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“Verum, ad cultum sacratíssimi Cordis Jesu plene perfectéque constituéndum, eumdémque per totum orbem propagándum, Deus ipse sibi instruméntum elégit humíllimam ex órdine Visitatiónis vírginem, sanctam Margarítam Maríam Alacóque, cui, a prima quidem ætáte jam in Eucharístiæ Sacraméntum amóre flagránti, Christus Dóminus sæpenúmero appárens, divíni Cordis sui et divítias et optáta significáre dignátus est” (Lect. V – II Noct.) - FERIA VI POST OCTAVAM SSMI CORPORIS CHRISTI, IN FESTO SACRATISSIMI CORDIS JESU

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Le origini di questa festa sono del tutto assimilabili a quelle della festa del Santissimo Sacramento.
Nel Liber Sacramentorum, la festa del Sacro Cuore si trova ancora nel ciclo santorale, il traduttore ne dà la ragione: «Conformemente alle ultime rubriche, questa festa dovrebbe trovarsi al Proprio del Tempo, tra l’II e la III Domenica dopo la Pentecoste. Il tomo III del Liber Sacramentorum era stato stampato già quando la decisione della S. C. dei Riti era stata promulgata. Conserviamo dunque alla festa del Sacro Cuore il posto che occupava nelle antiche edizioni del Messale, pur sostituendo al precedente il nuovo testo della messa».
Il simbolismo del costato di Gesù, aperto dalla lancia di Longino e da cui sgorgarono il sangue e l’acqua, è conosciuto già dagli antichi Padri della Chiesa; sant’Agostino e san Giovanni Crisostomo hanno delle pagine splendide sui divini Sacramenti, nati dal Cuore amante del Redentore, e sulla Chiesa che, radiosa di giovinezza, esce dal costato del nuovo Adamo addormentato sulla Croce.
La tradizione patristica fu conservata e sviluppata a cura della scuola ascetica benedettina; anche, quando, nel XII sec., il santo abate di Clairvaux orientò infine la pietà mistica dei suoi monaci verso un culto completamente speciale reso all’umanità del Salvatore, si può dire che la devozione al Sacro Cuore, nel senso che gli attribuisce oggi la sacra liturgia, era già nata. Dalla semplice meditazione sulle piaghe di Gesù, la scuola benedettina era passata alla devozione particolare per quella del costato, ed attraverso il fianco trapassato dalla lancia di Longino, essa era penetrata nell’intimo del Cuore, ferito anch’esso dalla lancia dell’amore.
Il Cuore di Gesù rappresenta, per san Bernardo, quell’incavo della roccia dove lo Sposo divino invita la sua colomba a cercare un rifugio. Il ferro del soldato è giunto fino al Cuore del Crocifisso per svelarcene tutti i segreti dell’amore. Ci ha, difatti, rivelato il grande mistero della sua misericordia, queste viscere di compassione che l’hanno indotto a scendere dal cielo per visitarci (In Cantic. Serm. 61, nn. 3-4, in PL 183, col. 1071-72).
I discepoli di san Bernardo svilupparono meravigliosamente la dottrina mistica del Maestro, quando intervennero le grandi rivelazioni del Sacro Cuore di Gesù a santa Lutgarda (+1246), a santa Gertrude ed a santa Mechtilde (Matilde).
Un giorno, il Signore scambiò il suo Cuore con quello del santa Lutgarda; ed una notte che la santa, malgrado la malattia, si era alzata per l’ufficio vigiliale, Gesù, per ricompensarla, l’invitò ad avvicinare le sue labbra alla ferita del suo Cuore, dove Lutgarda attinse una tale soavità spirituale, che, provò, in seguito, sempre forza e dolcezza nel servizio di Dio.
Verso il 1230 sopraggiunse la celebre rivelazione del Sacro Cuore a quell’illustre Mechtilde di Magdeburgo, che, più tardi, fece parte della comunità di Helfta dove vivevano santa Gertrude e santa Mechtilde (Matilde) di Hackeborn.
“Nelle mie grandi sofferenze, ella scrisse, Gesù mi mostrò la piaga del suo Cuore e mi dice: Vedi qual male mi hanno fatto!”.
Quest’apparizione l’impressionò vivamente, tanto che, da allora, la devota religiosa non smise di contemplare questo Cuore afflitto ed oltraggiato, ma che, allo stesso tempo, gli appariva simile ad una massa di oro arroventato, collocato dentro ad un’immensa fornace. Gesù avvicinò il cuore di Mechtilde al suo, affinché vivesse della stessa vita di Lui.
Quando la Provvidenza condusse a Helfta la pia estatica di Magdeburgo, questo avvenne per avvicinarla a due altre figlie di san Benedetto, Gertrude e l’omonima Mechtilde (di Hackeborn), che erano state favorite da doni analoghi. Il carattere particolare della devozione di santa Gertrude per il Verbo Incarnato brilla specialmente nel suo rendere devozione al Sacro Cuore, che, per lei, è il simbolo dell’amore del Crocifisso, ed un tipo di sacramento mistico mediante il quale la Santa partecipa ai sentimenti di Gesù ed, al medesimo tempo, ai suoi meriti.
Un giorno che Gertrude è invitata da san Giovanni a riposare con lui sul Cuore sacro del Signore, chiede all’evangelista perché non ha rivelato alla Chiesa le delizie ed i misteri di amore gustati da lui nell’ultima Cena, quando appoggiò la sua testa sul petto del Divin Maestro. Giovanni risponde che la sua missione era stata quella di rivelare agli uomini la natura divina del Verbo, mentre il linguaggio di amore espresso dai battiti del Sacro Cuore sentito da lui doveva rappresentare la rivelazione degli ultimi tempi, allorché il mondo, invecchiato e raffreddato, avrebbe avuto bisogno di riscaldarsi per mezzo di questo mistero di ardente carità (Ivan Gobry, Margherita Maria Alacoque e le rivelazioni del Sacro Cuore, Roma 20024, p. 15).
Gertrude comprese che l’apostolato del Sacro Cuore di Gesù era stato affidato a lei stessa, perché, con le sue parole e nei suoi libri, ella scrivesse tutta la teologia, per così dire, di questa ferita divina e sacra, propagandone con ardore la devozione. In questa missione evangelizzatrice, ebbe per compagna la devota cantrix Mechtildis, la quale era stata invitata similmente dal Signore a stabilire la sua dimora nella piaga del suo Cuore. Come la sua compagna, santa Mechtilde mise pure lei per iscritto le sue rivelazioni, dove paragona il Sacro Cuore ora ad una coppa d’oro dove si dissetano i santi, ora ad una lampada luminosa, ora ad una lira che diffonde nel cielo le sue dolci armonie. Un giorno Gesù e Mechtilde scambiarono i loro cuori, e da allora sembrò alla Santa che erano i battiti del Cuore del suo divino Sposo che sentiva in se stessa.
Le rivelazioni delle due estatiche di Helfta furono accolte molto favorevolmente, soprattutto in Germania, cioè in un luogo già risolutamente orientato verso il Cuore di Gesù, grazie alla precedente influenza della scuola benedettina. Gli scrittori della famiglia dominicana e francescana seguirono anch’essi con ardore questo movimento, e lo diffusero soprattutto grazie a san Bonaventura, al beato Enrico Suso, a santa Caterina ed a san Bernardino da Siena. Si arriva così fino al tempo di santa Francesca Romana, che, nelle sue rivelazioni sul Sacro Cuore, in cui ella si immerge anche come in un oceano arroventato di amore, non fa che accentuare l’orientamento ascetico dell’antica scuola mistica dei figli di san Benedetto. L’azione della fondatrice del monastero Turris Speculorum a Roma rimase, è vero, circoscritta all’ambito romano; ma rappresenta uno dei più preziosi anelli di tutta una catena di santi e di scrittori ascetici che, in Germania, in Belgio ed in Italia prepararono le anime alle grandi rivelazioni di Paray-le-Monial. Quando infine queste furono comunicate ai fedeli, grazie soprattutto a san Claudio de La Colombière ed al P. Croiset, il trionfo del Cuore di Gesù e del regno del suo amore fu assicurato oramai alla devozione cattolica. I figli di sant’Ignazio si dedicarono con uno zelo particolare a questa forma nuova di apostolato del Sacro Cuore. Nel 1765, il papa Clemente XIII approvò un ufficio in onore del Sacro Cuore di Gesù, ma fu concesso solamente ad alcune diocesi. Nel 1856, Pio IX, sullo spirito del quale aveva influito grandemente l’illustre restauratore dell’ordine benedettino in Francia, Dom Guéranger, rese questa festa obbligatoria per la Chiesa universale inserendola nel Calendario, nel ciclo del Santorale, dandone il relativo formulario ed ordinandone la celebrazione sotto il grado di doppio di II classe. Nel 1889, Leone XIII l’elevò al rito doppio di I classe.
Quando, il 26 gennaio 1765, Clemente XIII autorizzò il culto liturgico del Sacro Cuore di Gesù per la Polonia e per l’Arciconfraternita romana (sul contesto storico, cfr. Aa. Vv., La Chiesa nell’epoca dell’assolutismo e dell’illuminismo, in Hubert Jedin (dir. da), Storia della Chiesa, Milano 20075, vol. VII, pp. 499-500), si avverava una predizione fatta trent’anni prima dalla devota badessa di San Pietro di Montefiascone, la serva di Dio Maria Cecilia Baij. Il Signore, mostrando il suo Cuore a questa serva di Dio, le aveva detto: «Un giorno verrà, in cui il culto del mio Cuore si estenderà trionfalmente nella Chiesa militante, e ciò grazie alla festa solenne che se ne celebrerà, con l’ufficio del Sacro Cuore» (cfr. Ursmer Berlière, La dévotion au Sacré-Cœur dans l’Ordre de Saint-Benoît, Paris, 1923). «Tuttavia, aggiungeva la pia Benedettina, non so se ciò giungerà dai nostri tempi».
Ella fu, del resto, assai felice di vedere infine questo giorno desiderato, e si ricordò certamente allora di queste altre parole che aveva sentito dal suo divino Sposo parecchi anni prima: «Un tempo verrà in cui sarai molto gradita al mio Cuore facendo adorarlo e conoscere da un gran numero di persone per mezzo del culto e degli atti di devozione che gli sono dovuti».
Nel 1899, Leone XIII pubblicò l’Enciclica Annum Sacrum, nella quale prescriveva a tutto l’universo cattolico di consacrarsi al Sacro Cuore di Gesù. Il Pontefice si era deciso a quest’atto dopo un ordine formale che una pia superiora del Buon Pastore di Oporto, la beata Maria del Divin Cuore di Gesù (Maria Droste zu Vischering), diceva avere ricevuto dallo stesso divin Redentore affinché fosse comunicato al Papa. La rivelazione privata presentava del resto tutti i caratteri dell’autenticità, e lo spirito della religiosa era già stato provato dal saggio abate di Seckau, Dom Ildefons Schober(1849–1918). È così Dom Ildebrando de Hemptinne (1848-1913), abate di Sant’Anselmo all’Aventino, prese l’affare in mano e presentò la supplica della religiosa a Leone XIII. L’8 giugno 1899, mentre le campane di tutte le chiese del mondo cristiano annunciavano la festa del Sacro Cuore ed il nuovo atto di consacrazione prescritto dal Papa, la veggente di Oporto rendeva la sua anima purissima a Dio, a testimonianza del compimento della sua missione terrena.
La festa del Sacro Cuore riceveva da Pio XI, poi, un sovrappiù di importanza e di onore poiché si accordava a questa il privilegio dell’ottava, riservato alle più grandi solennità del Signore. Semplice coincidenza o misteriosa disposizione di Dio? La nuova liturgia romana per l’ottava della festa del Sacro Cuore fu approvata dal Papa allo stesso tempo del famoso Concordato, che metteva fine alla funesta Questione romana, nel 1929. Nella stessa epoca, il “perfetto amico del divin Cuore”, il P. de La Colombière, era iscritto solennemente nel catalogo dei beati (poi canonizzato da Giovanni Paolo II), e Pio XI, alcune settimane più tardi, uscendo infine dal Vaticano, portò in trionfo Gesù Eucarestia, in mezzo ad un glorioso corteo di ministri sacri nel numero di settemila.
Con dotando la Festa di un’Ottava, Pio XI equiparava la stessa alle più importanti feste del ciclo del Temporale (facendola uscire dal ciclo del Santorale).
L’eresia, che caratterizza lo spirito dell’odierna società, potrebbe essere facilmente chiamata laicismo, in quanto vuol livellare, abbassare il divino ed il soprannaturale alla misura delle istituzione umane, e tenta di far rientrare la Chiesa nell’orbita delle pure energie statali. Di fronte al giudaismo ed alla massoneria che persistono ancora nel loro odio furibondo contro Gesù: tolle, tolle, crucifige, i cattolici infetti da questo laicismo e liberalismi o cercano, come Pilato, una via mezzo, e sono pronti a rimandare assolto Cristo, purché prima si lasci strappare il diadema sovrano che gli cinge la fronte, e si contenti di vivere soggetto al nume di Cesare. Contro questo doppio insulto sacrilego il Pontefice Supremo (Pio XI) protesta in faccia al cielo e alla terra che non v’è altro Dio che il Signore, ed istituisce la doppia festa di Cristo Re e dell’Ottava del Sacratissimo Cuore di Gesù. L’una è la solennità della potenza, l’altra quella dell’amore.
Il Breviario romano doveva arricchirsi di un ufficio per l’ottava del Sacro Cuore e così il Sovrano Pontefice Pio XI volle che la liturgia di questa solennità fosse rifatta interamente.
Si sa che l’ufficio del Sacro Cuore aveva una volta, prima del 1929, un certo carattere frammentario e sporadico che rifletteva bene l’incertezza dei teologi incaricati della sua redazione. Era un po’ un ufficio della festa del Corpus Domini (con degli elementi, come i Responsori del Mattutino, da cui ne erano tratti) ed un po’ quello della Passione, senza parlare delle letture del III notturno, spigolato qua e là nella Patrologia, con tre omelie.
Dom Guéranger (o almeno i suoi continuatori) testimoniavano delle ragioni di questa composizione esitante: «Il est peu fait mention du Cœur de chair du Sauveur dans les formules liturgiques de ce jour. Lorsqu’au dernier siècle (XVIIIe) il fut question d’approuver une Messe et un Office en l’honneur du Sacré-Cœur, les Jansénistes, qui avaient jusque dans Rome leurs dévoués partisans, suscitèrent de telles oppositions, que le Siège apostolique ne crut pas le moment venu encore de se prononcer ouvertement sur les points débattus. Dans la Messe et l’Office qui de Rome devaient plus tard (1856) s’étendre au monde entier, il s’en tint par prudence à la glorification de l’amour du Sauveur, dont on ne pouvait nier raisonnablement que son Cœur de chair ne fût au moins le vrai et direct symbole» (Année Liturgique, Temps après la Pentecôte, I, p. 504).
Ora, papa Ratti – che, sul suo tavolo da lavoro, aveva sempre davanti agli occhi una bella statua del Sacro Cuore, dinanzi alla quale aveva costume di cercare la sua ispirazione quando trattava gli affari della Chiesa – volle un ufficio perfettamente organico, cioè in cui risplendesse l’unità e che mettesse pure in piena luce il carattere speciale della solennità della festa del Sacro Cuore, che non doveva essere una ripetizione né di quella del Santo Sacramento né degli uffici quaresimali della Passione.
Nominò allora una commissione di teologi incaricati di redigere, dunque, il nuovo ufficio; ma i loro lavori li presiedeva lui stesso; in modo che, dopo un semestre di studi, all’aurora del suo giubileo sacerdotale, Pio XI poté offrire la nuova messa e l’ufficio al mondo cattolico per l’ottava del Sacro Cuore, che non fosse né una ripetizione della festa del Corpus Domini né un duplicato dell’Ufficio della Passione.
Il pensiero che domina tutta la composizione è quella che espresse Gesù stesso quando, tramite santa Margherita Maria, chiese all’intera famiglia cattolica l’istituzione di questa festa: “Ecco il Cuore che ha tanto amato gli uomini, e che ne è così poco amato!”. Si tratta, quindi, di una festa di riparazione verso l’Amore che non è ri-amato; riparazione che fa, del resto, ammenda onorevole glorificando i pacifici trionfi di quest’Eterno Amore.
La Messa era doppia di I classe prima del 1929. Doppia di I classe con ottava privilegiata di III ordine dal 1929 al 1955. Di I classe dal 1955.
Lo scopo della solennità di questo giorno è doppio: mentre offriamo il nostro tributo di amore a questo Cuore che, a causa di sua eccellenza e dell’unione ipostatica, è il centro ed il re di ogni altro cuore umano, espiamo il crimine, allo stesso tempo, di avere trapassato con i nostri peccati questo Cuore adorabile e di averlo incoronato delle spine dell’ingratitudine e del disprezzo.
Gesù invita l’umanità tutta intera a cercare un asilo di dolce riposo nel suo Cuore. Ma perché siamo tutti tormentati e stanchi? Sant’Agostino ce lo dice: a causa della nostra vita mortale stessa, vita fuggitiva e soggetta a numerose tentazioni, in cui portiamo il tesoro della fede nel vaso fragile della nostra umanità. Una tale condizione c’affligge, ma il dolce invito di Gesù ci consola. È anche vano, in questo mondo, di sperare un altro conforto, perché, come dice molto bene un antico logion evangelico, riportato da Origene e da Didimo il cieco: Qui iuxta me est, iuxta ignem est; qui longe a me est, longe a regno est;Colui che si avvicina a me, si avvicina al fuoco, mentre quegli che si allontana da me si allontana dal regno (Origene, Omelia latina su Geremia20, 3 in PG 13, col. 532; Didimo il cieco, Commento ai Salmi88, 8, in PG 39, col. 1488D: Διο φησιν ο σωτηρ· Ο εγγυς μου, εγγυς του πυρος· ο δε μακραν απ εμου, μακραν απο της βασιλειας). Questa parola d’oro, pronunziata dal divin Salvatore, e che c’è stata trasmessa dalla tradizione dei Padri, garantisce anche per la sua bellezza la sua autenticità, e sembra molto degna di essere unita all’altro logion che c’è stato conservato da san Paolo: “Gesù ha detto: È meglio dare che ricevere”.
La lettura evangelica è chiesta in prestito a san Giovanni (Gv 19, 31-37), e descrive, con la rottura delle gambe dei due ladroni, l’apertura del costato di Gesù morto. Da questa ferita sgorgarono il sangue e l’acqua, per simboleggiare i sacramenti nei quali la Chiesa nasce ed è nutrita. È il Nuovo Testamento nel sangue. Giovanni, che esercita al tempo stesso le funzioni di scrittore e di testimone, vuole mostrare ai fedeli la continuità del piano divino nell’antica e nella nuova alleanza, e cita a questo scopo le profezie che ricevettero il loro compimento sul Golgota, dopo la morte di Gesù.
Non si doveva rompere alcun osso dell’agnello pasquale, perché l’immolazione della Vittima divina non fosse seguita dalla decomposizione del suo corpo nel sepolcro, ma, al contrario, dalla gloria della risurrezione. Di più, sebbene Gesù nella santa Comunione sia preso in cibo dai fedeli, non è consumato per ciò. Nec sumptus consumitur (San Tommaso d’Aquino, Lauda Sion, sequenza della Messa del Corpus Domini, «se ne nutre senza consumarlo»), e l’agnello, stesso dopo che i fedeli se ne sono nutriti, rimane vivente, glorioso ed intero. Ma esiste un’altra profezia (Zac 12, 10), alla quale si riferisce più volte san Giovanni: i popoli contempleranno Colui che è stato trafitto.
Il passo del Vangelo letto in questo giorno è stato commentato con eleganza da Paolino di Aquileia (+ 802) (cfr. A. Willart, L’Hymne de Paulin sur Lazare dans un manuscrit d’Autun, Rev. Bénéd., XXXIV, 1922, p. 42):

