Quantcast
Channel: Scuola Ecclesia Mater
Viewing all 2410 articles
Browse latest View live

COMMEMORÁTIO SANCTÓRUM PROTOMARTYRUM SANCTAE ROMANAE ECCLESIAE

$
0
0
Il 24 giugno, oltre alla Natività del Precursore, san Giovanni Battista, il calendario tradizionale ricorda pure i Santi Protomartiri della Chiesa di Roma, che, analogamente ai martiri di oggi e di tutti i tempi, testimoniarono nel Sangue la loro sequela all'Agnello di Dio. Non diversamente da quanto farà pure lo stesso Battista.










Konstantin Flavitsky, bozzetto de I Martiri cristiani nel Colosseo, 1860

Konstantin Flavitsky, Martiri cristiani nel Colosseo, 1862


Henryk Siemiradzki, Le fiaccole di Nerone, 1877, Museo Nazionale, Cracovia

Eugene Romain Thirion, Il trionfo della fede - Martiri cristiani al tempo di Nerone nel 65 d.C., XIX sec., collezione privata

Jean Léon Gerôme, L’ultima preghiera dei martiri cristiani, 1883, Walters Art Gallery

Jean Léon Gerôme, Rientro dei felini nelle gabbie del circo, 1902


Jules Eugène Lenepveu, I martiri nelle Catacombe, 1855, Musée d’Orsay, Parigi

Edward Armitage, Il martire cristiano ovvero Sepoltura di un martire, 1863, Glasgow Museums, Glasgow

Ernest Slingeneyer, Un martire cristiano nel regno di Diocleziano, 1863 circa, City of London Corporation, Londra

Jules-Cyrille Cavé, Martire nelle catacombe, 1886

Briton Rivière, Riposo romano, 1881, National Gallery, Victoria



Karl von Piloty, Sotto l'arena, 1882, Fine Art Gallery, Ballarat

Philippe-Jacques van Bree, Le tigre arrive aux deux martyrs, XIX sec., collezione privata


Gustave Doré, I martiri cristiani, XIX sec.

Jean Granger, Martiri cristiani ai leoni dell'Anfiteatro, XIX sec.

Rinnegare la fede? Impensabile. Per noi cristiani iracheni credere è essere

$
0
0
Rilancio volentieri la bella testimonianza del patriarca di Baghdad, il quale racconta in un libro – recentemente edito in Italia – la situazione dei cristiani caldei in mano all’Isis; regime che gode le simpatie dei sauditi - come emerge da alcuni dati (v. qui) - e che, nell'indifferenza dell'Occidente, continua a mietere vittime (v. qui) e drammi umani (v. qui). L'Occidente, infatti, anziché occuparsi di questa realtà, pensa solo ad erigere monumenti al diavolo (v. qui)!

«Rinnegare la fede? Impensabile. Per noi cristiani iracheni credere è essere»

di Emanuele Boffi

In un libro-intervista (Più forti del terrore, Emi) il patriarca di Baghdad Louis R. Sako racconta in modo mirabile e toccante la situazione del suo popolo


È passato un anno da quando centinaia di uomini vestiti di nero entrarono a Mosul, l’antica Ninive. In un libro-intervista appena uscito (Più forti del terrore, Emi) il patriarca di Baghdad Louis R. Sako racconta in modo mirabile e toccante la situazione dei cristiani iracheni.
Ricorda quei primi giorni, quando i jihadisti distribuirono volantini in cui avvertivano i nazareni: o vi convertite o lasciate la città, pena la decapitazione. «Fra voi e noi, non ci sarà che la spada», c’era scritto. Sako ripercorre con la memoria l’esodo dei fedeli, lo spostarsi lento e angosciato di uomini, donne e bambini, e i vecchi portati a spalla lungo strade senz’ombra e con temperature vicine ai cinquanta gradi. Oggi, dice Sako, non c’è alternativa all’intervento armato di terra perché i raid aerei sono necessari, «ma non bastano» a fermare l’Isis.
Fra le mille perle contenute in questo libro, ve ne è una che, da sola, basterebbe a turbare la sonnolenta fede occidentale. Al suo interlocutore che gli chiede come sia stato possibile che gli iracheni abbiano preferito perdere tutto piuttosto che abiurare, Sako risponde: «In Iraq è semplicemente impensabile rinnegare la propria fede. Fa parte dell’identità della persona. La fede da noi non è speculativa, è una questione d’amore e di attaccamento alla persona di Cristo. La religione è come la farina nel pane, non si può estrarla. È un’esistenza mistica. Per noi cristiani, la fede è la cosa più grande, per la quale si è pronti a sacrificarsi. Credere è essere».

Fonte: Tempi, 22.6.2015

"Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (Act. 5, 29): casi in cui è doverosa la resistenza del cattolico alla legittima autorità ecclesiastica

$
0
0
Rilancio volentieri questo contributo chiarificatore dal sempre aggiornato ed interessante Chiesa e post concilio.
Del resto - lo ricordiamo - lo stesso card. Burke aveva affermato, in un'intervista a France2, che se il vescovo di Roma perseguisse la strada della c.d. Comunione ai divorziati risposati, avrebbe resistito (v. qui). In un'intervista a Riccardo Cascioli, lo stesso prelato puntualizzava: «[…] Io ho detto che dovrei resistere, perché tutti siamo a servizio della verità, a cominciare dal Papa. La Chiesa non è un organismo politico nel senso del potere. Il potere è Gesù Cristo e il suo vangelo. Per questo ho risposto che resisterò e non sarebbe la prima volta che questo accade nella Chiesa. Ci sono stati nella storia diversi momenti in cui qualcuno ha dovuto resistere al Papa, a cominciare da San Paolo nei confronti di San Pietro, nella vicenda dei giudeizzanti, che volevano imporre la circoncisione ai convertiti ellenici. […]» (v. qui. Corsivo nostro, ndr.). 
Del tema attualissimo della resistenza, del resto, sempre da un punto di vista storico, ne aveva parlato lo storico prof. Roberto de Mattei, in un suo saggio, La filiale resistenza di san Bruno di Segni a Papa Pasquale II, pubblicato da Corrispondenza romana lo scorso marzo e rilanciato in inglese da Rorate caeli.

Casi in cui è doveroso resistere all’Autorità ecclesiastica

di Don Curzio Nitoglia

Alcuni esempi pratici della storia della Chiesa

I - S. Pietro e l’incidente di Antiochia (49 d. C.)

Già nel 50 d. C., neppure 20 anni dopo la morte di Gesù, al Concilio di Gerusalemme, si assisté ad un fatto riportato dalla S. Scrittura, commentato dai Padri ecclesiastici, dai Dottori scolastici e dagli storici della Chiesa . Infatti è divinamente rivelato che, qualche tempo prima, San Pietro ad Antiochia si comportò in maniera riprovevole e San Paolo lo rimproverò.
Questo incidente “riprovevole” lo troviamo divinamente Rivelato in S. Paolo (Epistola ai Galati, II, 11), il quale afferma: «Ho resistito in faccia a Pietro, poiché era reprensibile[1]».[2]
Secondo la Tradizione patristica e scolastica (S. Agostino e S. Tommaso d’Aquino) S. Pietro peccò venialmente di fragilità nell’osservare le cerimonie legali dell’Antico Testamento, per non scandalizzare i giudei convertiti al Cristianesimo, ma provocando così lo scandalo dei cristiani provenienti dal paganesimo convertitisi al Vangelo. E secondo la divina Rivelazione vi fu una resistenza pubblica di Paolo verso Pietro, primo Papa[3].
Quindi S. Pietro non errò contro la Fede, come sostennero erroneamente gli anti-infallibilisti durante il Concilio Vaticano I, anche se con il suo agire commise un peccato veniale di fragilità a differenza di Onorio che peccò gravemente senza cader nell’eresia formale, ma solo favorendola per debolezza e negligenza.
Dunque Pietro peccò solo venialmente e di fragilità, ma, quando Paolo gli resistette in faccia e pubblicamente (Epistola ai Galati, II, 11), Pietro ebbe l’umiltà di correggere il suo errore di comportamento che avrebbe potuto portare all’errore dottrinale dei Giudaizzanti. Non si può negare la resistenza di Paolo a Pietro perché è divinamente Rivelata: “Resistetti in faccia a Cefa, poiché era reprensibile […] alla presenza di tutti” (Galati, II, 11, 14)[4].

II - L’empio Nestorio (381-431) nega la Maternità divina di Maria

Un altro fatto ampiamente commentato dagli storici della Chiesa è quello avvenuto con Nestorio patriarca di Costantinopoli circa 350 anni dopo l’incidente di Antiochia.
Dom Prospero Guéranger, nella sua nota opera L’Année Liturgique, scrive: «il giorno di Natale del 428, Nestorio, approfittando dell’immenso concorso di fedeli venuti a festeggiare il parto della Vergine-Madre, dall’alto del soglio episcopale lanciò quella blasfema parola: “Maria non ha generato Dio: il Figlio suo non è che un uomo, strumento della divinità”. A queste parole la moltitudine fremette inorridita: interprete della generale indignazione, Eusebio di Doriles, un semplice laico, si levò in mezzo alla folla a protestare contro l’empietà. [...] Generoso atteggiamento che fu allora la salvaguardia di Bisanzio e gli valse l’elogio dei Concili e dei Papi!» (Dom Prospero Guéranger, L’anno liturgico, trad. it., Edizione Paoline, Alba, 1959, vol. I, pp. 795-796).

