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“Vocem prior Elísabeth audívit, sed Joánnes prior grátiam sensit. Illa natúræ órdine audívit, iste exsultávit ratióne mystérii. Illa Maríæ, iste Dómini sensit advéntum. Istæ grátiam loquúntur, illi intus operántur, pietatísque mystérium matérnis adoriúntur proféctibus; duplicíque miráculo prophétant matres spíritu parvulórum. Exsultávit infans, repléta est mater” (Hom. sancti Ambrósii Epíscopi, Lect. VII – III Noct.) - FESTUM VISITATIONIS BEATÆ MARIÆ VIRGINIS

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Luca Della Robbia, La Visitazione, 1445, Chiesa di S. Giovanni fuor Civitas, Pistoia

Maestro di San Martino Alfieri, Visitazione, 1503-04, Palazzo Mazzetti, Asti

Mattia Preti, Visitazione, 1613-19, Virginia Museum of Fine Arts, Richmond

Antonio D’Enrico, detto Tanzio da Varallo, Visitazione, 1626-27 circa, Museo del Duomo, Cagliari

Luis Paret y Alcázar, Visitazione, 1787, Chiesa di santa Maria, Viana

Jerónimo Ezquerra, Visitazione, 1737, Museo Carmen Thyssen, Málaga



Pietro Favaro, Visitazione, XX sec.


"Magnificat" nei vari toni - Coro di Notre Dame de Paris

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Magnificat I

Magnificat II

Magnificat III

Festa della Visitazione in Terra Santa (festeggiata il 31 maggio)

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Il canto del Magnificat nel Santuario della Visitazione





Ain Karem agli inizi del '900: l'occupazione israeliana cacciò da questi luoghi tutta la popolazione araba, tra cui numerosi cristiani. Le chiese francescane di San Giovanni Battista e della Visitazione non hanno più fedeli di Ain Karem, se non pochissimi individui.

L’obiettivo finale è sempre Roma

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Mentre nel nostro continente si pensa a profanare il suolo europeo con vari gay pride ed in Italia si parla di “diritti civili” e di teoria del gender (v. da ultimo qui); mentre in Francia si vuole impedire persino ai calciatori di segnarsi col Segno di Croce per rispettare la “laicità” (v. qui), si fa sempre più concreto il pericolo di una conquista islamica, il cui centro di gravità è e rimane Roma. L’Europa ha abbandonato Dio e, per questo, non pensa neppure a se stessa ed al pericolo che su di essa incombe. A quest’Europa, divenuta ormai a-cristiana e sostanzialmente pagana, possono ben applicarsi le parole che san Paolo, nell’Epistola ai Romani, applicava ai Greci del suo tempo: «Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento. E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa» (Rom. 1, 22-32).
Ben volentieri rilancio quest'articolo del prof. De Mattei, tradotto in inglese da Rorate caeli.

