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Il Card. Burke a Brindisi e Lecce

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IL CARD. BURKE A LECCE E BRINDISI
CON IL CNSP

Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Raymond Leo Burke sarà a Brindisi e Lecce il 7 e l’8 maggio prossimi per due conferenze dedicate alla presentazione del volume “Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica”, che raccoglie scritti dei Cardinali Brandmüller, Müller, Caffarra, De Paolis, di mons. Vasil', dei professori Mankowski, Rist, Dodaro, e dello stesso Cardinale Burke.

Le conferenze, promosse dal CNSP - Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum, e organizzate in collaborazione col Comune di Brindisi e la Provincia di Lecce, si terranno secondo il seguente programma:
- giovedì 7 maggio 2015, h. 18,30: Brindisi, Sala conferenze Palazzo Granafei-Nervegna, via Duomo;
-   venerdì 8 maggio 2015, h. 18,30: Lecce, chiesa di San Francesco della scarpa, ex convitto Palmieri, piazzetta Carducci.

Il Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum ringrazia con profonda filiale gratitudine S. E. Rev.ma il Cardinale Burke per aver aderito con generosa disponibilità all’iniziativa, che si inserisce nelle attività promosse dal CNSP all’insegna del principio “Lex orandi, lex credendi”.
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Per informazioni: giuseppe.capoccia@gmail.com

“Cum vos, ínquiens, persecúti fúerint in civitáte ista, fúgite in áliam” (Apologia de fuga sua, ante medium – Lect. VII – III Noct.) - SANCTI ATHANASII, ARCHIEPISCOPI ALEXANDRINI, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS

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Il santo Epifanio vescovo di Cipro raccontò che, al tempo del beato Atanasio il Grande, le cornacchie volavano attorno al tempio di Serapide urlando incessantemente: «CrasCras!». Presentatisi al beato Atanasio, i pagani gridarono: «Vecchio infame, dicci che cosa urlano le cornacchie!». Egli rispose: «Gridano cras cras, che, nella lingua italica, significa domani». E aggiunse: «Domani vedrete la gloria del Signore». Il giorno seguente fu annunciata la morte dell’imperatore Giuliano (Apophtegma Patrum, 161c-164a).
La festa di questo invincibile campione della consustanzialità del Logos non entrò nei Breviari romani che durante il basso Medioevo, e fu arricchita di lezioni proprie e del rito doppio soltanto ai tempi di san Pio V. Questo si spiega perfettamente. Il Calendario romano primitivo aveva un marcato carattere locale; gli antichi Padri orientali non ebbe mai una grande popolarità in terra latina, così che ancor oggi non si celebra alcun ufficio liturgico per un gran numero di queste antiche fiaccole di sapienza. San Gregorio di Nissa, san Dionigi d’Alessandria, sant’Epifanio, ecc., non hanno nel Breviario romano alcuna commemorazione. Tuttavia, sant’Atanasio ha dei meriti speciali per aver quasi diritto di cittadinanza nell’Urbe eterna, poiché, condannato dagli Ariani, deposto dalla suo sede e fuggitivo nel mondo intero che si era come messo d’accordo per coalizzarsi contro di lui, cercò un asilo sicuro a Roma, dove trovò, nella persona di papa Giulio, un vendicatore autorizzato dalla santità della sua causa. Fu lì, sull’Aventino, nel palazzo della nobile Marcella, di cui era ospite, che il vescovo esiliato descrisse per la prima volta ai Romani la vita meravigliosa di Antonio e di Pacomio in Egitto. Il primo seme di virtù monastiche, gettato da Atanasio sul monte Aventino, fu seguito rapidamente da un’abbondante fioritura di monaci e di monasteri, che, al dire di Girolamo, cambiò la spensierata capitale del mondo romano in una nuova Gerusalemme.
Conviene ricordare che fu il papa Giulio, avendo cassato l’ingiusta deposizione di Atanasio, a rendergli il suo trono patriarcale.
Socrate (Socrate Scolastico, Historia Ecclesiastica, lib. II, cap. 15, in PG 67, col. 211A-212C) e Sozomeno, raccontando il fatto, l’attribuiscono espressamente al primato del Papa su tutta la Chiesa: Οαδτςπάντωνκηδεμονίαςατπροσηκούσηςδιτνξίαςτοθρνου, κάσττνδίανκκλησίανπέδωκε, cioè Poiché a lui, a causa della dignità della sede, apparteneva la cura di tutti, restituì all’uno ed all’altro (Atanasio di Alessandria e Paolo di Costantinopoli) la loro propria Chiesa (Ermia Sozomeno, Historia Ecclesiastica, lib. III, cap. 8, 2-3, ivi, col. 1051C-1052C).
Sotto Gregorio XIII, si eresse a Roma, in onore di sant’Atanasio, una chiesa cui è annesso un Collegio pontificio greco e dove, per questa ragione, gli uffici divini sono celebrati in rito bizantino (Su questa chiesa, cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 339).
In epoca più recente, nel 1961, nel quartiere Pietralata, è stata eretta la chiesa di Sant’Atanasio a Via Tiburtina, divenuta titolo cardinalizio nel 1991.
La messa è in parte del Comune dei Confessori, in parte quella dei Dottori, e fa allusione alle persecuzioni ed ai bandi di cui Atanasio fu vittima ed alle fughe che dové compiere. Proprio la fuga fu lodata nel 357 d.C. dallo stesso grande fuggitivo del IV sec., cioè il nostro Santo, grande difensore dell’ortodossia nicena, nell’opera Apologia De fuga sua (in PG 25, col. 643A-680A). In essa, giustificandosi dinanzi agli ariani che l’accusavano di pavidità, dimostrò come la fuga, in tempo di persecuzione, era un atto di grande perfezione, non solamente perché era un precetto del Cristo (cfr. Mt. 10, 23-28), ma anche perché, non ponendo fine alle sofferenze inerenti all’apostolato con una morte rapida, al contrario, le prolungava, riservando il fedele a delle prove nuove e più dure.
Quando non può fare di più, il mondo vorrebbe almeno ridurci al silenzio, affinché non predichiamo ai popoli questa parola evangelica che è la condanna dei suoi principi. Ma anche questo non c’è permesso, come dichiararono dinanzi al Sinedrio Pietro e Giovanni: Non enim possumus quæ vidimus et audivimus non loqui (At. 4, 20). Ecco davvero lo strumento della nostra vittoria sul mondo: la fede. Tutta la terra aveva cospirato contro Atanasio, e tuttavia, durante quasi un mezzo-secolo, tenne testa ai suoi avversari; patriarca invisibile, perché sembrava ad Alessandria e ne spariva senza che gli Ariani potessero arrivare ad impossessarsi di lui, governò la sua Chiesa con tanta autorità che essere in comunione con lui equivaleva allora ad essere cattolico, vale a dire fedele alla consustanzialità del Verbo definito a Nicea.
Non sapremmo rinunciare a riportare oggi, in onore di un così grande dottore, la sua energica proposta sull’indipendenza della Chiesa nei confronti del potere laico:

Εγρπισκπωνστκρσις, τκοιννχειπρςτατηνβασιλες; ... Πτεγρκτοαἰῶνοςκοσθητοιατα;πτεκρσιςκκλησαςπαρβασιλωςσχετκρος, λωςγνσθητοτοτκρμα;πολλασνοδοιπρτοτουγεγνασι; πολλκρματατςκκλησαςγγονεν, λλοτεοπατρεςπεισνποτεπερτοτωνβασιλα, οτεβασιλεςττςκκλησαςπεριειργσατο.

«Se si tratta di una decisione dei vescovi, in cosa ciò riguarda l’imperatore? ... Quando si è sentito parlare mai di una cosa simile? Quando mai un decreto ecclesiastico ha ricevuto la sua autorità dall’imperatore od ottenuto da lui il suo riconoscimento? Numerosi concili sono stati celebrati sino ad oggi; molti decreti ecclesiastici sono stati emessi; ma mai i Padri hanno sollecitato tali approvazioni dall’imperatore; mai questi si è immischiato negli affari ecclesiastici» (Sant’Atanasio di Alessandria, Historia Arianorum ad Monachos, nn. 52.3-52.4, in PG 25, col. 755B-756C).




Luca Signorelli, Trinità, Madonna col Bambino, con i SS. Michele, Gabriele, Agostino d'Ippona ed Atanasio, 1510, Galleria degli Uffizi, Firenze


Ambito russo, S. Atanasio, XVII sec., collezione privata

Bottega ravennate, S. Atanasio, XVII sec., museo diocesano, Ravenna

Ambito russo, S. Atanasio, XVIII sec., museo diocesano, Como

Domenichino, S. Atanasio, 1609-12, Cappella dei Santi Fondatori, Abbazia di Santa Maria, Grottaferrata

Francesco Bartolozzi, S. Atanasio, XIX sec.

“Nam Macárius Jerosolymórum epíscopus, factis Deo précibus, síngulas cruces cuídam féminæ, gravi morbo laboránti, admóvit; cui cum réliquæ nihil profuíssent, adhíbita tértia Crux statim eam sanávit” (Lect. V – II Noct.) - IN INVENTIONE SANCTÆ CRUCIS