III - Papa Onorio I (625-628)

Fra i vari esempi di fatti del genere, indicati dalla storia della Chiesa, risalta, in terzo luogo neppure 200 anni dopo il caso di Nestorio, quello di papa Onorio I. Questo Papa visse nel tempo in cui l’eresia monotelita faceva stragi nella Chiesa d’Oriente. Negando l’esistenza di due volontà in Gesù Cristo, i monoteliti rinnovavano l’assurdo che Eutiche introdusse nel dogma, quando pretese che in Gesù Cristo ci fosse soltanto una natura, composta dalla natura divina e da quella umana.
Il patriarca di Costantinopoli, Sergio, abilmente insinuò nello spirito di Onorio I che la predicazione delle due volontà del Salvatore causava soltanto divisioni nel popolo fedele. Accondiscendendo ai desideri del patriarca, che erano anche quelli dell’imperatore, papa Onorio I proibì che si parlasse delle due volontà del Figlio di Dio fatto uomo.
Il Pontefice non si rese conto che il suo gesto (non formalmente e positivamente eretico) lasciava il campo libero alla diffusione dell’eresia o la favoriva.
Per questa ragione non si doveva prestare a esso attenzione come pure riguardo all’affermazione di Nestorio sulla Divina maternità di Maria SS. e all’agire pratico di S. Pietro ad Antiochia.
Onorio non era stato positivamente o formalmente eretico, ma vittima dei raggiri di Sergio, cui imprudentemente e negligentemente aveva acconsentito senza impegnarsi nella difesa della dottrina cattolica ortodossa. Perciò S. Leone II condannò Onorio più per la sua negligenza che per una consapevole eterodossia.
Nel III Concilio ecumenico di Costantinopoli (680-681) papa S. Agatone (678-681) il 28 marzo del 681 condannò papa Onorio per aver aderito imprudentemente all’eresia (DB 262 ss. / DS 550 ss.) senza specificare se si trattasse di eresia materiale o formale. Ma nel Decreto di ratifica del Concilio Costantinopolitano III papa S. Leone II (682-683) specificò il 3 luglio 683 (DB 289 ss. / DS 561 ss.) i limiti della condanna di Onorio, che “non illuminò la Chiesa apostolica con la dottrina della Tradizione apostolica, ma permise che la Chiesa immacolata fosse macchiata da tradimento” (DS 563). Onorio, quindi, si era macchiato di eresia materiale ed aveva favorito l’eresia.
Inoltre Onorio non aveva definito né obbligato a credere la tesi di una sola azione in Cristo contenuta nell’ambigua Dichiarazione dell’Epistola di Sergio a lui inviata. Quindi Onorio non aveva voluto essere assistito infallibilmente in tale atto, ma aveva utilizzato una forma di magistero autentico “pastorale e non infallibile”[5]. Perciò egli aveva potuto sbagliare, anche se per ingenuità e mancanza di fortezza, ma senza infrangere il dogma (definito poi dal Concilio Vaticano I) della infallibilità pontificia, come invece sostennero i protestanti nel XVI secolo e la setta dei “vecchi cattolici” nel secolo XIX. In breve Onorio aveva favorito l’eresia peccando, così, gravemente, ma non era stato eretico.

La regola generale

Dom Guéranger, quindi, enuncia un principio generale: «Quando il pastore si cambia in lupo, tocca soprattutto al gregge difendersiDi regola, senza dubbio, la dottrina discende dai Vescovi ai fedeli; e non devono i sudditi giudicare nel campo della fede i loro capi. Ma nel tesoro della Rivelazione vi sono dei punti essenziali, dei quali ogni cristiano, per il fatto stesso ch’è cristiano, deve avere la necessaria conoscenza e la dovuta custodia[6]. Il principio non muta, sia che si tratti di verità da credere che di norme morali da seguire, sia di morale che di dogma. I tradimenti simili a quelli di Nestorio, gli sbandamenti simili a quelli di Onorio e le “eccessive prudenze” simili a quelle di S. Pietro ad Antiochia non sono frequenti nella Chiesa; tuttavia può darsi che alcuni pastori eccezionalmente tacciano, per un motivo o per l’altro, in talune circostanze in cui la stessa religione verrebbe ad essere coinvolta. In tali congiunture, i veri fedeli sono quelli che attingono solo nel loro battesimo l’ispirazione della loro linea di condotta; non i pusillanimi che, sotto lo specioso pretesto della sottomissione ai poteri costituiti, attendono per aderire al nemico o per opporre alle sue imprese un programma che non è affatto necessario e che non si deve dare loro». (Ivi).

Importanza della Tradizione

Il valore della Tradizione è tale che anche le Encicliche e gli altri documenti del Magistero ordinario del Sommo Pontefice in cui non si vuol definire né obbligare a credere sono infallibili soltanto negli insegnamenti confermati dalla Tradizione (Pio IX, Lettera Tuas libenter, 1863), cioè da un continuo insegnamento della dottrina, svolto da diversi Papi e per un ampio lasso di tempo.
Di conseguenza, l’atto del Magistero ordinario di un Papa che non definisce né obbliga a credere, il quale contrasti con l’insegnamento garantito dalla Tradizione magisteriale di diversi Papi e attraverso un considerevole lasso di tempo, non dovrebbe essere accettato.

Norma per giudicare le novità

Custodiamo, quindi, con il massimo rispetto e con la massima attenzione, il criterio di verifica nei confronti delle novità che sorgono nella Chiesa: se si accordano con la Tradizione apostolica, bene. Se non si conformano, ma si oppongono alla Tradizione, oppure la sminuiscono non devono essere accettate.
Tradizione, certo, non è immobilismo. È crescita, ma nella stessa linea, nella stessa direzione, nello stesso senso, crescita di esseri vivi, che si conservano sempre gli stessi.
Detto questo, prendiamo come norma il seguente principio: “quando è evidente che una novità si allontana dalla dottrina tradizionale, è certo che non deve essere ammessa” (mons. Antonio De Castro Mayer, Lettera pastorale Aggiornamento e Tradizione, 11 aprile 1971, Diocesi di Campos in Brasile).
Quindi la Gerarchia può eccezionalmente errare e in tal caso si può lecitamente resistere ad essa pubblicamente, ma con il rispetto dovuto all’Autorità.
Occorre continuare a fare ciò che la Chiesa ha sempre fatto prima che l’errore e la confusione penetrassero nella quasi totalità dall’ambiente ecclesiastico (S. Vincenzo da Lerino,Commonitorium, III, 5) e credere ciò che la Chiesa ha sempre, ovunque insegnato universalmente (“quod semper, ubique et ab omnibus”).
Il Dottore Angelico, in diverse sue opere, insegna che in casi estremi è lecito resistere pubblicamente ad una decisione papale, come San Paolo resistette in faccia a San Pietro: «essendovi un pericolo prossimo per la Fede, i prelati devono essere ripresi, perfino pubblicamente, da parte dei loro soggetti. Così San Paolo, che era soggetto a San Pietro, lo riprese pubblicamente, a motivo di un pericolo imminente di scandalo in materia di Fede. E, come dice il commento di Sant’Agostino, “lo stesso San Pietro diede l’esempio a coloro che governano, affinché essi, se mai si allontanassero dalla retta strada, non rifiutino come indebita una correzione venuta anche dai loro soggetti” (ad Gal. 2, 14)».
Franciscus De Vitoria scrive: «Secondo la legge naturale è lecito respingere la violenza con la violenza. Ora, con ordini e dispense abusive, il Papa esercita una violenza, perché agisce contro la legge. Quindi è lecito resistergli. Come osserva il Gaetano, non facciamo questa affermazione perché qualcuno abbia diritto di giudicare il Papa o abbia autorità su di lui, ma perché è lecito difendersi. Chiunque, infatti, ha il diritto di resistere ad un atto ingiusto, di cercare di impedirlo e di difendersi»[8].
Francisco Suarez: «Se [il Prelato] emana un ordine contrario ai buoni costumi, non gli si deve ubbidire: se tenta di fare qualcosa di manifestamente contrario alla giustizia e al bene comune, sarà lecito resistergli; se attaccherà con la forza, potrà essere respinto con la forza, con quella moderazione propria della legittima difesa»[9].
San Roberto Bellarmino: «Com’è lecito resistere al Pontefice che aggredisce il corpo, così pure è lecito resistere a quello che aggredisce le anime o perturba l’ordine civile, o, soprattutto, a quello che tenta di distruggere la Chiesa. Dico che è lecito resistergli non facendo quello che ordina ed impedendo la esecuzione della sua volontà: non è però lecito giudicarlo, punirlo e deporlo, poiché questi atti sono propri di un superiore»[10].
____________________________

1. ‘Reprensibile’, dal latino ‘re-prehendere’, degno di essere rimproverato, biasimato, corretto, disapprovato, criticato, ammonito come erroneo (N. Zingarelli, ivi).

2. «La frase “era reprensibile” (della Vulgata) da alcuni esegeti è tradotta […] “messo dalla parte del torto”. È spiegato il fallo o il torto di Pietro, fallo definito con ogni precisione già da Tertulliano come sbaglio di comportamento non di dottrina” (De praescriptione haereticorum, XXIII)» (G. Ricciotti, Le Lettere di S. Paolo, Coletti, Roma, 1949, 3ª ed., pp. 227-228).

3. È vero che secondo Tertulliano il peccato di Pietro fu uno “sbaglio di comportamento non di dottrina” (De praescr. haeret., XXIII). Tuttavia “Per S. Agostino Pietro commise un peccato veniale di fragilità, preoccupandosi troppo di non dispiacere ai giudei convertiti al Cristianesimo ...” (J. Tonneau, Commentaire à la Somme Théologique, Cerf, Paris, 1971, p. 334-335, nota 51, S. Th., III, q. 103, a.4, sol. 2). Secondo S. Tommaso d’Aquino “sembra che Pietro sia colpevole di uno scandalo attivo” (Somma Teologica, III, q. 103, a.4, ad 2). Inoltre l’Angelico specifica che Pietro ha commesso un peccato veniale non di proposito deliberato ma di fragilità (cfr. Quest. disput., De Veritate, q. 24, a. 9; Quest. Disput., De malo, q. 7, a. 7, ad 8um) per un’eccessiva prudenza nel non voler contrariare i giudei convertiti al Cristianesimo.

4. Cfr. Arnaldo Xavier Vidigal Da Silveira, Qual è l’autorità dottrinale dei documenti pontifici e conciliari?, “Cristianità”, n. 9, 1975; Id., È lecita la resistenza a decisioni dell’Autorità ecclesiastica?, “Cristianità”, n. 10, 1975; Id., Può esservi l’errore nei documenti del Magistero ecclesiastico?, “Cristianità”, n. 13, 1975.