Quando se pro nobis sanctum
Fecit sacrificium,
Tunc de lateris fixura
Fons vivus elicuit;
De quo mystice fluxerunt
Duo simul flumina:
Sanguis nam redemptionis
Et unda baptismatis.

Quando si fece per noi Sacrificio,
dalla ferita del suo costato
una sorgente viva allora uscì;
da essa colarono allo stesso tempo
e misticamente due fiumi:
il sangue del riscatto
e l’acqua del battesimo.

L’antifona per l’offertorio è la stessa della domenica delle Palme (Sal. 69 (68), 21).
Molto più atroci delle sofferenze fisiche furono le pene morali patite dal Salvatore durante la sua passione, allorché, mentre era caricato del peso degli errori degli uomini, e condannato a morte dal Sinedrio, rimase come schiacciato sotto l’angoscia della maledizione lanciata da Dio Padre contro il peccato.
Sentiva che il peccato aveva innalzato come una muraglia tra il Creatore e le creature, ed ecco perché, in virtù di un giusto giudizio di Dio, la sua umanità, abbandonata agli oltraggi, ai tormenti ed alla morte obbrobriosa della Croce, intonò il misterioso cantico: Elì, Elì, lemà sabactàniDio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»: Sal. 22 (21)). Soffrendo per noi, Gesù ha voluto che noi, a nostra volta, ci assimilassimo alla sua Passione benedetto, rivivendola con la fede e con le opere delle mortificazione cristiana.
Nelle messe votive durante il tempo pasquale, quest’antifona così malinconica dell’offertorio è rimpiazzata da un’altra che esalta, al contrario, l’eccellenza del sacrificio del Cristo su tutte le oblazioni dell’Antica Legge (Sal. 40 (39), 7-9).
I sacrifici dell’Antica Legge smisero di piacere a Dio quando arrivò infine la pienezza dei tempi, in cui doveva essere compiuto ciò che questi antichi riti facevano soltanto preannunciavano. Venne allora il Verbo incarnato, per offrire un olocausto che solo era degno di Dio. E poiché ogni offerta deve sempre compiersi secondo un cerimoniale ed un rito gradito alla Divinità, Gesù visse e si immolò durante trentatré anni conformemente a ciò che il Padre eterno aveva prescritto per Lui nei Libri santi dell’Antica Alleanza.
Nella preghiera che precede l’anafora è si fa di nuovo allusione al doppio significato della solennità di questo giorno. Innanzitutto, è una festa di espiazione verso l’amore non riamato e disprezzato; ed è per questo che noi uniamo la nostra ammenda onorevole a questo stesso Amore, che, nel Sacrificio eucaristico, espia per noi. Inoltre, è una celebrazione di azione di grazie e di trionfo del Cuore sacratissimo di Gesù. Per questo motivo, offriamo questo stesso Cuore eucaristico, affinché, perpetuando sui nostri altari l’inno di azione di grazie intonato con gli Apostoli nel Cenacolo un tempo, Tibi gratias agensE Ti rendiamo grazie»: cfr. Luc. 17, 16 e 1 Cor. 11, 24), l’amore incarnato ed immolato sia lui stesso il ringraziamento dell’umanità all’eterno Amore.
Bisogna notare con una grande soddisfazione la tendenza della Santa Sede a dotare le messe più insigni di un prefazio proprio. Dopo quella dei defunti, di san Giuseppe, di Cristo re, ecco oggi quella del Sacro Cuore di Gesù. Si ritorna così all’antica tradizione latina, rappresentata soprattutto dai Sacramentari romani, nei quali ogni solennità aveva il suo prefazio. Attualmente la liturgia milanese è sola rimasta fedele alla sua antica tradizione; ma bisogna sperare che, presto o tardi, come accadde sotto Pio X per il canto gregoriano, Roma ammetterà di nuovo nel suo messale questi antichi e così bei prefazi dei Sacramentari detti di Leone Magno, di Gelasio I e di Gregorio Magno, che, senza che l’autorità sia intervenuta, si sono come persi nei manoscritti durante i lunghi secoli del basso Medioevo.
L’antifona per la Comunione, conformemente alla regola, è tratta dal Vangelo (Gv 19, 34). Il significato speciale di questo sangue e di quest’acqua c’è spiegato nella seguente antifona per la Comunione durante il ciclo pasquale (Gv 7, 37): come la bevanda che prendiamo si incorpora a noi e si cambi nel nostro sangue, così i tesori della redenzione, che ci sono stati conferiti nei sacramenti, diventano il nostro bene, il nostro patrimonio spirituale, in quanto c’uniscono e c’incorporano misticamente al Cristo che è il Capo del Corpo della Chiesa.
Tuttavia queste acque di eterno riscatto sono promesse solamente a colui che ne è avido, perché la grazia di Dio è offerta con amore come un dono, non è imposta violentemente come un arruolamento obbligatorio. Per questo, il santo cardinale Andrea Ferrari diceva molto giustamente ai piccoli bambini di Milano: Si salva chi vuole.
Quando si è gustato una volta Dio, tutti i beni creati diventano insipidi e fastidiosi. Ma, per gustare Dio, abbiamo bisogno di quel dono speciale di pietà che, esso stesso, è una grazia dello Spirito Santo. Non merita, difatti, di gustare Dio, colui che cerca le sue delizie al di fuori di Lui; perciò la sacra liturgia chiede oggi, molto a proposito, questo dono, dopo che la partecipazione ai misteri della morte del Signore ha stampato nel nostro cuore le stimmate della Passione di Gesù, consacrandoci così ad una vita di mortificazione e di immolazione.
Alle lodi del Sacro Cuore, espresso dai Padri della chiesa latina, aggiungeremo oggi quelle della Chiesa bizantina, che le canta nel Tropario del Mattutino del Venerdì Santo delle “Beatitudini” (Τροπάριο τῶν Μακαρισμῶν, Ὄρθρος Μ. Παρασκευῆς):

ζωηφόροςσουπλευρά, ςξδέμπηγήναβλύζουσα, τήνκκλησίανσου, Χριστέ, ςλογικόνποτίζειπαράδεισον, ντεθενμερίζουσα, ςεςρχάς, εςτέσσαραΕαγγέλια, τόνκόσμονρδεύουσα, τήνκτίσινεφραίνουσακαίτάθνηπιστςδιδάσκουσαπροσκυνεντήνβασιλείανσου.

Il tuo costato, che porta la vita,
Simile alla sorgente che sgorgava dall’Eden,
Annaffia la Tua Chiesa, o Cristo,
Come un giardino spirituale.
Poi si divide
Come un tronco unico, in quattro Vangeli.
Annaffia il mondo.
Rallegra la creazione;
Insegna ai popoli
Ad adorare il tuo regno con fede.






















“Multis vero peragrátis provínciis, anno ante óbitum Patávium venit, ubi illústria sanctitátis suæ monuménta relíquit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI ANTONII DE PADUA (ANTONII OLISIPONENSIS), CONFESSORIS ET ECCLÉSIÆ DOCTORIS

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Quest’illustre Santo, nato come Fernando Martim de Bulhões e Taveira Azevedo, canonizzato da Gregorio IX meno di un anno dopo la sua morte, ha acquistato un’immensa popolarità grazie ai suoi numerosi miracoli ed allo zelo dei Frati Minori, che, fin dal XIV sec., hanno sparso dappertutto il suo culto.
Nulla manca alla gloria di Antonio. Ebbe il desiderio del martirio e volle, a tale scopo, entrare nell’ordine dei Minori e fare vela verso la Mauritania. Fu apostolo e riempì della fama della sua predicazione infiammata l’Italia e Roma, dove annunciò la parola di Dio nel 1227. Ebbe la celebrità di un dottore e fu chiamato da Gregorio IX l’Arca del Testamento. Già vivente ed ancor più dopo la sua morte (+1231), fu cinto dall’aureola di taumaturgo e ci sono ben poche città dove una chiesa o un altare, tutto ricoperti di ex voto, non sia dedicato a sant’Antonio.
Per ordine di Nicolò IV, un papa francescano, l’immagine del Santo fu introdotta, con quella di san Francesco, nell’antico mosaico dell’abside del Laterano, per ricordare che, come il Poverello di Assisi era apparso, in sogno, a sostenere l’edificio traballante della Basilica del Salvatore, così il Santo di Padova, per la sua predicazione, aveva aiutato efficacemente a consolidare il simbolico edificio della Fede cattolica.
La festa di sant’Antonio entrò dapprima nel Calendario romano col rito semidoppio, poi Clemente X l’elevò al rito doppio.
Numerose sono le chiese di Roma dedicate al nostro Santo.
La prima e più celebre è la chiesa di Sant’Antonio in Campo Marzio, anche conosciuta come chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi, che sorge nel rione di Campo Marzio, sorta nel XV sec. (cfr. MarianoArmellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 333; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 528) e famosa per il grandioso organo Mascioni costruito nel 2008. Nota è anche la basilica di Sant’Antonio da Padova all’Esquilino, che è una chiesa che sorge omonimo rione, in via Merulana, costruita tra il 1884-1888 (cfr. MarianoArmellini, op. cit., p. 804), e che ospita negli edifici annessi, tra l’altro, la Pontificia Università Antonianum e la Pontificia accademia mariana internazionale.
Nel XX sec. sono sorte, in onore del Santo, la chiesa di Sant’Antonio da Padova a via Salaria, costruita nel 1938; quella dei Santi Antonio di Padova e Annibale Maria (di Francia), costruita nel 1947-48 – all’indomani della proclamazione del Santo a Dottore della Chiesa – nel quartiere Tuscolano, e che è titolo cardinalizio. Nel quartiere Appio-Latino abbiamo Chiesa di Sant’Antonio di Padova alla Circonvallazione Appia, sorta nel 1988, che è diaconia. Nel quartiere delle Capannelle, nei pressi della via Appia Nuova, sorge la cappella di Sant’Antonio alle Capannelle.
Prima del 1946, l’introito è lo stesso per la festa di sant’Antonio abate, il 17 gennaio. Lingua ejus loquetur judicium, la sua lingua proferirà l’equità (Sal 37, 30). Questa lingua benedetta, che ha proferito tanti oracoli di saggezza e ha convertito tante anime a Dio, Dio l’ha glorificata, perché già da sei-sette secoli è sempre intatta e preservata della corruzione della tomba, la festa della cui traslazione è celebrata il 15 febbraio.
In onore del grande taumaturgo, riportiamo questi versetti, che formavano, sin dal Medioevo, quello che è noto come il «responsorio» a lui consacrato:

Si quæris miracula: mors, error, calamitas,
Dæmon, lepra fugiunt; ægri surgunt sani:
Cedunt mare, vincula; membra resque perditas
Petunt et accipiunt iuvenes et cani.
Pereunt pericula, cessat et necessitas;
Narrent hi qui sentiunt; dicant Paduani.
Gloria Patri et Filio, et Spiritui Sancto.
Cedunt mare etc ...

El Greco, S. Antonio, 1580 circa, museo del Prado, Madrid

Juan Carreño de Miranda, S. Antonio predica ai pesci, 1646, museo del Prado, Madrid

Anonimo, S. Antonio di Padova, XVII sec., museo del Prado, Madrid

Alonso Cano, S. Antonio, XVII sec., museo del Prado, Madrid

Gaspar de Crayer, S. Antonio, 1655 circa, museo del Prado, Madrid

Bartolomé Esteban Murillo, S. Antonio, 1665 circa, Museo de Bellas Artes de Sevilla, Siviglia

Giacomo Farelli, S. Antonio ed il Bambino Gesù, XVII sec., collezione privata

Willem van Herp il Vecchio, S. Antonio distribuisce il pane ai poveri, 1662 circa, National Gallery, Londra

Claudio Coello, S. Antonio, XVII sec., museo del Prado, Madrid

Luca Giordano, S. Antonio, 1690-1700, museo del Prado, Madrid

Giambattista Tiepolo, S. Antonio col Bambino Gesù, 1767-69, museo del Prado, Madrid

José de Páez, S. Antonio, XVII sec.

Autore anonimo, Visione di S, Antonio, XVIII sec., chiesa di San Francisco de Asís, Chihuahua


Responsorio "Si quæris miracula" di fra Giuliano da Spira

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Bartolomé Esteban Murillo, S. Antonio, XVII sec., collezione privata


“Abstinéntia et continéntia fuit admirábili; una túnica conténtus erat: in jejúnio servándo diligentíssimus, in oratióne assíduus, in qua sæpe totam noctem consumébat. Virginitátem perpétuo cóluit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI BASILII MAGNI, EPISCOPI CÆSAREÆ CAPPADOCIÆ, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS

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Questo gigante dell’episcopato orientale, faro dell’ortodossia, patriarca e legislatore della vita monastica, morì il 1° gennaio 379 (?). È il natale di Basilio. I calendari bizantini, siriaci e copti, seguiti da quello di Napoli, annunciano la festa di san Basilio, appunto, al 1° gennaio con quella della Circoncisione. Ma siccome questo giorno era destinato già all’ufficio dell’ottava del Signore, la festa di san Basilio fu rinviata a questa data che si crede, ma senza seria ragione, essere l’anniversario della sua consacrazione episcopale.
Il nostro Santo era rappresentato sin dal VII sec. negli affreschi di Santa Maria Antiqua al Foro, ma bisognò attendere l’XI sec. per vedere apparire la sua memoria liturgica a Roma sotto la doppia influenza dell’Oriente e dei suoi monaci. Si sa, in effetti, che san Basilio è considerato come il padre del monachesimo tanto occidentale quanto orientale, così come nel testimonia la Regola di san Benedetto (Sancti Benedicti, Regula monachorum, 73, a cura di Ph. Schmitz, Gembloux 1946, p. 100. San Benedetto si riferisce alla régula sancti Patris nostri Basilii, che è il solo tra i Padri ad essere citato nella Regola benedettina). Conviene rilevare che, nella loro diversità, le fonti romane dell’XI e del XII sec. sono unanimi a ritenere, per la sua festa, la data orientale del 1° gennaio e non quella del 14 giugno che è indicata dai martirologi di Adone e di Usuardo. A San Pietro, i due responsori del III Notturno del Mattutino erano di san Basilio: questo suggerisce che si leggeva la Vita del santo, forse la Vita sancti Basilii episcopi di cui il passionario dei Santi Giovanni e Paolo offre il testo (cfr. Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, pp. 210-211).
Parlare brevemente dei meriti di Basilio è difficile ed al di sopra le nostre forze. Colui che parla dunque, e meglio di noi, sant’Efrem, fece il suo elogio quando il grande vescovo viveva ancora.
L’eremita di Edessa ricevette, in una visione, l’ordine del Signore di andare a Cesarea a trovare Basilio, da cui poi ricevette il diaconato: Ecce in domo mea vas splendidum est ac magnificum, quod tibi suppeditabit cibum. Egli si mette dunque sulla strada, parte da Edessa di Siria e va a Cesarea, dove trova Basilio che predica in chiesa, con lo Spirito Santo sotto forma di una colomba sulla sua spalla. Ecco come Efrem ci descrive l’impressione che ne provò: Vidi in Sanctis Sanctorum Vas Electionis, coram armento ovium præclare extensum, verbisque maiestate plenis exornatum atque distinctum, omniumque oculos in illud defixos. Vidi templum ab eo spiritu vegetatum, eiusque in viduas ac orphanos potissimum commiserationes. Vidi ... ipsum Pastorem pennis Spiritus sursum pro nobis preces tollentem, filumque orationis deducentem. Vidi ab ipso ecclesiam ornatam et dilectam aptissime compositam. Prospexi ab ipso manare doctrinam Pauli, legem Evangeliorum, et timorem Mysteriorum (in Act. SS. Iun., III, pp. 381-382).
La storia del primato pontificio trova in Basilio uno dei suoi difensori più convinti. Quando, a causa degli abusi di potere degli Ariani, tutte le Chiese d’Oriente erano sconvolte, il Santo giudicò che l’unico rimedio fosse l’intervento del Papa, ed egli scrisse a questo scopo al grande sant’Atanasio: Visum est autem mihi consentaneum ut scribatur episcopo Romæ, ut quæ hic geruntur consideret et sententiam suam exponat. Et quoniam difficile est ut communi ac synodico decreta aliqui illinc mittantur, ipse sua auctoritate in ista causa usus, viros eligat ... omnia secum habentes necessaria, ad ea rescindenda, quæ Arimini per vim et violentiam gesta sunt (ibidem, p. 340).
È anche in questo senso che Basilio scrisse a Damaso, descrivendogli lo stato miserabile dell’Oriente: Universusquidem prope modum Oriens, Pater colendissime, hoc est quidquid ab Illyrico ad Ægyptum usque protenditur, vehementi tempestate et fluctuum exagitatione percellitur ... Horum carte malorum remedium esse unicum arbitramur, miserationis tuæ visitationem sollicitudinemque (ibidem, pp. 342-343).
Non meno del monachesimo orientale, il monachesimo benedettino considera santo Basilio come il suo patriarca ed il suo legislatore. Difatti, san Benedetto, in numerosi passaggi della sua Regola, dipende dal santo vescovo di Cesarea, alla Regola del quale rinvia direttamente i suoi discepoli avidi di un cibo spirituale più forte. Nell’Alto Medioevo, numerosi monasteri dell’Europa seguivano simultaneamente le Regole di san Basilio e di san Benedetto; ed in Italia soprattutto, i monasteri greci, governati conformemente ai canoni monastici basiliani, si mantennero numerosi e fiorenti fino al XVII sec.
Sotto l’influenza di questi elementi, il culto liturgico di san Basilio si diffuse relativamente, e noi troviamo fin nella Città eterna un antico monastero che porta il suo nome. San Basilio in scala mortuorum, vicino al Foro di Nerva, fu un tempo una delle principali abbazie romane e ne è riprova un documento, una bolla, di Agapito II nel 955 diretta all’abbate di San Salvatore in Capite nella quale si nomina questa chiesa di San Basilio col suo annesso monastero (Mariano Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vatican, Roma 18912, p. 146; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 208-209). La sua distruzione è tutta recente.
A san Basilio era dedicata ugualmente la chiesa monastica di Santa Maria all’Aventino, eretta da Alberico nella sua propria dimora, dal tempo di sant’Odone. Lì, Ildebrando, futuro Gregorio VII, professò la vita monastica sotto la Regola del patriarca di Montecassino (Mariano Armellini, op. cit., pp. 587-588).
Esiste ancora a Roma una terza piccola chiesa dedicata a san Basilio detta “agli Orti sallustiani”. Si trova non lontano dal titulus Susannæ e, nel XV sec., si aprì lì un collegio di monaci basiliani italo-greci di Grottaferrata, poi restaurato nel sec. XVII (ibidem, pp. 271-272). Illustre allievo del collegio fu il celebre cardinale Basilio Bessarione, creato cardinale da papa Eugenio IV nel 1439 (ibidem, p. 272).
Una chiesa più recente, dedicata al nostro santo, fu eretta nel 1963 nell’omonimo quartiere romano.
Nella basilica vaticana si trova un altare dedicato a san Basilio, ed il quadro che lo sormonta rappresenta il Santo che celebra i divini misteri con tanta devozione e maestà, che l’imperatore ariano Valente, entrando nella chiesa il giorno dell’Epifania del 372 - narra san Gregorio di Nazianzio – ed assistendo alla sacra ufficiatura presieduta da san Basilio, si sentì mancare, cadendo quasi svenuto, di fronte alla solennità ed alla suggestione di questi riti. Racconta il Nazianzeno che l’imperatore, al suo ingresso in chiesa, «fu colpito dal canto dei salmi che risuonò al suo orecchio come un tuono e rimase sbalordito dalla moltitudine del popolo fedele […]. L’ordine e la bellezza del santuario e del suo recinto risplendevano ai suoi occhi con una maestà più angelica che umana. Ciò che lo colpì più di tutto fu Basilio, che presiedeva davanti al suo popolo, in posizione eretta […], con il corpo, gli occhi e la mente raccolti come se nulla di nuovo fosse accaduto, ma fissi su Dio e sull’altare […] A quello spettacolo davvero impareggiabile, l’imperatore, vinto dall’umana debolezza, ebbe la vista oscurata, fu colpito da vertigine, e la sua anima fu presa dallo sbigottimento e dal terrore» (San Gregorio di Nazianzio, Funebris oratio in laudem Basilii Magni Cæsaræ in Cappadocia episcopi, Oratio XLIII, cap. 52, in PG 36, coll. 561C-564A). L’episodio fu evocato, tra gli altri, anche da Pio XI nella Const. Ap. Divini Cultus del 20 dicembre 1928, per il quale «l’imperatore Valente, ariano, rimase quasi tramortito davanti alla maestà dei divini misteri celebrati da San Basilio» (in Acta Apostolicæ Sedis, vol. XXI [1929], p. 34). Su questo quadro della Basilica Vaticana, cfr. Marco Agostini, Chi ama Dio diventa bello. La «Messa di san Basilio» di Pierre Subleyras nella storia artistica della basilica di San Pietro, in L’Osservatore Romano, 12 luglio 2013, p. 4.
L’ufficio di san Basilio fu inserito nel Calendario romano alla fine del Medioevo.
La lettura evangelica è quella del Comune dei Martiri Pontefici, come il 24 gennaio, con, in più, i versetti 34-35, che terminano in san Luca lo stesso capitolo 14 e si riferiscono alle funzioni del Dottore. A questo passaggio, dove il Salvatore parla della rinuncia generosa, fatta dai suoi discepoli, a tutte le cose del mondo, si riferisce una pagina magnifica delle Regole di san Basilio, inserita oggi nel Breviario, al III Notturno; il santo Dottore spiega la spoliazione ed il distacco che esigono la vocazione monastica. Monaco significa servitore di Dio: era difatti questo il titolo che si dava anticamente al monaco: Servus Dei, e quando san Gregorio si fece monaco, prese per umiltà il nome di Servus servorum Dei, vale a dire servitore di tutti i monaci, l’ultimo del monastero. Il monaco è colui dunque che, avendo dato a Dio omne quod habet, omne quod facit, omne quod est, tale spirito, non ha più niente di proprio, né beni, né corpo, né volontà; ma rimane sulla terra finché Dio lo lascia per la sua propria gloria, senza appartenere oramai al mondo.
Una celebre risposta di san Basilio, tramandataci da Gregorio di Nissa, è quella che diede al prefetto ariano Domizio Modesto; questi, abituato alla servilità dei vescovi cortigiani eretici, aveva fatto osservare al Santo che nessuno gli aveva, fino ad allora, adoperato un linguaggio così fermo, ardito e fiero. «Neque enim, ait Basilius, foriasse in episcopum incidisti»; Forse, rispose Basilio, finora non ti sei mai imbattuto in un vescovo! (San Gregorio di Nazianzio, op. cit., cap. 50, in PG 36, coll. 559D-562A. Cfr. Alban Butler, Vite dei padri, dei martiri e degli altri principali santi tratte dagli atti originali e da più autentici documenti con note istoriche e critiche, tomo VIII, Giugno, Venezia 1824, pp. 215-216. Sull’incontro tra Basilio e Modesto, v. anche Teodoreto, Ecclesiasticæ Historiæ libri quinque, lib. IV, c. 16, in PG 82, coll. 1159B-1164A; Rufino di Aquileia, Historiæ Ecclesiasticæ libri duo, lib. II, c. 9, in PL 21, coll. 517C-521A).




Teofane Il Greco, S. Basilio, 1405, cattedrale dell’Annunciazione, Cremlino, Mosca


Luca Cambiaso, SS. Luca, Basilio in trono, Antonio abate ed Agostino ed il committente Antonio Doria, XVI sec., Musei di Strada Nuova, Genova


Pierre Hubert Subleyras, Messa di S. Basilio dinanzi all'Imperatore Valente, 1743, Hermitage, San Pietroburgo. Ne esiste una copia del 1747 nella Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma ed una in San Pietro




Domenichino, S. Basilio, 1608-10, Cappella dei SS. Fondatori - Cappella di S. Nilo, Grottaferrata


Francisco de Herrera il Vecchio, S. Basilio Magno detta la sua regola, 1639 circa, Musée du Louvre, Parigi

Pieter Pauwel Rubens, S. Basilio, XVII sec., Schloss Friedenstein museum, Gotha

Antonio Cifrondi, S. Basilio, 1705, museo diocesano, Bergamo

K. A. Moldavsky, S. Basilio, 1843-54, Cattedrale di S. Isacco, San Pietroburgo

Luigi Morgari, S. Basilio, 1910-13, museo diocesano, Bergamo

Icona dei SS. Basilio, Giovanni Crisostomo e Gregorio di Nazianzio

I “Kasperiani” perdono terreno in Germania? Forse ......

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È davvero avvilente per la Chiesa cattolica che, al contrario del Patriarcato di Mosca dalle sue alte sfere abbia le idee ben chiare e precise circa la questione del matrimonio e della famiglia (tanto da rifiutare, di recente, persino qualsiasi contatto ecumenico con le sedicenti congregazioni protestanti che abbiano deciso di “benedire” le unioni omosessuali: v. qui e qui), sia ancora in alto mare, tanto da dover ancora discutere e dover ammettere la discussione su queste tematiche, che dovrebbero, invece, essere considerate definite e definitivamente concluse. In altre parole, già il dover ammettere una discussione su ciò è sintomo di idee poco chiare, confuse, peraltro ancor più intorbidite da atteggiamenti pratici delle alte sfere vaticane poco coerenti con gli insegnamenti che si propongono. Sintomatico è ad es. l’incontro, previsto per l’11 luglio prossimo, tra il vescovo di Roma e l’associazione paraguayana LGBT “Somos Gay” quale espressione ed esponente della società civile di quella nazione sudamericana! (cfr. El papa invita a la organización paraguaya SomosGay, in El Mundo, junio 11, 2015El Papa Francisco invita a gais paraguayos a reunión en el León Condou, in Hoy, Jueves 11 de Junio de 2015). Un incontro pubblico ed ufficiale dall’indubbio valore “politico”, che suona come una sorta di legittimazione di questo genere di associazioni quale necessario interlocutore sociale per la Chiesa cattolica.

I “Kasperiani” perdono terreno in Germania?

di Maike Hickson

Da diverse settimane si svolge trai i cattolici tedeschi – sia vescovi che laici – una accesa discussione riguardo alla validità oggettiva della dottrina cattolica per i fedeli di oggi. Il 16 aprile, la Conferenza episcopale tedesca si è pronunciata con un rapporto, inviato a Roma pin vista dell’imminente Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia.
Nel documento si afferma che i cattolici tedeschi desiderano un’ulteriore apertura della Chiesa sia per quanto riguarda la ammissione alla Santa Comunione dei divorziati “risposati”, che nei confronti di altre forme di convivenza, comprese le coppie omosessuali. Come vedremo in seguito, queste dichiarazioni episcopali sono state fatte in maniera discutibile, sulla base di un numero molto esiguo di risposte giunte al questionario inviato da Roma. Per contro, il numero di cattolici che ha firmato la Supplica filiale a Papa Francesco – in cui si chiede al Sant Padre di preservare gli insegnamenti morali tradizionali – è molto superiore a quello di coloro che hanno finora risposto al questionario Lineamenta del Sinodo Romano sulla Famiglia.
Le affermazioni e proposte dottrinali-pastorali dei vescovi tedeschi sono state poi ulteriormente rafforzate a inizio maggio dalla Conferenza episcopale tedesca, guidata dal cardinal Reinhard Marx di Monaco. Successivamente, anche l’organizzazione laicale più importante in Germania – il Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi (Zentralkomitee der deutschen Katholiken – ZdK) – ha pubblicato la propria dichiarazione sul Sinodo dei Vescovi. In un documento del 9 maggio 2015, quest’organizzazione si è spinta un passo oltre i vescovi e ha chiesto, non solo l’ammissione ai sacramenti dei divorziati “risposati”, ma anche l’accettazione di altre forme di convivenza, così come la benedizione liturgica per le coppie omosessuali, domandando alla Chiesa di intraprendere un profondo «riesame della questione della contraccezione».
Il documento dello ZdK dichiara esplicitamente: «Con il concetto di “famiglia”, intendiamo anche quelle forme non-coniugali di relazioni vissute e di responsabilità generazionali che danno un grande contributo alla coesione sociale e che devono essere trattate con giustizia. (…) Anche in altre forme di vita in comune ci sono valori da trovare che esprimono il matrimonio come l’alleanza tra Dio e gli uomini: l’indissolubile (sic) “sì” per l’altra persona, la costante disponibilità di riconciliarsi, così come la prospettiva in merito ad un proficuo rapporto di scambio di doni tra persone. Queste forme di vissuto e di famiglia devono essere rispettate, anche se non si trovano all’interno del profilo del matrimonio sacramentale. Ci riferiamo qui a relazioni durature (convivenze), matrimoni civili, così come a unioni civilmente registrate (cioè, le unioni omosessuali).
Ancora più sorprendentemente, forse, il documento auspica una “rivalutazione dei metodi di contraccezione artificiali”, poiché in nessun altro settore (dicono) si trova una così grande discrepanza tra il Magistero pontificio e le scelte di coscienza nella vita quotidiana dei fedeli cattolici. Esso inoltre domanda che la Chiesa sia disposta «a percepire il cambiamento pastorale che Papa Francesco ha chiesto, sia come incoraggiamento, che come possibilità per le conferenze episcopali (poi) di sviluppare sentieri pastorali riguardanti il matrimonio e la famiglia che siano appropriati e teologicamente responsabili».
È rilevante notare, inoltre, che entrambe le organizzazioni – la Conferenza episcopale tedesca, così come il Comitato Centrale ZdK – presentino gli stessi argomenti e linee generali di pensiero: vale a dire, che le “realtà della vita” dei cattolici di oggi debbano in modo decisivo influenzare e cambiare alcuni insegnamenti della dottrina morale cattolica. Entrambi i gruppi affermano che ci sono elementi positivi che possono trovarsi in altre forme di relazioni al di fuori del Sacramento del Matrimonio. Molti di questi argomenti sembrano, in parte, derivare dagli scritti dello stesso cardinale Walter Kasper, che è palesemente promotore della liberalizzazione della dottrina morale cattolica.
Le proposte concordanti o convergenti indicano anche che queste due organizzazioni ora lavorano piuttosto in stretta collaborazione, nel tentativo di esercitare una forte pressione sulla Chiesa universale. È importante notare che lo ZdK stesso è in parte finanziato dalla Conferenza episcopale tedesca, ed è anche spiritualmente assistito e per di più consigliato dall’attuale vescovo di Stoccarda, Gebhard Fürst.
Le audaci affermazioni, persino esplicitamente rivoluzionarie, del ZdK hanno causato delle forti reazioni in Germania. Almeno sei vescovi tedeschi sono usciti allo scoperto e hanno dichiarato la loro opposizione a queste affermazioni oggettivamente eretiche che, secondo un giornalista sempre bene informato, Edward Pentin, potrebbero portare ad uno scisma.
Il primo vescovo, mons. Stefan Oster, della diocesi di Passau nella Germania meridionale, ha dichiarato sul suo profilo facebook che lo ZdK non rappresenta quasi più i cattolici tedeschi, soprattutto quando parla in questo modo. Egli ha dichiarato che «le richieste dello ZdK rappresenterebbero un radicale cambiamento di molto di ciò che è ritenuto valido riguardo il matrimonio e la sessualità»; e ribadisce la dottrina cattolica secondo la quale, dopo la Rivelazione, qualsiasi «pratica sessuale vissuta ha un suo posto legittimo solo all’interno del matrimonio tra un uomo e una donna, in cui entrambi siano aperti alla procreazione della vita e abbiamo contratto un legame che dura fino alla morte di uno dei coniugi».
Il 16 maggio, le sue critiche sono state sostenute da altri cinque vescovi tedeschi che gli hanno scritto una lettera di sostegno esprimendo verso di lui una straordinaria gratitudine. Tra essi, vi erano il vescovo Rudolf Voderholzer di Ratisbona e il vescovo Gregor Maria Hanke di Eichstätt. Un altro vescovo tedesco, mons. Franz-Josef Overbeck, ha recentemente fatto una dichiarazione pubblica dicendo che, per quanto riguarda il matrimonio e la famiglia, non bisogna aspettarsi troppo dal prossimo Sinodo dei Vescovi a Roma: a suo avviso non è in alcun modo possibile, per la Chiesa cattolica, benedire le unioni omosessuali.
L’autore e giornalista tedesco, Mathias von Gersdorff, ha sottolineato che, nel documento delloZdK, i fini del matrimonio sono separati dal fine primario, che è la procreazione della vita: ma «se il matrimonio non è essenzialmente per la procreazione, e l’atto sessuale non è solo da praticarsi all’interno dei matrimoni, allora la morale cattolica collasserà del tutto».
Di fronte a tale crescente resistenza al Programma “Kasperiano” della Misericordia e il consequenziale indebolimento delle Leggi di Cristo, il capo della Conferenza Episcopale Tedesca, lo stesso cardinal Reinhard Marx, il 15 maggio ha improvvisamente dichiarato che, in una certa misura, le affermazioni dello ZdK sono «teologicamente inaccettabili». «La richiesta di una benedizione per relazioni tra persone dello stesso sesso e per un secondo matrimonio dopo il divorzio civile – ha detto – non è in linea con l’insegnamento e la tradizione della Chiesa. La richiesta di una “accettazione incondizionata” di forme di convivenza in coppie dello stesso sesso contraddice anche l’insegnamento e la tradizione della Chiesa».
Queste parole del cardinale Marx giungono inaspettatamente e potrebbero indicare che egli si è reso conto (anche se forse a malincuore) che la resistenza contro la sua agenda liberale è, almeno per il momento, troppo forte. Come scrive lo stesso von Gersdorff: «La Chiesa Cattolica di Germania con le sue posizioni è completamente isolata rispetto al prossimo Sinodo sulla Famiglia dell’autunno 2015. Nessuna delegazione, tranne la delegazione tedesca sostiene all’unanimità le idee del Cardinal Kasper in materia di ammissione alla Comunione dei divorziati risposati». Tuttavia, come lo stesso Gersdorff sottolinea, il cardinale Marx sospende il giudizio e aggiunge, alla fine del suo comunicato stampa, che questi temi «hanno bisogno di nuovi chiarimenti teologici e non di premature richieste di semplificazione».
Il professor Robert Spaemann, considerato il più importante filosofo cattolico tedesco, ha recentemente espresso pubblicamente le sue riserve verso ogni possibile variazione delle leggi di Gesù Cristo in materia di matrimonio e la famiglia, e anche verso l’intervento attivo di Papa Francesco nelle discussioni del Sinodo dei Vescovi. «In Vaticano – ha detto Spaemann –alcune persone stanno già sospirando. Oggi, egli (Papa Francesco) ha già un’altra idea diversa da quella di ieri». Sembra che l’intenzione del Papa sia quella di svolgere il ruolo di moderatore tra due partiti che si confronteranno all’interno del Sinodo.
Allo stesso tempo, però, egli si schiera anticipatamente, favorendo la posizione del cardinale Walter Kasper, escludendo, ad esempio, l’Istituto Giovanni Paolo II per Studi sulla Famiglia dalle consultazioni pre-sinodali. Inoltre, “Cicero”, rivista laica tedesca, ha pubblicato nel suo numero di maggio una relazione importante sul pontificato di Francesco e sui conflitti che il papato ha suscitato a Roma. In questo recente saggio, il vaticanista Giuseppe Rusconi riassume molte critiche, provenienti soprattutto da illustri prelati e dai dipendenti della Curia, relative a Papa Francesco, soprattutto per quanto riguarda il Sinodo della Famiglia. In questo importante articolo, Rusconi rivela anche alcuni pareri schietti e ponderati sullo stesso cardinal Marx, scelto come consultore del Papa, e come membro del Pontificio Consiglio dei Nove.
Rusconi ricorda le dichiarazioni del card. Marx, secondo cui, «noi non siamo una filiale di Roma», a cui ha risposto il cardinale anch’egli tedesco, Paul Josef Cordes, dichiarando al giornale “Die Tagespost”: «In qualità di esperto di etica sociale, il cardinale Marx dovrebbe avere qualche conoscenza riguardo alla dipendenza degli enti secondari dalla loro casa madre. Ma, nel contesto della Chiesa, tali osservazioni dovrebbero piuttosto essere lasciate al pub del villaggio».
Nonostante l’evidenza mostri che la resistenza contro i “Kasperiani” in Germania, come a Roma, sia in aumento, la battaglia più grande per la Chiesa cattolica tedesca sicuramente non è ancora finita. È dunque urgente, per tutti i fedeli cattolici, contribuire seriamente, per quanto possibile, a rafforzare l’insegnamento tradizionale della Chiesa sul matrimonio e la famiglia – in modo da assicurare che gli insegnamenti di Gesù Cristo non siano ulteriormente derisi o indeboliti.