L’obiettivo finale è sempre Roma

di Roberto de Mattei

La prima decapitazione islamica sul suolo europeo dai tempi della battaglia di Vienna (1683) è avvenuta, il 26 giugno 2015, mentre il “campione” dell’Occidente, Barack Obama, celebrava trionfalmente la legalizzazione dei “matrimoni” omosessuali imposta dalla Corte suprema degli Stati Uniti in tutti gli Stati dell’Unione.
Esattamente vent’anni prima, il 21 giugno 1995, venne ufficialmente inaugurata la moschea islamica di Roma, la più grande d’Europa, presentata come centro di dialogo ecumenico e di pace religiosa. L’unica voce di protesta che si levò in Italia fu quella del Centro Culturale Lepanto, che promosse un rosario di riparazione presso la chiesa di San Luigi Gonzaga, adiacente alla moschea, e in un comunicato definì la costruzione del centro islamico nel cuore della Città Eterna come «un atto simbolico di gravità inaudita. Roma è il centro della Fede cattolica: l’Islam nega alle radici le verità fondamentali della nostra fede e si propone di impiantare sui resti di quella che fu la Civiltà cristiana occidentale il suo dominio universale».
In quella stessa epoca, tra il 1992 e il 1995, si svolgeva la guerra etnica e religiosa di Bosnia, la prima guerra mediatica dell’epoca moderna, ma anche la più travisata dai media. La versione politicamente corretta del conflitto offriva l’immagine di un governo prevalentemente musulmano, ma di fatto multiculturale, assediato da nazionalisti radicali, croati e serbi, decisi ad annientare i musulmani in Bosnia.
La verità ignorata era che la Bosnia fu il primo fronte della Jihad globale di al-Qa’ida, il primo evento internazionale da cui l’Islam trasse un enorme beneficio. John R. Schindler, un analista americano che trascorse quasi un decennio nell’area balcanica, ha svolto di quella guerra una penetrante analisi (Unholy Terror: Bosnia, Al-Qa’ida, and the Rise of Global Jihad, Zenith Press, St Paul, Minnesota 2007), che coincide in molti punti con quella dello studioso di geopolitica Alexandre Del Valle (Guerres contre l’Europe, Edition des Syrtes, Paris 2000).
Fu negli anni Novanta, in Bosnia, che al-Qa’ida, divenne la multinazionale del jihad, sotto la guida di Osama Bin Laden e dei suoi mujaheddin. L’Arabia Saudita, che aveva pagato con trentacinque milioni di dollari la costruzione della moschea di Roma, ne spese centinaia per finanziare i combattenti della guerriglia islamica, incoraggiando i giovani musulmani di tutto il mondo a intraprendere la guerra santa in Europa. Il primo atto della Bosnia indipendente, che restava un paese a maggioranza cristiana, fu l’adesione all’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), che raccoglie 57 Paesi di religione musulmana, uniti dal fine di propagare lasharī’a nel mondo.
Fin da allora appariva chiaro come l’Islam si muoveva secondo due linee strategiche. La linea “dolce” puntava sulla islamizzazione della società attraverso la rete delle moschee, che costituiscono un centro di propaganda politica e religiosa, ma anche di reclutamento militare, come quella di Milano, in viale Jenner, che fungeva da base operativa per far giungere uomini, denaro e armi in Bosnia. Espressione di questa strategia di espansione «gramsciana» sono i Fratelli Musulmani, fondati da Hasan al-Banna nel 1928, un movimento, come ricorda Magdi Allam, che «promuove l’islamizzazione della società a partire dal basso, tramite il controllo delle moschee, dei centri culturali islamici, delle scuole coraniche, di enti caritatevoli e di istituti finanziari» (Kamikaze made in Europe, Mondadori, Milano 2005, p. 22).