5. Cfr. Enciclopedia dei Papi, cit., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, 1° vol., pp. 585-590, voce Onorio I, a cura di Antonio Sennis.

6. Si pensi all’attuale linea pastorale 1°) riguardo alla morale (Francesco I / card. Walter Kasper), che vorrebbe concedere i Sacramenti ai peccatori ostinati nel peccato, che non vogliono correggersi e pretendono di ricevere egualmente i Sacramenti. Ogni cristiano che ha studiato il Catechismo sa che secondo la Legge divina ciò non è possibile. Quindi deve prendere posizione contro tale linea da qualsiasi parte venga. 2°) Dal punto di vista dogmatico si pensi alle novità della collegialità episcopale (Lumen gentium), del panecumenismo (Unitatis redintegratio,Nostra aetate), delle due fonti della Rivelazione ridotte ad una: la “sola Scrittura” (Dei Verbum), del pancristismo teilhardiano (Gaudium et spes), della libertà delle false religioni (Dignitatis humanae). 3°) Dal punto di vista liturgico si pensi al Novus Ordo Missae del 1968, che “si allontana in maniera impressionante dalla teologia cattolica sul Sacrificio della Messa come fu definita dal Concilio di Trento” (card. Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci, Lettera di presentazione a Paolo VI del Breve Esame Critico del NOM). Son casi in cui è lecito e doveroso sospendere l’assenso alle decisioni novatrici del magistero pastorale o non infallibile del Concilio Vaticano II e del post-concilio.

7. San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II , q. 33, a. 4, ad 2.

8. Franciscus De Vitoria, Obras de Francisco de Vitoria, BAC, Madrid 1960, pp. 486-487.

9. Franciscus Suarez, De Fide, in Opera omnia, cit., Parigi 1858, tomo XII, disp. X, sect. VI, n. 16.

10. San Roberto Bellarmino, De Romano Pontifice, in Opera omnia, Battezzati, Milano 1857, vol. I, lib. II, c. 29.

Fonte: Chiesa e postconcilio, 25.6.2015

La Solennità della Natività di San Giovanni in Terra Santa

$
0
0
(cliccare sull'immagine per il video)

Il Santuario di San Giovanni del Deserto

Un libro di canto gregoriano come non s’è mai visto né udito

$
0
0
Volentieri rilancio la recensione ad un recente testo sul canto gregoriano:

Un libro di canto gregoriano come non s’è mai visto né udito


Per i visitatori di Settimo Cielo e di www.chiesa i “Cantori Gregoriani” sono da tempo una voce amica. Una voce, proprio così. Di domenica in domenica, nell’Avvento e Natale del 2013 e nella Quaresima e Pasqua del 2014 abbiamo potuto ascoltare e gustare le loro esecuzioni di introiti, graduali, communio del grande repertorio gregoriano.
Qui c’è l’indice cronologico di tutte le pagine di www.chiesa con le loro splendide esecuzioni:


Non solo. Assieme al canto ci sono in ognuna di queste pagine lo spartito musicale e una guida all’ascolto, scritta dal direttore dei “Cantori”, il Maestro Fulvio Rampi, di Cremona, gregorianista di fama internazionale.
Ed era questa come una piccola anticipazione di quel monumento editoriale che ha visto oggi finalmente la luce: un volume di quasi mille pagine che è la “summa” di tutto ciò che occorre sapere su quel canto “principe” della liturgia latina che è anche matrice dell’intera musica occidentale:

Cantori Gregoriani, “Alla scuola del canto gregoriano. Studi in forma di manuale”, a cura di Fulvio Rampi, Musidora editore, Parma, 2015, pp. 980, euro 70,00.

Autori dell’opera sono proprio i “Cantori Gregoriani” col loro Maestro. Con l’apporto di altri studiosi che hanno creduto nell’impresa. Perché ogni capitolo di questo libro, o meglio, data la dimensione, ogni libro di questa biblioteca, porta la firma di qualcuno di loro. Come si può vedere dall’indice:

Cap. 1 – Il canto gregoriano. Itinerario storico-giuridico
di Giannicola D’Amico
Cap. 2 – Liturgia. La messa e l’ufficio divino
di Alfio Giuseppe Catalano O.S.B.
Cap. 3 – La melodia gregoriana
di Angelo Corno e Giorgio Merli
Cap. 4 – Il ritmo gregoriano
di Fulvio Rampi
Cap. 5 – L’ufficio divino. Il canto come lettura ermeneutica del testo
di Angelo Corno e Giacomo Frigo O.S.B.
Cap. 6 – Tropi, sequenze, prosule. Ornamento ed espansione del canto gregoriano
di Enrico De Capitani
Cap. 7 – Il canto gregoriano e la sua voce
di Roberto Spremulli
Cap. 8 – Itinerario bibliografico. Il fenomeno e l’essenza
di Alessandro De Lillo

L’imponente volume, aggiornato sugli studi più avanzati di semiologia gregoriana, ha lo scopo dichiarato di offrire un nuovo e completo strumento didattico per chi voglia andare alla scoperta di questo tesoro: studenti di conservatorio, musicologi, direttori di coro, cantori, organisti, liturgisti.
Ma anche il non specialista può immergersi in questa appassionante avventura, sfogliarne le pagine, osservarne le figure, soffermarsi sull’uno o sull’altro dei capitoli che più l’attraggono.
Con un occhio, naturalmente, alle vicissitudini di questo canto al quale il Concilio Vaticano II ha ordinato che “si riservi il posto principale” ma che nei fatti è precipitato in un quasi generale abbandono.
Ma sempre con la speranza che la luce si riaccenda, come scrive Giannicola D’Amico nelle ultime righe della sua ricostruzione storica:
“Confidiamo che le straordinarie capacità di reviviscenza del canto gregoriano anche questa volta lo salvino dalla fine. E salvino anche noi”.

*

Il volume è in vendita da giugno ed è stampato da Musidora editore, via F. Nullo 11, 43125 Parma, 0521.252564, musidora.libri@libero.it

*

Una sintesi della visione di Rampi su che cos’è il canto gregoriano e su che cosa può tornare ad essere nella vita della Chiesa è in queste sue due conferenze del 2012:



Sulla discografia degli autori dell’opera:


Fonte: Settimo Cielo di Sandro Magister, 25.6.2015

I cedri e la Valle Santa ..... un luogo spirituale per le vacanze

$
0
0
(cliccare sull'immagine per il video)

Nella Vigilia (anticipata) della festa dei Santi Pietro e Paolo: studio sulla celebrazione versus Deum

$
0
0
Nella Vigilia (anticipata) della festa dei Santi Pietro e Paolo, Apostoli, rilancio volentieri questo breve studio sul significato della celebrazione della Messa versus Deum.



Célébrer la messe “face à Dieu”

Par Skeepy


c’est l’une des principales “innovations” liturgiques issues de Vatican II, la messe dite “face au peuple”, par opposition à la messe de forme extraordinaire (ou de rite tridentin) “dos au peuple”. C’est pourtant peut-être l’une des plus contestables.
“Pour le catholique pratiquant ordinaire, les changements les plus patents de la réforme liturgique du second concile du Vatican semblent tenir en deux points: la disparition du latin, et le fait d’avoir tourné les autels vers le peuple. Ceux qui liront les documents de référence seront surpris de constater qu’en vérité ni l’un ni l’autre ne se trouve dans les décrets du concile. (…) Il n’y a rien dans le document conciliaire qui concerne le fait de tourner les autels vers le peuple; ce point n’apparaît que dans les instructions post-conciliaires.” (Joseph Cardinal Ratzinger, L’Esprit de la liturgie, 2006.)

Il y a un certain nombre de raisons, plus ou moins bonnes, qui ont poussé les pères du Concile à proposer ce changement. La principale est que la célébration de la messe “face au peuple”, aiderait les fidèles à avoir une participation active à la messe. Mais tout d’abord, pourquoi a-t-on souhaité une “participation active” des fidèles ?
La constitution apostolique Sacrosanctum Concilium, du Concile Vatican II, nous répond aisément sur ce point. Pour que la liturgie soit efficace, il ne suffit pas d’être présent, il faut une attitude intérieure de participation au mystère, une “actuosa participatio” :
“Mais, pour obtenir cette pleine efficacité, il est nécessaire que les fidèles accèdent à la liturgie avec les dispositions d’une âme droite, qu’ils harmonisent leur âme avec leur voix, et qu’ils coopèrent à la grâce d’en haut pour ne pas recevoir celle-ci en vain. C’est pourquoi les pasteurs doivent être attentifs à ce que dans l’action liturgique, non seulement on observe les lois d’une célébration valide et licite, mais aussi à ce que les fidèles participent à celle-ci de façon consciente, active et fructueuse.” (Sacrosanctum Concilium, §11)

Mais qu’en était-il de la participation des fidèles avant le Concile ? N’était-elle pas déjà active et fructueuse ?