Dossier sulla musica liturgica

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Nella memoria liturgica di S. Efrem Siro, diacono, confessore e dottore della Chiesa, rilancio questo dossier, con vari contributi, sulla musica liturgica pubblicato da Il Timone.


Conferenza di don Nicola Bux a Staggia Senese - 4 giugno 2015

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LO SPLENDORE DELLA LITURGIA

Come accostarsi ai sacramenti senza ridurli a show

Don Nicola Bux, liturgista
Staggia Senese (SI)

Giovedì 4 giugno 2015

Il Centro Culturale “Amici del Timone” di Staggia Senese organizza per giovedì 4 giugno ore 21.00 un incontro dal titolo “Lo splendore della liturgia: come accostarsi ai sacramenti senza ridurli a show”.
Ospite speciale Don Nicola Bux, liturgista. Professore di liturgia orientale e di teologia dei sacramenti. Consulente della rivista “Communio”, consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per le Cause dei Santi e dell’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice. Dirige sul Timone la rubrica “Il mondo del sacro”. Conduce su Radio Maria la trasmissione “Chiesa e Liturgia”.
Nell’occasione saranno disponibili il libro “Nardo ed Alabastro” (Lalli Editore) di cui don Nicola Bux ha firmato la prefazione e il Cd-Workshop “Un Giubilo nel Cuore” (ed. Shelve).

L’incontro si svolgerà nei locali con accesso da Piazza Grazzini, 5 - Staggia Senese. Ingresso gratuito.

Qual è il rapporto tra monachesimo e liturgia? La preghiera incessante

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Abbiamo spesso parlato del tema della preghiera incessante (v. qui). Ora questo profilo della spiritualità cristiana è messo in rilievo nell’ambito del monachesimo e della liturgia da un’interessante relazione di Padre Cassian Folsom OSB, Priore del Monastero di Norcia, pubblicata da Chiesa e post concilio e che noi rilanciamo volentieri, con qualche rielaborazione grafica, nella memoria della Beata Vergine Maria della Consolata, Patrona principale di Torino e dell'intera arcidiocesi, onorata nell'omonimo santuario torinese.


















Qual è il rapporto tra monachesimo e liturgia? La preghiera incessante. “VENITE E VEDRETE!”

Conferenza – dal titolo “Il rapporto tra monachesimo e liturgia – tenuta a Roma lo scorso 7 maggio da p. Cassian Folsom OSB, Priore del Monastero di Norcia, per aiutare a scoprire i Monaci e per pregustare il clima spirituale che respireranno i partecipanti al Pellegrinaggio nazionale dei Coetus Fidelium del Summorum Pontificum (3-5 luglio 2015), che abbiamo preannunciato qui.

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Qual è il rapporto tra monachesimo e liturgia? Posso rispondere molto sinteticamente con una analogia: è il rapporto tra pesce e acqua. Ovviamente, il pesce abita nell’acqua, si muove nell’acqua, senza l’acqua muore. Così anche per il monaco: respira l’aria della liturgia, si nutre dalla liturgia, si muove nel mondo creato dalla liturgia, senza la liturgia muore spiritualmente.
Potrei finire qua – una conferenza di due minuti! – ma forse sareste delusi, aspettando una lezione più lunga. Quindi posso sviluppare il tema un po’ secondo le seguenti categorie: 
1. La preghiera incessante;
2. Il tempo impiegato ogni giorno nella preghiera liturgica, secondo la Regola di San Benedetto;
3. I salmi;
4. Il canto.

I. LA PREGHIERA INCESSANTE

Ci sono due indizi nella Regola che indicano chiaramente che secondo San Benedetto, la preghiera liturgica si colloca decisamente nella tradizione della preghiera incessante, come articolata dai Padri del deserto.

- PRIMO INDIZIO:

Nel rito Romano, durante la Settimana Santa, la liturgia ritorna alle sue forme più arcaiche. Ho in mente l’Ufficio Divino. Prima delle Ore Minori (prima, terza, sesta e nona), troviamo questa rubrica: [Horae minoresabsolute inchoantur a psalmis infra signatis, ossia: “Le ore minori iniziano absolute, cioè senza versetti, segni di croce, senza nessun elemento introduttivo, direttamente – con i salmi indicati sotto.”
Ad esempio, l’Ora Prima inizia direttamente con Salmo 53: Dio, per il tuo nome, salvami. Si ricorda che questo stile di cantare i salmi è proprio arcaico – antichissimo.
Diversamente, secondo la Regola di San Benedetto, tutte le ore canoniche hanno qualche elemento introduttivo. Vediamo, quindi, una innovazione da parte di San Benedetto che, parlando delle ore minori dice: “All’inizio si dica il versetto: Deus in adiutorium meum intende, Domine, ad adiuvandum me festina (Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio aiuto)” (RB 18:1). Perché questa innovazione? Non si faceva così, infatti, prima di San Benedetto. Perché questo versetto salmico in particolare? Nella tradizione monastica, dove si trova una trattazione intorno a questo versetto? Negli scritti di San Giovanni Cassiano, quando insegna un metodo da usare per la preghiera incessante. Cito un brano dalla Conferenza X di San Cassiano – lo stile è un po’ prolisso, ma il messaggio è chiaro:
Abba Isaia spiega a Cassiano e al suo compagno Germano:
“Per voi dunque sarà proposta come formula di questa disciplina e di questa preghiera, da voi richiesta, quella che ogni monaco, allo scopo di tendere al continuo ricordo di Dio, deve abituarsi a coltivare con una continua ripresa da parte del cuore e dopo avere espulsa la varietà di tutti gli altri pensieri, poiché egli non potrà applicarvisi in altro modo, se prima non si sarà liberato da tutte le preoccupazioni e sollecitudini corporali. Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così pure do noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente sitibondi [assetati, bramosi] di accoglierla. Pertanto sarà da noi suggerita a voi, conseguentemente, questa formula di vera pietà, allo scopo di raggiungere un continuo ricordo di Dio: Deus in adiutorium meum intende, Domine ad adiuvandum me festina [Sal 69]” (Conf. X, 10).

Poi, Abba Isaia spiega tutti i pregi di questo versetto salmico, e perché è adatto alla preghiera incessante.
Allora, San Benedetto è stato formato dalla tradizione monastica che esisteva già secoli prima di lui. Egli dispone che i suoi monaci leggano le Conferenze di San Cassiano. Infatti, San Benedetto individua il nucleo dell’insegnamento di Cassiano sulla preghiera incessante – e cioè l’uso di questo versetto – e con uno slancio innovativo, prefigge questo versetto a tutte le ore dell’Ufficio Divino.
Che cosa vuol dire tutto questo? San Benedetto vuole fare un ponte tra la preghiera personale e la preghiera liturgia. Il ponte è, infatti, la preghiera incessante.

- SECONDO INDIZIO:

I nostri padri vivevano in un’epoca in cui si esprimeva il senso della vita per mezzo dei simboli. Un aspetto importante di questo mondo simbolico era costituito dai numeri. Ascoltate un brano della Regola, cap. 16, che insiste su questa simbologia:
“Si deve osservare quello che dice il Profeta: Sette volte al giorno io canto la tua lode. Questo sacro numero di sette sarà rispettato se adempiremo il dovere del nostro servizio a lodi, prima, terza, sesta, nona, vespri e compieta, poiché a queste ore diurne si è riferito il salmista dicendo: Sette volte al giorno canto la tua lode. Quanto alla veglie notturne infatti il medesimo Profeta dice: Nel mezzo della notte mi alzavo a celebrarti. Rendiamo dunque lodi al nostro Creatore per le sentenze della sua giustizia a lodi, prima, terza, sesta, nona, vespri e compieta, e alziamoci per celebrarlo nella notte” (RB 16).

Perché questa insistenza che i monaci cantino le ore diurne dell’Ufficio Divino sette volte ogni giorno? Perché il numero 7 significa completezza, totalità – significa che i monaci pregano sempre, incessantemente.
Ecco due piccole spie nella Regola di San Benedetto che ci aprono vasti orizzonti. La preghiera liturgica – e qui si tratta in particolare dell’Ufficio Divino – è organizzato in modo che queste forme liturgiche aiutano il monaco a pregare sempre, incessantemente. O in altre parole, aiutano il pesce a rimanere nell’acqua.

II. TEMPO IMPIEGATO NELLA PREGHIERA LITURGICA / PERSONALE

Questa immersione totale ha delle implicazioni concrete, perché la vita quotidiana del monaco viene organizzata attorno a questi momenti di preghiera. Poniamoci questa domanda: Quanto tempo ogni giorno viene impiegato nella preghiera liturgica, secondo la Regola di San Benedetto? (Potrei darvi subito la risposta, ma sarebbe un approccio noioso! È più interessante scoprirlo personalmente).
Ci sono due considerazioni: 
- l’Ufficio Divino (preghiera liturgica per eccellenza) e
- la lectio divina(la ruminazione sulla Pagina Sacra della Bibbia).
Stranamente, San Benedetto dice ben poco sull’Eucaristia, non descrive la liturgia della Messa; questa lacuna viene riempita dalla tradizione sviluppatasi dopo San Benedetto.

La preghiera liturgica

Vorrei elencare tutti i momenti di preghiera liturgica della giornata, secondo la Regola e la tradizione. Però, la mia capacità matematica è pessima – dovete aiutarmi a fare il calcolo. Anzi, facciamo due calcoli: uno per i giorni feriali, l’altro per i giorni festivi.
1. Il Mattutino: di solito dura attorno ad un’ora, ma la domenica e nei giorni festivi, può durare un ora e mezzo, o anche di più. [da un’ora: feriali; ad un’ora e mezzo. festivi]
2. Le lodi: attorno a 40 minuti; 
3. L’ora prima insieme all’ufficio del capitolo: 30 minuti;
4. Le ore minori terza, sesta e nona: 10 minuti ciascuna [30 minuti];
5. La Messa cantata – da 50 minuti ad un’ora. La Messa solenne – un ora e mezzo;
6. I Vespri: attorno a 30 minuti;
7. La compieta: 20 minuti.
Per un totale di h 4,30 per i giorni feriali: h 5,30 per i giorni festivi.
Ecco il tempo impiegato per la preghiera liturgica.
L’orario monastico prevede anche la preghiera personale, la lectio divina. Leggo la descrizione di San Benedetto, e di nuovo, vi invito a fare il calcolo. La domanda è questa: quanto tempo viene dedicato alla lectio divina? Anche qui, si deve distinguere tra giorni feriali e giorni festivi.
Si tratta del cap. 48: Il lavoro manuale di ogni giorno. Non leggo tutto il capitolo, solo quei brani che dispongono l’orario per la lectio divina.
“L’ozio è nemico dell’anima, e perciò i fratelli devono essere occupati in ore determinate nel lavoro manuale e in altre ore nella lectio divina.
Riteniamo quindi che le due occupazioni siano ben ripartite nel tempo con il seguente orario:
- da Pasqua fino alle calende di ottobre... dall’ora quarta (10,00) fino a quando celebreranno sesta (12,00) attendano alla lettura. [2 ore]
- A partire invece dalle calende di ottobre fino all’inizio della quaresima attendano alla lettura fino a tutta l’ora seconda... (dalle 6,00 alle 8,00) [2 ore]
- Nei giorni della quaresima poi, dal mattino fino a tutta l’ora terza attendano alle proprie letture… (dalle 6,00 alle 9,00) [3 ore]
- Anche nel giorno della domenica, attendano tutti alla lettura, tranne quelli incaricati nei diversi servizi. [diverse ore]
Apro una parentesi: il sistema romano di calcolare il tempo consisteva nella divisione del giorno in 12 ore, e la notte in 12 ore: il che vuol dire che nel periodo estivo, le ore diurne sono più lunghe e le ore notturne più brevi; similmente, durante il periodo invernale, le ore diurne sono più brevi e le ore notturne più lunghe. Comunque sia, per comodità, facciamo il nostro calcolo basato su di un’ora di 60 minuti. Chiudo la parentesi.
La somma tra preghiera liturgica e preghiera personale?
Giorni feriali
- fuori della quaresima: 6,30
- quaresima: 7,30
Domenica e giorni festivi con l’orario domenicale: 7,30
Perché così tanto tempo di preghiera? Uso un’altra analogia, non quella del pesce, ma l’immagine di un campo sassoso che si deve arare. È necessario arare i solchi ripetutamente, anno dopo anno, per avere la terra veramente fertile. Allora, il nostro cuore è un campo sassoso, e ci vuole tanta preghiera, per arare bene quel campo.