A questa linea strategica “dolce”, si affianca, ma non si contrappone, quella “leninista”, dell’islamismo radicale, che vuole giungere all’egemonia mondiale attraverso gli strumenti della guerra e del terrorismo. Questa linea dura ha visto negli ultimi anni il passaggio da al-Qa’idaall’Isis, uno Stato islamico che si estende dalle periferie di Aleppo, in Siria, a quelle di Baghdad, in Iraq, e ha come mèta dichiarata la ricostituzione di quel califfato universale che, come ha spiegato fin dagli anni Novanta la principale studiosa dell’Islam, Bat Ye’Or, non è il sogno dei fondamentalisti, ma l’obiettivo di ogni vero musulmano.
Le diverse linee strategiche dell’Islam convergono oggi in un medesimo progetto globale di conquista. Nell’atto di fondazione del califfato jihadista, la predica dalla moschea di Mosul, del 4 luglio 2014, Abu Bakr al Baghdadi, ha chiamato tutti i musulmani a unirsi a lui: se lo faranno, ha promesso, l’Islam arriverà fino a Roma e dominerà l’orbe terracqueo. Nei video diffusi dall’Isis appare la bandiera nera del califfato che sventola sul Vaticano, il Colosseo in fiamme e un mare di sangue che lo sommerge. Infine, l’annuncio del califfato libico, «siamo a sud di Roma», mentre Abu Muhammed al Adnani, portavoce dello Stato islamico dell’Iraq e della Grande Siria, annuncia: «Conquisteremo la vostra Roma, faremo a pezzi le vostre croci, ridurremo in schiavitù le vostre donne».
Lo stesso obiettivo è annunciato da oltre dieci anni dal principale esponente dei Fratelli Musulmani, l’imam Yusuf al Qaradawi che in una fatwa promulgata il 27 febbraio 2005, ha dichiarato che «alla fine, l’Islam governerà e sarà il padrone di tutto il mondo. Uno dei segni della vittoria sarà che Roma verrà conquistata, l’Europa verrà occupata, i cristiani saranno sconfitti e i musulmani aumenteranno e diventeranno una forza che controllerà tutto il continente europeo».
Yusuf Qaradawi che, dopo aver guidato la “primavera araba” egiziana, è stato condannato a morte in contumacia dalla Corte d’Assise del Cairo il 16 giugno di quest’anno, è il presidente del European Council for Fatwa and Research, con sede a Dublino, punto di riferimento teologico delle organizzazioni islamiche legate ai Fratelli musulmani. Le sue idee diffuse attraverso il canale satellitare Al Jazeera, influenzano larga parte dell’Islam contemporaneo. Per i Fratelli Musulmani, come per l’Isis, l’obiettivo finale non è Parigi o New York, ma la città di Roma, centro dell’unica religione che, fin dalla sua nascita, l’Islam vuole annientare. Il vero nemico non sono gli Stati Uniti o lo Stato di Israele, che non esistevano quando l’Islam arrivò alle porte di Vienna, nel 1683, ma la Chiesa cattolica e la Civiltà cristiana, di cui la religione di Maometto rappresenta una diabolica parodia.
Oggi però, da Roma, non risuonano le parole con cui san Pio V e il Beato Innocenzo XI incitarono alla Guerra Santa e arrestarono la marcia conquistatrice dell’Islam a Lepanto e a Vienna. E se Papa Francesco condivide le parole del Primo Ministro Inglese David Cameron secondo cui gli attentati del 26 giugno non sono nel nome dell’Islam, perché l’Islam è una religione di pace, la battaglia, sul piano umano, può dirsi perduta.
La risposta dell’Occidente alle proclamazioni e ai gesti di guerra dell’Islam sembra essere riassunta dall’hashtag LoveWins, con cui la lobby omosessualista inonda twitter e facebook. L’inversione di valori che questo messaggio esprime è destinata a capovolgersi nel contrario di ciò che afferma: non la vittoria, ma la schiavitù, come destino di un mondo che rinnega la sua fede e capovolge i princìpi dell’ordine naturale.
Eppure nulla è irreversibile nella storia. Un altro hahstag meriterebbe di diffondersi come una silenziosa, ma travolgente parola d’ordine sui social network: in hoc Signo vinces, l’insegna che era impressa sulla bandiera di Costantino a Saxa Rubra e che contiene la storia dei secoli futuri, quando gli uomini corrispondono alla Grazia divina. L’aiuto del Cielo non manca mai quando ci sono uomini di buona volontà che combattono affinché la Croce di Cristo vinca e regni nelle anime e nella società intera. Ci sono ancora questi uomini in Occidente?