La participation des fidèles avant le Concile

L’histoire de la liturgie a conduit à diviser progressivement, l’église en deux : les célébrants et les fidèles.
Le célébrant s’approche de Dieu, mais, en prononçant les paroles de la liturgie à voix basse, rend la participation complexe. Il faut être attentif à des détails de forme, pour savoir ce qu’il s’y passe (comprendre le sens, où en est le déroulement etc…).
Le côté abscons (langue latine pour les prières, comme pour les lectures, gestes, hochements de têtes, silence…) de la messe, l’a progressivement rendue inaccessible aux fidèles.
“Pour certains esprits, l’attachement exclusif au latin est devenu une question de principe. Pourquoi ? Parce qu’il leur semble que l’usage d’une langue morte exprime, et en même temps protège, ce caractère sacré, transcendant à l’initiative humaine, d’un culte qui doit être accompli pour l’homme, parmi les hommes, mais qui ne peut leur être livré, leur appartenir vraiment. Dans ces conditions, il n’est pas étonnant qu’aille de pair avec l’attachement rigoureux au latin une volonté de garder à l’accomplissement des rites quelque chose de hiératique, de mystérieux, au point de les rendre inaccessibles aux fidèles. Avec le latin partout, on jugera nécessaire la récitation à voix basse de certaines prières, et en particulier des plus essentielles. On sera farouchement opposé à tout ce qui pourrait faire ressortir ce qu’il y a de commun entre les rites sacrés et les actions simplement humaines : rendre à l’autel sa forme primitive de table apparaîtra scandaleux, avec tout ce qui souligne le fait que la messe est un repas.” (Louis Bouyer, Le Rite et l’Homme, éditions du Cerf, p. 12)

L’impossibilité de rendre la forme tridentine accessible à tous, opère un glissement. Pour aider à entrer dans la messe, on insiste sur le côté “sacré”, par la forme extérieure. La messe devient un théâtre et non le lieu de rencontre de Dieu avec son peuple.
“C’est, pensons nous, d’un idéal de la vie de cour, développé au XVIe et XVIIe siècles, que les catholiques de ce genre ont tiré leur fausse notion du culte public. Un roi de la terre devait être honoré quotidiennement par la pompe d’une cérémonie de cour ; de même le roi du ciel. La liturgie, comme le disent explicitement beaucoup de manuels de cette période, était considérée comme “l’étiquette du Grand Roi”. Les caractéristiques les plus évidentes de ce cérémonial étaient, la pompe extérieure, le décorum et la grandeur qui conviennent à un prince d’une telle majesté. L’absence de toute signification intelligible dans tant de rites, et même dans les paroles sacrées, était donc louée comme rehaussant l’impression de révérence qu’il fallait donner à une foule éblouie” (Louis Bouyer, La vie de la liturgie, éditons du Cerf, p. 15)

Le célébrant lui-même, ne sait pas (ou plus) exactement ce qu’il se passe. Louis Bouyer montre combien, parfois, les explications données par les liturgistes pour tenter d’éclaircir des pratiques qu’ils ne comprenaient plus, étaient éloignées du sens réel de chacun des gestes.
Les fidèles eux, s’ils ne saisissent pas d’entrée le sens du déroulement de l’eucharistie, finissent par “assister” à la messe et non à y “participer”. Il n’y “entrent” pas.
La messe est un spectacle auquel on peut assister en faisant autre chose (comme dire son chapelet par exemple).
Cette tendance est visible, même chez des grands saints comme Saint François de Sales, prend la résolution de toujours dire son chapelet, “quand ses fonctions l’obligeraient à assister à une messe solennelle” (Louis Bouyer, La vie de la Liturgie, éditions du Cerf, p. 12).
La liturgie tridentine, telle que pratiquée à l’époque baroque, puis à l’époque romantique, en rendant la messe difficile à pénétrer, a transformé le mystère en gnose. Le mystère est compris comme devant être “incompréhensible”, parfois même pour le célébrant.
Seuls ceux qui peuvent s’y plonger, peuvent participer réellement. Il faut être initié, pour participer à la messe. Et cette initiation prend du temps. Les objectifs de la réforme liturgique : aider la participation des fidèles.
La réforme liturgique a opéré une révolution au sens propre et au sens figuré. Pour aider la participation des fidèles, il est suggéré de modifier l’architecture des églises et notamment, le positionnement de l’autel.
“Il est bien de construire l’autel majeur séparé du mur, pour qu’on puisse en faire facilement le tour et qu’on puisse y célébrer vers le peuple, et il sera placé dans l’édifice sacré, de façon à être véritablement le centre vers lequel l’attention de l’assemblée des fidèles se tournera spontanément.Dans le choix des matériaux destinés à sa construction et à sa décoration, on observera les règles du droit. En outre, le sanctuaire qui entoure l’autel sera assez vaste pour permettre d’accomplir commodément les rites sacrés.” (Instruction Inter Oecumenici du 26 septembre 1964. Chapitre V, §91.)

“Le siège pour le célébrant et les ministres, selon la structure de chaque église, sera placé de telle façon que les fidèles puissent bien le voir et que le célébrant lui-même apparaisse véritablement comme présidant toute l’assemblée des fidèles. Cependant si le siège est placé derrière l’autel, on évitera la forme d’un trône qui convient uniquement à l’évêque.” (Ibid. §92.)

Le prêtre n’est plus dirigé vers le maître-autel, mais vers l’assemblée. On espère comme cela, rendre la célébration moins obscure, puisque les fidèles voient clairement ce que fait le prêtre, en même temps qu’il prononce la prière eucharistique.

Retourner à une pratique antique

Cette dés-orientation serait justifiée par la constatation faite par certains archéologues, selon lesquels les autels de certaines basiliques antiques, étaient tournés vers le peuple, donc “occidentés” (tournés vers l’occident). L’exemple le plus manifeste étant celui de la basilique St Pierre.
“Dans la basilique de l’Église primitive, l’autel était placé au milieu de l’abside du chœur et le prêtre célébrant se tenait derrière lui, le visage tourné vers le peuple. Il n’y avait sur l’autel ni croix, ni flambeaux. Les sièges de l’évêque et des ecclésiastiques étaient disposés tout autour, le long du mur. Ce n’est que plus tard que l’autel fut repoussé contre le mur, comme il l’est de nos jours” (Alfons Neugart, Handbuch der Liturgie für Kanzel, Schule und Haus(Manuel de liturgie pour la chaire, l’école et la maison), 1926.)

La messe est un “repas”

L’autre objectif est de (re)donner à la célébration eucharistique, sa dimension de “repas”, en référence à la Sainte Cène, dernier repas partagé par le Seigneur avec ses disciples. Par ce biais, la participation des fidèles serait facilitée, car ceux-ci se sentiraient “invités” à cette participation.

Pourquoi cette innovation manque ses buts

La nouvelle configuration n’est pas un “retour” aux sources du christianisme antique

Les raisons archéologiques notamment, semblent issues d’une interprétation erronée de l’archéologie antique. Le journaliste Suisse Vincent Pellegrini, s’appuyant sur les analyses de Uwe van Lang, affirme ainsi :
“[…] [L]es basiliques romaines n’étaient pas tournées vers l’Est (l’entrée avait dû être faite pour accéder depuis la rue, ou il y avait un bâtiment ou des fondations préexistant à l’époque constantinienne, etc.). Bref, l’architecture spéciale de la basilique demandait conséquemment un placement spécial de l’autel (à l’entrée, dans l’abside ou au centre de la nef) et donc une position spéciale du célébrant lui-même par rapport aux fidèles. Dans une basilique comme le Latran par exemple, la cathèdre de l’évêque était placée dans l’abside comme il seyait alors aux plus hauts dignitaires romains dans les basiliques séculières.” (Vincent Pellegrini)

Le cardinal Ratzinger l’affirme également : Il ne fait aucun doute que, dès les tout premiers temps, il allait de soi, pour les chrétiens de tout le monde connu, de prier en direction du soleil levant, c’est-à-dire vers l’est géographique. (Joseph Cardinal Ratzinger, L’esprit de la Liturgie, p 51.)
L’idée selon laquelle célébrer face au peuple serait un retour aux sources de la liturgie de l’Eglise primitive, est donc une erreur, due à de mauvaises connaissances en archéologie, ou au mieux, une mauvaise interprétation de celles-ci. La célébration “face au peuple” ne permet pas réellement de rappeler la dernière Cène.
Les études archéologiques montrent que l’idée de renforcer la dimension de repas de l’Eucharistie, en plaçant l’autel au centre (comme si le prêtre était le maître de maison et les fidèles les convives) relève de l’anachronisme, voire d’un “anatopisme”.
Le repas assis autour d’une table est en effet une tradition relativement récente et typiquement occidentale :
“Dans aucun repas du début de l’ère chrétienne, le président d’une assemblée de convives ne faisait face aux autres participants. Ils étaient tous assis, ou allongés, sur le côté convexe d’une table en forme de sigma, ou d’une table qui avait en gros la forme d’un fer à cheval. L’autre côté était toujours laissé libre pour le service. Donc nulle part, dans l’antiquité chrétienne, n’aurait pu survenir l’idée de se mettre « face au peuple » pour présider un repas. Le caractère communautaire du repas était accentué bien plutôt par la disposition contraire: le fait que tous les participants se trouvaient du même côté de la table.” (Architecture et liturgie, p. 49-50.)

La célébration “face au peuple” renforce l’aspect théâtral de la messe

Lorsqu’il célèbre la messe face aux fidèles, le prêtre est en position d’interface entre Dieu et les fidèles, plutôt qu’en personne visant à les introduire dans le mystère.
Le prêtre faisant face aux fidèles, on pourrait penser qu’il leur parle et que les gestes qu’il fait leur sont destinés. Si l’on observe bien, ce que dit le prêtre est destiné non pas aux fidèles, mais à Dieu. Or, dans la configuration habituelle d’une église, “orientée”, le Christ est représenté par le soleil levant. Le célébrant présente donc son dos à celui à qui il s’adresse, ce qui peut paraître pour le moins étonnant.
Par ailleurs, le prêtre, voyant les fidèles, peut ressentir la nécessité de faire des gestes ou de parler d’une manière “non naturelle”, renforçant l’impression qu’il joue un rôle dans une pièce à laquelle les fidèles assistent.

Pourquoi une célébration face à Dieu ?