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Questa data ricorda il recupero della santa Croce, al tempo dell’imperatore Eraclio ed il dono che ne fece questi, verso il 629, aZaccaria, patriarca della città di Gerusalemme, da dove, qualche anno prima, i Persiani l’avevano prelevata per trasportarla presso di loro. Questa festa fu accolta con favore nelle diverse liturgie occidentali, mentre in Oriente quella dell’Exaltatio Sanctæ Crucisrestò la sola in onore; in questo giorno qui, ogni anno, in ricordo della scoperta del legno sacro, avvenuta il 14 settembre 320, lo si mostrava solennemente al popolo.
In seguito, i Latini confonderanno l’oggetto delle due feste; il recupero della Croce fu identificato con l’Exaltatio del 14 settembre e la solennità del 3 maggio fu consacrato a celebrare la sua scoperta sotto Costantino. Bisogna d’altronde osservare che l’Esaltazione fu accolta piuttosto tardivamente nel Sacramentario di Adriano, perché questo giorno, a Roma, era quello del natale di san Cornelio.
Il Liber Pontificalisè il più antico documento romano a legare la scoperta della santa Croce al 3 maggio, in dipendenza del testo latino della leggenda di Giuda Ciriaco (L. Duchesne, Le Liber Pontificalis, Coll. Bibliothèque des Ecoles Françaises d’Athènes et de Rome, tomo 1, Paris 1886, p. 167). Lo storico della liturgia Antoine Chavasse ha mostrato come la festa dell’Inventio Crucis, di origine orientale, era stata introdotta dal primo quarto del VI sec. in diversi tituli romani, senza riuscire a penetrare nella liturgia papale (A. Chavasse, Le Sacramentaire Gélasien, Paris 1958, pp. 350-364). La si trova nel VII sec. nei sacramentari gelasiano e gregoriano. La sua celebrazione è attestata in maniera costante a Roma tra il IX ed il XII sec.
L’antifonario di San Pietro corrobora la visione di Chavasse sulla dipendenza della festa dell’Inventio S. Crucis rispetto alla leggenda di Giuda Ciriaco, poiché due antifone ne sono tratte: Orabat Judas e Cum orasset Judas(Queste due antifone non sono proprie all’antifonario del Vaticano. Si trovano in numerosi manoscritti: v. R. J. Hesbert, Corpus Antiphonalium Officii, tomo 3, Roma 1968, nn. 2020 e 4172. Sulla storia del culto della Santa Croce, v. A. Frolow, La relique de la Vraie Croix, recherches sur le développement d’un culte, Paris 1961, e, dello stesso autore, Les reliquaires de la Vraie Croix, Paris 1965). Tanto in Vaticano quanto al Laterano si celebrava al Mattutino i due primi notturni dei santi martiri Alessandro, Evenzio e Teodulo ed il terzo della santa Croce (cfr. Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 235).
La messa odierna è posteriore al periodo gregoriano: per questo le antifone dell’Introito e dell’Offertorio sono tratte da altre messe più antiche.
La colletta di oggi si trova già nel Gelasiano e fa allusione alla resurrezione del defunto sul quale il vescovo di Gerusalemme depose la vera Croce per distinguerla da quella dei due ladroni. I prodigi compiuti nella passione di Gesù sono le differenti risurrezioni dei patriarchi e dei santi di Gerusalemme nel momento in cui il Salvatore spirò sulla Croce.
La festa della santa Croce, nel mezzo degli splendori del tempo pasquale, offre un profondo significato liturgico. Il Signore chiama la sua crocifissione il giorno del suo trionfo e della sua esaltazione, e ciò è vero. Sulla Croce vinse la morte, il peccato ed il demonio, e su questo legno trionfale innalzò il suo nuovo trono di grazia, di misericordia e di salvezza. Questo è il senso del melodioso canto alleluiatico tratto, oggi, dal Sal. 96 (95): «Il Signore regnò dal legno». Questa versione, però, non corrisponde più al testo ebraico attuale; esso ci è stato trasmesso attraverso gli antichi Padri, come san Giustino, che accusarono i Giudei di averlo mutilato (Cfr. san Giustino, Dial. Trifone, 73, 1; Tertulliano, Contro i Giudei, X). Già la Lettera di Barnaba, del resto, insegnava che «il regno di Gesù è sul legno» (VIII, 5: I Padri Apostolici, Roma 1984, p. 198) ed il martire san Giustino, citando quasi integralmente il Salmo nella sua Prima Apologia, concludeva invitando tutti i popoli a gioire perché «il Signore regnò dal legno» della Croce (Gli apologeti greci, Roma 1986, p. 121). Su questo terreno è fiorito l’inno del poeta cristiano Venanzio Fortunato, Vexilla regis, in cui si esalta Cristo che regna dall’alto della Croce, trono di amore e non di dominio: Regnavit a ligno Deus.
Troviamo una prova che la messa non è tratta dal Sacramentario Gregoriano nel fatto che il Vangelo (Gv 3, 1-15) non è tratto dall’ultimo discorso di Gesù, da dove l’uso romano attingeva di preferenza durante il ciclo pasquale. La scelta è stata tuttavia felice, perché il serpente di bronzo alzato da Mosé nel deserto è un tipo profetico dell’Exaltatio Sanctæ Crucis festeggiato oggi, ed indica un’epoca dove si celebrava ancora, il 3 maggio, l’originaria esaltazione della vera Croce, dovuta all’imperatore Eraclio.
La colletta sulle oblate, tratta dal Sacramentario Gelasiano, rivela dei tempi agitati dalle guerre e dalle invasioni nemiche, probabilmente quelle dei longobardi.
Il Prefazio è in onore della Croce come nell’ultima quindicina della Quaresima.
L’antifona della Comunione rivela essa stessa la preoccupazione che dominava gli spiriti quando, nel Sacramentario Gelasiano, fu accolta la festa di questo giorno, vale a dire quella di ottenere il soccorso dal cielo contro gli invasori del Ducato romano.
Dio ha amato accordare una così grande virtù al segno della croce, che è sufficiente benedire i fedeli per mettere i demoni in fuga e procurare alle anime devote delle grazie abbondanti. Gli antichi avevano una tale devozione per il segno della croce che, a dire dei Padri, non cominciavano mai nessuna azione senza esserne muniti. Giuliano l’apostata, durante un sacrificio pagano, mise, si dice, parecchie volte il demonio in fuga, perché istintivamente, alla sua prima apparizione, aveva lui stesso usato il segno della salvezza. Riferisce la notizia San Gregorio Nazianzeno, Oratio IV, Adversus Julianum imperatorem prior Invectiva, nn. 55-56: «Ad crucem confugit, eaque se adversus terrores consignat, eumque quem persequabatur in auxilium adsciscit. Valuit signaculum, cædunt dœmones, pelluntur timorés. Quid deinde? reviviscit malum, rursus ad audaciam redit; rursus aggreditur; cursus iidem terrores urgent, sursus obiecto signaculo dæmones conquiescunt, perplexusque hœret discipulus» (in PG 35, col. 531 ss., partic. coll. 578-579). Al fatto allude anche Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, allorché, in una sua opera, riprendendo Gregorio di Nazianzio, ricorda che: «Giulianoapostata, benché fosse nemico di Gesù Cristo, nondimeno, sapendo la virtù del segno della croce, quando era atterrito da’ demoni segnavasi colla croce, e i demoni fuggivano» (Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, La vera sposa di Gesù Cristo, cioè la monaca santa per mezzo delle virtù proprie d’una religiosa, Napoli 1760-61, ora in Opere Ascetiche, Voll. XIV-XV, CSSR, Roma 1935, p. 52).
Nel Medioevo non si cominciava nessuno scritto pubblico, iscrizione, legge, ecc., senza aver tracciato prima la croce. Questa teneva luogo della firma per coloro che non sapevano scrivere, e precedeva spesso quella degli ecclesiastici. In numerose campagne, si giungeva perfino a segnare di una croce la pasta ed il pane prima di cuocerli. E tale usanza sopravvive talora anche nel Sud Italia.
A Roma, sulle porte della Città restaurata durante il periodo bizantino, si vedono ancora graffiti, che rappresentano la croce greca, la quale si trova anche sugli orifizi delle cisterne e dei vecchi pozzi, sulle bocche dei forni e sugli oggetti domestici. Fino ancora al periodo prima della II Guerra Mondiale, per far apprendere le lettere e le sillabe ai bambini, si adoperava un piccolo libro intitolato Santa Croce a causa del segno di salvezza che, secondo una tradizione di più di quindici secoli, precedeva l’alfabeto.
L’antichità ci ha trasmesso anche dei reliquiari a forma di croce su cui si incidevano talvolta delle formule di esorcismo; abbiamo per esempio una croce d’oro raccolta dallo stesso Pio IX in una tomba del cimitero di Ciriaco.
La più celebre di queste croci con formula di esorcismo è quella che è conosciuta sotto il nome di medaglia di san Benedetto e di cui l’efficacia è oggi ancora sperimentata con successo contro le insidie del demonio. Ma si potrebbe ricordare anche quella, non meno efficace per lo stesso scopo, di sant’Antonio di Padova.


Lodovico Cardi detto il Cigoli, L'imperatore Eraclio porta la Croce a Gerusalemme, 1594, Chiesa di S. Marco, Firenze

I martiri non piacevano al dialogo - Editoriale di maggio di "Radicati nella fede"

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Nella memoria di S. Monica, madre di S. Agostino d’Ippona, e dei santi martiri certosini inglesi, rilancio l’abituale per noi editoriale di Radicati nella fede, già pubblicato anche da Chiesa e postconcilio.

Filippo Bigioli – Giovanni Wenzel, S. Monica, 1841


Gioacchino Assereto, S. Monica e S. Agostino, XVII sec., Minneapolis Institute of Arts, Minneapolis 

Ary Scheffer, S. Agostino e S. Monica, 1846

Giuseppe Riva, S. Monica trasmette ad Agostino la fede cristiana, 1890-99, Cattedrale di S. Alessandro, Bergamo

Vicente Carducho, Martirio dei priori  delle certose inglesi di Londra, Nottingham ed Axholme, 1626-32, museo del Prado, Madrid

Vicente Carducho, Martirio dei padri John Rochester e James Walworth, 1626-32, museo del Prado, Madrid

Vicente Carducho, Martirio di tre certosini della Certosa di Londra, 1626-32, museo del Prado, Madrid


Vicente Carducho, Prigione e morte dei dieci certosini della Certosa di Londra, 1626-32, museo del Prado, Madrid