Chi siamo noi per giudicare il matrimonio? Discorso davanti alla Storia del giudice dissenziente sulle nozze gay

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Il 26 giugno scorso, come noto e come già da noi ricordato in altra occasione (v. qui), con la celebre sentenza relativa al caso Obergefell v. Hodges, la Corte Suprema degli USA ha, contravvenendo al diritto dei singoli Stati statunitensi, imposto a questi la legittimità delle nozze omosessuali, obbligandoli di fatto a riconoscerle (v. testo della sentenza).
Una sentenza discussa e discutibile (v. qui), che specie negli Stati del Sud, ha suscitato forti reazioni, che hanno fatto avanzare l’idea di una sorta di obiezione di coscienza verso l’applicazione di questa decisione imposta dall’alto (v. quiqui, quiqui e qui), tanto più che - è stato giustamente obiettato - se il presunto amore (che più correttamente dovrebbe dirsi passione disordinata) debba essere il parametro cui rifarsi, perché legittimare solo l'unione di due persone e non già anche quella poligamica? (v. qui). In effetti, è partita dal Montana la battaglia per legalizzare la poligamia, come ci ricorda Tempi in altro contributo (v. anche qui), giacché un uomo, tale Nathan Collier, si è rivolto alla stessa Corte Suprema per vedere legittimato il suo desiderio di sposare due donne (v. qui e qui).
Una sentenza, quella della Corte Suprema, che, paradossalmente, ha riacceso quei risentimenti tra Stati del Sud e Stati del Nord, che hanno portato a censurare persino la serie televisiva degli anni ottanta del secolo scorso Hazzard per un motivo davvero ... risibile e cioè per la presenza della bandiera confederata (v. qui), ritenuta, a torto, assimilabile alla svastica (v. qui).
La reazione della Chiesa statunitense verso la pronuncia, per la verità, è stata alquanto timida, come ha osservato Rorate caeli riguardo al comunicato dell’arcivescovo di Chicago, mons. Cupich (v. qui). Non è mancato chi abbia ricordato - in conformità con la dottrina della Chiesa - che, oggi, "The sin of sodomy is now called 'marriage:' a lie that is being perpetrated as a law" (v. qui), né la voce di qualche isolato vescovo coraggioso come quello di Rhode Island, mons. Tobin (v. qui). Né è mancato l'avvio di lodevoli petizioni affinché intervenga il Congresso (v. qui).
Anche il mondo dei social network è stato contagiato da questa pronuncia, giacché, subito, Facebook, ad es., ha fatto girare un’applicazione, che consentiva agli utenti l’apposizione di un filtro “arcobaleno” alle foto relative ai propri profili. Poco dopo, però, si è scoperto che si trattava di un’indagine di mercato … (v. qui, qui, qui, quiqui e qui). I veri cattolici - non quelli farlocchi e modernisti - si sono opposti a tale omologazione anche con ironia:

La foto-arcobaleno del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg



L'opposizione cristiana:









Intanto, dalle nostre parti, mentre mons. Paglia, discutibilmente, si dice favorevole alla partecipazione delle coppie omosessuali all’incontro mondiale delle Famiglie a Philadelphia (v. le dichiarazioni riportate da Zenit. Cfr. anche qui. In inglese, la notizia è rilanciata da Rorate caeli) e mons. Mogavero, per piacere al mondo, viene fuori con un'intervista assai discutibile (v. qui); il card. Caffarra, al contrario, ricorda la dottrina tradizionale della Chiesa in tema di omosessualità (v. qui), la Russia celebra ed esalta, in rete, in polemica con la Babilonia statunitense, l’unione naturale tra un uomo ed una donna (v. qui), opponendosi al nuovo ordine mondiale come rilevato dal senatore USA John McCain (v. qui. Cfr. anche Massimo Viglione, Putin e il mondo alla rovescia, pubblicato su Riscossa cristiana e rilanciato da Chiesa e postconcilio). Non solo. Eleva anche monumenti alla famiglia tradizionale e naturale:


Monumento alla Famiglia felice di Astrachan

Monumento alla Famiglia felice nella città di Saransk (Repubblica autonoma dei Mordvini)

Monumento alla Famiglia felice nella città di Orel

Monumento alla Famiglia felice nella città di Joshkar-Ola (Repubblica dei Mari)

Monumento alla Famiglia felice nella città di Belgorod

Monumento alla Famiglia felice nella città di Desnogorsk (provincia di Smolensk)

In questo contesto, nella commemorazione di tutti i Santi Pontefici, è utile rilanciare la dissenting opinion alla sentenza statunitense sopra ricordata.


