suo omonimo, che trovò una nuova collocazione il 25 luglio. La tradizione siriaca assegna la data del 27 dicembre alla morte di san Giacomo, primo vescovo di Gerusalemme ed, in quel giorno, si festeggia anche san Giovanni Evangelista.
La stessa incertezza regna con riguardo a san Filippo festeggiato oggi. Un’antica tradizione liturgica romana l’identificava con il Filippo Evangelizzatore di Cesarea, che battezzò l’eunuco della regina degli Etiopi; tuttavia questi era uno dei sette primi diaconi ellenisti di Gerusalemme, che bisogna distinguere dall’Apostolo dello stesso nome.
Malgrado queste oscillazioni della tradizione, è tuttavia dimostrato che l’Apostoleion romano, iniziato da Giulio I, ricostruito da Pelagio I, fu dedicato da Giovanni III alla memoria di tutti gli Apostoli e, in particolare, di Filippo e Giacomo; in modo che i due titoli: Ad Sanctos Apostolos o Basilica Apostolorum Philippi et Jacobifurono l’uno e l’altro in uso per qualche tempo. Finalmente il titolo liturgico dei Santi Apostoli prevalse ed è questo che ha corso attualmente (Cfr. Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 201-202).
L’iscrizione absidale ricordava un tempo la storia dell’edificio:

PELAGIVS • COEPIT • COMPLEVIT • PAPA • IOHANNES
UNVS • OPVS • AMBORVM • PAR • MICAT • ET • PRAEMIVM

Nel 1873, in occasione del restauro generale del tempio, si ritrovò, sotto l’altare principale, l’antico sarcofago delle reliquie, deposte là dal papa Giovanni III (561-574), il quale aveva scelto quale giorno della dedicazione scelse il 1° maggio, già consacrato alla memoria di san Filippo (J. Noret, La Dédicace des SS. Apôtres Philippe et Jacques, in Analecta Bollandiana, 91 (1973), p. 378). Il sarcofago conteneva qualche frammento di osso, dei residui di borse di seta e di sostanze aromatiche e di balsami (MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 250-251).
Le reliquie, per la verità, erano già state rinvenute nel VII sec. e deposte nella Basilica e furono riscoperte, per l’esattezza, il 15 gennaio 1873. Esse appartenevano a due distinti individui. Quello di corporatura più robusta, del quale si conservavano solo scaglie e frammenti ossei, anche se in quantità consistente, oltre a un femore presente ab immemorabili in Basilica, fu identificato con Giacomo il Minore. Il 9 maggio 1879 le reliquie furono deposte in un’arca di bronzo all’interno di un sarcofago di marmo che venne collocato nella cripta della chiesa, al di sotto dell’altare centrale e del luogo dove erano state rinvenute; e lì sono anche oggi. Il primo di maggio si svolgeva nella basilica la solenne cerimonia dell’Ostensione delle Reliquie e, tra queste, si veneravano il piede di Filippo e la gamba di Giacomo. Al tempo della dedicazione della basilica, operata da Giovanni III, a queste reliquie furono unite parte delle spoglie di Giacomo il Minore, provenienti da Gerusalemme o da Costantinopoli. A Santa Maria in Trastevere si venera una reliquia di un braccio di Giacomo (il minore).
Tuttavia, i versi seguenti narrano al popolo la storia e le glorie dell’Apostoleionromano:

HIC • PRIOR • ANTISTES • VESTIGIA • PARVA • RELIQVIT
SVPPLEVIT • COEPTVM • PAPA • IOHANNES • OPVS,
LARGIOR • ET • EXISTENS • ANGVSTO • IN • TEMPORE • PRAESVL
DESPEXIT • MVNDO • DEFICIENTE • PREMI
FLVCTIBVS • HVMANIS • PORTVM • SCIT • FERRE • SALVTIS
CVI • SEMPER• CVRAE • EST • REDDERE • VOTA • DEO
NOMINE • CENSVRA • MENTE • ET • SERMONE • IOHANNIS
QVI • SIBI • COMMISSAS • PASCERE • NOVIT • OVES
HOC • OPVS • EXCOLVIT • QVO • PLEBS • FESTINA • RECVRRENS
ERIPITVR • MORSV • DILACERANDA • LVPI

Il suo predecessore [Pelagio] aveva appena cominciato quest’edificio,
(quando) il papa Giovanni lo terminò.
Il Pontefice di spirito largo, benché i tempi all’epoca fossero tristi,
Non fu fermato dal timore di essere portato nella catastrofe dal mondo intero.
Di fronte alle tempeste dell’umanità, istituì questo porto di salvezza,
Mentre il suo spirito elevava verso Dio una preghiera ininterrotta.
Fu veramente un secondo Giovanni, per il nome, l’austerità, i disegni, i discorsi;
Seppe condurre al pascolo il gregge a lui affidato.
Eresse questo asilo, dove si affrettò di mettere in sicurezza il popolo fedele,
Per strapparlo al dente del lupo.