I MARTIRI NON PIACEVANO AL DIALOGO

Editoriale “Radicati nella fede”
Anno VIII n. 5 - Maggio 2015


E siamo di nuovo in tempo di Martirio.
Ciò che sta accadendo ai cristiani in Asia e in Africa ha riportato prepotentemente sulle nostre labbra la parola “martirio”. Cristiani uccisi, e in massa, nelle maniere più orrende, semplicemente perché cristiani; tutto questo ci fa dire che è tornata l’era dei martiri.
Per la verità la Chiesa non è mai uscita dal tempo del martirio. Gli studi pubblicati in occasione dell’ultimo anno santo, quello del 2000, ci avevano già ricordato che il numero dei martiri, in venti secoli di cristianesimo, è enorme: circa 80 milioni! e dato ancora più impressionante, di questi 80 milioni, circa la metà appartiene all’ultimo secolo concluso, il ‘900!
Nonostante questi dati, noi cristiani pasciuti d’occidente facciamo fatica, tanta fatica, a credere che la Chiesa sia in perenne stato di martirio. Siamo stati abituati, dalla scuola e dalla cultura laica, a pensare, piuttosto, che la Chiesa debba chiedere perdono del suo passato violento e impositivo: è la leggenda nera che dipinge la Sposa di Cristo come strumento di potere. Per questo resistiamo nel vedere invece la verità, e cioè che i cristiani nel mondo hanno sofferto e hanno continuato a versare il proprio sangue per la fede.
A questo lavoro di disinformazione fatto dalla cultura laicista, tendente a minimizzare se non a negare il martirio dei cristiani, si è affiancata, in questi ultimi decenni, la più grande impresa di depistaggio intellettuale, operata, dentro la Chiesa, dai cattolici stessi. Dopo il Concilio Vaticano II, la dittatura del Dialogo ha imposto il silenzio sul fenomeno del Martirio: la Chiesa deve riconciliarsi col mondo moderno e per questo non deve più parlare di chi muore per la fede. I Martiri costituivano il più grande ingombro e inciampo per quest’opera di trasformazione della Chiesa, che si è voluta mondanizzare a tutti i costi .
Il concetto di martirio, secondo questi emancipati cattolici moderni, appartiene a un passato ormai superato; appartiene all’epoca della contrapposizione con il mondo, e questo passato non deve tornare più. Secondo questi, e sono tanti, c’è un modo più efficace per lavorare nel mondo come cristiani, più efficace che quello di dare la vita unendo il proprio sangue a quello di Cristo: c’è l’arma del comprendere le ragioni dell’avversario, del parlare con lui, del dialogare con lui, per scoprire infine che, in fondo, la si pensa allo stesso modo.
Tutto questo triste lavoro di rifiuto del martirio e di sostituzione con l’ideologia del dialogo, ebbe tragiche conseguenze negli anni ‘60 e ‘70: mentre i cristiani dell’Est venivano eliminati o condotti ai lavori forzati nei gulag, la Santa Sede privilegiava con la Ostpolitik i buoni rapporti con le dittature marxiste, ricercando con esse un accordo possibile, ritenendo erroneamente che il Comunismo fosse eterno. Fa parte di questa vergogna la mancata condanna del Comunismo durante il Concilio stesso: la storia arriverà a giudicare severamente questo meschino cedimento ereticale.
Negli ultimi anni, l’imposizione del silenzio sul fenomeno del martirio è stata comandata dall’altrettanto dogmatico dialogo interreligioso: occorre stare in pace con le altre religioni, non fare proselitismo, e dunque occorre tacere sui cristiani uccisi.
Ma i fatti parlano oggi in nome di Dio.
Si voleva una nuova era per la Chiesa, l’era della serenità con il mondo a 360°, ed ecco che, invece, il sangue dei cristiani crocifissi, sgozzati, bruciati, fucilati, impiccati e lapidati è venuto a rompere l’ingannevole idillio.
Tutto questo dolore dei nostri fratelli - per i quali non dobbiamo smettere di pregare, affinché questa terribile prova sia loro abbreviata - è un potente richiamo per noi cristiani, immersi nella più grande falsa ideologia della storia, quella della Modernità.
La modernità, che rifiuta come stoltezza Cristo crocifisso, ha portato dentro la Chiesa la mortale illusione di poter separare la Resurrezione dalla Croce.
Si è voluto fare un nuovo cristianesimo che pone l’accento sulla Vita nuova in Cristo, dimenticando la sua Passione e Morte.
È vero, Cristo ha vinto la morte, è risorto; è costituito Signore di tutto. È vero che questa vittoria del Risorto è partecipata alla Chiesa e ai santi, ma occorre stare attenti: questa vittoria, come spiega il grande père Calmel, “lungi dal sopprimere la Croce e renderla inutile, si realizza soltanto attraverso la Croce. Dicite in nationibus quia Deus regnavit a ligno”. (R.T. Calmel, Per una teologia della storia, Borla 1967, pag. 44).
È proprio questa coscienza che è mancata nella Chiesa degli ultimi tempi. Si è vissuto l’inganno di pensare la Resurrezione come superante la Croce. Così si è fatta una nuova chiesa che parla di vita e non di martirio; che parla di aspirazioni umane e non di martirio; di dialogo col mondo e non di martirio; di pace universale e non di martirio; di costruzione della società terrena e non di martirio...
Anche per questo la presenza della Chiesa si è sgretolata, e la vita dei cristiani è scivolata nell’infedeltà profonda.
È stata una mortale illusione, demoniaca. Un “sogno talvolta infantile e tenero, ma forse più spesso vile e odioso, che fa sperare per la vita del cristiano una fedeltà a Cristo senza tribolazioni e per l’avvenire della Chiesa un fervore di santità che non dovrebbe più subire dall’esterno le persecuzioni del mondo, né all’interno i tradimenti dei falsi fratelli e talvolta del clero e dei prelati” (ibid. pag.44)
Da questa illusione ci sta svegliando Dio con il dono di nuovi martiri, quelli del secolo XXI. Sono loro che ci ricordano che fino all’ultimo giorno “possiamo rendere testimonianza a Gesù soltanto immergendo la nostra veste nel sangue di quell’Agnello Divino che ci ha amati e ci ha riscattati dai nostri peccati. Non andremo a Lui senza attraversare il torrente della grande tribolazione” (ibid. pag. 44)
Allora, non protestiamo soltanto delle persecuzioni, come fanno i politici del mondo, ma lasciamoci educare da Dio alla grazia del martirio.

Fonte: Radicati nella fede, 30.4.2015

“Fuit in eo religiónis propagándæ perpétuum stúdium, in ecclesiástica disciplína restituénda indeféssus labor, in exstirpándis erróribus assídua vigilántia, in sublevándis egéntium necessitátibus indefíciens beneficéntia, in Sedis apostólicæ júribus vindicándis robur invíctum” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI PII V, PAPÆ ET CONFESSORIS

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Il nome di Fra Michele Ghislieri – Pio V – orna il frontespizio del Messale e del Breviario romani, perché è sotto la sua autorità che si concluse la revisione dei libri liturgici espressamente riservata alla Santa Sede dal Concilio di Trento. Oltre questi meriti nel campo della liturgia, santo Pio V ha la gloria di essere stato il Papa della riforma che, da due secoli, invocavano invano i Pontefici suoi predecessori, i concili, un gran numero di vescovi e di santi di quest’epoca così complessa chiamata comunemente Rinascimento.
San Pio V è il Papa, dunque, della riforma ecclesiastica; non nel senso che fosse il primo a volerla ed ad inaugurarla, poiché, quando salì sul trono di san Pietro, il Concilio di Trento era terminato già da qualche tempo. Ma fu il Papa della riforma in quanto, con la sua autorità e col suo esempio, mise definitivamente la Curia romana e l’episcopato tutto intero sulla via di questo risveglio salutare dello spirito ecclesiastico, molto più che parecchi dei suoi predecessori, i quali, pur desiderandolo con tutto il loro cuore, non avevano saputo sostenerlo, commettendo un errore di coraggio e di costanza.
Durante il suo breve pontificato (1566-1572) ordinò la disciplina ecclesiastica, compilò il Breviaro e il Messale e pubblicò il Catechismo secondo le disposizioni del Concilio Ecumenico di Trento. Rese obbligatoria la Summa Teologica di S. Tommaso nelle Università Cattoliche. A Lepanto ottenne la Vittoria dei Cristiani contro i Turchi (7.10.1571). Ordinò, a tal ricordo, la commemorazione di S. Maria della Vittoria il 7 ottobre, introdusse nelle litanie mariane l’appellativo “Auxilium Christianorum”, e dispose che le campane suonassero all’Ave Maria al mattino, mezzogiorno e sera. Proclamò dottori della Chiesa: S. Tommaso d’Aquino, S. Basilio Magno, S. Giovanni Crisostomo, S. Gregorio Nazianzeno, S. Atanasio.
Ci si stupisce che san Pio V, di famiglia modesta, e povero religioso dominicano, si sia potuto alzare così alto per il bene della Chiesa. Ma era un santo, e gli strumenti del suo potere erano la ricerca della sola gloria di Dio e la preghiera assidua. Grazie a questa soprattutto superò l’insolenza dei Turchi a Lepanto come abbiamo ricordato, e santificò il popolo affidato alle sue cure.
Il santo Pontefice uscì per l’ultima volta dal Vaticano il 21 aprile 1572, otto giorni prima della sua morte, e fu una scena ammirevole.
Sebbene malato, volle in questo giorno visitare per l’ultima volta le sette basiliche principali di Roma, nella speranza, diceva, di rivedere dopo poco i martiri nel cielo. Dalla basilica di San Paolo, percorse a piedi quasi tutta la lunga e cattiva strada che conduceva a San Sebastiano. Arrivato infine, all’estremo di forze, a San Giovanni, i suoi familiari lo supplicarono di salire in lettiga, o di rimandare il resto del pellegrinaggio all’indomani. Rispose in latino: Qui fecit totum, Ipse perficiat opus, e continuò la sua strada.
Giunse soltanto a sera al Vaticano, dove, essendosi riposato un po’, si fece leggere i sette salmi della penitenza ed il racconto della Passione del Signore, non avendo neppure più la forza di togliersi il suo camauro (vale a dire il berretto speciale del Papa, chiamata anche clementina o papalina) quando sentiva pronunciare il santo Nome di Gesù.
Il 28 aprile, provò a celebrare la messa ma non ci riuscì. Munito dei sacramenti, rese la sua santa anima a Dio la sera del 1° maggio, e le sue ultime parole furono un’invocazione liturgica del Breviario:

Quæsumus, Auctor omnium,
In hoc Paschali gaudio,
Ab omni mortis impetu
Tuum defende populum.

Sisto V trasportò il suo corpo in una cappella di Santa Maria Maggiore, dove lo si venera ancora oggi. Il rocchetto di cui è rivestito fu dato a Pio VII da Napoleone I.
Roma cristiana ha dedicato espressamente a questo papa una chiesa, nel quartiere Aurelio, inaugurata nel 1962. La chiesa è titolo cardinalizio dal 1973, San Pio V a Villa Carpegna.
La messa prima del 1942 è quella del Comune dei Confessori Pontefici, Státuit. Soltanto la prima colletta, troppo sensibilmente contrassegnata dalle preoccupazioni storiche, è propria.
Analogamente è per la messa dopo il ‘42, con la differenza che si tratta del Comune dei Sommi Pontefici, Si díligis me.
San Pio V aveva costume di ripetere questa bella orazione giaculatoria, baciando il suo crocifisso, nel mezzo delle sofferenze della malattia, che lo condusse alla tomba: Domine, adauge dolorem, dum adaugeas et patientiam.
Si dice nella relazione fatta dagli uditori della Rota in vista di procedere alla sua canonizzazione, che un testimone oculare e quattro testimoni auricolari riportarono il seguente fatto, oggi trasmessoci dai Bollandisti: un giorno, un ambasciatore del re di Polonia, sul punto di rientrare nel suo paese, incontrò san Pio V sulla piazza di San Pietro e gli chiese delle reliquie che gli aveva promesso. Il Papa scese allora dalla sua lettiga e, avendo raccolto un poco di terra, l’avvolse in un fazzoletto che dette al diplomatico. Questi, credendo ad una presa in giro, non disse niente, ma, tornato a casa, snodò il fazzoletto e lo vide tutto macchiato di sangue. Spaventato da questo prodigio, corse di nuovo dal Pontefice per raccontargli ciò che era capitato. San Pio V rispose: “Sappiamo bene che il suolo Vaticano è tutto inzuppato del sangue dei martiri, ed è per questo che abbiamo bandito da lì i giochi profani” (Cfr. Giovanni Antonio Gabuzio, Vita Beati Pii Quinti Papæ, lib. VI, Singulares Pii V virtutes enumeratæ, § 325, inBollandisti, Acta Sanctorum, vol. XIV, Maji, t. I, Dies V, Parigi-Roma 1866, p. 699; nell’edizione di Antwerpen 1680, pp. 714-717, partic. p. 715). Nullam esse ibi vel minimam soli partem, quæ sacro martyrum sanguino non esset imbuta et consecrata, soleva dire san Pio V. Non basta risiedere a Roma, bisogna viverci con fede se si vuole apprezzarne tutta la bellezza sacra.