Chi siamo noi per giudicare il matrimonio? Discorso davanti alla Storia del giudice dissenziente sulle nozze gay

John G. Roberts

#LoveWins? Può darsi, ma che fine fanno la Costituzione e la democrazia in America? Stralci dalla monumentale “dissenting opinion” del giudice capo della Corte suprema Usa


«Nessuna unione è più profonda del matrimonio, perché incarna i sommi ideali di amore, fedeltà, devozione, sacrificio e famiglia. Nel formare un’unione coniugale, due persone diventano una cosa più grande di quel che erano prima. Come dimostrano alcuni dei ricorrenti in queste cause, il matrimonio incarna un amore che può perdurare perfino oltre la morte. Sarebbe fraintendere questi uomini e donne dire che non rispettano l’idea del matrimonio. La loro istanza è di poterla rispettare, e rispettarla al punto di ricercarne il compimento per sé. La loro speranza è di non essere condannati a vivere nella solitudine, esclusi da uno degli istituti più antichi della civiltà. Chiedono eguale dignità agli occhi della legge. La Costituzione garantisce loro questo diritto. La sentenza della Corte di appello del Sesto Distretto è annullata. Così è stabilito».
Con queste considerazioni si conclude il parere con cui la Corte suprema degli Stati Uniti ha accompagnato la «storica» sentenza di venerdì 26 giugno, con la quale ha imposto a tutti gli Stati della federazione il riconoscimento del “same-sex marriage”. Il verdetto è passato grazie alla decisione di 5 giudici contro 4. Caso eccezionale, ognuno dei quattro contrari ha voluto depositare la propria ”dissenting opinion”. Proponiamo di seguito in una nostra traduzione un’antologia di brani tratti dal parere monumentale del giudice capo John G. Roberts.

Giudice capo Roberts, a cui si uniscono il giudice Scalia e il giudice Thomas, in dissenso.
I ricorrenti offrono argomenti forti fondati sulla politica sociale e su considerazioni di equità. Sostengono che alle coppie dello stesso sesso dovrebbe essere consentito di affermare il proprio amore e impegno attraverso il matrimonio, proprio come alle coppie di sesso opposto. Questa posizione ha un appeal innegabile; negli ultimi sei anni, elettori e legislatori di undici Stati e nel Distretto di Columbia hanno modificato le loro leggi per consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Ma questa Corte non è un’assemblea legislativa. Se il same-sex marriage sia una buona idea o meno non dovrebbe essere un problema nostro. In forza della Costituzione, i giudici hanno il potere di dire cosa è la legge, non cosa dovrebbe essere. (…)
Il diritto fondamentale di sposarsi non comprende un diritto di far cambiare a uno Stato la sua definizione di matrimonio. E la decisione di uno Stato di conservare il significato del matrimonio che ha perdurato in ogni cultura lungo la storia umana difficilmente può essere definita irrazionale. In breve, la nostra Costituzione non converte in legge alcuna teoria del matrimonio. Il popolo di uno Stato è libero di allargare il matrimonio per ricomprendere le coppie dello stesso sesso o di mantenere la definizione storica.
Oggi tuttavia la Corte compie un passo straordinario ordinando a ogni Stato di permettere e riconoscere il same-sex marriage. (…) I sostenitori del same-sex marriage hanno ottenuto notevoli successi nel tentativo di persuadere i loro concittadini – attraverso il processo democratico – ad accogliere la loro visione. Tutto questo finisce oggi. Cinque giuristi hanno chiuso il dibattito e convertito la loro visione del matrimonio in materia di legge costituzionale. La sottrazione di questa disputa al popolo getterà per molti una nube sul same-sex marriage, rendendo un mutamento sociale eccezionale molto più duro da accettare.
La decisione della maggioranza è un atto di volontà, non una sentenza legale. Il diritto che proclama non ha basi nella Costituzione o nei precedenti di questa Corte. (…) La Corte invalida le leggi sul matrimonio di più della metà degli Stati e dispone la trasformazione di un istituto sociale che ha costituito la base della società umana per millenni, tanto per i boscimani del Kalahari quanto per i cinesi han, i cartaginesi e gli aztechi. Chi crediamo di essere?
Noi giudici possiamo essere tentati di confondere le nostre preferenze con i requisiti della legge. Ma come è stato ricordato a questa Corte lungo la storia, la Costituzione “è fatta per persone di visioni fondamentalmente diverse” (…). Conseguentemente “le corti non si occupano della saggezza e dell’avvedutezza della legislazione” (…). La maggioranza oggi abbandona quella concezione limitata del ruolo giudiziario. Si impossessa di una questione che la Costituzione lascia al popolo, in un frangente in cui il popolo è coinvolto in un vibrante dibattito in materia. E risponde sulla base non dei princìpi neutri della legge costituzionale, ma della sua “comprensione di cosa è e cosa deve diventare la libertà”. Non posso che dissentire.
Capite bene cosa riguarda questo dissenso: il tema non è se l’istituto del matrimonio, a mio giudizio, debba cambiare per includere il same-sex marriage. Il tema è invece se tale decisione, nella nostra repubblica democratica, debba rimanere nelle mani del popolo che si esprime attraverso i suoi rappresentanti eletti, o passare in quelle di cinque dottori della legge che si ritrovano l’autorità di risolvere dispute legali secondo la legge. La Costituzione non lascia spazio al dubbio su questo.