Le prêtre délégué du peuple par Dieu

Pour comprendre l’orientation du prêtre, dans la célébration de la Sainte Messe, il faut revenir au sens originel de ce qu’est la messe. En effet, la Messe est avant tout, un sacrifice. C’est l’expression visible, du sacrifice invisible que le Fils rend au Père dans l’éternité.
Dans l’Ancienne Alliance, le Sacrifice consistait dans le fait de présenter une offrande à Dieu. Ce n’était pas les fidèles qui présentaient directement les offrandes. Dieu s’était “détaché” une partie du peuple, d’abord en la personne de Moïse (qui monte à la rencontre de Dieu sur le mont Sinaï), puis au sein de la branche d’Aaron.
Le prêtre est donc choisi par Dieu comme un “délégué” du peuple, qui se présente devant Dieu pour célébrer le sacrifice. Il n’est pas meilleur que le peuple, car il porte le sacrifice également pour sa propre purification.
“Tout grand prêtre, en effet, est pris parmi les hommes ; il est établi pour intervenir en faveur des hommes dans leurs relations avec Dieu ; il doit offrir des dons et des sacrifices pour les péchés. Il est capable de compréhension envers ceux qui commettent des fautes par ignorance ou par égarement, car il est, lui aussi, rempli de faiblesse ; et, à cause de cette faiblesse, il doit offrir des sacrifices pour ses propres péchés comme pour ceux du peuple.” (Hébreux 5, 5-7)

Le Grand Prêtre n’est pas choisi pour exclure le peuple du sacrifice, mais bien pour l’y introduire. Il est comme “l’huissier” de la maison de Dieu, celui qui en ouvre les portes pour faire entrer ceux qui attendent au dehors.
Dans le Sacrifice, le prêtre est donc à la fois “délégué” et “huissier” : il se présente devant Dieu, au nom du peuple et invite les fidèles à entrer dans ce mystère. C’est cette double dimension qu’il faut conserver dans la liturgie, pour qu’elle soit comprise à la fois comme sacrifice, comme mystère et comme repas.

Un repas avec Dieu

L’Eucharistie est donc bien un repas. Mais non pas un repas au sens “moderne”. Il s’agit d’un repas “sacré”. C’est le sens originel du “sacrifice” : faire ce qui est sacré. Faire ce que font les dieux. Le faire “avec eux”.
Dans l’Eucharistie, le prêtre est “délégué”, pour partager ce repas avec Dieu. Bien sûr, l’ensemble de l’Assemblée y “communie”. Mais le prêtre est celui qui parle et agit au nom du peuple.
Le rôle du prêtre n’est donc pas de “représenter Dieu” auprès du peuple, comme le laisserait suggérer son positionnement face au peuple, mais bien de représenter le peuple face à Dieu. Il devient, d’après l’expression de Bouyer le “commensal” de Dieu.
Il est donc logique que le prêtre se présente face au tabernacle et tourné vers l’Orient (symbole du Christ Total). Il invite ainsi à sa suite, l’ensemble du peuple de Dieu, à la table du sacrifice.

L’effacement du prêtre au profit du Christ

Dans l’Eucharistie, le Christ est tout à la fois “le prêtre, l’autel et la victime”. Il est le prêtre parce qu’il est celui qui s’offre lui-même, volontairement, librement. Il est la victime, parce qu’il est sacrifié sur la Croix. Il est l’autel, parce que son corps est totalement consacré à Dieu. Il est la “pierre d’angle” sur lequel le sacrifice est réalisé, le rocher duquel jaillit la source de vie.
Le Christ est ainsi le grand prêtre par excellence. Comme l’affirme la lettre aux Hébreux, il dépasse le sacerdoce de l’Ancienne Alliance, parce qu’étant homme parfait, il n’avait pas besoin de présenter de sacrifice pour ses propres péchés. Il se présente devant le Père parfaitement juste. Il porte le péché des hommes pour les offrir au Père :
“En Jésus, le Fils de Dieu, nous avons le grand prêtre par excellence, celui qui a traversé les cieux ; tenons donc ferme l’affirmation de notre foi. En effet, nous n’avons pas un grand prêtre incapable de compatir à nos faiblesses, mais un grand prêtre éprouvé en toutes choses, à notre ressemblance, excepté le péché. Avançons-nous donc avec assurance vers le Trône de la grâce, pour obtenir miséricorde et recevoir, en temps voulu, la grâce de son secours.” (Hébreux 4, 14-16)

Or, le Sacerdoce chrétien découle directement du Sacerdoce parfait de la Nouvelle Alliance. Il n’existe pas de prêtre qui soit prêtre pour et par lui-même. Il n’est prêtre qu’en participation du Sacerdoce du Christ. Lorsqu’il officie, le prêtre EST le Christ. Ce dernier “utilise” sa voix, son corps… mais il officie à travers lui.
C’est pourquoi, il semble nécessaire que le prêtre s’efface, afin de laisser transparaître le Christ. Cela semble difficile, si le prêtre se présente face à l’assemblée. Pas seulement pour des raisons théologiques, mais pour des raisons psychologiques.
Voir le visage, c’est percevoir l’être d’une personne. Je sais que c’est untel qui parle : c’est un homme. Je vois ses mimiques, ses grimaces, ses défauts (ou qualités) physiques… J’oublie presque – ou totalement – que c’est le Christ, grand prêtre, qui parle.
Si le prêtre est tourné vers Dieu, je vois un homme, choisi par Dieu, pour présenter “le sacrifice saint, le sacrifice parfait”, offert par le Christ au Père. Je peux comprendre qu’il m’invite à sa suite, afin que je m’avance “avec assurance vers le Trône de la grâce, pour obtenir miséricorde”.

Comment assurer une participation active des fidèles tout en respectant la tradition liturgique ?

Une nécessaire “mystagogie”

Le fait que le prêtre officie “face à Dieu”, ne ferme par la porte à la participation active des fidèles, loin de là. Mais, pour parvenir à cet objectif ambitieux, proposé par Vatican II, il nécessaire qu’il existe une véritable formation des fidèles à la compréhension des mystères.
Cette catéchèse sur la liturgie est couramment appelée “mystagogie”, car elle introduit à la compréhension des mystères.
L’Instrumentum Laboris du Synode sur l’Eucharistie de 2005 sur l’Eucharistie, insiste sur la nécessité de la mystagogie. Celle-ci permet aux fidèles de mieux comprendre les signes et symboles de la liturgie, afin de rentrer pleinement dans le mystère.
“[…] il est recommandé que les signes et les symboles exprimant la foi dans la présence réelle soient l’objet d’une mystagogie et d’une catéchèse liturgique appropriées.” (L’Eucharistie : source et sommet de la vie et de la mission de l’Église, Inst. Laboris, 2005, §40.)

Cette mystagogie peut passer par divers moyens, mais la Synode avait souligné le principe de l’homélie mystagogique : une homélie qui explicite un ou plusieurs points de la liturgie.
En comprenant mieux le mystère qui se déroule devant eux, les fidèles peuvent mieux y entrer. Mais encore faut-il pour cela que l’on soit conscient de ce qui se passe.

Être conscient du déroulement de la messe

Il y a une relation entre la manière de célébrer la messe et l’attitude des fidèles. Si la messe n’est pas compréhensible, que l’on n’en perçoit explicitement pas le déroulement, les fidèles pourront difficilement y entrer.
Mais de la même manière, si les fidèles n’adoptent pas une attitude attentive, toutes les innovations possibles ne permettront pas de rendre la messe plus attractive.
Plusieurs changements ont permis aux fidèles de mieux percevoir le déroulement de la messe : le passage à la langue vernaculaire pour les lectures. Le fait que la plupart des prières soient dites à voix haute.
Ces changements restent particulièrement utiles dans le cas où la messe est dite face à Dieu, car les fidèles ne voient pas tous les gestes du prêtre (lors de la Consécration par exemple).
Il revient au prêtre de rendre les différentes phases perceptibles, en articulant suffisamment, en faisant des gestes suffisamment amples (sans être théâtraux), en se retournant vers les fidèles lorsqu’il les invite à prier (“Prions ensemble…”), en pratiquant certains gestes sur le côté de l’autel de manière suffisamment visible (préparation du Calice, lavabo…)
Il revient aux fidèles d’appliquer leur intelligence et leur foi pour vivre pleinement ces différentes étapes, afin de rentrer entièrement dans le mystère.
La liturgie devient donc vraiment cette introduction au mystère : tous les fidèles peuvent y entrer, chacun à sa mesure. C’est vraiment le peuple de Dieu qui s’avance vers lui, le prêtre les précédent, mais pour mieux ouvrir les portes du Royaume des Cieux.

Ce changement est-il possible ?

Notons dans un premier temps, que la célébration “face au peuple”, n’a rien d’une norme liturgique (pas plus que le fait de célébrer en langue vernaculaire par exemple).
Elle n’est, ni plus ni moins, qu’une solution architecturale et esthétique, visant à appliquer l’un des objectifs de la réforme liturgique : permettre la participation active des fidèles.
Comme beaucoup des aspects de la réforme, elle s’est progressivement inscrite comme une obligation, que peu accepteraient de remettre en cause (que ce soit parmi les fidèles ou parmi les clercs).
Par ailleurs, il existe – semble-t-il, un mouvement au sein de l’Église, qui entraîne un remise en question de certains blocages “sociologiques”, qui s’étaient cristallisés sur des questions liturgiques. Le respect de la liturgie n’est plus l’apanage des tradis, tandis que des progressistes ou des chachas voudraient s’extraire des “règles”.
La meilleure compréhension du mystère devient l’affaire de tous. La question de l’orientation de la célébration de l’Eucharistie pourrait donc très bien revenir au centre de la réflexion.
Évidemment, il existe encore des blocages, mais – étant donné l’enjeu et les circonstances actuelles – il n’est pas improbable qu’une telle “contre-réforme” puisse voir le jour sans trop de heurts. Il faudrait pour cela que les évêques invitent les prêtres de leur diocèse, à retrouver, s’ils le souhaitent, cette pratique.
Au prêtre de l’expliquer à leurs fidèles, de manière à ce qu’elle soit comprise, non comme un retour en arrière, mais comme un moyen de mieux pénétrer le mystère de l’Eucharistie !


“Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre beátæ Maríæ Vírginis: de cujus solemnitáte gaudent Angeli, et colláudant Fílium Dei” (Intr.) – BEATÆ MARIÆ VIRGINIS A PERPETUO SUCCURSU

$
0
0
Il 27 giugno, oltre ad essere – quest’anno – la Vigilia (anticipata) della festa dei SS. Pietro Paolo, è anche la festa della Madonna del Perpetuo Soccorso.
Sotto questo titolo glorioso, si venera a Roma un’immagine bizantina della Santa Vergine Maria, risalente al XIII o XIV sec. Conservata una volta nella chiesa di San Matteo in Merulana, sul colle Esquilino, l’immagine miracolosa fu poco a poco dimenticata, quando, nel 1866, il papa Pio IX l’affidò ai redentoristi, che ne celebravano la festa e la venerano nella chiesa sorta sul luogo della precedente chiesa di San Matteo, cioè Sant’Alfonso all’Esquilino, sulla via Merulana. Nostra Signora del Perpetuo Soccorso è invocata oggi in molte chiese dell’Occidente (per riferimenti storici, v. qui).
La messa si trova nel supplemento del messale intitolato Pro aliquibus locis, cioè Proprio di certi luoghi (Infrascriptae Missae de Mysterio vel Sancto elogium in Martyrologio eo die habente, dici possunt ut festivae ubicumque, ad libitum sacerdotis, iuxta rubricas. Similiter huiusmodi Missae dici possunt etiam ut votivae, nisi aliqua expresse excipiatur). Dopo il codice delle rubriche di Giovanni XXIII, ogni sacerdote può utilizzare questo formulario delle messe.






De l’icône miraculeuse de Notre-Dame du Perpétuel Secours.

En ce 27 juin, tous les dévots enfants de Marie ont à coeur de fêter Notre-Dame du Perpétuel Secours.

Histoire de l’icône de Notre-Dame du Perpétuel Secours :

L’image connue sous le nom de Notre-Dame du Perpétuel Secours est une icône réalisée dans un style byzantin relativement tardif (du XIIIe ou du XIVe siècle), qui s’inspire du modèle dit « Madone de saint Luc » mais plus exactement selon un type iconographique connu en Orient sous le nom de Mère de Dieu de la Passion (il s’agit donc d’une Vierge de Compassion, ce pourquoi nous avons une très grande vénération pour elle en notre Mesnil-Marie).





Cette icône qui se trouve aujourd’hui à Rome (dans l’église Saint-Alphonse, via Merulana, photo ci-dessus), n’y a pas toujours été : elle était préalablement honorée dans une église de Crète.
Lorsque, au XVe siècle, l’île fut envahie par les Turcs, persécuteurs de chrétiens et destructeurs de nombreuses églises, beaucoup s’enfuirent. L’un d’eux – un marchand, selon la tradition – prit la sainte image, et s’embarqua avec son trésor pour l’Italie. Il fut reçu à Rome par un ami, marchand lui aussi, chez lequel il tomba malade et mourut. Avant de rendre le dernier soupir, il confia l’icône à cet ami en lui demandant de la donner à une église où elle serait convenablement honorée.
Le marchand romain, sous la pression de son épouse (qui souhaitait garder le précieux tableau chez elle), tarda à accomplir la dernière demande de son ami, et il fallut que la Vierge Marie Elle-même se manifestât par des apparitions. Elle fit savoir qu’elle voulait être honorée sous le vocable de « Notre-Dame du Perpétuel Secours », et désigna l’endroit où elle voulait que la sainte icône fût exposée : l’église Saint-Matthieu, sur le Mont Esquilin, toute proche de la Basilique de Sainte Marie Majeure, et desservie par les moines de Saint Augustin.
Elle y fut placée avec de grands honneurs en 1499 et y demeura pendant trois siècles, objet d’une grande vénération.
En 1798, les troupes de la révolution française envahirent et occupèrent Rome, où 45 églises furent détruites. L’église Saint-Matthieu était de ce nombre et la communauté des moines augustins, desservants du sanctuaire, fut chassée.
Les religieux emportèrent le tableau mais les malheurs de ce temps, la persécution, puis l’extinction progressive des religieux qui connaissaient l’histoire du tableau, eurent pour conséquence qu’on en perdit la trace… au point qu’on le crut à jamais disparu.
En 1863, un prêtre rédemptoriste qui, lorsqu’il était enfant, avait servi la messe du dernier moine augustin survivant de la communauté de Saint-Matthieu, réalisa à la suite d’un providentiel concours de circonstances que l’antique image dont on déplorait la perte était celle qu’il avait vue dans son enfance dans le petit oratoire du vieux moine ; il se souvint que celui-ci lui avait un jour dit qu’elle avait été très vénérée et avait accompli de grands miracles.
Le Bienheureux Pie IX en fut instruit : il la fit rechercher pour qu’elle soit confiée aux religieux rédemptoristes dont l’église, placée sous le vocable de Saint Alphonse de Ligori, avait été édifiée précisément sur l’ancien emplacement de l’église Saint-Matthieu.


Eglise Saint-Alphonse sur l’Esquilin (via Merulana) édifiée de 1855 à 1859 à l’emplacement de l’église Saint-Matthieu détruite par les révolutionnaires français.

Lors de la cérémonie d’installation du tableau de Notre-Dame du Perpétuel Secours dans l’église Saint-Alphonse, deux guérisons miraculeuses furent dûment constatées : celle d’un garçon de quatre ans, et celle d’une fillette de huit ans.
Depuis lors le culte de l’icône miraculeuse reprit de l’essor et de nombreuses faveurs spirituelles et temporelles en furent la conséquence.

Description et explication de la Sainte Image :

Le tableau n’a guère que cinquante centimètres de haut et quarante de large. Sur un fond d’or éclatant, est représentée la Vierge Marie, portant sur son bras gauche l’Enfant Jésus.
Un voile bleu foncé couvre sa tête et s’avance de manière à ne laisser entrevoir que la partie extrême du bandeau qui entoure son front. Sa tunique est de couleur rouge, avec des ourlets brodés d’or, comme ceux du voile. L’auréole assez large qui enveloppe sa tête, est ornée de dessins finement travaillés. Au-dessous de l’auréole, sur la partie supérieure du voile, apparaît une étoile rayonnante. Les plis et les ombres des vêtements sont indiqués par les filets d’or. Au-dessus de la Madone, on lit ces quatre lettres, MP. ThV., initiales et finales des mots grecs signifiant : Mère de Dieu. La robe pourpre de la Vierge est le symbole de son ardent amour, alors que le manteau sombre qui l’enveloppe est le signe de sa douloureuse union aux souffrances de son Fils.
Le divin Enfant est dans les bras de sa Mère ; mais, au lieu d’arrêter sur elle son regard, il rejette la tête un peu en arrière et tourne les yeux du côté gauche, vers un objet qui, en le préoccupant vivement, répand sur son doux visage un certain sentiment de frayeur. Ses deux petites mains serrent la main droite de sa mère, comme pour implorer sa protection. Il est revêtu d’une robe verte, retenue par une ceinture rouge, et cachée en partie sous un grand manteau d’un jaune presque brun. La couleur verte représente l’éternité et la divinité du Verbe tandis que le manteau symbolise son humanité, qui a en quelque sorte enveloppé et voilé cette divinité aux yeux de ses contemporains.
Sa tête est aussi entourée d’une auréole, un peu moins large et moins ouvragée que celle de la Madone. Au-dessus de son épaule gauche, on lit ces autres lettres grecquesIs. Xs., c’est-à-dire Jésus-Christ. La pose de l’Enfant Jésus ainsi que le sentiment d’effroi peint dans tous ses traits, sont motivés par la présence d’un ange placé un peu plus haut, à gauche, et tenant dans les mains une croix surmontée d’un titre, qu’il présente à l’Enfant avec quatre clous. Au-dessus de l’envoyé céleste on trouve aussi les initiales de son nom : O. A. G. Elles signifient : L’Archange Gabriel. A la même hauteur, à droite de la Madone, on voit un autre ange portant dans ses mains un vase, d’où s’élèvent la lance et le roseau surmonté de l’éponge. Au-dessus de sa tête, on lit : O. A. M., c’est-à-dire : L’Archange Michel. Les deux Archanges porteurs des instruments de la Passion sont là pour montrer que le Christ, dès le premier instant de son Incarnation, était résolument orienté vers le mystère de la Rédemption, qu’il accomplirait le Vendredi Saint. Toutefois dans la sensibilité de sa nature humaine, Jésus-Christ était effrayé par les horribles supplices de la Passion et c’est ce qu’exprime son attitude : il a couru – tellement que sa sandale s’est détachée – chercher refuge dans les bras de sa Mère… non pas pour se dérober à sa mission, mais parce qu’il veut aussi pour cette mission recevoir l’aide et la compassion des âmes aimantes.



L’élan de Jésus vers sa Mère, et la tendre pression de leurs mains unies, nous disent que Marie fut pleinement associée par son divin Fils, dès avant le Calvaire, à ses souffrances et à son œuvre de rédemption. Jésus, de son côté, en se réfugiant dans les bras de sa Mère, nous apprend que ce cœur maternel est notre refuge assuré, perpétuellement offert à nos craintes et à nos afflictions. Ses mains abandonnées entre les mains de Marie nous disent que celles-ci disposent de sa toute-puissance. Dans le regard de Marie dirigé vers les assistants, comme dans toute sa physionomie, on sent je ne sais quelle indéfinissable et douce tristesse, mêlée à une tendre compassion. Elle aussi a vu la croix qu’on présente à son Fils ; son cœur souffre, mais avec calme, sérénité, et avec une compréhension pleinement surnaturelle des événements de la vie de son Fils! L’effroi du divin Enfant, en présence des instruments de supplice qu’on lui montre, ont rappelé à Marie ses autres enfants de la terre, qui cheminent péniblement, « dans cette vallée de larmes« , et que leur croix de chaque jour accable si souvent. Pénétrée de compassion, la Vierge semble nous adresser ces consolantes paroles : » Ayez confiance en moi ! J’ai souffert, et je sais compatir ; je suis forte, et je puis secourir. Vous tous qui suivez, sur la terre, la voie qu’a suivie mon Fils, ayez confiance : je suis la toute compatissante, je suis la Mère du Perpétuel-Secours ! »
Et comme il l’a souvent été dit : pour bénéficier largement de ce perpétuel secours, il ne faut pas se lasser de le demander par un perpétuel recours.