August Kraus, S. Pio V in venerazione del Crocifisso, 1926, collezione privata

El Greco, S. Pio V, 1600-10, Collezione Moussalli, Roma


Bartolomeo Passerotti, Ritratto di S. Pio V, collezione privata

Scipione Pulzone, Ritratto di Pio V, Galleria Colonna, Roma

Michele Parrasio, Cristo morto adorato da S. Pio V, 1572-75, Museo del Prado, Madrid

Ambito piemontese, S. Pio V, 1711, museo diocesano, Mondovì

M. G. B. Clemente, S. Pio V in preghiera, XVIII sec., museo diocesano, Casale Monferrato

Ambito romagnolo, Visione di S. Pio V, XIX sec., museo diocesano, Rimini


Armadio con le reliquie di S. Pio V, Museo della Basilica di S. Maria Maggiore, Roma

Reliquie di S. Pio V, Armadio con le reliquie di S. Pio V, Museo della Basilica di S. Maria Maggiore, Roma




Urna col corpo di S. Pio V, Cappella Sistina, Basilica di S. Maria Maggiore, Roma

La devastazione morale si allarga con il divorzio breve

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Già il mancato riconoscimento, nella Carta costituzionale, del matrimonio quale vincolo “indissolubile” costituì una delle più gravi colpe del partito, asseritamente “cattolico”, qual era la Democrazia cristiana.
Se si leggono gli Atti dell’Assemblea costituente, quando si doveva votare in maniera decisiva su quest’aggettivo, molte furono le defezioni, non tanto negli schieramenti avversi, comunista e “liberale”, quanto proprio tra le fila della D.C.
In effetti, il c.d. emendamento Grilli, che escludeva dalla formulazione dell’elaborando futuro art. 29 Cost. l’aggettivo – al matrimonio – “indissolubile” passò nell’Aula per appena tre voti! Nella notte del 23 aprile 1947, il suddetto emendamento fui approvato con 194 voti contro 191, a scrutinio segreto. Per questo, il termine indissolubile non fu inserito nella Costituzione.
Ciò fu possibile perché tradirono ben trentasei deputati “democristiani”, che risultarono assenti. Anzi, addirittura molti di questi uscirono dall’Aula al momento del voto e vi rientrarono subito dopo, a votazione conclusa.
Anni dopo, nel 1969, il 16 ottobre, un deputato MSI, on.le Giuseppe (Beppe) Niccolai, riportò, durante la discussione della legge sul divorzio, uno dei classici aneddoti di Giulio Andreotti: «Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole sottosegretario, l'onorevole Andreotti su Concretezza, in un articolo dal titolo: “Per tre voti”, scrive che “la sconfitta sulla parola indissolubile il 23 aprile 1947, fu una sconfitta occasionale, perché banale fu la causa di molte assenze nelle file della democrazia cristiana”. “Un collega era” - scrive l'onorevole Andreotti – “in un'aula del palazzo con il mal di pancia, una collega a fare da relatrice in un congresso eucaristico. Quattro democristiani in più presenti a Montecitorio in quel momento avrebbero evitato che si dovesse parlare oggi dell'argomento”. “Per questo” - conclude Andreotti – “noi possiamo affermare che anche storicamente è più che legittimo l'opporsi alla dissolubilità del matrimonio”. Dunque, è una battaglia storica questa della democrazia cristiana, battaglia sui punti fermi, sui principi irrevocabili, irrinunciabili» (Atti parlamentari, Camera dei deputati, V Legislatura, Discussioni, Seduta antimeridiana del 16 ottobre 1969, p. 11095).







L’on.le Niccolai, dunque, ricordò come nel ’47, i democristiani erano col mal di pancia o dovevano relazionare ad un congresso eucaristico e non si accorsero che si doveva votare sull’indissolubilità ….
Nel ’47, però, le forze della Chiesa erano ancora sane: poche ore dopo la vergognosa votazione nella quale erano risultati assenti innumerevoli democristiani, il card. Adeodato Giovanni Piazza, insigne Patriarca di Venezia, e presidente, all’epoca, della Commissione Episcopale Italiana (l’antesignana della CEI), che presiedeva anche l'Azione Cattolica Italiana, scrisse una dura lettera di riprovazione ad Alcide De Gasperi (presidente della DC) ed all'on.le Attilio Piccioni (segretario della DC), nella quale il prelato concludeva: «gli assenti considerino se non abbiamo insieme tradito la causa della religione e della famiglia cristiana e la fiducia dei loro elettori» (la lettera è riprodotta in Giovanni Sale, Il Vaticano e la Costituzione, con Prefazione di Francesco Paolo Casavola, Jaca Book, Milano, 2008, p. 276).


E De Gasperi, che si vorrebbe ahinoi santificare, non ebbe problemi morali di sorta … . Evidentemente.
Tra gli assenti - e lo si vede dagli Atti dell'Assemblea Costituente (Atti dell'Assemblea Costituente, Seduta di Mercoledì 23 aprile 1947, pp. 3286-3287) - vi era il c.d. "Sindaco santo", cioè Giorgio La Pira, che anch'egli si vorrebbe canonizzare, ma che ritenne evidentemente, alquanto incoerentemente con la fede che diceva di professare, poca cosa votare a favore dell'indissolubilità del matrimonio e della causa della religione, come lamentò il card. Piazza. Un cripto-divorzista allora? Non lo possiamo affermare, ma anche non lo possiamo assolutamente negare: certa è la sua assenza ingiustificata in un momento cruciale dell'Assemblea costituente, proprio quando doveva definirsi l'indissolubilità del vincolo nuziale.
Si asserì che l’aggettivo “indissolubile” sarebbe stato superfluo, visto che l’art. 7 Cost., recependo il Concordato lateranense nel quale il matrimonio era considerato indissolubile, di fatto rendeva il matrimonio – da un punto di vista costituzionale – indissolubile. Per cui sarebbe stata – sostenne anche l’on.le Grilli promotore dell’emendamento segnalato – un’inutile ripetizione.
In realtà, non fu così visto che quando si discussero alla Camera le pregiudizialità costituzionali e poi quando affrontò la questione la Corte costituzionale, si argomentò che il mancato inserimento dell’aggettivo «indissolubile» legittimava l’introduzione del divorzio e che non era sufficiente a rendere tale il matrimonio il recepimento del Concordato lateranense.
La Consulta, infatti, ritenne la questione di costituzionalità infondata, giacché il legislatore italiano non aveva assunto l’obbligo – col Concordato – di non introdurre il divorzio, rilevando che, in sede di trattative tra lo Stato italiano e la Santa Sede, fu proposto di impegnare il primo per l’indissolubilità del matrimonio, ma che poi tale idea fu abbandonata (Corte cost. 8.7.1971 n. 169).
Sempre l’on.le Niccolai, nella stessa seduta che abbiamo ricordato, stigmatizzando le colpe della D.C., aggiungeva: «Stanno così le cose? Me lo chiedo perché, quando ho letto l'articolo: “Per tre voti”, per cui gli assenti scriverebbero storia, altre assenze e altre latitanze, molto più vicine nel tempo, si sono affollate alla mia mente. Voto della Commissione giustizia della Camera: la proposta di legge unificata Fortuna-Baslini passa con 18 voti contro 5; democristiani presenti al voto: su 20, 5. Tutti colpiti da mal di pancia? Ho fatto ricerche: quel giorno non si celebrava alcun congresso eucaristico, né l'ambulatorio di palazzo Montecitorio registrava mali di pancia. E dove erano quei 15 democristiani? Come si spiega un così massiccio assenteismo su un problema che meno degli altri divide la democrazia cristiana? Voto tecnico, si dirà; ma il chiasso che da quel voto della Commissione giustizia venne fuori non convalida certo questa tesi» (Atti parlamentari, cit., p. 11096).
Certamente il divorzio fu voluto dalle forze anticristiane, ma sicuramente non sarebbe passato senza la complicità dei politici fantomaticamente “cristiani”, nascosti dietro lo “scudo crociato” e del clero che lo sosteneva.
La legge divorzile in Italia fu approvata il 28 nov. 1969 alla Camera, con 325 voti a favore e 283 contrari.
Il 1° dicembre 1970, il Senato approvò la legge. E c’erano sedicenti cattolici al governo, i quali non sbarrarono mai la strada alla legge divorzile!
Papa Montini che fece? Paolo VI era ... in Australia e non pare che disse nulla. Il segretario di Stato, l’equivoco card. Jean Marie Villot, chiosò che il divorzio era vigente in Francia da tantissimi anni e, quindi, non era il caso di farsi troppi problemi.
Oggi, senza alcuna opposizione della Chiesa “francescana” e solo con blande ed innocue prese di posizione, è stata approvata una legge, che accorcia ancor più i tempi per ottenere il divorzio …. .
Nella memoria liturgica di S. Giovanni, apostolo ed evangelista, davanti a Porta Latina, posto questo contributo di Cristina Siccardi.