I

I ricorrenti e i loro periti fondano i loro argomenti sul “diritto di sposarsi” e sull’imperativo della “marriage equality”. Non si discute sul fatto che, alla luce dei nostri precedenti, la Costituzione protegga il diritto di sposarsi ed esiga che gli Stati applichino le loro leggi sul matrimonio in maniera equa. La vera questione in questi casi è: cosa costituisce il “matrimonio”, o – più precisamente – chi decide cosa costituisce il “matrimonio”?
La maggioranza queste domande le ignora in larga misura, relegando secoli di esperienza umana del matrimonio in un paio di paragrafi. (…)

A

Come riconosce la maggioranza, il matrimonio “è esistito per millenni e attraverso le civiltà”. Per tutti quei millenni, attraverso tutte quelle civiltà, “matrimonio” si riferiva a un’unica relazione: l’unione di un uomo e di una donna. (…) Questa definizione universale del matrimonio non è una coincidenza della storia. Il matrimonio non si è concretizzato come risultato di un movimento politico, di una scoperta, di una malattia, di una guerra, di una dottrina religiosa o di qualunque altra forza trainante della storia mondiale – e di certo non come risultato di una decisione preistorica di escludere gay e lesbiche. È emerso nella natura delle cose per andare incontro a un bisogno vitale: assicurare che i bambini siano concepiti da una madre e da un padre con l’impegno di crescerli in una condizione stabile di relazione che dura tutta la vita. (…)
Le premesse che sostengono questo concetto del matrimonio sono così fondamentali da richiedere raramente un’articolazione. (…) Per il bene dei bambini e della società, i rapporti sessuali che possono portare alla procreazione dovrebbero avvenire solo tra un uomo e una donna che si impegnano in un legame duraturo. La società ha riconosciuto tale legame come matrimonio. E conferendo alle coppie sposate uno status rispettato e benefici materiali, la società invita gli uomini e le donne a intrattenere relazioni sessuali all’interno del matrimonio piuttosto che al di fuori.
(…)
In tutto, elettori e legislatori di undici Stati e del Distretto di Columbia hanno modificato le loro definizioni del matrimonio per includere le coppie dello stesso sesso. Le alte corti di cinque Stati hanno decretato lo stesso nell’ambito delle loro Costituzioni. I rimanenti Stati mantengono la definizione tradizionale del matrimonio.
I ricorrenti hanno intentato cause asserendo che le clausole del Due Process dell’Equal Protection del 14esimo Emendamento obbligano i loro Stati a permettere e a riconoscere matrimoni tra persone dello stesso sesso. In una deliberazione attentamente ragionata, le Corti di appello hanno preso atto del “momentum” democratico favorevole ad “allargare la definizione del matrimonio allo scopo di includere le coppie gay”, concludendo però che i ricorrenti non avevano dimostrato “la necessità di costituzionalizzare la definizione di matrimonio e di spostare la questione da dove si trova fin dalla fondazione: nelle mani degli elettori” (…). Questa decisione interpreta in maniera corretta la Costituzione, e io la confermerei.
(…)
II