III. I SALMI

Qual è il contenuto principale dell’Ufficio Divino? Una percentuale molto alta di tutte queste ore di preghiera consiste nella recita dei salmi.
Per capire l’importanza fondamentale dei salmi come parte essenziale della preghiera monastica, dobbiamo fare un piccolo esercizio di ermeneutica della Regola. Citerò tre brani, che si somigliano. Il vostro compito è di individuare le frasi uguali e la frasi diverse.
RB 4:21 Nihil amori Christi praeponere - Nulla all’amore di Cristo anteporre
RB 72:11 Nihil omnino Christo praeponant - Nulla a Cristo antepongano assolutamente
RB 43:3 Nihil operi Dei praeponatur - Niente all’Opera di Dio deve essere anteposto
Quali sono le espressioni uguali? Le espressioni diverse?
Se cerchiamo di interpretare bene che cosa vuol dire Opus Dei nella Regola, cioè, l’Ufficio Divino, il parallelismo di questo schema può aiutarci. Si tratta di capire l’oggetto del verbo praeponere. Ovviamente, la parola Christo e la frase l’amore di Cristo sono intercambiabili. Ma sembrerebbe che Christo sia anche intercambiabile con l’Opus Dei. In altre parole, il contenuto dell’Ufficio Divino altro non è che Cristo stesso: Nulla anteporre a Cristo, nulla anteporre all’Ufficio!
Questa affermazione va approfondita, perché la conclusione non è evidente.
In che cosa consiste principalmente l’Ufficio Divino? Nei salmi. Anzi, San Benedetto indica che se i monaci si alzano tardi e quindi si deve abbreviare qualche cosa, si possono abbreviare le letture, ma non i salmi! Possiamo dire, dunque, che il contenuto dell’Ufficio è Cristo, presente nei salmi.
Come è possibile? I salmi sono dell’Antico Testamento: che cosa hanno a che fare con Cristo? Ci sono due possibili risposte:
a) Secondo i criteri del metodo storico-critico, i salmi non hanno niente a che fare con Cristo.
b) Secondo i criteri dell’interpretazione della Sacra Scrittura come viene attualizzata nel Nuovo Testamento, nei Padri e nella Liturgia – cioè, l’interpretazione spirituale – i salmi hanno tutto a che fare con Cristo.
Vi do due esempi:

1. L’introito per la Messa di Natale a mezzanotte viene dal Salmo 2: Dominus dixit ad me: Filius meus es tu, ego hodie genui te. (Il Signore mi ha detto: Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato).
Secondo il senso storico, si tratta di un salmo di intronizzazione del re d’Israele, in cui Dio, con un decreto solenne, fa del re il suo figlio adottivo.
Ovviamente, la Liturgia fa una interpretazione cristologica. Chi parla? Dio Padre. Quando ha il Padre generato suo Unigenito Figlio? Non a Natale! A Natale, la madre – Maria – partorisce il Figlio incarnato. Ma la generazione del Figlio è una realtà prima della creazione del mondo, prima che il tempo esistesse, un momento eterno si potrebbe dire. La liturgia, quindi, meditando su questo versetto salmico, approfondisce il testo del Credo che recita: “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, dalla stessa sostanza del Padre”.
Questo metodo dell’interpretazione spirituale è stato descritto da Sant’Agostino con una frase lapidaria: “Tutto l’Antico Testamento parla di Cristo o ci esorta alla carità.”
In questo versetto preso dal Salmo 2, vediamo che il Salmo parla di Cristo. Nel secondo esempio che vi darò, vedremo come un altro salmo ci esorta alla carità.

2. Nel prologo della Regola, c’è una allusione al Salmo 136 nel contesto di una descrizione della lotta spirituale:
“[Il monaco], tentato dal maligno, cioè dal diavolo, lo respinge lontano dalla vista del suo cuore insieme con la tentazione stessa, e così lo annienta e, afferrando subito al loro nascere i suoi suggerimenti, li infrange contro il Cristo” (Prol 28).

Vediamo il salmo che corrisponde a questo brano della Regola. È un lamento, cantato dai deportati in Babilonia, che termina con una maledizione abbastanza brutta.
Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo / al ricordo di Sion. / Ai sàlici di quella terra / appendemmo le nostre cetre. / Là ci chiedevano parole di canto / coloro che ci avevano deportati, / canzoni di gioia, i nostri oppressori:“Cantateci i canti di Sion!” / Come cantare i canti del Signore / in terra straniera? / se ti dimentico, Gerusalemme, / si paralizzi la mia destra. / Mi si attacchi la lingua al palato / se lascio cadere il tuo ricordo, /se non metto Gerusalemme / al di sopra di ogni mia gioia.

Fin qua, tutto va bene. È un lamento molto bello, commovente, che ispira sentimenti di compassione. Ma il salmo prosegue; ci sono ancora due strofe che formulano una maledizione. Nella Liturgia delle Ore attuale, hanno tolto quest’ultima parte, perché il principio adoperato dai compilatori era quello dell’interpretazione esclusivamente storica. I Cristiani non possono usare una maledizione nella loro preghiera, e quindi, si devono omettere questi versetti.
La tradizione liturgica della Chiesa, però, ha sempre incluso questi versetti, perché il principio adoperato era sempre quello dell’interpretazione spirituale. Mi spiego. Ecco l’ultima parte del salmo:
Ricordati, Signore, dei figli di Edom, / che nel giorno di Gerusalemme / dicevano: “Distruggete, distruggete, / anche le sue fondamenta!”

(I popoli di Edom, che abitavano a sud-est del Mar Morto, erano nemici storici d’Israele, e hanno collaborato con i Babilonesi nella distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C.)
Adesso viene la maledizione: / Figlia di Babilonia devastatrice, / beato chi ti renderà quanto ci hai fatto! / Beato chi afferrerà i tuoi piccoli / e li sbatterà contro la pietra!

L’uccisione crudele e barbarica dei bambini innocenti non è una cosa bella. Come è possibile che preghiamo questo salmo? Ascoltate ciò che fanno i Padri: un’interpretazione di profonda intuizione psicologica e spirituale. Ecco il ragionamento:

- I Babilonesi sono nemici, e i nostri nemici sono il diavolo e tutto il suo esercito.

- Ma non si tratta di adulti Babilonesi, guerrieri, ma di bambini, quindi di tentazioni cattive del diavolo quando sono ancora piccole, impotenti, deboli.

- Si parla, poi, di una pietra. Che cosa vuol dire? San Paolo dice nella 1 Cor 10, che gli Israeliti durante l’Esodo “bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” (1 Cor 10:4). San Paolo adopera il metodo spirituale per interpretare l’Antico Testamento. Anche nel nostro caso, la roccia è Cristo.

- Conclusione: quando le tentazioni iniziano il loro attacco, quando sono ancora deboli, come bambini, precisamente in quel momento dobbiamo afferrarli e sbatterli contro la pietra che è Cristo. Se, invece, indugiamo, e lasciamo queste tentazioni / bambini crescere, diventeranno guerrieri, più forti di noi, e saremo sconfitti nella lotta spirituale.

Ascoltiamo ancora una volta le parole di San Benedetto:
“[Il monaco], tentato dal maligno, cioè dal diavolo, lo respinge lontano dalla vista del suo cuore insieme con la tentazione stessa, e così lo annienta e, afferrando subito al loro nascere i suoi suggerimenti, li infrange contro il Cristo” (Prol. 28).

Vedete? I salmi parlano di Cristo e della nostra vita spirituale in Cristo. Il monaco è immerso nel mondo dei salmi, ogni giorno. Il suo immaginario simbolico è formato dalla Bibbia (non dal televisore o dall’internet). La liturgia in genere, e i salmi dell’Ufficio in particolare, formano il monaco e lo nutrono.

IV. IL CANTARE

L’ultima categoria è il canto. I monaci non recitano ma cantano la liturgia. Nel monastero di Norcia, cantiamo tutto – tutto l’Ufficio e tutta la Messa.
Quando io sono da solo, in viaggio, o fuori del monastero, anche da solo canto l’Ufficio. Il canto è essenziale per la liturgia monastica, perché esprime meglio tutti i sentimenti del cuore. Il Canto Gregoriano, a causa della sua antichità, del rapporto tra musica e parola, delle tonalità che sono diverse da quelle moderne – per tutti questi motivi, il canto gregoriano ha una bellezza del tutto particolare. È un canto creato per la liturgia, non per altri contesti, e quindi ha tutte le caratteristiche della musica liturgica di cui parla Papa Pio X: un musica sacra, bella, universale.
Cerchiamo di sviluppare questo tema del canto monastico, canto liturgico, prendendo in considerazione quattro punti:
a. Il canto e i sentimenti del cuore
b. Cantare: un atto comunitario
c. Il cantare come partecipazione ai cori celesti
d. Il canto esprime l’unità della fede

a. Il canto e i sentimenti del cuore

Il canto serve da veicolo per esprimere i sentimenti più profondi dell’anima – ha quindi un ruolo espressivo. Sant’Agostino descrive i suoi sentimenti quando ascoltava i canti a Milano, dove Sant’Ambrogio aveva dato uno slancio notevole alla forma musicale dell’inno.
Agostino era molto consapevole del potere emotivo del canto, e ne aveva un certo sospetto, allo stesso tempo riconoscendo l’effetto positivo del canto liturgico, confessava di essere stato commosso anche lui.
Talora esagero in cautela contro questo tranello [la pericolosa sensualità della musica]. Allora rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa tutte le melodie delle soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici… Quando però mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi della mia fede riconquistata e alla commozione che oggi ancora suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica (Confessioni, X, xxiii, 40).
La salmodia comunica efficacemente non soltanto il contenuto delle parole cantate, ma ha un altro effetto subliminale, intuitivo. Ad esempio, quando sono agitato, e vado ai Vespri in questo stato d’animo, dopo che le onde della salmodia hanno bagnato la sponda del mio cuore, mi sento più tranquillo, e quando i Vespri si concludono, mi trovo di nuovo in pace. Troviamo la stessa esperienza nella Bibbia. Si ricorda che il re Saul era afflitto da un tipo di follia. “Allora i servi di Saul gli dissero: 
“Vedi, un cattivo spirito sovrumano ti turba. Comandi il signor nostro ai ministri che gli stanno intorno e noi cercheremo un uomo abile a suonare la cetra. Quando il sovrumano spirito cattivo ti investirà, quegli metterà mano alla cetra e ti sentirai meglio… Quando dunque lo spirito sovrumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava; Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui” (1 Sm 16:15-16; 23).

b. Cantare: atto comunitario

L’atto di cantare non è soltanto una questione personale, ma anche comunitaria. I monaci cantano insieme. Questo fatto è già una scuola di formazione! Il prefazio della Messa descrive gli angeli, gli arcangeli, i Cherubini e i Serafini cantando all’unisono: una voce dicentes. Questa armonia è anche l’obiettivo del coro monastico, e quindi dobbiamo ascoltare agli altri confratelli, moderare la voce, il ritmo, il volume per conformarsi al canto della comunità. Il monaco singolo deve diventare umile.
Se no, se il monaco è superbo e vuole esibirsi, o vuole manipolare il coro affinché la comunità segua il suo ritmo e il suo stile personale, non c’è più armonia, e si sente la dissonanza. Papa Benedetto XVI, nel suo famoso discorso al Collège des Bernardins a Parigi, sulla cultura monastica, cita San Bernardo, che rimprovera severamente i monaci che disturbano l’unità del canto. San Bernardo dice che con tale comportamento, il monaco abbandona la somiglianza di Dio, e si precipita nella regio dissimilitudinis, “nella zona della dissomiglianza, in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo.”(Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura, Collège des Bernardins, Parigi: 12 settembre 2008, p. 4).
Questo giudizio di San Bernardo è molto severo, ma si vede quanto importante per lui è il canto all’unisono.

c. Partecipazione ai cori celesti

Abbiamo citato la formula conclusiva del prefazio che descrive il canto dei cori celesti una voce dicentes. È significativo che il canto dei monaci non è semplicemente un’attività umana, di cultura musicale. È invece una partecipazione alla liturgia celeste. Per questo, San Benedetto dice:
“Sappiamo per fede che dappertutto Dio è presente e che gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi, ma dobbiamo crederlo senza dubbio alcuno soprattutto quando partecipiamo all’Opera di Dio. Perciò teniamo presente sempre quello che dice il profeta: Servite il Signore nel timore, e ancora: Salmodiate con sapienza e: In presenza degli angeli canterò per te. Badiamo dunque con quale atteggiamento dobbiamo stare davanti a Dio e ai suoi angeli, e poniamoci a cantare i salmi in modo che il nostro spirito sia in accordo con la nostra voce” (RB 19:1-7).

d. L’unità della fede

Ci sono tanti aspetti del canto liturgico che potrei sviluppare ancora, ma mi limito ad uno in più. Il canto ha la capacità di unire tutti i misteri della fede nell’unità di una singola intuizione. Vi do un esempio.
Il Martirologio per il Natale, traccia tutta la storia della salvezza, fino all’incarnazione del Figlio di Dio. In un crescendo di intensità, dopo aver menzionato il periodo di pace sotto l’imperatore Augusto, il Martirologio proclama la nascita del Salvatore con queste parole e con questa melodia:
Ripeto l’ultima frase: Nativitas Domini nostri Iesu Christi secundum carnem. Avete mai sentito questa intonazione, questa melodia? Da dove viene? Quando viene usata nella liturgia?
Ascoltate: Passio Domini nostri Iesu Christi secundum Matteum.
Vedete? La melodia della proclamazione della nascita di Cristo riprende esattamente la melodia della passione. Perché? Perché il Figlio di Dio è venuto nel mondo per salvarci dai nostri peccati per mezzo della sua passione. Ecco: l’unità dei misteri della fede, comunicata con grande semplicità, per mezzo di una cantilena liturgica.

CONCLUSIONE

Il rapporto tra Monachesimo e Liturgia è un rapporto di immersione totale. In questo breve incontro, vi ho dato uno schizzo di alcuni elementi che formano quest’ambiente speciale.
1. La preghiera incessante;
2. La mole di tempo impiegato ogni giorno nella preghiera liturgica;
3. I salmi;
4. Il canto.
Ce ne sono tanti altri. Concludo, quindi, con un invito: Venite e vedrete! La mia descrizione stasera è una cosa; la vostra esperienza sarà un’altra.
Vi invito ad un mondo di bellezza, di ascetismo, di profonda spiritualità, di incontro con il Signore. Venite, “voi tutti che siete affaticati e oppressi … e troverete ristoro per le vostre anime” (cf. Mt 11:29).


“Intérdiu quoque tres, quátuor, quinque horas in ea perstábat immótus, donec unam saltem ánimo nusquam distrácto percurrísset. Cujus constántiæ præmium fuit stabílitas mentis inter orándum alio non vagántis, immo perpétua velut éxtasi in Deo defíxæ” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI ALOISII GONZAGÆ, CONFESSORIS