La devastazione morale si allarga con il divorzio breve

di Cristina Siccardi

Ancora un colpo di machete sulla famiglia, l’ennesimo. «Un altro impegno mantenuto. Avanti, è la #volta buona» ha twittato tutto soddisfatto il premier Matteo Renzi, quando il Parlamento italiano ha approvato in via definitiva (con 398 sì, 28 no e 6 astenuti) la riforma delle norme sul divorzio, che stabilisce che una famiglia si può cancellare in soli sei mesi.
Non ci sono soltanto gli attentati terroristici islamici a colpire l’Occidente, ma gli stessi legislatori occidentali innestano suicidi a catena, con scelte politiche i cui danni sono incalcolabili. Da oggi in Italia basteranno sei mesi per rompere il legame matrimoniale ed essere divorziati; al massimo un anno, se si decide di ricorrere al giudice, contro i tre anni che servivano fino a oggi. E se ci sono bambini? E se ci sono disabili? Che importa allo Stato? Si saranno creati individui sempre più deboli, sempre più fragili, sempre più in pericolo e in balia del totalitarismo delle libertà di questa breve vita, quelle che ti fanno scivolare, dritte, dritte, veloci, veloci nellaGeenna.
Da oggi nella “cattolica” Italia ogni cittadino coniugato avrà la possibilità di accedere al divorzio, tramite una negoziazione tra i coniugi, assistiti da avvocati, senza passaggio in Tribunale, anche nel caso in cui ci siano figli minori o disabili non autosufficienti. La procedura lampo è scaricata sulle Procure della Repubblica: il pubblico ministero incaricato avrà tempo solo cinque giorni per valutare che i diritti dei figli siano garantiti e, in caso di parere negativo, per rivolgersi al giudice. Nessuna pietà per nessuno: né per moglie e marito, che potrebbero avere un ripensamento sulla loro situazione, né per i figli.
A biasimare una simile legge non sono soltanto i soliti reazionari. Si legge, infatti, nell’articolo di Luciano Moia, apparso su “Avvenire” il 23 aprile scorso, dal titolo La devastante china anti-familiare. Divorzio breve, un incivile traguardo: «Servono leggi e provvedimenti che sostengano l’impegno della famiglia e che contribuiscano alla crescita di consapevolezza della coppia. E ci ritroviamo, invece, con norme che, favorendo e incentivando il già drammatico senso di precarietà delle relazioni, finiscono per sancire il malcostume dell’instabilità affettiva e del disimpegno familiare. Questo sì abbiamo il dovere di gridarlo dai tetti autentico traguardo di inciviltà”».
Ha dichiarato, il Direttore di “Famiglia Cristiana”, don Antonio Sciortino: «(…) non riusciamo proprio a condividere il clima di festosa celebrazione che ha accolto, in Parlamento e su quasi tutti i mass media, l’approvazione della legge sul cosiddetto “divorzio breve”, che ha ridotto da tre anni a sei o dodici mesi il tempo che può passare dalla separazione al divorzio vero e proprio. (…) È come se la società dicesse agli sposi: “Se volete separarvi, fate più in fretta che potete, ma da noi non aspettatevi nulla” (…) non possiamo considerare l’approvazione della legge sul divorzio breve come una conquista di civiltà: oggi, sia i coniugi, sia i figli, sia la società… tutti sono più poveri e più soli, in una falsa libertà, che diventa una solitudine sempre più abbandonata. Abbiamo smarrito la serietà del matrimonio. Abbiamo banalizzato l’amore e gli impegni duraturi, soccombendo alla prima difficoltà». Monsignor Nunzio Galantino, Segretario generale della Cei, è intervenuto in questi termini: «Una accelerazione per quel che riguarda il divorzio non fa che consentire una deriva culturale. Togliere spazio alla riflessione non risolverà. Il matrimonio e la famiglia restano il fondamento della nostra società» (http://www.famigliacristiana.it/articolo/mons-galantino-una-fretta-che-peggiora-le-cose.aspx).
La deriva culturale è comunque dovuta ad una deriva religiosa: la Chiesa, da diversi anni, ha rinunciato a denunciare i peccati e segue l’andamento del mondo, ogni giorno più lontano da Dio.
Possibile, però, che i commenti critici arrivino sempre il giorno dopo, a fatto compiuto? Si sa che prevenire è meglio che curare, e non solo a livello sanitario. Una battaglia non soltanto culturale, ma anche ecclesiastica era possibile, era doverosa: era l’occasione giusta per ritornare a difendere l’istituto sacramentale del matrimonio! «La sua fede cristiana quanto conta, se conta, nel suo fare politica?», chiese a Matteo Renzi, nel 2013, il giornalista Antonio Sanfrancesco di “Famiglia Cristiana” (http://www.partitodemocratico.it/doc/257939/renzi-sono-un-cattolico-ma.htm) e così il “cattolico” fiorentino rispose: «La mia fede arricchisce tutto quello che faccio perché credo nella risurrezione. Da cattolico impegnato in politica non mi vergogno della mia appartenenza religiosa. Al contempo, non rispondo al mio vescovo o alla gerarchia religiosa ma ai cittadini che mi hanno eletto. Per me questa è la laicità. Sui temi etici e morali io sono per un confronto, purché si abbia l’onestà intellettuale di non scivolare in un moralismo senza morale».
La peste nera, abbattutasi sulla famiglia italiana con il femminismo prima, il divorzio poi, per arrivare alla 194 e oggi con il “matrimonio usa e getta”, è il risultato di quella Democrazia che osava definirsi Cristiana. La stessa domanda posta a Renzi, sarebbe stata da porre a molti membri dello scudo crociato il 12 maggio 1974: 59,1 % la percentuale di voti contrari, nel Referendum, all’abrogazione della legge sul divorzio. Giulio Andreotti, fino all’ultimo, provò a percorrere la via del “doppio binario”: matrimonio religioso indissolubile e matrimonio civile con la possibilità del divorzio… l’importante era evitare lo scontro con il Pci e i radicali. Aldo Moro, quando la campagna elettorale entrò nel vivo, rimase in disparte. Allora, ci chiediamo, quale differenza passa fra i cattolici di allora e i cattolici di oggi? Probabilmente, nella sostanza, nessuna. Oggi, si potrebbe dire, sono più disinibiti e sono più lesti nel seminare gli errori.
Quando Enrico Berlinguer incontrò lo storico Pietro Scoppola, punto di riferimento di molti di quei cattolici per il “No” referendario, gli confessò: «Abbiamo vinto troppo». Berlinguer era un politico intelligente, aveva compreso che non aveva vinto la struttura del Pci, la sua capacità di mobilitazione, bensì aveva vinto il pensiero laico e radicale.
Per la prima volta vinse un voto slegato dalle organizzazioni di massa; scelte individuali, non voto d’appartenenza. Molti cattolici votarono a favore del divorzio perché volevano emanciparsi dalla legge divina e guardare all’uomo moderno che sogna un mondo privo di doveri e di regole. Ma la natura, in tutte le sue multiformi manifestazioni, è libera soltanto in virtù del suo seguire le norme del Creatore. Altrimenti è la rovina.
Il piano di Dio è che il matrimonio sia un impegno per tutta la vita terrena: «quello dunque che Dio ha unito, l’uomo non lo separi» (Mt 19, 6). Con il divorzio breve è logico che le convivenze aumenteranno ancora di più, così come i divorzi civili e, come già rilevano le statistiche, verranno sempre meno le domande alla Rota romana di richiesta per le cause di nullità matrimoniali… La lussuria, in definitiva, è la grande protagonista di questi tempi: «Quando giungon davanti a la ruina, / quivi le strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la virtù divina. / Intesi ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali, /che la ragion sommettono al talento» (Dante, Inferno, Canto V, vv. 34-39).
Soltanto la Chiesa bimillenaria ha argomenti idonei per porre finalmente freno al neopaganesimo: il Sinodo sulla famiglia sarà in grado di esporli e Papa Francesco avrà misericordia delle anime?

Il divorzio matrimoniabile

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Stamane si è dato conto della nuova legge sul c.d. divorzio breve, approvata – in via definitiva - alla Camera lo scorso 22 aprile con 398 voti a favore, 28 contrari e 6 astenuti. La legge è stata promulgata dal presidente della Repubblica, che pur si definisce “cattolico”.
La proposta – ora legge – era stata lanciata dagli on.li Alessia Morani (v. anche qui) e Luca D’Alessandro, che, pur appartenendo formalmente a schieramenti politici diversi, mostrano come, ormai, certi principi siano divenuti dominanti anche in chi dovrebbe pur professarsi cattolico.
Ora, gli stessi proponenti hanno avanzato l’ulteriore proposta di una sorta di “divorzio anticipato” o “preannunciato”, volto a rendere – di fatto – il matrimonio quella farsa che è presso i divi di Hollywood, i quali si sposano e si arricchiscono divorziando in ragione dei “patti prematrimoniali” nei quali sono previste – anticipatamente – laute caparre e penali nel caso in cui un coniuge volesse svincolarsi (v. qui).
Davvero si sta puntando alla demolizione totale del matrimonio sia quale patto coniugale sia quale sacramento.

Il divorzio matrimoniabile

di Tommaso Scandroglio

Gli onorevoli Alessia Morani (Pd) e Luca D’Alessandro (Fi) sono i primi firmatari del cosiddetto divorzio breve. Sei mesi, al massimo un anno e si può buttare nell’inceneritore legale il proprio matrimonio. Gli stessi Morani e D’Alessandro stanno cercando di far approvare un altro disegno di legge volto all’uxoricidio legalizzato, quello concernente i patti prematrimoniali.
Il Ddl prevede l’inserimento nel Codice Civile del seguente articolo, l’art. 162 bis: «I futuri coniugi, prima di contrarre matrimonio, possono stipulare un patto prematrimoniale in forma scritta diretto a disciplinare i rapporti patrimoniali in caso di separazione personale, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio».
In buona sostanza si tratta di questo: prima di sposarsi i nubendi mettono per iscritto le loro volontà in merito ai rapporti patrimoniali in caso di separazione o divorzio. Ad esempio possono decidere che una volta che si sono detti addio, l’uno versi all’altra una somma di denaro periodica, oppure le lasci in affitto una casa, oppure rinunci al mantenimento dell’altra parte salvo il diritto agli alimenti, oppure escluda «il coniuge della successione necessaria», come leggiamo nel testo del disegno di legge.
Quindi dopo il divorzio breve ecco il divorzio anticipato, preannunciato. Accordi prematrimoniali che guardano al postmatrimonio e nel mezzo ci affidiamo alla buona sorte. Divisi prima e dopo, con una breve pausa di vita a due tra il prima e il dopo. Un bel paradosso. Da un punto di vista giuridico questo disegno di legge potrebbe essere letto come antinomico rispetto alla previsione dell’art. 108 cc in cui si afferma che il matrimonio non può essere sottoposto né a termine né a condizioni.
Vero è che gli accordi prematrimoniali del Ddl non prevedono che i nubendi possano decidere che dopo un certo lasso di tempo divorzieranno, bensì solamente che, in caso di divorzio, gestiranno le loro relazioni patrimoniali in un certo modo. Né le condizioni previste dal Ddl sono quelle dell’art. 108 e dell’art. 160: i nubendi non possono mutare a loro arbitrio i diritti e doveri inderogabili del matrimonio. Comunque, detto tutto ciò, già ventilare l’ipotesi prima di sposarsi che si possa divorziare è un po’ come fare entrare il divorzio stesso non dalla porta principale della casa dei coniugi Rossi, ma di certo da quella sul retro.
L’aspetto però più inquietante non è da rilevarsi sul piano giuridico, ma su quello etico e culturale. Dal punto di vista della morale naturale, accettare l’ipotesi di divorzio, così come fa il Ddl qui in esame, significa provocare la nullità del matrimonio che si andrà a celebrare. Infatti, non solo secondo il Codice di diritto Canonico ma anche alla luce della legge naturale, il matrimonio esige dai nubendi l’accettazione della proprietà dell’indissolubilità. O vuoi una relazione che duri per sempre e rifiuti qualsiasi ipotesi di divorzio – e allora chiameremo questa relazione “matrimonio” – oppure non la vuoi – e allora dovremo chiamarla “convivenza”. Sul piano culturale c’è poi da rilevare che tale Ddl promuove una serie di disvalori preoccupanti.
Il matrimonio diventa sempre più una relazione precaria, a tempo determinato, con la data di scadenza come se fosse uno yogurt. In secondo luogo il favor giuridico non interessa più l’istituzione del matrimonio, bensì quella del divorzio, con uno strambo rovesciamento delle priorità. In altre parole non siamo più in presenza di un matrimonio divorziabile, ma di un divorzio matrimoniabile. Prima ti assicuro che puoi divorziare e poi potrai decidere di sposarti in tutta tranquillità.
Il matrimonio non fa nascere una coppia, bensì due individui legati da patti giuridici basati sulla reciproca diffidenza. Dunque bisogna pararsi le spalle, prevenire trappole e infedeltà, tutelarsi dallo spread dell’amore che sale e scende in modo imprevedibile. Il matrimonio è tutto sommato un affare, che inizia, come ogni impresa commerciale, con molte speranze, buoni propositi ed ottimi sentimenti, ma che poi – non è colpa di nessuno – può naufragare. Perché c’è crisi economica, ma anche affettiva. L’immagine allora che questo Ddl restituisce del matrimonio è quella grottesca dei due piccioncini che il giorno delle nozze al momento dello scambio delle fedi si scambiano anche gli accordi prematrimoniali. “Perché, cara, è vero che ti amo – dice lui a lei – ma non si sa mai”.