E concludeva:

QVISQVIS • LECTOR • ADE • IACOBI • PARITERQVE • PHILIPPI
CERNAT • APOSTOLICVM • LVMEN • INESSE • LOCIS

Va segnalato che, identificata nel 2008, nel 2011, la Missione Archeologica Italiana diretta dall’archeologo Francesco D’Andria ha reso noto di avere riportato alla luce a Pamukkale, l’antica Hierapolis, in Anatolia occidentale, la tomba di San Filippo, uno dei dodici Apostoli (v. qui).
Roma cristiana, oltre alla Basilica dei Santi Apostoli, ha dedicato a San Filippo Apostolo una chiesa, in zona Fosso del Fontaniletto, nel 1956, inaugurata però nel 1992, ed affidata ai Padri Vocazionisti.
La messa composta per quest’occasione rivela bene il suo carattere di circostanza, soprattutto nell’introito, in cui si descrive la gioia e l’emozione dei Romani dopo che furono liberati da Totila ad opera dell’eunuco Narsete. Può darsi che questa condizione personale del grande capitano bizantino abbia influito sulla scelta di san Filippo, che si identificava a torto con colui che aveva battezzato l’eunuco di Candace, il Narsetedi quel tempo.
La lettura evangelica, come è regola del tempo pasquale, è un passo dell’ultimo discorso del divin Maestro, laddove risponde a Filippo che gli domanda di vedere il Padre (Gv. 14, 1-13). Il tempo presente è il tempo della fede e non della visione; conviene dunque di contentarsi di vedere il Padre e l’augusta Trinità per mezzo di Gesù Cristo, che, come Dio, è la perfetta immagine della divinità. Come Dio, Gesù è lo splendore della sostanza; come uomo, è l’esemplare più perfetto, che, meglio di tutti gli altri, riproduceva in una forma creata l’archetipo originale increato.
Molti dicono con san Filippo: Signore, mostraci il Padre, e ciò a noi basta. Ma si illudono molto sulle loro condizioni personali e credono che un amore sentimentale basti e tenga il luogo della purezza dello spirito e del distacco da tutte le cose create. Un atomo di polvere su l’occhio impedisce la vista e causa un grande dolore. Così è per l’anima: un affetto disordinato gli toglie la libera vista di Dio e gli causa un grande pregiudizio. Gerson diceva a questo riguardo: Omnis copia quæ Deus tuus non est, tibi inopia est.

Raffaello Vanni, Vergine col Bambino con i SS. Filippo e Giacomo minore, 1673 circa, Chiesa di S. Lorenzo degli Speziali in Miranda, Roma

Paolo Ve­ro­nese, SS. Gia­como Mi­nore e Fi­lippo, 1565, Na­tio­nal Gal­lery of Ireland, Dublino

Pieter Paul Rubens, S. Giacomo il minore, 1610-12, Museo del Prado, Madrid

Jusepe de Ribera, S. Giacomo minore, 1630-35, Museo del Prado, Madrid

Anonimo, S. Giacomo minore, 1635-65, Museo del Prado, Madrid

Pedro Orrente, Martirio di S. Giacomo il minore, 1639, Museo de Bellas artes, Valencia

Pompeo Batoni, S. Giacomo il minore, 1740-43, collezione privata

Angelo De Rossi, S. Giacomo il minore, 1705-11, Basilica di S. Giovanni in Laterano, Roma


Filippino Lippi, S. Filippo doma il dragone del tempio di Ierapoli, 1487-1502, Cappella Strozzi, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze

Filippino Lippi, Crocifissione di S. Filippo, 1487-1502, Cappella Strozzi, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze

Pieter Paul Rubens, S. Filippo, 1611-12 circa, Museo del Prado, Madrid

Jusepe de Ribera, S. Filippo, 1630-35, Museo del Prado, Madrid

Jusepe de Ribera, Martirio di S. Filippo, 1639, Museo del Prado, Madrid

Jan Philip van Thielen, S. Filippo circondato in una ghirlanda di fiori, 1651, Museo del Prado, Madrid

Francisco Rizi, Vergine con Bambino tra i SS. Filippo e Francesco d’Assisi, 1650, Chiesa dei Cappuccini, El Pardo


Giuseppe Mazzuoli, S. Filippo, 1703-12, Basilica di S. Giovanni in Laterano, Roma

Tomba di S. Filippo, Hierapolis, l'odierna Pamukkale



Interno della tomba di S. Filippo, Hierapolis, l'odierna Pamukkale






Tomba dei SS. Filippo e Giacomo minore, Basilica dei XII Apostoli, Roma

Per l'inizio del mese di maggio - Piccola galleria in onore della "Tutta Santa", della Παναγια

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