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Ecco un giglio di una bianchezza splendente, profumato di purezza verginale, che il Signore trapiantò, dalla volgarità della corte fastosa e sensuale di Madrid, nel giardino eletto di Ignazio di Loyola a Roma. Tutto, nella vita di Luigi, respira la santità e la freschezza: il suo battesimo frettoloso, da parte della levatrice, prima che egli stesso che fosse nato (sarà ri-battezzato solennemente alcuni giorno dopo la sua nascita); la sua prima Comunione, ricevuta dalle mani di san Carlo Borromeo; la sua accettazione nella Compagnia di Gesù da Claudio Aquaviva; la direzione spirituale, al Collegio romano, del santo cardinale Roberto Bellarmino; le sue dure penitenze ed, infine, vittima della carità al servizio degli appestati, all’ospedale della Consolazione a Roma, la sua morte immacolata. Il serafino del Carmelo di Firenze, santa Maria Maddalena de’ Pazzi, in una celebre visione della gloria di san Luigi in cielo, riassunse così le lodi dell’angelico giovane, modello dei chierici (poiché ebbe difatti il grado di accolito): “Luigi fu un martire occulto. Scoccava continuamente delle frecce al Cuore del Verbo, quando era mortale. Oh! Quale gloria ha nel cielo Luigi, figlio di Ignazio”.
La messa risente di tutti i difetti della decadenza dell’arte liturgica nel XVII sec.
In compenso, non manca né di varietà né di condimenti.
La Roma cristiana conserva diverse tracce del passaggio terreno del Santo in questa città. Senz’altro, i luoghi più importanti aloisiani sono le “Camere o Cappellette di S. Luigi Gonzaga” (in special modo la camera dove abitò a Roma che raccoglie alcune reliquie e cimeli del Santo ed alcuni oggetti posti nella stanza dell’infermeria dove il Santo morì di peste andata distrutta) poste all’interno del Collegio Romano, all’ultimo piano, facenti parte di quella parte dell’edificio detto Ritiramento, cioè le camere abitate dagli studenti venuti dal noviziato di Sant’Andrea al Quirinale in qualità di scolastici e che furono occupate, appunto, dai santi Luigi Gonzaga, Giovanni Berchmans, dal Beato Antonio Baldinucci, dal Venerabile Abramo Giorgi e da altri.
Altro luogo romano legato a san Luigi è la Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio, dove si conserva il corpo del Santo in un’urna di lapislazzuli sotto l’altare a lui dedicato. Precedentemente, Luigi era stato sepolto nella Chiesa dell’Annunziata del Collegio Romano. Ebbe poi ebbe varie sepolture fino al definitivo trasferimento avvenuto il 5 agosto 1649 nella sua attuale collocazione.
Nell’urna il corpo sarebbe privo del cranio, che si conserva, invece, a Castiglione delle Stiviere, suo luogo di nascita. Vi sarebbe arrivato nel 1610, donato dalla Compagnia dei Gesuiti di Roma. Una leggenda popolare vorrebbe che, alla morte di Luigi, il fratello Francesco, terzo Marchese e primo Principe di Castiglione, avrebbe mandato degli uomini a Roma per riportarne a casa il corpo. Sulla strada del ritorno, attraversando il lago Trasimeno, avrebbero fatto naufragio e il corpo sarebbe affondato. Anni dopo sarebbe affiorato dalle acque un teschio, che sarebbe stato identificato con quello di Luigi e portato, gridando al miracolo, sarebbe stato portato a Castiglione.
Nella Basilica santuario del Gesù Vecchio, a Napoli, la prima chiesa costruita in quella città dai Gesuiti, inoltre, in una piccola ampolla sarebbe conservato un residuo sanguineo di San Luigi. Ogni 21 giugno avveniva, in passato, il fenomeno della liquefazione; ora i fedeli affermano che in questa data si vede un lieve arrossamento.
Roma cristiana ha poi dedicato al nostro Santo una chiesa, nel quartiere Parioli, nel 1929. Dal 2012 conserva una reliquia di san Luigi.
L’antifona per l’introito è tratta dal Sal. 8, mentre il secondo versetto del salmo 148 la segue, con dossologia. La verginità alza l’uomo al livello degli angeli stessi, che sono delle creature spirituali. Ben più, come osserva san Giovanni Crisostomo, la castità appare ancora più bella nell’uomo che nell’angelo, perché in questa carne fragile è il risultato di una lotta lunga e difficile.
La prima lettura, salvo l’ultimo versetto che manca, è la stessa dell’8 febbraio. Tuttavia il testo originale del passaggio dell’Ecclesiastico (31, 8-11), si adatterebbe molto meglio a san Luigi, se, al posto del testo ritoccato: Beatus vir qui inventus est sine macula, fosse stato riportato dal Messale nella sua esattezza: Beatus dives qui inventus est sine macula, ecc.
Di fatto, la Scrittura, in questo luogo, non fa l’elogio di un giusto qualsiasi, ma del ricco che, pure avendo in effetti la fortuna, il potere e la gloria, ne fa buon uso e divide i suoi beni tra i poveri. Lo stato di povertà è onorabile e meritorio, perché il Verbo di Dio l’ha santificato nella sua Umanità; ma la virtù del ricco è, anch’essa, difficile e gloriosa, allorché, avendo vinto l’attrattiva dell’oro e dello splendore della vita, rimane povero ed umile di spirito, pure nel mezzo all’opulenza materiale.
La lettura evangelica è tratta da san Matteo (Mt 22, 29-40). Gesù riduce al silenzio i Sadducei scettici e materialisti, che, per ridicolizzare la risurrezione, gli avevano proposto il caso di una donna sposata a sette fratelli di seguito. “Alla risurrezione, chiedono ironicamente, di chi sarà la moglie?”. Il Salvatore risponde spiegando la natura spirituale della nostra vita futura gloriosa grazie alla quale il corpo nel cielo parteciperà allo stato dell’anima glorificata. Non sarà dunque più sottomesso al bisogno del nutrimento, alle malattie, alla morte. In questo regno beato, non ci saranno più matrimoni da contrarre, di culle da preparare, di beni dotali da versare. Saremo allora tutti come lo sono odiernamente gli angeli di Dio. L’applicazione liturgica a Luigi, angelicus juvenis, è evidente.
Nella colletta prima dell’anafora emblematicamente si parla delle lacrime che, come delle perle preziose, ornavano le bianche livree di san Luigi, quando si accostava al banchetto eucaristico. Consacrava parecchi giorni a prepararsi, e di tanto ne rendeva grazie a Dio.
In onore dell’accolito Luigi, “martire occulto” d’amore, si può oggi ripetere quello che, nel IV sec., il papa Damaso scriveva sulla tomba di un altro accolito, il martire Tarcisio: Par meritum quicumque legis cognosce duorum, Quis Damasus rector titulum post præmia reddit(San Damaso I,Epigrammata, in Maximilian Ihm (a cura di), Damasi Epigrammata: accedunt Pseudodamasiana aliaque ad Damasiana inlustranda idonea, Lipsiæ1895, n. 14; nonché, con alcune varianti nel testo, in Carmina, vol. 1, in PL 13, col. 392).













Ritratto giovanile di S. Luigi a 12 anni, Galleria del Museo Storico Aloisiano, Castiglione delle Stiviere

Carlo Francesco Nuvolone, S. Luigi Gonzaga venera la Vergine col Bambino, 1665, collezione privata


Guercino, La vocazione di S. Luigi Gonzaga, 1650 circa, The Metropolitan Museum of Art, New York

Giuseppe Maria Crespi, Madonna col Bambino e i SS. Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka, 1726-40, Galleria Nazionale, Parma

Luigi Crespi, S. Luigi, 1745-50, museo diocesano, Bologna

Francisco Goya y Lucientes, San Luigi Gonzaga in meditazione, 1781-85, Museo Provincial, Saragozza

Autore bergamasco anonimo, S. Luigi, XVIII sec., museo diocesano, Bergamo

Autore piemontese anonimo, S. Luigi, XVIII sec., museo diocesano, Susa

S. Luigi, Altare dell'Immacolata, Chiesa parrocchiale, Pöllau



Sebastian Staudhamer, S. Luigi, XIX sec., collezione privata


Altare di S. Luigi con urna del Santo, Chiesa di S. Ignazio, Roma

Cardinal Burke: “La cultura occidentale non si potrà rinnovare finché non comprenderà il valore dell’atto sessuale”

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Avevamo già dato conto dell’incontro canadese del card. Burke (v. qui).
Nella memoria di san Paolino da Nola e dell'arcivescovo martire John Fisher, rilancio la traduzione curata da Chiesa e postconcilio.


Hans Holbein il Giovane, Ritratto di S. Giovanni Fisher, XVI sec., Royal Collection, Castello di Windsor, Londra

Ritratto di John Fisher ispirato ad uno analogo di Hans Holbein il Giovane, in John Chamberlaine,"Imitations of original drawings by Hans Holbein", Londra, 1812 

Il Cardinal Burke ad Ottawa: “La cultura occidentale non si potrà rinnovare finché non comprenderà il valore dell’atto sessuale”

Il 7 giugno scorso registravamo le vicissitudini di un Apostolo, il cardinale Burke, ad Ottawa [qui]. Ma nonostante le avversità l’evento si è svolto felicemente.
Di seguito pubblichiamo ampi stralci del discorso tenuto nella capitale canadese, ripresi dal sito LifeSiteNews. (Traduzione a cura di Chiesa e post- concilio).
Il Cardinale Burke ad Ottawa:

“La cultura occidentale non si potrà rinnovare finché non comprenderà il valore dell’atto sessuale”


Affrontando il tema della crisi della cultura nel córso della sua prima visita alla capitale canadese, il Cardinal Raymond Burke ha sottolineato che la difesa della vita umana e la promozione del matrimonio naturale sono i fondamenti di ogni cultura veramente umana. Il timore che l’Occidente nutre nei confronti della morte e della distruzione non “cesserà di esistere” finché “la verità sull’unione coniugale [non verrà proclamata] nella sua interezza”, ha affermato.
La difesa e la promozione della vita umana, del matrimonio e della famiglia è il fondamento non solo di una cultura autenticamente cristiana, ma di ogni cultura umana accettabile”, 
ha detto a circa 330 persone radunate al Centro di Eventi e Conferenze di Ottawa per celebrare il ventesimo anniversario di NET Canada.
La ragione di essere dei Gruppi di Evangelizzazione Nazionale (National Evangelization Teams, NET) è quella di invitare i giovani cattolici ad amare Cristo e aderire alla vita della Chiesa tramite dei ritiri in cui si alternano testimonianze individuali, sketch e rappresentazioni musicali da parte di gruppi di giovani che viaggiano da una costa all’altra del paese.
Nel suo discorso, il cardinale ha elogiato NET, affermando che si tratta “sicuramente di un efficace e brillante veicolo di speranza e incoraggiamento per la nostra gioventù, che sente in modo particolarmente pungente la sfida della vita in Cristo nella nostra epoca”.
Burke, che è riconosciuto dai leader dei movimenti per la vita e per la famiglia di tutto il mondo come uno dei più strenui difensori della verità, della moralità e del cristianesimo autentico della Chiesa, ha steso un elenco di “mali morali gravissimi” che costituiscono ciò che egli ha definito “lo stato morale disordinato in cui si trova la nostra cultura”.
Per esempio, l’assassinio a larga scala dei bambini nel grembo materno, giustificato come l’esercizio del cosiddetto ‘diritto’ della madre di scegliere se portare a termine la gravidanza del feto che ha concepito. Sempre più spesso, inoltre, ci troviamo di fronte all’abominevole pratica della generazione artificiale di vita umana e della sua distruzione quando si trova ancóra allo stadio di sviluppo embrionale, giustificata come mezzo per trovare presunte cure per malattie gravi o mortali”.
Il cardinale ha menzionato l’uccisione diretta e intenzionale dei deboli e degli anziani mediante l’eutanasia e il suicidio assistito, dichiarando che sono falsamente “giustificati come forme di ‘rispetto’ per la loro qualità di vita”.
Burke ha posto in testa alla sua lista l’attacco contro il matrimonio da parte di vari gruppi ideologici.
Non si può fare a meno di pensare dell’agenda sempre più attiva di quanti vogliono ridefinire il matrimonio e la vita familiare includendo in esse l’attività sessuale innaturale di due persone dello stesso sesso, inclusione spacciata per tolleranza delle cosiddette ‘forme alternative’ della sessualità umana, come se esistessero realmente delle forme di sessualità umana diverse da quelle che Dio, nostro Creatore e Redentore, ha concepito e iscritto nei nostri corpi e nelle nostre anime”.
Burke ha definito tutte queste cose “gravi mali che sconvolgono il mondo ai nostri giorni”, aggiungendo che rivelano un modo di vivere “come se Dio non esistesse”. Ha affermato:
Essi sono una manifestazione del peccato, [la cui] radice è l’orgoglio – l’orgoglio dell’uomo che non vuole riconoscere che tutto quel che egli è ed ha discende dalle mani di Dio, Che ci ha creati e ci ha redenti dal peccato dei nostri progenitori”.
Nonostante la desolazione del panorama morale dell’Occidente, il Cardinal Burke ha detto che i cristiani “devono essere pieni di speranza e incoraggiamento nella loro missione di costruire una cultura cristiana forte nelle loro case, nelle loro comunità e nelle loro nazioni”.
Egli ha poi sottolineato che “la santità della vita”, indipendentemente dalla situazione in cui il cristiano si trova, è il vero programma della nuova evangelizzazione e l’unica risposta per combattere i problemi. Ha poi insistito sulla santità della vita in rapporto con l’applicazione nelle nostre vite della “verità della sessualità umana”.
Ha definito la pratica delle virtù della purezza, della castità e della modestia “il vivere la verità riguardo la sessualità umana”, e le ha quindi vincolate alla “pratica della giustizia”. Ha posto la domanda:
Che senso ha per noi parlare del nostro amore di Dio e del prossimo se non pratichiamo la giustizia, se non rispettiamo l’ordine che Dio ha posto nella natura e nei nostri cuori, nella nostra relazione con Lui e col nostro prossimo?”.
Ha poi proceduto alla stesura di una spiegazione della morale sessuale basata sul riconoscimento del proposito dell’atto sessuale, affermando che è stato creato da Dio per poter essere legittimamente utilizzato nel matrimonio allo scopo di portare nuova vita nel mondo.
Il rispetto della vita umana è essenzialmente vincolato al rispetto dell’integrità del matrimonio e della famiglia così come ci sono dati da Dio. L’attacco alle vite innocenti e indifese dei bambini non nati, per esempio, è originata da una visione erronea della sessualità umana, che cerca di eleminate la natura essenzialmente procreativa dell’atto coniugale tramite mezzi meccanici o chimici”.
Burke ha aggiunto: 
In base a quest’errore si sostiene che l’atto sessuale alterato artificialmente mantenga la sua integrità. Si pretende che l’atto sessuale la cui natura procreativa sia stata radicalmente violata rimanga un atto di unione e d’amore. In realtà, non è un atto d’unione, perché uno dei partner o entrambi trattiene una parte essenziale del dono di sé, che è l’essenza dell’unione coniugale. La cosiddetta ‘mentalità contraccettiva’ è essenzialmente contro la vita. Molte forme di quella che viene chiamata contraccezione sono in realtà abortive, ossia, distruggono una vita che è stata già concepita, che è già cominciata”.
Burke ha affermato che gli uomini, le donne e la stessa società incorrono nel rischio della distruzione quando si perde il senso dell’atto sessuale.
La manipolazione dell’atto coniugale – come Papa Paolo VI ha coraggiosamente osservato – ha portato a varie forme di violenza nel matrimonio e nella vita familiare, tramite la diffusione della mentalità contraccettiva, specialmente tra i giovani. La sessualità umana non è più vista come quel dono di Dio che unisce un uomo e una donna in un vincolo d’amore fedele che dura tutta la vita, coronato dal dono di una nuova vita umana, ma piuttosto come uno strumento di gratificazione personale”.
Una volta che l’unione sessuale non è più vista come procreativa per la sua stessa natura, essa viene abusata in molti modi che sono profondamente dannosi e senza dubbio distruttivi, tanto per l’individuo come per la società stessa. Si pensi solo ai devastanti effetti provocati ogni giorno nel nostro mondo dall’industria della pornografia, in cui si investono vari miliardi di dollari”.
Burke ha enfatizzato la necessità di un ritorno all’enciclica papale Humanae Vitae del 1968 per aiutare a promuovere la visione della Chiesa sulla sessualità umana. Ha fatto riferimento a Papa Benedetto XVI, il quale “ha chiarito che gli insegnamenti della Humanae Vitae non costituiscono semplicemente una questione di morale individuale”. Ha affermato:
La proclamazione della verità sull’unione coniugale nella sua pienezza e la correzione del pensiero contraccettivo che teme la vita, che teme la procreazione, è fondamentale alla trasformazione della cultura occidentale”.
Ha definito la restaurazione del rispetto per l’integrità dell’atto coniugale “essenziale” per il futuro della cultura occidentale e il progresso di una cultura della vita.
Burke ha continuato parlando del ruolo della coscienza come di una “guida infallibile” alla santità della vita ma lo è solamente la coscienza 
formata all’ascolto della sola voce di Dio e al rifiuto di quanto potrebbe indebolire o compromettere in qualsiasi modo la nostra testimonianza della verità in cui Egli solo ci istruisce per mezzo della Chiesa, tramite la nostra preghiera e la nostra devozione quotidiane, tramite la nostra conoscenza dei santi coi quali partecipiamo alla comunione nella Chiesa, e tramite il nostro studio degli insegnamenti ufficiali della Chiesa stessa”.
Oggi, dobbiamo fare attenzione alle false nozioni di coscienza che la potrebbero utilizzare per giustificare atti peccaminosi, che sono il tradimento della nostra chiamata alla santità”.
Nella conclusione del suo discorso, Burke ha dichiarato che la santità della vita richiede un martirio quotidiano che consiste nella “testimonianza pubblica della nostra fede”, anche qualora essa esigesse “il dare la vita”. E ha affermato.
Sicuramente, nella secolarizzata mentalità della paura e nell’agenda sempre più densa di iniziative contro la vita e contro la famiglia di molte persone che ricoprono posizioni di potere all’interno della nostra cultura, possiamo discernere una sfida contro la nostra fede”.
L’ostilità, e in maniera ancor più estesa l’indifferenza nei confronti dei contenuti della fede che ci sono più cari, rappresentano tentazioni che vorrebbero portarci allo scoraggiamento e persino ad evitare una testimonianza più pubblica della nostra fede. Ma il martirio a cui siamo chiamati e per il quale siamo consacrati e fortificati dai sacramenti del battesimo e della confermazione, ci chiedono di offrire instancabilmente la nostra testimonianza, fiduciosi nel fatto che Dio porterà i buoni frutti”.
A causa dell’attacco frontale contro la vita della famiglia e di quello a vasta scala contro vite umane innocenti e indifese, e a causa della violazione dell’integrità dell’unione matrimoniale nella nostra società, la chiamata al martirio della testimonianza è sempre più urgente”, ha concluso.

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

La tolleranza dei nemici della Chiesa e la fede e l'amore della Chiesa ..... in un aforisma del P. Garrigou-Lagrange

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Miséricorde et fermeté doctrinale ne peuvent subsister qu'en s'unissant; séparées l'une de l'autre elles meurent et ne laissent plus que deux cadavres: le libéralisme humanitaire avec sa fausse sérénité et le fanatisme avec son faux zèle. On a dit: "L'Eglise est intransigeante en principe parce qu'elle croit, elle est tolérante en pratique parce qu'elle aime". Les ennemis de l'Eglise sont tolérants en principe parce qu'ils ne croient pas, et intransigeants en pratique parce qu'ils n'aiment pas. (Padre R. Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature, Paris 1923, p. 725).

Misericordia e fermezza dottrinale possono sussistere solo insieme; separate l’una dell’altra esse muoiono e non lasciano che due cadaveri: il liberalismo umanitario con la sua falsa serenità e il fanatismo con il suo falso zelo. È stato detto: “La Chiesa per principio è intransigente, perché crede, nella pratica è tollerante, perché ama”. I nemici della Chiesa sono tolleranti per principio, perché non credono, e intransigenti nella pratica, perché non amano.