Solennità dell'Inventio Crucis, celebrata a Gerusalemme ogni 7 maggio (nella Chiesa latina il 3 maggio)

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Sinodo. I vescovi tedeschi mettono il carro davanti ai buoi

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Della situazione della chiesa tedesca e delle proposte da questa provenienti abbiamo già avuto modo di parlarne in variegate occasioni (v. qui) e che lo stesso card. Burke aveva criticato (v. qui).
Quella germanica è una situazione singolare. In negativo ovviamente.
Una chiesa, se così vogliamo ancora chiamarla, quella tedesca ormai alla rovina, corrotta dal denaro e dall’imborghesimento milionario; il cui clero, strapagato e che vede l’ufficio presbiterale, non come una missione divina, bensì come una modalità di sistemazione della vita e per condurre un’allegra esistenza; i cui fedeli non credono né nella Resurrezione di Gesù, né alle principali verità cattoliche e di cui solo una piccolissima percentuale crede in Dio-Persona e non in una vaga entità – come, del resto, invece, si insegna negli atenei, diciamo “cattolici”, tedeschi.
Ebbene, questa “chiesa” è davvero curiosa: il suo clero invoca i sacramenti per non meglio identificati “cattolici” tedeschi in stato di peccato mortale, mentre esso stesso non fruisce dei sacramenti, prendendo la Comunione giusto quando si decide a celebrare messa (ovviamente dietro regolare contratto lavorativo), e che non si accosta praticamente mai alla Confessione se non in rarissime occasioni (v. Lorenzo Bertocchi, Il prete si confessa una volta l’anno. I fedeli non più). Ed il paradosso è che proprio questo clero e questi prelati germanici, che sono quanto di più lontano dalla fede cattolica, pretendono di dettare la propria linea all’intera Chiesa Cattolica, dove già i confessionali sono vuoti e ci sono file interminabili per la Comunione (v. qui), esportando, anzi travasando ancor più in questa, il proprio modello di confusione, dottrinale e morale (v. anche qui).

Sinodo. I vescovi tedeschi mettono il carro davanti ai buoi

Le risposte della conferenza episcopale al questionario presinodale descrivono ciò che in Germania si fa già: comunione ai divorziati risposati, tolleranza per le seconde nozze, approvazione delle unioni omosessuali

di Sandro Magister



ROMA, 6 maggio 2015 – A giudicare dall’ultimo prodotto della conferenza episcopale tedesca, il sinodo sulla famiglia in programma dal 4 al 25 ottobre potrebbe rivelarsi fatica sprecata.
Il cardinale Reinhard Marx (nella foto), arcivescovo di Monaco e presidente della conferenza episcopale, l’aveva fatto capire lo scorso 25 febbraio con una battuta che ha fatto il giro del mondo:
“Non siamo una filiale di Roma. Ogni conferenza episcopale è responsabile della cura pastorale nel proprio contesto culturale e deve predicare il Vangelo nel proprio modo originale. Non possiamo aspettare che un sinodo ci dica come dobbiamo modellare qui la cura pastorale del matrimonio e della famiglia”.
Ma ora è la stessa conferenza episcopale di Germania a mettere nero su bianco il medesimo concetto, in quella che è la sua risposta ufficiale – dopo aver consultato il “popolo di Dio” – al questionario preparatorio diffuso da Roma in vista della prossima sessione del sinodo.
Arrivati alla domanda su “come promuovere l’individuazione di linee pastorali a livello di Chiese particolari”, ecco infatti cosa scrivono i vescovi tedeschi:
“Una parte delle risposte, rimandando a differenze sociali e culturali, approverebbe accordi regionali sulle direttive pastorali al livello delle Chiese particolari. Si potrebbe anche partire da processi di dialogo diocesani sul tema matrimonio e famiglia i cui risultati verrebbero poi discussi con altre Chiese particolari”.
La formulazione è un po’ contorta, ma i fatti parlano chiaro. In quasi tutte le diocesi della Germania già si danno l’assoluzione sacramentale e la comunione eucaristica ai divorziati risposati, come già aveva fatto intendere un precedente documento della conferenza episcopale tedesca, approvato il 24 giugno 2014 ed esibito fieramente a Roma nella sessione del sinodo sulla famiglia dello scorso ottobre:

> Vie sostenibili teologicamente e adatte pastoralmente per l’accompagnamento dei divorziati e risposati

Questo documento è leggibile integralmente nel sito web della conferenza episcopale di Germania non solo nella lingua originale tedesca, ma anche in italiano, in inglese, in francese e in spagnolo, a riprova della volontà di questo episcopato di dare lezione a tutto il mondo.
E lo stesso accorgimento multilingue è stato adottato per le risposte al questionario presinodale, rese pubbliche in questi giorni:

> La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo. Risposta della conferenza episcopale tedesca

Qui di seguito è riprodotta la sezione del documento con le risposte sui punti più controversi: divorziati risposati, matrimoni misti, omosessuali.
I vescovi tedeschi non solo approvano che si diano l’assoluzione e la comunione ai divorziati risposati, ma anche auspicano che si benedicano in chiesa le seconde nozze civili, che si dia la comunione eucaristica anche ai coniugi non cattolici, che si riconosca la bontà dei rapporti omosessuali e delle unioni tra persone dello stesso sesso.
Scrivono che non intendono mettere minimamente in discussione la dottrina della Chiesa universale relativa al matrimonio e alla famiglia. Ma non spiegano come conciliare tale dottrina “cum Petro e sub Petro” con le pratiche pastorali da loro messe in atto in Germania.
A giudizio del cardinale Gerhard Müller, infatti, tale conciliazione è impossibile. Anzi, “l’idea che le conferenze episcopali siano un magistero oltre il Magistero, senza il papa e senza la comunione con tutti i vescovi, è un’idea profondamente anticattolica e che non rispetta la cattolicità della Chiesa”:

> Bishops conferences are not the Magisterium, Vatican doctrine chief reminds Cardinal Marx

Müller è tedesco, ma in Germania lo ritengono più “romano” che uno di loro, in quanto prefetto della congregazione per la dottrina della fede.
Un altro cardinale ritenuto più romano che tedesco è Paul Cordes, presidente emerito di Cor Unum. Anche lui ha criticato i vescovi suoi connazionali, per la loro pretesa di dare lezione al mondo pur essendo alla testa di una Chiesa in sfacelo, dove tanti preti non pregano né si confessano, due terzi dei fedeli non credono nella risurrezione di Gesù e solo il 16 per cento dei cattolici dicono di credere in un Dio che è persona, e non in una vaga entità:

> German prelate breaks rank with Cardinal Marx, insists on fidelity to Rome

Questo è il link al documento di lavoro diffuso da Roma in vista della prossima sessione del sinodo dei vescovi:

> Sinodo dei Vescovi - “Lineamenta” per la XIV Assemblea Generale Ordinaria

I “lineamenta” comprendono la relazione finale del sinodo dello scorso ottobre e un questionario per il suo approfondimento nelle Chiese locali: quello a cui i vescovi tedeschi hanno risposto.

“Gelásio autem primo, Pontífice máximo, in Apúlia in vértice Gargáni montis, ad cujus radíces íncolunt Sipontíni, Archángeli Michaélis fuit illústris apparítio” (Lect. IV – II Noct.) - IN APPARITIONE S. MICHAËLIS ARCHANGELI