Prière à Notre-Dame du Perpétuel Secours :

O Très Sainte Vierge Marie, qui, pour nous inspirer une confiance sans bornes, avez voulu prendre le nom si doux de Mère du Perpétuel-Secours, je vous supplie de me secourir en tout temps et en tout lieu : dans mes tentations, après mes chutes, dans mes difficultés, dans toutes les misères de la vie et surtout au moment de ma mort.
Donnez-moi, ô charitable Mère, la pensée et l’habitude de recourir toujours à vous, car je suis sûr que, si je vous invoque fidèlement, vous serez fidèle à me secourir.
Procurez-moi donc cette grâce des grâces : la grâce de vous prier sans cesse et avec la confiance d’un enfant, afin que, par la vertu de cette prière fidèle, j’obtienne votre Perpétuel Secours et la persévérance finale.
Bénissez-moi, ô tendre et secourable mère, et priez pour moi, maintenant et à l’heure de ma mort.
Ainsi soit-il !



Il santuario di San Pietro a Giaffa

$
0
0
(cliccare sull'immagine per il video)

Cafarnao, a casa di Pietro

$
0
0
(cliccare sull'immagine per il video)

(cliccare sull'immagine per il video)


Quel “fanatismo” che va a nozze gay e Califfato islamico per soldi e avversione al cristianesimo

$
0
0
Nella memoria di Sant’Ireneo di Lione, vescovo e martire e della traslazione di San Leone Magno (Sancti Leonis secundo), rilancio quest’articolo di Luigi Amicone, pubblicato su Tempi.

Auguste Cornu, S. Ireneo, XIX sec., cappella, Palazzo dell’Eliseo, Parigi



Quel “fanatismo” che va a nozze gay e Califfato islamico per soldi e avversione al cristianesimo

Luigi Amicone

Il vecchio Gramsci, nietzschiano ingenuo, e il giovane Diego Fusaro. Un neo marxista che si è accorto che l’agenda Lgbt è al servizio della “destra del denaro



Antonio Gramsci era un marxista che rimproverava al cristianesimo una visione dell’uomo che ha plasmato «tutte le filosofie». «È su questo punto – diceva Gramsci – che occorre riformare il concetto dell’uomo». Come? «Se ci pensiamo, vediamo che ponendoci la domanda che cosa è l’uomo vogliamo dire: che cosa l’uomo può diventare, se cioè l’uomo può dominare il proprio destino, può “farsi”, può crearsi una vita. Diciamo dunque che l’uomo è un processo e precisamente è il processo dei suoi atti». (Il materialismo storico, Ed. Riuniti, Roma 1977, pp. 32-35).
«Bisogna riformare il concetto di uomo». Se ci pensiamo, la militanza sotto il Califfato in Oriente e la militanza sotto l’agenda Lgbt in Occidente sono due apparenti opposizioni che incarnano un unico gigantesco sforzo (jihad) di “riforma” dell’uomo. E nello stesso identico “spirito di servizio”. Quale spirito di servizio? Lo spirito anticristiano. Se ci pensiamo, infatti, l’essere che oggi proclama la propria radicale avversione all’uomo in nome di Dio e la propria radicale avversione a Dio in nome dell’uomo, è un essere che, in particolare, proclama la propria radicale avversione al cristianesimo. E questa sarebbe la “riforma” fondamentale dell’uomo, l’aveva vagheggiata Gramsci e realizzata Nietzsche, «è il nostro gusto che decide contro il cristianesimo».
Fin qui l’osservazione di carattere, diciamo così, filosofico. Ma se dall’esame della filosofia che sembra ispirare l’attuale spirito del tempo che vede due opposte volontà di potenza convergere nichilisticamente contro il nemico comune – il cristianesimo – importa anche rilevare la pratica di dominio che questa filosofia-spirito-del-tempo sottende. Perché, solo per fare un esempio, l’attuale amministrazione democratica americana che si è fatta “luce del mondo” nobilitando l’indifferenza sessuale, rimane ad oggi quasi del tutto indifferente (o “riluttante”, come si dice) all’intervento contro il Califfato, il più bestiale dei fenomeni totalitari che si siano visti dopo il Terzo Reich e il comunismo asiatico alla Pol Pot? Siamo sicuri che il “fanatismo economico”, per dirla con il giovane filosofo marxista Diego Fusaro, non sia giunto a sposarsi con il fanatismo tout-court, si tratti di negare l’evidenza di ciò che sta alla base della famiglia o di impedirsi l’uso della forza davanti all’evidenza della ferocia dispiegata?
Le osservazioni di Fusaro sul Fatto Quotidiano (da noi pubblicato sul nostro blog qui, ndr.) sono in effetti molto interessanti. Riguardano solo un aspetto della questione sopra esposta e sono state scritte all’indomani del Family Day del 20 giugno scorso. Sentiamo cosa dice.
«Tra gli ostacoli che il capitale mira ad abbattere vi è, anzitutto, la comunità degli individui solidali che si rapportano secondo criteri esterni al nesso mercantile del do ut des. Il capitale aspira, oggi più che mai, a neutralizzare ogni comunità ancora esistente, sostituendola con atomi isolati incapaci di parlare e di intendere altra lingua che non sia quella anglofona dell’economia di mercato». E ancora. «Se la famiglia comporta, per sua natura, la stabilità affettiva e sentimentale, biologica e lavorativa, la sua distruzione risulta pienamente coerente con il processo oggi in atto di precarizzazione delle esistenze. Il fanatismo economico aspira a distruggere la famiglia, giacché essa costituisce la prima forma di comunità ed è la prova che suffraga l’essenza naturaliter comunitaria dell’uomo. Il capitale vuole vedere ovunque atomi di consumo, annientando ogni forma di comunità solidale estranea al nesso mercantile».
Da tutto ciò ne consegue «che l’odierna difesa delle coppie omosessuali da parte delle forze progressiste non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, di tutte le forme ancora incompatibili con l’allargamento illimitato della forma merce a ogni ambito dell’esistenza e del pensiero». Conclusione: «La “destra del denaro” detta le leggi strutturali, la “sinistra del costume” fornisce le sovrastrutture che le giustificano sul piano sul piano simbolico. Così, se la “destra del denaro” decide che la famiglia deve essere rimossa in nome della creazione dell’atomistica delle solitudini consumatrici, la “sinistra del costume” giustifica ciò tramite la delegittimazione della famiglia come forma borghese degna di essere abbandonata, silenziando come “omofobo” chiunque osi dissentire. Chi, ad esempio, si ostini a pensare che vi siano naturalmente uomini e donne, che il genere umano esista nella sua unità tramite tale differenza e, ancora, che i figli abbiano secondo natura un padre e una madre è immediatamente ostracizzato con l’accusa di omofobia. La categoria di omofobia non fa valere soltanto una giusta presa di posizione contro l’intolleranza di chi non rispetta le differenze: diventa essa stessa una nuova categoria dell’intolleranza, con cui non si accetta l’esistenza di prospettive diverse. È, per dirla con Orwell, una categoria con cui si punisce lo “psicoreato” di chi osi violare l’ortodossia del politicamente corretto».
Ma facciamo un ulteriore un passo avanti nel segno dell’interrogativo e dello spirito sopra accennati: da che parte arriva l’ondata di migranti e profughi che sta invadendo l’Europa? Dalla destabilizzazione del mondo musulmano operata dall’offensiva jihadista dall’Iraq alla Nigeria. Ma come si sostiene economicamente e militarmente tale offensiva? Con i petrodollari dei paesi islamici del Golfo. Gli stessi paesi alleati dell’Occidente che con i loro oligarchi e fondi sovrani che gestiscono bilanci per migliaia di miliardi di dollari (si pensi che l’Arabia Saudita, che ha finanziato la fondazione della iper Lgbt Hillary Clinton, solo per l’anno 2014 ha annunciato un bilancio di 228 miliardi di dollari con un surplus di quasi 55 miliardi) fanno correre i mercati grazie a investimenti ciclopici – in Borsa, in acquisizioni immobiliari, in partecipazioni azionarie in aziende multinazionali – e costituiscono un asset fondamentale per il capitalismo (fanatico?) internazionale.

Fonte: Tempi, 27.6.2015

Chi vince , chi giunge al potere nella Chiesa definisce ciò che bisogna credere!

$
0
0
Nella festa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, ricordiamo quest'insegnamento di Benedetto XVI:




Oltre a queste soluzioni radicali e al grande pragmatismo delle teologie della liberazione vi è anche però il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale in apparenza ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade nella meschinità. Penso qui a due fenomeni, ai quali guardo con preoccupazione. Il primo riguarda il tentativo che si manifesta a diversi livelli, di estendere il principio della maggioranza alla fede e ai costumi e quindi di «democratizzare» decisamente la Chiesa. Ciò che non è gradito alla maggioranza non può essere vincolante, così sembra. Ma di quale maggioranza si tratta in realtà? Domani sarà diversa da oggi? Una fede che siamo in grado di stabilire noi non è una vera fede. E una minoranza non può lasciarsi imporre una fede da una maggioranza.La fede e la sua pratica ci provengono dal Signore attraverso la Chiesa e l’esercizio dei sacramenti, altrimenti non esistono. Molti rinunciano a credere perché sembra loro che la fede possa essere definita da una qualche istanza burocratica, che sia cioè una specie di programma di partito, chi ne ha il potere può definire ciò che bisogna credere, e quindi tutto dipende dal fatto di giungere al potere nella Chiesa oppure—cosa più logica e più plausibile—non credere affatto.

Joseph Ratzinger, La fede e la teologia nei nostri giorni, 1996

Piccola galleria di immagini dei SS. Pietro e Paolo

$
0
0



El Greco, SS. Pietro e Paolo, 1590-1600, Museu Nacional d'Art de Catalunya, Barcellona


Jusepe de Ribera, SS. Pietro e Paolo, 1616, Musée des Beaux Arts, Strasburgo

Jusepe de Ribera, SS. Pietro e Paolo, XVII sec., Napoli


Jusepe de Ribera, SS. Pietro e Paolo, 1612 circa, Metropolitan Museum of Art, New York

Bartolomeo Cavarozzi, Controversia tra i SS. Pietro e Paolo, XVII sec.