La Chiesa cattolica ed i Valdesi nel pensiero di S. Alfonso Maria de' Liguori, Dottore della Chiesa e maestro di morale

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Nella giornata di oggi sembra opportuno ricordare ai cattolici chi siano i Valdesi. Per farlo, ci affidiamo alle parole del Santo Dottore della Chiesa e Maestro di morale Alfonso M. de’ Liguori:


SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI

Storia delle Eresie

CAPITOLO X

Se occorsero eresie nel secolo X

ARTICOLO II

Eresie del secolo XII

Pietro Valdo, capostipite della setta dei Valdesi, iniziò a spargere la sua eresia nell’anno 1160 circa, con l’occasione della morte di un certo importante personaggio di Lione, defunto improvvisamente davanti a più persone. Pietro ne rimase così atterrito, che subito distribuì ai poveri una grande somma di danaro; da questo gesto, molti uomini, per devozione, gli si diedero per discepoli.
Valdo era alquanto letterato, ed allora volle spiegare loro il Nuovo Testamento; purtroppo propose ai suoi seguaci anche vari dogmi alieni dalla dottrina cattolica.
Gli ecclesiastici gli si opposero ma esso, non facendone conto, diceva ai suoi seguaci che il clero era ignorante e corrotto nei costumi, dunque invidiava la buona vita e dottrina della neonata setta valdese.
Così viene riferita l’origine dei Valdesi da Fleury, da Natale Alessandro e dal cardinal Gotti (Fleury l. 73. n. 55. Nat. Alex. c. 4. a. 13. Gotti c. 93. §. 1.), nondimeno il p. Graveson (Sec. 12. coll. 3) sostiene che Pietro Valdo, avendo inteso o letto nel Vangelo di san Matteo al capo 19, che per comando del Signore si devono vendersi tutti i beni per darli ai poveri, si persuase di voler rinnovare questa vita apostolica; perciò vendette tutti i suoi beni dispensandoli ai poveri e scelse di vivere da povero. Così volle imitarlo un certo Giovanni, che, spaventato dalla morte subitanea di quel personaggio di Lione, vendette il suo patrimonio e si fece compagno di Pietro; così, acquistando più seguaci, si espanse la setta di questi eretici.
In breve tempo essi crebbero tanto, nella sola diocesi di Poitiers aprirono 41 scuole. Da queste uscirono poi più sette, numerate da Rainero (Opusc. de haereticis) il quale visse prima tra i Valdesi per 17 anni, ma poi, conosciuta la loro empietà, ritornò a seguire la Chiesa e si fece Domenicano.
Quelle sette che si divisero ebbero vari nomi, cioè Valdesi da Pietro Valdo: Lionisti e poveri di Lione, da questa città onde essi uscirono: Piccardi, Lombardi, Boemi, Bulgari, dalle provincie che scorsero: Arnaldisti, Josefisti, Lollardi, dai diversi dottori della loro setta: Cathari, dalla «mondezza del cuore che vantavano»: Buoni uomini, dall’apparente e finta bontà dei costumi: Sabatati ed Insabatati, dal loro particolare calzamento, o da zoccoli o scarpe (tagliate in croce di sopra) che portavano, o pure perché non celebravano i sabati, cioè i giorni festivi (Graves. loc. cit. et Nat. Alex. loc. cit.).
I Valdesi caddero in molti errori, riferiti dal mentovato Rainero presso il padre Alessandro (Nat. Alex. cit. art. 13. §. 2.): fra gli errori basta rapportare i più principali.
1) Dicevano per prima cosa che la Chiesa romana mancò al tempo di san Silvestro papa, quando cominciò ella a possedere beni temporali e che perciò la vera Chiesa era la loro, mentre seguivano gli apostoli e il Vangelo non possedendo nulla;
2) Come seconda eresia dicevano che il papa è il capo di tutti gli errori;
3) Poi, che i prelati sono gli scribi ed i religiosi sono i farisei;
4) Che solo a Dio si deve ubbidire, non ai prelati;
5) Che non si devono pagare le decime, giacché non si pagavano nella Chiesa primitiva;
6) Credevano a due soli sacramenti: al Battesimo ed all’Eucaristia;
7) Dicevano che il Battesimo nulla giova ai fanciulli;
8) Secondo loro, il sacerdote peccando mortalmente perde la potestà di consacrare e di assolvere i peccati e che, al contrario, i buoni laici ben possono assolvere;
9) Rigettavano le indulgenze e le dispense della Chiesa, i digiuni comandati, e tutte le cerimonie usate dalla Chiesa romana;
10) Abominavano le sacre immagini ed anche il segno della croce;
11) Dicevano che tutti i peccati sono mortali, né vi sono veniali, e che non mai è lecito giurare, neanche in giudizio.
I Valdesi prima furono condannati da Alessandro III papa nell’anno 1163 nel Sinodo di Tours; nell’anno 1175 o 76 nel sinodo di Lombes; nell’anno 1178 in quello di Tolosa ivi tenuto da Pietro, cardinale e legato del papa; nell’anno 1179 nel Concilio ecumenico Lateranense III; e poi nell’anno 1215 nel Lateranense IV anche ecumenico; finalmente nella costituzione di Gregorio IX registrata nel capo Excommunicamus (15) de Haeret., ove si leggono anatematizzati tutti gli eretici delle sette nominate di sopra (Nat. Alex. loc. cit. §. 7.).

Tratto da Sant’Alfonso Maria de' Liguori, Storia delle Eresie, pp. 154 e 155

"Non toccate don Bosco!": San Giovanni Bosco ed i Valdesi ....

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Per ricordare i comportamenti …. poco cristiani …. diciamo così dei Valdesi, ci limitiamo solo ad alcuni episodi tratti dalla vita di san Giovanni Bosco.

"I nemici del Cattolicismo, o fratelli, i Protestanti in ispecie, si adoprano colla massima attività per corromperci la fede
(S. Giovanni Bosco, Ai nostri lettori, in  Conversione di una Valdese. Fatto contemporaneo, Torino, 1854, p. II)


NON TOCCATE DON BOSCO!

Controversia con i Valdesi

Finite le persecuzioni del governo, incominciarono quelle dei protestanti. Questi, per far desistere don Bosco dalla lotta instancabile che loro faceva, presero a sfidarlo con le discussioni. Vi si provarono dapprima tutti i capoccia di Torino e dei dintorni; poi, vedendo che sempre rimanevano sconfitti, fecero intervenire il famoso pastore Meille con due maggiorenti Valdesi.
Costoro si recarono all'Oratorio di Valdocco e, dopo i primi complimenti, intavolarono una disputa che durò dalle undici alle diciotto e che finì in modo comico.

La disputa si svolgeva sul purgatorio.

Don Bosco l'aveva provato con la ragione, con la storia, e con la Sacra Scrittura, servendosi del testo latino; ma uno dei contraddittori, che voleva fare il saputo, non volendosi arrendere, disse: - Il testo latino non basta: bisogna andare alla fonte: bisogna consultare il testo greco.
A queste parole, don Bosco si alza, va allo scaffale, ne toglie la Bibbia in greco, ed appressatosi al Ministro, soggiunse: - Ecco, signore, il testo greco; consulti pure e lo troverà in pieno accordo col testo latino. Quel tale, che conosceva il greco come l'asino i marenghi, non osando confessare la propria ignoranza, prende il libro, e si pone a sfogliarlo da capo a fondo, fingendo di cercare il passo in questione.
Ma che! Volle il caso che prendesse il libro a rovescio! Don Bosco, che se n'era accorto, lo lasciò sfogliare per un pezzo, trattenendo a stento il riso; poi pietosamente gli disse: - Scusi, sig. Ministro, forse non troverà più la citazione, perché tiene il libro a rovescio; lo volti così! - E glielo mise per il suo verso. Come rimanesse colui è facile immaginare. Rosso in faccia come un gambero cotto, gettò il libro sul tavolo ed alzatosi di botto troncò la discussione e se ne andò. Me ne rido!
Vedendo che con le dispute non la potevano vincere, i Valdesi ricorsero ad altri mezzi per farlo tacere. Una domenica dell'agosto 1853 si presentarono all'Oratorio due signori che domandarono di parlare col Santo. Condotti alla sua camera, uno di essi, ch'era pastore, dopo mille elogi al suo ingegno e al suo zelo, venne a dire: - Ma Reverendo, se lei, invece di attendere alle Letture Cattoliche e scrivere libri di religione, attendesse a cose di storia od altro, procurerebbe un bene assai maggiore al suo Istituto. Prenda intanto questa prima offerta: sono quattro biglietti da cento: e le assicuro che ne avrà altri.
Don Bosco rifiutò con sdegno la subdola proposta; ed essi, alzandosi in piedi, dissero con volto alterato e voce minacciosa: - Lei fa male a rifiutare, e ci offende. Se esce di casa, è poi sicuro di rientrare?
Don Bosco, dopo essersi assicurato che alla porta stava qualcuno dei suoi giovani in guardia, rispose: - Vedo che lor signori non conoscono bene chi sono; i preti cattolici sono pronti anche a morire per la gloria di Dio e per il bene delle anime. Cessino dalle loro minacce, perché io... me ne rido!
A queste parole, l'irritazione di quei signori non ebbe più ritegno, e fattisi d'appresso, stavano per mettergli le mani addosso.
Don Bosco impugnò prudentemente la sedia esclamando: - Se volessi adoperar la forza, mi sentirei di far loro provare quanto costi una violazione di domicilio! Ma no! la forza del sacerdote sta nella pazienza e nel perdono. Tuttavia, è tempo di finirla.
In quella, si spalanca la porta della camera e si presenta il nerboruto Giuseppe Buzzetti, uno dei più fidi di don Bosco, al quale il Santo dice pacatamente: - Accompagna questi signori fino al cancello! Quei due si guardarono in faccia, e, uno dietro l'altro, seguirono la guida.

Vino avvelenato

Quelle minacce furono l'inizio di una serie di persecuzioni contro don Bosco.
Una sera venne chiamato a confessare un malato. Egli, sempre pronto, si dispose a partire; ma per prudenza si fece accompagnare da alcuni dei suoi giovani. Giunto al luogo indicato, lasciò i giovani sulla porta ed entrò in una stanza dove trovò una mezza dozzina di buontemponi, che, seduti a tavola, mangiavano delle castagne.
Questi, al vedere il prete, si alzarono, e coi segni del maggior rispetto, l'invitarono a sedersi e servirsi delle loro castagne, mentre sarebbero andati ad avvertire il malato.
- Grazie, ho già cenato!
- Almeno un bicchiere del nostro vino!
- Non mi sento!
- Eh via! non le farà male!
Ed ecco che uno mesce nei bicchieri dei compagni, ed un altro, con un'altra bottiglia, mesce per don Bosco. Questi s'avvide subito che c'era del mistero; ma, dissimulando, prese in mano il bicchiere, brindò alla salute di tutti, poi, senza assaggiarlo, lo ripose sul tavolo.
- Ma perché non beve?!
- Vogliamo che beva ad ogni costo!
E passando dai detti ai fatti, due lo presero per le spalle, e un altro afferrò il bicchiere e soggiunse: - Se non vuole bere per amore, berrà per forza! Don Bosco, così forzato, ricorre ad un'astuzia: - Se assolutamente volete che beva, lasciatemi libero, perché, così stretto, verserò il vino.
- Ha ragione - risposero quelli. E lo lasciarono. Egli, che già con l'occhio aveva misurato lo spazio, fece un salto indietro, spalancò l'uscio ed invitò i suoi giovani ad entrare.
L'improvvisa comparsa dei giovanotti fece rinsavire quei farabutti, i quali conclusero: - Se non vuole bere, pazienza.
« Una persona amica - racconta don Bosco - fece indagini e seppe che un tale aveva pagato una cena, a patto che mi avessero costretto a bere del vino preparato per me ».

Grandine di bastonate

Chiamato un'altra sera a confessare un'ammalata, vi accorre prontamente, ma di nuovo accompagnato dai suoi quattro fidi. Due li lascia ai piedi della scala, e due li fa fermare sul pianerottolo, presso l'uscio della camera. Entrato, scorse a letto una donna tutta ansante, la quale sapeva fingere così bene da sembrare che stesse per dare l'ultimo respiro. Presso di lei, quattro facce torve di uomini assai sospetti.
Don Bosco pregò costoro di allontanarsi, per poter confessare l'ammalata, ma ella esclamò: - Prima di confessarmi, voglio che quel briccone là ritratti la calunnia che mi ha buttato addosso!
- Ma che calunnia! - rispose quegli inferocendosi. - Sì!...
- No!...
- Taci, infame! - A me infame?!
E qui tutti urlano e impugnano i bastoni. Intanto, si spengono i lumi e, in un buio completo, incomincia una grandine di bastonate tutte dirette a don Bosco che, capito il gioco, abbraccia una scranna, e se la caccia in testa capovolta, cercando riparo e modo di guadagnare la porta.
A quel frastuono indiavolato, i giovani di guardia dànno di spalla alla porta, la quale cede e si spalanca; e don Bosco può così aver salve le spalle e la vita, e ritornare sano e salvo ai suoi figlioli.

« O si decide o è morto »

Vedendo fallite le loro ipocrisie, i protestanti vengono ai fatti. In un pomeriggio di gennaio del 1854, due signori elegantemente vestiti salivano alla camera di don Bosco, che li riceveva con la solita cortesia. I giovani erano in chiesa per i vespri; ma Giovanni Cagliero, che aveva visto quei signori, entrò in sospetto e andò a sostare presso la porta del Santo.
Non poteva intendere le parole, ma s'accorse che la disputa si andava accendendo; e ad un tratto, quei due pronunciarono forte queste parole: - In fin dei conti, o lei la smette di pubblicare le Letture cattoliche, o noi la faremo smettere per forza!
- Io non la smetterò mai - rispose risoluto don Bosco.
- O si decide, o è morto! - Ed estraggono le loro pistole e gliele puntano al petto.
- Tirino pure! - esclamò don Bosco con voce risoluta e sguardo imponente.
Ma, in quell'istante, s'ode un gran colpo alla porta. Era Cagliero che, temendo qualche disgrazia, aveva dato un fortissimo pugno all'uscio che s'era spalancato, mentre a tutta voce s'era messo a gridare: Aiuto!... aiuto!!! 1 due messeri riposero in fretta le armi, e uscirono, mentre don Bosco, con la berretta in mano, li salutava con cortesia.

Il « Grigio »

Per quanti insulti e minacce dovesse subire, e per quanto terribili fossero le insidie cui andava soggetto, don Bosco non portò mai armi né mai adoperò la sua forza per respingere gli assalti.
Chi lo vegliava in ogni pericoloso incontro fu sempre la Provvidenza, la quale si servì anche del « Grigio ». Chi era il « Grigio »? Un cane portentoso, alto più di un metro, che più volte salvò don Bosco in circostanze veramente strane.
Una sera del 1852 don Bosco tornava a casa solo, quando, giungendo da piazza Emanuele Filiberto al Rondò, sente qualcuno corrergli dietro. Si volta di botto, e veduto a pochi passi un tale armato di un nodoso randello, si mette anche lui a correre, nella speranza di poter arrivare a casa prima di essere raggiunto.
Era ormai in fondo alla via che mette all'Oratorio, quando scorge, sul crocicchio di quella con la via Cottolengo, parecchi altri che stanno per prenderlo in mezzo.
Visto il pericolo, pensa di liberarsi prima da colui che lo insegue e, fermandosi d'improvviso, gli punta in petto i gomiti con tanta destrezza, che il misero rimbalza a terra gridando: - Sono morto! sono morto!!! Il buon esito di quella ginnastica lo salva da uno, ma gli altri, coi bastoni, sono lì li per circondarlo. In quell'istante, eccoti lì il « Grigio » provvidenziale che, saltando di qua e di là a fianco di don Bosco, manda latrati ed urli formidabili, e si agita con tanta furia, che quei ribaldi, temendo di essere fatti a brani, pregano don Bosco di ammansirlo e tenerlo presso di sé, mentre l'uno dopo l'altro si eclissano, lasciando che il prete faccia la sua strada.
Don Bosco, scortato dal « Grigio » che lo festeggia, giunse tranquillamente a casa.
Ancora il « Grigio »
Sul finir del dicembre 1854, in una notte scura e nebbiosa, ritornava dal centro della città, e discendeva dalla Consolata alla Casa del Cottolengo. A un certo punto s'accorse che due uomini lo precedevano a poca distanza, e acceleravano o rallentavano il passo secondo che lo accelerava o lo rallentava lui.
Non c'era più dubbio: erano male intenzionati. Il Santo pensò di tornare indietro per mettersi in salvo in qualche casa vicina; ma non ebbe più il tempo. Voltatisi improvvisamente, essi gli furono addosso, e gli gettarono un mantello sulla faccia.
Don Bosco, abbassandosi con rapidità, liberò per un istante il capo e prese a dibattersi chiedendo aiuto; ma gli assalitori, avvolgendolo ancor più, gli turarono la bocca con un fazzoletto.
Proprio in quel momento, ecco comparire il « Grigio » che, ruggendo come un leone, si slancia con le zampe su quei due, sbattendoli di qua e di là nel fango.
Poi fermo, accanto a don Bosco, ringhia e fissa quei due con aria di trionfo e di sfida.
Quei poveretti, luridi di fango e tremanti di spavento, si alzano alla meglio e gridano: - Don Bosco, per carità, ci liberi da questo cane! Chiediamo scusa e perdono!