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Questa festa odierna, ahimè soppressa nel 1960, ricorda la dedicazione di uno dei più celebri santuari longobardi, quello del santo Arcangelo sul monte Gargano, nei pressi di Siponto, e le cui origini risalgono alla prima metà del VI sec.
Roma, che, dai tempi di san Leone Magno, celebrava il natalis della basilica dell’Arcangelo al VI miglio della via Salaria il 29 o il 30 settembre, s’astenne durante molti secoli dal celebrare anche quella del santuario di Siponto, perché non la concerneva.
Tuttavia, verso l’XI sec., la basilica della via Salaria, essendo già caduta in completo oblio, i due anniversari furono attribuiti al monte Gargano; la festa dell’8 maggio fu dunque considerata come l’anniversario dell’apparizione di san Michele su questa montagna e quella del 29 settembre fu quella della dedicazionedell’oratorio primitivo eretto dal vescovo di Siponto nella grotta in cui l’Arcangelo era apparso.
Nel XII la festa si propagò qualche poco e penetrò nelle basiliche del Laterano e del Vaticano. Essa si presenta sotto diversi titoli a seconda dei manoscritti. Così si rileva come Sancti Michælis archangeli in molti di questi; come Apparitio sancti Michælis in altri; come Dedicatio sancti Michælis in uno così come in uno come Inventio sancti Michælis ed in un altro Revelatio sancti Michælis. Come precisa il martirologio di San Pietro, si tratta della festa di san Michele al Monte Gargano nelle Puglie. Si celebra, in effetti, questo giorno qui l’apparizione di cui san Michele avrebbe onorato il Gargano alla fine del V sec. e la dedicazione della basilica eretta in questo luogo.
Nella Sabina, sul monte Tancia, si trovava un’altra grotta, antico tempio pagano, che, verso il VII sec., fu dedicato – giusto un 8 maggio – a san Michele dai Longobardi, ed ottenne anch’essa una grande celebrità (cfr. M. G. Mara, Michele, arcangelo, in (a cura di) Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Bibliotheca Sanctorum, tomo 9, Roma 1968 (ora III rist. 1996), col. 421). La sua storia si svolse parallelamente a quella del Gargano, salvo che il santuario sabino era più antico, poiché, come vuole un’antica narrazione di Farfa, lo stesso papa san Silvestro l’avrebbe consacrato. La sua dedicazione si festeggiava ugualmente l’8 maggio, e questa ha senza dubbio contribuito a diffondere la festa di questo giorno nella Sabina, nei paesi del reatino e nel Ducato romano, vale a dire dovunque l’abbazia di Farfa, alla quale i duchi longobardi di Spoleto donarono questo santuario, estese la sua influenza. Non pensiamo tuttavia che si sbagli cercare in questa direzione l’origine della festa celebrata a Roma, poiché Farfa era un’abbazia imperiale e, tuttavia, la Città dei Papi non doveva aprirsi volentieri alla sua influenza. La festa non è potuta venire neanche dal Nord, giacché è ignorata da tutti i calendari di Francia e di Germania. I martirologi che derivano da Beda non ne fanno menzione, connettono il culto del Monte Gargano al 29 settembre.
È dunque dall’Italia meridionale che si diffuse la sua festa dell’8 maggio: «Quando si studiano le tracce, in Occidente, del culto di san Michele, lo si vede iniziare al Monte Gargano, in un luogo fortemente ellenizzato, ed è dal sud dell’Italia che risplende verso il Nord e specialmente verso la Lombardia, per l’influenza di Ravenna», scrive H. Leclercq (in D.A.C.L., tomo 11, col. 905, riprendendo il libro di O. Rodjestinsky, Le culte de saint Michel et le Moyen Age latin, Paris 1912, traduzione nostra, ndr.). Dal IX sec., l’apparitio S. Michælisè incisa nel calendario di marmo di Napoli. Essa appartiene anche al calendario di Benevento (Paléographie musicale, tomo XIV, pp. 450-451). Cfr., per riferimenti, Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 237.
La messa è la stessa del 29 settembre.
La presenza dei santi Angeli nel tempio ed all’ora della preghiera deve ispirarci un profondo rispetto per la maestà di Dio e per la santità degli spiriti beati; perciò il Salmista diceva: In conspectu angelorum psallam tibi (Sal. 138 (137), 1). Questo rispetto deve essere unito tuttavia ad un sentimento di grande fiducia, poiché, durante l’orazione, mentre sulla nostra testa si apre il cielo ed il Paraclito, che dimora in noi, c’apre le labbra per la preghiera, i santi Angeli si mettono ai nostri lati per aiutare la nostra insufficienza, per trasportare al cielo i nostri voti e portarci, in seguito, la grazia da parte di Dio. Ascendit precatio (oratio)– diceva sant’Agostino – et descenditDei miseratio(Pseudo Agostino, Sermo 47 de beato Tobiae). Per questo, la Chiesa, al momento più solenne del divino Sacrificio, invoca l’aiuto degli angeli, affinché presentino loro stessi, in nostro nome, l’offerta sull’altare celeste, e ci riportino la pienezza delle benedizioni.
Quis ut Deus? Queste parole sono un programma di umiltà; questa consiste essenzialmente difatti nel riconoscere i diritti infiniti di Dio su noi, e l’obbligo in cui siamo, noi, creature inutili, di dedicargli le nostre persone e ciò che c’appartiene. L’umiltà è così giustizia e verità.
L’importanza delle funzioni di san Michele verso la Chiesa è giustificata specialmente dalla sacra Scrittura, dove, nella lotta contro il demonio, in ogni tempo, nella Sinagoga come nella Chiesa, è rappresentato sempre come l’invincibile campione di Dio. Secondo ciò che scriveva san Paolo ai Tessalonicesi (2 Tes. 2, 6-7), il mistero di iniquità che si manifesterà impudentemente negli ultimi tempi del mondo avendo cominciato già la sua opera di perversione, trova un ostacolo (katéchon, Κατέχων), che gli impedisce di spiegare tutto il suo potere malefico anche oggi; e ciò, fino al giorno della lotta finale permessa da Dio all’anticristo. Come spiegano numerosi esegeti, questo ostacolo è san Michele. La devozione verso l’arcangelo vincitore di Satana offre qualche cosa di più della devozione agli altri santi. Questi possono intercedere per noi vicino a Dio e possono ricoprire il ruolo di avvocato, mentre san Michele è costituito anche da Dio protettore e difensore della Chiesa. Ciò si spiega perché appartiene non semplicemente all’agiografia, ma alla stessa teologia cristologica, e dopo le funzioni del Padre putativo di Gesù, non esistono sulla terra di più importanti né di più sublimi di quelle sono affidate a san Michele.

Juan de Valdés Leal, S. Michele arcangelo, 1656 circa, Museo del Prado, Madrid

Manuel Arbós y Ayerbe, S. Michele, 1865, museo del Prado, Madrid

Giuseppe Cesari, S. Michele scaccia gli angeli ribelli, 1592-93, Glasgow Museums, Glasgow 

Domenico Cresti (detto Il Passignano), Apparizione dell’arcangelo Michele sul Monte Gargano, 1602, Badia, Passignano


Sebastián López de Arteaga, Apparizione di S. Michele sul Gargano, 1650, Denver Art Museum, Denver





Cesare Nebbia, Apparizione di S. Michele arcangelo sul Gargano, XVI sec., Galleria delle Carte Goegrafiche, Vaticano

Santa Marie Alphonsine, l'umile figlia della Palestina

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Quale modo migliore di ricordare che oggi, nel mondo, si recita la Supplica alla B. V. M. del Rosario di Pompei, nella sua festa di maggio, che ricordare una delle prossime Sante che fece del Rosario la propria ragione di vita?



Il Card. Burke a Trieste - 16-17 maggio 2015

La Francia elimina le croci e recide le sue radici, già disseccate da 226 anni

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Quella che un tempo era la figlia prediletta della Chiesa ha deciso irrimediabilmente, in una stolta lotta contro Dio, la religione e la Chiesa, di tagliare definitivamente le proprie radici cristiane, per la verità già disseccatesi da almeno 226 anni (v. qui e qui. Cfr. M. Matzuzzi, Parigi non vale una messa).
Ciò non rafforzerà – come credono gli stolti – l’unità di quel paese, ma segnerà la sua rovina, divenendo facile preda delle intemperie. Recise le radici ed ogni legame con ciò che era la vera storia della Francia, che è cristiana e religiosa, i francesi saranno – come aveva anche preannunciato il beato Charles de Foucauld – scacciati dalla loro stessa terra da chi è più forte di loro (v. qui).
Nella memoria liturgica di S. Antonino da Firenze, vescovo e confessore, posto quest’articolo, che fa riflettere sulla stoltezza dei governanti d’Oltralpe.

S. Antonino Pierozzi da Firenze, Basilica di S. Maria del Fiore, Firenze

La Francia elimina le croci e fa seccare le sue radici

Perseguitare per legge la tradizione religiosa è peggio di un delitto: dietro ai presepi e alle statue c’è la fede


A Rennes, nei giorni scorsi (v. anche qui), una statua di San Giovanni Paolo II è stata rimossa per ordine tribunalizio: troppa ostentazione nel segno della croce, par di capire... Non si comprende bene che cosa un santo, per di più papa, debba avere come simbolo: caramelle per le bambine, forse, pistole ad acqua per i maschietti, magari, di certo né croci e nemmeno santini, che, a ben guardare, altro non sono se non una propaganda religiosa mascherata. Secondo un dossier dell’Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa, la Francia è in testa nella classifica dell’oltraggio e, come ha riportato Il Foglio commentando la notizia, c’è ancora chi, un candidato comunista a Bordeaux, chiede la chiusura delle parrocchie e delle scuole cattoliche in quanto «fortini di fondamentalismo religioso». La Francia, si sa, è un Paese laico, ma essere laici non ha mai impedito di restare cretini. A inizio Ottocento un giovane autore che si chiamava Chateaubriand scrisse Le Génie du Christianisme e, in una nazione dove la Dea Ragione aveva combinato disastri durante la Rivoluzione dell’89, sancì di nuovo e con più forza il rapporto che c’è fra un popolo e la sua storia, le tradizioni, il culto delle tombe e della memoria. Prima della Francia dei Lumi, insomma, c’era stata la Francia di San Dionigi, di San Luigi re e di Giovanna d’Arco, delle cattedrali gotiche e delle trappe, delle orazioni funebri intorno al defunto e, naturalmente, i dipinti, le musiche, i libri, le architetture che disegnavano un panorama composito che aveva saputo inglobare il mondo pagano precedente e dar luogo a una religione che si era inserita, innervandola, nella storia nazionale.
Dimenticarsene, era peggio di un delitto: era un errore sociale, politico, culturale. Due secoli dopo, siamo come due secoli prima, ma non staremo qui a scomodare lo «scontro di civiltà», la difesa delle libertà minacciate e, va da sé, quel «siamo tutti Charlie» echeggiato prepotentemente a ridosso del sanguinoso raid nella sede del giornale satirico parigino, culminato nella marcia pubblica dell’11 gennaio e poi più o meno frettolosamente archiviato. Una marcia, sia detto per inciso, dove i volti compunti degli Hollande e dei Sarkozy di turno, quel loro calarsi nella parte per rubarsi l’un l’altro la parte, sarebbero stati per noi motivo sufficiente per starsene a casa. E ancora, sempre per inciso, qualcuno avrebbe anche dovuto ricordare che i primi a «non essere Charlie» erano stati proprio quegli stessi redattori e vignettisti del settimanale Charlie Hebdo, specializzatisi negli anni precedenti in raccolte di firme e petizioni contro il Front National, ovvero, semplicemente, contro il diritto di pensarla diversamente da loro... No, la questione è un’altra ed è che tutte le civiltà cominciano a morire quando non credono più in se stesse, quando si vergognano dei propri simboli identitari, quando cavillano e si affidano a giudici, avvocati, tribunali per sancire la liceità di questo e di quello. Dietro alle statue delle Madonne rimosse, ai presepi considerati focolai di discriminazione, ai crocifissi nelle scuole «bastonati» come fossero armi improprie, c’è una babele ideologica che è la prima e la più forte avvisaglia di un’incapacità a vedersi come comunità nazionale, come coesione interna, come sistema di valori. Laicismo e religiosità si sono sempre contrapposti, anche aspramente, in Francia, e la legge che sancisce la separazione fra Stato e Chiesa arrivò lì ai primi del Novecento e fu fonte di lacerazioni, contrasti, scomuniche. Ma nel corso del XX secolo la secolarizzazione è andata avanti a passo di carica, aiutata da una modernità che tanto più distruggeva il passato, tanto più dissolveva legami e consuetudini, favoriva l’anonimia, spostava il baricentro dalla famiglia all’individuo. È anche per questo che in Francia, come altrove, del resto, il processo di sgretolamento è inizialmente apparso come l’ulteriore, definitiva vittoria dei diritti sui doveri, fino a raggiungere la stupefacente realtà della politica contemporanea in cui non esiste più una nazione a cui dover rendere conto, ma dei clienti-elettori a cui dare qualcosa in cambio del voto. L’aziendalismo politico attuale è la maschera con cui l’economia esercita il suo dominio facendo finta che ci siano ancora presidenti, capi di governo, deputati, senatori… Non sarà certo una statua o una croce in più o in meno a cambiare la situazione, perché l’errore sta proprio nell’isteria legalitaria con cui si pensa di guidare e/o formare i meccanismi che stanno alla base del vivere sociale. Un’orgia di rispetto costituzionale che fa a pugni con il buon senso, con la pratica consolidata, con la stessa libertà di dissentire e di non essere d’accordo, un feticismo delle regole e della correttezza politica che maschera il vuoto di ciò che c’è sotto, l’assoluta incapacità di essere in sintonia con i bisogni profondi di un Paese. Non è necessario svuotare le cattedrali dei loro fedeli, è sufficiente svuotare i fedeli nella fede, non religiosa, in un destino comune. Il resto viene da sé, ma senza radici non sono solo le piante a marcire al sole. Dell’avvenire, naturalmente.