Scuola romana, SS. Pietro e Paolo, XVII sec., collezione privata


Pablo Rabiella y Díez de Aux, SS. Pietro e Paolo, XVIII sec., Museo de Zaragoza, Saragozza


Icona dei SS. Pietro e Paolo, Cattedrale Fedorovsky, Tsarskoye Selo

"Tu es Petrus" di Don Lorenzo Perosi


Nunc Scio Vere (Introito della festa dei SS. Pietro e Paolo)

Motetum Vaticanum (Marcia Pontificia)

“Quod si rebus ipsis id ita fíeri vidére desíderas, lege Actuum Apostolórum librum; perspícies profécto, cum sæpe Judæórum pópulus in Apóstolos insurréxerit ac dentes exacúerit, illos, colúmbæ simplicitátem imitándo et cum decénti modéstia respondéndo, iram ipsórum superásse, furórem exstinxísse, ímpetum retardásse” (Lect. IX – III Noct.) - IN COMMEMORATIONE SANCTI PAULI APOSTOLI

$
0
0
Dom Gaspar Lefebvre scrive nel suo Missel Quotidien: «Le Tibre, à son entrée dans Rome, écrit un poète ancien, salue la basilique de Saint-Pierre, et à sa sortie, celle de Saint-Paul. Le portier céleste a fixé sa demeure sacrée aux portes de la ville éternelle qui est une image du ciel. De l’autre côté, les remparts de la ville sont protégés par le portique de Paul : Rome est entre les deux»; «Il Tevere, alla sua entrata in Roma, scrive un antico poeta, saluta la basilica di San Pietro, ed alla sua uscita, quella di San Paolo. Il portiere celeste ha fissato la sua sacra dimora alle porte della città eterna che è un’immagine del cielo. Dall’altro lato, i bastioni della città sono protetti dal portico di Paolo: Roma è tra i due».
A Pietro, il nuovo Mosè, condottiero del novello Israele, viene associato Paolo, il nuovo Aronne, più eloquente del primo, scelto fin dal seno di sua madre per annunciare le ricchezze della grazia del Cristo ai Gentili (Or., Grad., Ep.).
Il Messale romano dà oggi la messa di san Paolo, che tuttavia, secondo l’antica tradizione romana, si riferiva alla seconda stazione di ieri. In luogo dunque del bifestus dies di Prudenzio, abbiamo al presente un bidui festus, poiché la folla dei fedeli si affretta di nuovo nella basilica Ostiense per assistere alla cappella papale, che, in assenza del Papa, celebra oggi il collegio dei patriarchi e dei vescovi assistitenti al trono. Uno di essi ha il privilegio di offrire il sacrificio solenne sull’altare papale, che ricopre le sacre ossa dell’apostolo, privilegio accordato da Benedetto XIV, perché l’abate di San Paolo, già da parecchi secoli, godeva dello stesso onore il giorno della festa della conversione dell’apostolo il 25 gennaio.







Giuseppe Obici, S. Paolo, 1850 circa, Quadriportico della Basilica di S. Paolo Fuori le Mura, Roma



Vittore Carpaccio, S. Paolo stigmatizzato, 1520, Chiesa di S. Domenico, Chioggia

Antonio del Castillo y Saavedra, S. Paolo, XVII sec., collezione privata




Pierre Etienne Monnot, S. Paolo, 1708-18, Basilica di San Giovanni in Laterano, Roma

Non archeologisti, ma figli della Chiesa - Editoriale di luglio di "Radicati nella fede"

$
0
0
Nella festa del Preziosissimo Sangue di N. S. Gesù Cristo (che san Pio X fissò quest’oggi, portandola in questa data dalla prima domenica del mese di luglio come aveva stabilito il beato Pio IX) e nell’Ottava della Natività di san Giovanni Battista, rilancio quest’editoriale di Radicati nella fede.








Allegoria francescana del Sangue di Cristo, Museo Catedralíceo, Malaga

Pie pellicáne, Jesu Dómine, Me immúndum munda tuo sánguine


NON ARCHEOLOGISTI, MA FIGLI DELLA CHIESA.

Editoriale “Radicati nella fede”
Anno VIII n. 7 - Luglio 2015


È per amore alla Chiesa che restiamo nella Tradizione.
È per amore alla Chiesa che ci ostiniamo, contro tutto e tutti, a celebrare solo la messa in rito tradizionale. È per amore alla Chiesa che resistiamo alla Chiesa stessa quando questa ci chiede di celebrare e di assistere anche al nuovo rito della messa.
E non è assolutamente per archeologismo, non è per un amore al passato in quanto passato.
Invece l’ultima riforma liturgica, che ha stravolto da cinquant’anni la vita della Chiesa, nasce da un non amore alla Chiesa e alla sua storia, nasce da un vizio di archeologismo.
Infatti con l’ultima riforma liturgica, con la messa nuova per intenderci, si è di fatto voluto cancellare con un colpo di spugna tutta la storia bimillenaria della Chiesa cattolica, volendo tornare ad una mitica epoca d’oro, ad un mitico tempo d’oro d’inizio della Chiesa, inventando una liturgia super semplificata che falsamente si vuol far risalire agli Apostoli e quindi a Nostro Signore. Se si chiede alla gente semplice, questa vi dice proprio così, cioè che la liturgia moderna, nella sua scarna semplicità, corrisponde di più alla semplicità del Vangelo. In fondo molti, anche tra i preti, la pensano così. E pensano che gli amanti della Tradizione siano dei soggetti deboli, che hanno bisogno ancora di inutili orpelli per vivere la fede.
In fondo, anche la svolta del biritualismo post Summorum Pontificum è figlio di questa errata posizione: concedere le cose vecchie a quei fedeli che ne hanno ancora bisogno, ma sostenendo in modo inequivocabile la nuova liturgia, che è nata per sbarazzarsi della tradizione liturgica della Chiesa stessa.
Invece il problema è serissimo e chiede un giudizio serio, rigoroso. La riforma liturgica seguita al Vaticano II è malata, perché nasce da un giudizio negativo su tutto ciò che la Chiesa ha prodotto, dall’epoca Costantiniana in poi, in campo liturgico. Nasce da una disistima per tutto ciò che la Chiesa, nel corso dei secoli, ha aggiunto nella sua liturgia, per aiutare la fede e la preghiera. Non è qui il momento di fare un trattato di liturgia, ma con semplicità possiamo fare un esempio tra tutti, quello del caso dell’offertorio. La nuova messa ha completamente tolto l’antico offertorio, con la scusa che questo fu aggiunto solo nel medioevo, e lo ha sostituito con una preghiera ebraica di benedizione dei doni della terra. Il ragionamento fatto per sostenere questa operazione è tipico: essendo un’aggiunta medievale, la preghiera dell’offertorio della messa tradizionale non appartiene alla vera messa, è un’inutile anticipazione ripetitiva della consacrazione, va eliminata.
Invece le cose stanno diversamente: le parole pronunciate nell’offertorio dal sacerdote erano state aggiunte nel medioevo per esplicitare con più chiarezza l’intenzione della Chiesa nel celebrare il Santo Sacrifico del Signore, onde evitare che il celebrante e i fedeli si allontanassero dalla vera natura della messa. In sostanza, l’offertorio tradizionale è sì un’aggiunta medievale, ma un’aggiunta che approfondisce, rendendola più chiara, la messa di sempre; un’aggiunta che aiuta ad essere fedeli all’unica messa di sempre, quella di Cristo e degli Apostoli.
Eh sì, il problema è tutto qui: la nuova liturgia moderna nasce da un rifiuto di tutte le “aggiunte” che la Chiesa ha fatto, nel corso della sua storia, ai riti.
È chiaro che questo rifiuto del “lavoro” della Chiesa è pericolosissimo, perché fa nascere nella mente e nel cuore un giudizio sulla Chiesa in se stessa, che quando è all’opera tradirebbe Cristo stesso. È questa l’anima di tutte le eresie: Cristo sì, Chiesa no. Separare Cristo dalla Chiesa è l’opera di ogni eretico, e ha come esito perdere Cristo stesso.
Per noi invece è importante tutto ciò che la Chiesa ha operato per trasmettere la fede, per far pregare con più chiarezza e purezza i suoi figli, per trasmettere con più limpidità la grazia che salva.
La Chiesa ha sempre aggiunto per rendere più pura la preghiera, per renderla mai ambigua, per precisarne sempre più la retta intenzione. E quando ha tolto, ha tolto le aggiunte non pure, le incrostazioni culturali che erano figlie degli uomini e non della Rivelazione. Ha tolto ciò che poteva prestare il fianco all’eresia, ma non ha mai tolto ciò che chiariva maggiormente la preghiera cristiana.
Per questo noi tradizionali ci sentiamo più figli della Chiesa.
Lo sono infinitamente di meno tutti quelli che stanno continuamente ammodernando la sua liturgia con disprezzo per la sua storia. Chi non ama la storia della Chiesa, chi non le riconosce il suo valore, non ama la Chiesa stessa.
Siamo più figli della Chiesa noi, anche quando dobbiamo resistere a tutte quelle nuove leggi che vorrebbero imporci; leggi nuove scritte da coloro che, saltando duemila anni, vogliono risalire a un Gesù che, non portatoci dalla Chiesa e dalla sua storia, è frutto di ideologia e non di verità. Senza la Chiesa non hai il vero Gesù, hai l’idea che di Gesù si fa l’ideologia dominante. Ma hai la Chiesa, quando hai tutta la sua storia, e non solo un riferimento all’istituzione ecclesiastica del presente disancorata dal suo passato.
Saltano duemila anni e vogliono legare la Chiesa di oggi a un mitico inizio della Chiesa stessa; e per farlo devono dire che oggi lo Spirito ha soffiato e ha liberato i Cattolici dal loro ingombrante passato.
È per amore alla Chiesa, mistico Corpo del Signore, che non possiamo, che non dobbiamo obbedire a questi signori dell’innovazione arcaicizzante. Non dobbiamo obbedire loro, ma alla Chiesa, che con continuità ha lavorato, ha fatto la sua fatica di duemila anni, perché ogni anima incontri la Salvezza di Cristo.

Nell'Ottava della Natività del Battista, sul luogo della sua nascita .....ad Ain Karim

$
0
0
(cliccare sull'immagine per il video)
Viewing all 2410 articles
Browse latest View live