Sempre il « Grigio »

Altra volta ancora il « Grigio », invece d'accompagnarlo a casa, gli impedì di varcare la soglia. Era notte. Don Bosco doveva uscire per una commissione. Mamma Margherita cercava di dissuaderlo; ma egli, esortatala a non temere, prende il cappello, e si avvia accompagnato da alcuni dei suoi giovani. Giunti al cancello, trovano il « Grigio » sdraiato.
- Oh! il « Grigio »! - esclamò don Bosco. - Tanto meglio! Saremo in buona compagnia. Alzati, dunque, e vieni con noi.
Ma il « Grigio », invece di obbedire, manda un cupo ringhio e resta al suo posto.
Qualcuno dei giovani lo tocca col piede per farlo alzare, ma esso risponde con un ringhio più forte e cupo. Mamma Margherita che era accorsa, volgendosi a don Bosco, gli dice: - Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane... non uscire!
Il Santo, per contentare la madre, rientra in casa. E subito sopraggiunge un vicino, tutto ansante e trafelato, a raccomandargli di non uscire di casa, perché quattro individui armati si aggirano nei dintorni, decisi a fargli la pelle. Così era difatti, come si seppe poi da altre persone degne di fede.

In ricordo perenne del Beato Pietro (Cambiani) da Ruffia, inquisitore domenicano, martirizzato dai sicari valdesi il 2 febbraio 1365 a Susa (Torino)

In ricordo perenne del Beato Antonio Pavoni, martirizzato dai valdesi il 9 aprile 1374 a Bricherasio (Torino).


In ricordo perenne del Beato Bartolomeo Cerveri, martirizzato dai valdesi il 21 aprile 1466 a Cervere (Cuneo)

Di Family Day e distruzione della famiglia

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Nella memoria di S. Giuseppe Cafasso e della Vigilia della Natività di S. Giovanni Battista, rilancio quest’Interessante riflessione del giovane filosofo Diego Fusaro pubblicata su Il Fatto quotidiano.

Francesco Guglielmino, S. Giuseppe Cafasso, 1925, museo diocesano, Torino

Paolo Giovanni Crida, S. Giuseppe Cafasso, 1937, museo diocesano, Torino

William-Adolphe Bouguereau, Madonna con Bambino e S. Giovannino, 1875


William-Adolphe Bouguereau, Madonna con Bambino e S. Giovannino, 1881, Herbert F. Johnson Museum of Art Cornell University, Ithaca, NY


William-Adolphe Bouguereau, Il giovane Giovanni Battista, 1890 circa

Di Family Day e distruzione della famiglia

di Diego Fusaro, filosofo


Ha fatto molto discutere, in questi giorni, il “Family Day” a Roma. Si è trattato, come è noto, di una manifestazione contro il ddl Cirinnà, che equipara il matrimonio costituzionale a quello tra persone dello stesso sesso. E tra hashtag pro e contro (#familygay, #chiconoscenonhapaura, ecc.) si è consumato l’ennesimo scontro in salsa italiana tra tifoserie contrapposte.
Non è mio interesse parteggiare per l’uno o per l’altro dei movimenti. Mi interessa, piuttosto, comprendere un ben più profondo fenomeno, che è oggi in atto, e che – ho cercato di argomentarlo nel mio studio Il futuro è nostro (2014) – coincide con la distruzione capitalistica della famiglia. Credo, infatti, che il modo migliore per impostare la questione, evitando accuratamente le “tifoserie”, consista nel comprendere, con Marx, il movimento della storia reale: e la storia reale ci insegna che la logica di sviluppo del capitale, negli ultimi cinquant’anni, è stata quella di un progressivo superamento di ogni limite reale e simbolico in grado di opporre resistenza all’estensione onnilaterale della forma merce a ogni ambito della realtà e del pensiero.
Tra gli ostacoli che il capitale mira ad abbattere vi è, anzitutto, la comunità degli individui solidali che si rapportano secondo criteri esterni al nesso mercantile del do ut des. Il capitale aspira, oggi più che mai, a neutralizzare ogni comunità ancora esistente, sostituendola con atomi isolati incapaci di parlare e di intendere altra lingua che non sia quella anglofona dell’economia di mercato.
La stessa distruzione della famiglia che si sta oggi verificando con intensità sempre crescente si inscrive in questo orizzonte. Se la famiglia comporta, per sua natura, la stabilità affettiva e sentimentale, biologica e lavorativa, la sua distruzione risulta pienamente coerente con il processo oggi in atto di precarizzazione delle esistenze.
Il fanatismo economico aspira a distruggere la famiglia, giacché essa – Aristotele docet, e con lui anche Hegel– costituisce la prima forma di comunità ed è la prova che suffraga l’essenza naturaliter comunitaria dell’uomo. Il capitale vuole vedere ovunque atomi di consumo, annientando ogni forma di comunità solidale estranea al nesso mercantile.
Ecco allora che l’odierna difesa delle coppie omosessuali da parte delle forze progressiste non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, di tutte le forme ancora incompatibili con l’allargamento illimitato della forma merce a ogni ambito dell’esistenza e del pensiero.
Il neoliberismo oggi dominante è un’aquila a doppia apertura alare: la “destra del denaro” detta le leggi strutturali, la “sinistra del costume” fornisce le sovrastrutture che le giustificano sul piano simbolico. Così, se la “destra del denaro” decide che la famiglia deve essere rimossa in nome della creazione dell’atomistica delle solitudini consumatrici, la “sinistra del costume” giustifica ciò tramite la delegittimazione della famiglia come forma borghese degna di essere abbandonata, silenziando come “omofobo” chiunque osi dissentire.
Chi, ad esempio, si ostini a pensare che vi siano naturalmente uomini e donne, che il genere umano esista nella sua unità tramite tale differenza e, ancora, che i figli abbiano secondo natura un padre e una madre è immediatamente ostracizzato con l’accusa di omofobia. La categoria di omofobia non fa valere soltanto una giusta presa di posizione contro l’intolleranza di chi non rispetta le differenze: diventa essa stessa una nuova categoria dell’intolleranza, con cui non si accetta l’esistenza di prospettive diverse. È, per dirla con Orwell, una categoria con cui si punisce lo “psicoreato” di chi osi violare l’ortodossia del politicamente corretto.
Alla luce di quanto detto, valgano, per quel che riguarda lo scontro tra difensori della famiglia e suoi detrattori, le parole del 1984 di Orwell: “Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi”.

Dalle Memoria biografiche di S. Giovanni Bosco in merito ai Valdesi ed al loro "tempio" a Torino visitato dal vescovo di Roma

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Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco

raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne

(Giovanni Battista LEMOYNE voll. I-IX, Angelo AMADEI vol. X, Eugenio CERIA voll. XI-XIX, Indice anonimo dei voll. I-VIII e Indice dei voll. I-XIX a cura di Ernesto FOGLIO)

Vol. IV, Ed. 1904, pp. 220-227

Capo XX

La Fede cattolica assalita dai Valdesi e difesa da Don Bosco.

S. Giovanni Bosco, odiato - non a caso -
ancora oggi dai valdesi
pure da morto (v. ad es. qui).
Il che conferma che fu un autentico campione
della fede cattolica contro l'eresia valdese
Il Re Carlo Alberto, come abbiamo detto, aveva emancipato i Protestanti. Pareva che con quell’atto egli intendesse solamente di dare la libertà di professare esternamente il proprio culto, senza detrimento della Religione Cattolica. Ma gli eretici non la intesero così e perciò, appena ottenuto quell’atto e la libertà di stampa, si erano tosto dati a fare tra il popolo irrequieta propaganda dei loro errori con tutti i mezzi possibili, particolarmente con libri e fogli pestiferi. Comparvero tra gli altri i giornali: La Buona Novella, La Luce Evangelica e il Rogantino Piemontese; e poi una colluvie di libri biblici adulterati, di poca mole, prese a dilagare nei nostri paesi, penetrare nelle famiglie, scorrere per le mani di tutti, pervertendone la mente, corrompendone il cuore, instillando insomma nelle anime il veleno delle più esiziali dottrine. Nello stesso tempo scellerati trafficanti di anime si presentavano a quanti venivano a conoscere travagliati dall’indigenza ovvero oppressi dai debiti, e loro offrivano una somma purchè si ascrivessero alla loro setta e abbandonassero la vera fede dei loro maggiori. E purtroppo vi erano di quei miseri che adescati dal luccicare di quelle monete, non sapevano resistere alla tentazione.
Dava mano alla ereticale propaganda il giornale l’Opinione, nel quale, tra gli altri nemici della Chiesa, continuava a scrivere più impudentemente di tutti Bianchi-Giovini, autore di una lurida e calunniosa Storia dei Papi e di altre opere infami. Si aggiungeva che i Protestanti a questa propaganda erano preparati, ed i Cattolici non lo erano punto per opporle un argine, impedirla, o almeno scemarne le disastrose conseguenze. Fidandosi delle leggi civili, che fino allora avevano protetta la Religione Cattolica dagli assalti della eresia; fidandosi soprattutto del primo articolo dello Statuto che porta: La Religione Cattolica, Apostolica, Romana, è la sola Religione dello Stato, i Cattolici si trovarono come soldati scossi all’improvviso dal suono della tromba guerriera, e chiamati a scendere in campo di battaglia, senza armi adatte a combattere nemici premuniti in ogni punto. Infatti i Cattolici abbisognavano di giornaletti di buona lega per diffonderli a larga mano, e pochissimi ne possedevano; facevano mestieri soprattutto libretti semplici e di poco costo, ed invece non si avevano che opere voluminose di grande erudizione. Erano quindi in pericolo di perdere la fede non solamente i giovanetti, ma tutto il basso popolo, alla cui seduzione miravano i nemici della Chiesa.
A quella vista si accese di carità e di zelo il cuore del nostro Don Bosco, il quale, col fine di preservare dai serpeggianti errori i suoi cari giovanetti, provvide un mezzo di salute eziandio a migliaia, anzi a milioni di altre persone. Compose e pubblicò pertanto alcune tavole sinottiche intorno alla Chiesa Cattolica, foglietti volanti, ricchi di ricordi e di massime morali e religiose adattate ai tempi, e si diede a spargerli gratuitamente tra i giovani e tra gli adulti a migliaia di copie, specialmente in occasione di esercizi spirituali, di sacre missioni, di novene, di tridui e feste.
Né a semplici fogli si limitò l’industriosa carità del nostro buon Padre; poiché nel 1851 mise pure in luce una seconda edizione del Giovane Provveduto coll’immagine sul frontispizio di S. Luigi e vi aggiunse in fine sei capitoli in forma di dialogo che portavano per titolo comune: Fondamenti della Cattolica Religione. Questi dimostravano, una sola essere la vera religione: le sette dei Valdesi e dei Protestanti non avere i caratteri della Divinità, non trovarsi in esse la vera Chiesa di Gesù Cristo; essere i Protestanti separati dal fonte della vera vita, che è il Divin Salvatore, e convenire essi stessi che i Cattolici si possono salvare e che si trovano nella vera Chiesa. Non tralasciava un monito su ciò che debbono fare gli Ebrei, i Maomettani ed i Protestanti per salvare le loro anime. (…)
E questi Fondamenti, eziandio come erano compendiati nel 1851, al protestanti dovettero sembrare un colpo abbastanza serio per le loro false dottrine, poiché correvano, come la Storia Ecclesiastica e la Storia Sacra, nelle mani di tante migliaia di giovani, ai quali di preferenza essi tendevano le loro reti. D. Bosco nel concludere aveva scritto: “Tutti quelli che perseguitarono la Chiesa nei tempi passati non esistono più, e la Chiesa di Gesù Cristo tutt’ora esiste. Tutti quelli che perseguitano la Chiesa presentemente, di qui a qualche tempo non ci saranno più; ma la Chiesa di Gesù Cristo sarà sempre la stessa, perché Iddio ha impegnato la sua parola di proteggerla e di essere sempre con lei sino alla fine del mondo”. (…)
Intanto Don Bosco aveva notizie certe che l’eresia valdese s’insinuava e faceva ogni giorno più strada in varii paesi. (…)
In mezzo a queste sue sollecite cure, da un povero infelice di nome Wolff che aveva apostatato, e che, per le solite contraddizioni dei cuore umano, gli narrava tutte le decisioni e i passi de’ suoi correligionarii, seppe come i Valdesi fossero risoluti di innalzare un tempio in Torino. Infatti a questo fine avevano domandato al Municipio la concessione di un’area fabbricabile presso il giardino pubblico. I Protestanti in Torino erano poco più di duecento. Il Municipio non aveva acconsentito, benché il progetto fosse appoggiato dall’Avvocato generale presso la Corte d’Appello. Allora gli eretici comperarono a loro spese un’altra area lungo il viale del Re poco lontana dall’Oratorio di S. Luigi, autorizzati da regii decreti, del 17 dicembre 1850, e del 17 gennaio 1851, costruire il progettato tempio. Approvati dalla commissione edilizia i disegni di questo e degli edifizi annessi, il Municipio cercava di guadagnar tempo volendo declinare ogni responsabilità in faccia ai Cattolici; ma il Ministro degli Interni Galvagno fece note le disposizioni sovrane, e fu giuocoforza che cessassero le nobili opposizioni a quell’onta che si voleva recare alla città. Appena la cosa si fece pubblica, i Torinesi anzi tutti i Cattolici del Piemonte, ne furono vivamente addolorati e pregarono il Signore a tener lontano dal paese tanto scandalo. I Vescovi reclamarono in una lettera colletti al Re, in nome della religione, dello Statuto, dell’onore Casa Savoia, citando le disposizioni del codice penale e codice civile. Ma non si tenne conto di questi reclami e si diede subito mano alla costruzione del tempio l’esercizio del culto riformato protestante. Così riceve appoggio chi moveva una guerra fierissima alla Religione Cattolica.
Don Bosco appena seppe di queste mene, non ancor pago di ciò che aveva già fatto, compose e pubblicò un libretto col titolo: Avvisi ai Cattolici. È pregio dell’opera di riprodurne qui il proemio:
Popoli Cattolici, così egli scriveva, aprite gli occhi tendono a voi moltissime insidie col tentare di allontana da quell’unica, vera, santa Religione, che solamente conservasi nella Chiesa di Gesù Cristo. Questo pericolo fu già in più guise proclamato nostri legittimi Pastori, dai Vescovi, posti da Dio a difenderci dall’errore ed insegnarci la verità. La stessa infallibile voce del Vicario di Gesù Cristo avvisò di questo insidioso laccio teso ai Cattolici, cioè molti malevoli vorrebbero sradicare dai vostri cuori la Religione di Gesù Cristo. Costoro ingannano se stessi e ingannano gli altri; non credeteli. Stringetevi piuttosto di un cuor solo e di un’anima sola ai vostri Pastori, che sempre v’insegnarono la verità. Gesù disse a S. Pietro: Tu sei Pietro e sopra questa pietra fonderò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non la vinceranno mai, perché io sarò coi Pastori di essa tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli. Questo disse a S. Pietro e ai suoi successori, i Romani Pontefici, e a nissun altro. Chi vi dice queste cose diverse da quanto vi dico, non credetelo: egli v’inganna. Siate intimamente persuasi di queste grandi verità: Dove c’è il successore di S. Pietro, là c’è la vera Chiesa di Gesù Cristo. Niuno trovasi nella vera Religione, se non è Cattolico; niuno è Cattolico senza il Papa. I nostri Pastori e specialmente i Vescovi, ci uniscono al Papa, il Papa ci unisce con Dio. Per ora leggete attentamente i seguenti avvisi, i quali, ben impressi nel vostro cuore, basteranno a preservarvi dall’errore. Quello poi, che qui viene ora brevemente esposto, fra poco l’avrete in apposito libro diffusamente spiegato. Il Signore delle misericordie infonda a tutti i Cattolici tanto coraggio e tale costanza, da mantenersi fedeli osservatori di quella Religione, in cui noi fortunatamente siamo nati e siamo stati educati. Costanza e coraggio, che ci faccia pronti a patire qualunque male, fosse anche la morte, anziché dire o fare alcuna cosa contraria alla Cattolica Religione, vera e sola Religione di Gesù Cristo, fuori di cui niuno può salvarsi”.
A questa specie di proclama, non più indirizzato solo ai giovani, ma in generale ai Piemontesi e in ispecie ai Torinesi, facevano seguito i Fondamenti della Cattolica Religione stampati poco prima nella seconda edizione del Giovane Provveduto; e si prometteva intanto un apposito libro nuovo che egli stava scrivendo. Questo avrebbe per iscopo di mettere in guardia le anime contro le insidie ereticali, di ammaestrarle nelle verità più necessarie a sapersi, di svelare l’errore dei seduttori, di arrestarne la mala influenza e così confermare nella fede i cattolici. Era il libro che ebbe per titolo: Il Cattolico istruito nella sua religione.
Degli Avvisi ai Cattolici fu straordinario lo spaccio; in soli due anni se ne diffusero oltre a duecento mila esemplari. Ma se questa operetta tornò gradevolissima a tutti i buoni, inasprì i Protestanti e li fece montare in sulle furie. Mentre si credevano di poter a loro bell’agio devastare, a guisa degli antichi Filistei, il campo del Signore, si vedevano venire innanzi un novello Sansone a scoprire le loro arti, a rompere le loro file, a scompigliare le loro schiere in difesa del popolo di Dio.
Con questa pubblicazione e con le altre molte che la seguirono, D. Bosco indicava al secolo l’arma più potente per combattere i nemici della religione e segnava la strada a quanti volessero correre in difesa della società cristiana minacciata. In questi anni tutto pareva morto nel campo cattolico, e D. Bosco lo risvegliò in Torino.

Immagine per meditare: la barca della Chiesa .... in mezzo al mare .....

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Louis Duveau, Una messa in mezzo al mare nel 1793 durante il Terrore, 1864, Musée des beaux-arts, Rennes

"L'Ultimo Profeta - Sulle tracce di San Giovanni Battista" di Padre Frédéric Manns

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