Salve Mater Misericordiae

Don Nicola Bux ad Ancona il 14 maggio 2015

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Associazione Centro Studi Oriente Occidente

Giovedì 14 maggio 2015, h. 16,00

Ancona, Aula Facoltà di Economia, Piazzale Martelli, n. 8

il prof. Don Nicola Bux

Consultore presso la Congregazione delle Cause dei Santi
e già Consultore presso la Congregazione per il Culto Divino

terrà una conversazione

nell’ambito del ciclo dedicato a 

La vita della Chiesa nel tempo della crisi?

“Exaudívit de templo sancto suo vocem meam, allelúja: et clamor meus in conspectu ejus, introívit in aures ejus, allelúja, allelúja” (Ps. 17, 7 – Intr.) - IN LITANIIS MINORIBUS

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"A fulgure et tempestate, libera nos Domine"

Il triduum delle litanie penitenziali prima della festa dell’Ascensione fu istituito a Vienne da san Mamerto verso il 470, ed importavano anche la cessazione dai lavori servili e il digiuno. L’uso si estese con rapidità e divenne assai popolare. Siccome tuttavia un periodo di lutto e di penitenza nel bel mezzo del tempo pasquale a Roma sembrava un controsenso affatto inopportuno, così la liturgia romana non l’adottò che assai tardi, nel periodo cioè franco, sotto Leone III, e questo solo in via eccezionale e non come un’istituzione stabile da rinnovarsi annualmente. In seguito, la consuetudine delle Chiese gallicane finì per accordarsi definitivamente con Roma, in grazia però di un compromesso; il digiuno venne abolito, e fu solo conservata la processione triduana di san Mamerto con la messa, che però è quella stessa che si celebrava nell’Urbe nelle Litanie maggiori. È da notarsi del resto che queste Rogazioni franche solo assai tardi entrarono a far parte del rituale ufficiale di Roma, giacché gli Ordini Romani le ignorano completamente.
La chiesa stazionale di Santa Maria Maggiore per il primo giorno rievoca il ricordo dell’antica litania septiformis o processione di penitenza istituita da san Gregorio Magno, per ottenere la cessazione della peste.
Il ricordo del primo miracolo operato da Gesù alle nozze di Cana, grazie all’intercessione della Vergine, sua Madre, la cui sola preghiera poté far decidere il suo divin Figlio a precedere il tempo fissato da Lui per manifestarsi al mondo per mezzo di prodigi, deve ispirarci una grande fiducia nel potente patronato di Maria. Quante volte la divina Madre non formula lei non ancora, in nostro favore, la preghiera che fece per gli sposi di Cana: Vinum non habent, Non hanno più vino! E noi, allora, ci sentiamo ebbri del santo amore di Dio, e noi ripetiamo, con l’architriclinio, ordinatore del festino: Tu autem servasti bonum vinum usque adhuc, Tu, però, hai custodito il buono vino per la fine!
La processione e la messa si regolano secondo lo stesso rito degli Ambarvali romani del 25 aprile.
Nella processione, tuttavia, secondo alcuni autori, abbiamo un ultimo residuo dell’antica processione stazionale che i primi cristiani facevano volentieri, quasi ogni giorno, durante la Quaresima e nella settimana di Pasqua. Si radunavano in una chiesa, chiamata chiesa di riunione (ecclesia collecta: è da lì che viene il nome dell’orazione detta, appunto, colletta). Da lì, si recavano in processione col vescovo ed il clero in un’altra chiesa. Durante il tragitto, cantavano le litanie dei santi ed il Kyrie eleison. L’altra chiesa si chiamava chiesa della stazione o stazionale. Lì si celebrava la santa messa. I quattro giorni di preghiere ci hanno conservati quest’antico e venerabile uso che deve esserci sempre assai caro. Non dobbiamo pregare difatti, solamente insistentemente, ma pure in comunità. A questa preghiera pressante e comune il Cristo ha promesso la forza ed il successo. Alla processione, si cantano le antiche litanie dei santi, nelle quali imploriamo, per tutti i nostri bisogni, l’intercessione di tutta la Chiesa trionfante. Le orazioni terminali di queste litanie sono molto belle e molto edificanti a questo riguardo.

William Holt Yates Titcomb, La Chiesa in Cornwall ovvero La processione delle Rogazioni, XX sec.

Théodore Louis Boulard, Procession de la Saint-Julien - les Rogations, XX sec., collezione privata


Fatima: profezia di una crisi annunciata e promessa di un trionfo atteso

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Nella Vigilia dell’Ascensione al Cielo di N. S. Gesù Cristo e nella memoria liturgica di Nostra Signora di Fatima e di S. Roberto Bellarmino, cardinale, vescovo, dottore della Chiesa e confessore, rilancio quest’interessante articolo, sebbene risalente ad un anno fa, ma sempre attuale e che è stato reso in inglese da Rorate caeli.


Fatima: profezia di una crisi annunciata 
e promessa di un trionfo atteso

Quasi un secolo è trascorso dal grande evento di Fatima in cui la Madonna, messaggera di Dio, apparve alla piccolezza di tre pastorelli per dare un grande messaggio e per offrire la sua materna intercessione ad una umanità travagliata dal peccato e sempre più narcotizzata dall’insinuante secolarizzazione.
Maria Santissima è la Regina del regno atteso, previsto secondo la sua promessa, ed imprevisto secondo tempi e modalità; speranza di un nuovo millennio per i figli della luce, la schiera militante del popolo di Dio, mosso dallo Spirito Santo nei marosi dell’agitazione e del disordine, in direzione del porto sicuro descritto nel sogno di san Giovanni Bosco, ad indicare le due colonne di salvezza, l’Eucarestia e la Vergine Maria.
La Madonna nel 1917, alla cova da Iria, lanciò un messaggio forte e chiaro, lo stesso che ancora ben pochi hanno accolto nella loro esistenza, la consacrazione al suo Cuore Immacolata inadempiuta secondo le indicazioni date a suor Lucia per evitare che gli errori del comunismo sfociassero nelle guerre e nelle persecuzioni alla Santa Chiesa e al Santo Padre. La debolezza umana e la mancata risposta alla chiamata divina hanno determinato irrimediabilmente lo scenario agghiacciante e perverso dei nostri giorni, a cui assistiamo disarmati. E’ un fiume in piena che ci travolge quotidianamente e che attraversa le nostre strade, le nostre piazze, le nostre città, il nostro paese e il mondo intero. I canali televisivi e radiofonici dove nulla rimanda a Dio per l’edificazione della società, sono inquinati dalle cloache della menzogna, promotori di facili conquiste come l’inadempienza di politici e uomini pubblici che a servizio di un abile regia, elargiscono false promesse, poco dopo cadute nel vuoto.
Una crisi prevista e annunciata nel 1917, giunta in piena attuazione: a poco meno di un secolo ed è il conto   alla rovescia per l’abbreviarsi di questi tempi di iniquità, preparati dai falsi miti della scienza che osa sempre più sfidare l’onnipotenza creatrice di Dio per mutare e sfuggire alla legge naturale fondata sull’azione procreatrice della famiglia, unica sorgente di vita e scuola di valori perenni e universali.
Un disorientamento provocato, che spiazza le migliori coscienze e confonde le più ardue intelligenze, accecate dalla brama di potere e di notorietà, sviate dalla satanica illusione di false promesse che allontanano dal servizio della buona causa a cui essere devoti, fino alla perseveranza finale. La Madonna ha parlato a tre pastorelli per spiazzare i superbi nei pensieri del loro cuore, e innalzare gli umili, in un tempo di apostasia atto ad annullare il dogma della fede e capovolgere ogni verità assoluta. E’ la Chiesa che soffre per il tradimento dei suoi ministri, che risucchiati dal vortice della corruzione, allontanano le pecore dall’ovile, incapaci di discernere la voce del loro pastore.
Siamo alle soglie della grande promessa di Fatima secondo cui la Donna vestita di Sole, all’alba di un nuovo tempo di pace, trionferà e con esso l’imprevisto mistero che rivestirà l’umanità di nuova luce, la luce radiosa del Cuore Immacolato di Maria, sposa di Cristo, che da sempre  prega, geme e soffre con la sua Chiesa,  la perdita dei suoi figli, sperando fino all’ultimo nella loro salvezza, così, come una madre, alle soglie del parto, per dare alla luce la nuova vita.

Francesca Bonadonna


Devozioni in onore dello Spirito Santo dalla Vigilia dell'Ascensione fino a tutta l'Ottava di Pentecoste

"I segreti di Fatima" da "La storia siamo noi" - 2010

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(cliccare sull'immagine per il video)

Immagini della S. Messa e della Conferenza del Card. Burke a Lecce, 8 maggio 2015

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