(…)

A

La pretesa di un “diritto fondamentale” da parte dei ricorrenti ricade nella categoria più sensibile della giustizia costituzionale. I ricorrenti non sostengono che le leggi sul matrimonio dei loro Stati violino un diritto costituzionale esplicitato, come la libertà di espressione tutelata dal Primo Emendamento. (…) Argomentano invece che le leggi violino un diritto implicito nel requisito del 14esimo Emendamento in virtù del quale la “libertà” non può essere ridotta senza un “giusto processo” [due process of law].
Questa Corte ha interpretato la clausola del giusto processo [Due Process Clause] in modo da includere una componente “sostanziale” per proteggere alcuni interessi di libertà dalle deprivazioni sancite dallo Stato “a prescindere da qualunque processo” (…). La teoria è che alcune libertà sono “così radicate nelle tradizioni e nella coscienza del nostro popolo da essere ritenute fondamentali”. (…) Consentire a giudici federali non eletti di scegliere quali diritti non esplicitati siano da ritenere come “fondamentali” – e di demolire leggi statali in forza di tale determinazione – solleva ovvie preoccupazioni circa il ruolo della giustizia.
(…)
La necessità di porre limiti alla somministrazione della medicina del giusto processo sostanziale [substantive due process] è una lezione che questa Corte ha imparato in modo spiacevole. La Corte applicò per la prima volta il giusto processo sostanziale [substantive due process] per colpire una legge nel caso Dred Scott v. Sandford (1857). Allora la Corte invalidò il Missouri Compromise sulla base del principio che la legislazione che restringeva l’istituto della schiavitù violava i diritti impliciti dei padroni degli schiavi. Nel decidere, la Corte si affidò alla propria concezione di libertà e di proprietà. Affermò che “un atto del Congresso che priva un cittadino degli Stati Uniti della sua libertà o della sua proprietà, solo perché si è trasferito o ha portato la sua proprietà in un determinato Territorio degli Stati Uniti… difficilmente può essere degno del nome di giusto processo [due processo of law]”. In un dissenso che sopravvisse al parere della maggioranza, il giudice Curtis spiegava che quando “le norme che governano l’interpretazione delle leggi vengono abbandonate, e si permette alle opinioni teoretiche degli individui di controllare” il significato della Costituzione, allora “non abbiamo più una Costituzione; ci troviamo sotto il governo di individui che hanno temporaneamente il potere di dichiarare cosa sia la Costituzione, secondo quello che a loro modo di vedere essa dovrebbe dire”.
(…)

B

(…)

1

I temi che guidano la maggioranza riguardano il fatto che il matrimonio è desiderabile e i ricorrenti lo desiderano. Il parere descrive l’”importanza trascendente” del matrimonio e insiste ripetutamente che i ricorrenti non cercano di “svilire”, “svalutare”, “denigrare” o “mancare di rispetto” all’istituto. (…) Nessuno mette in discussione queste cose. In effetti le convincenti presentazioni personali dei ricorrenti e di altri come loro sono probabilmente tra le ragioni principali per cui molti americani hanno cambiato idea sulla questione se alle coppie dello stesso debba essere concesso di sposarsi. Tuttavia, in materia di legge costituzionale, la sincerità dei desideri dei ricorrenti non è rilevante.
(…)

2

La maggioranza suggerisce che “ci sono altri precedenti più istruttivi” che danno forma al diritto di sposarsi. Sebbene non sia del tutto chiaro, il riferimento sembra corrispondere a una linea di casi in cui è stato discusso un implicito “diritto fondamentale alla privacy”. (…) Nel primo di questi casi, la Corte invalidò una legge penale che bandiva l’uso dei contraccettivi. (…) La Corte evocò il diritto alla privacy anche nel caso Lawrence v. Texas (2003), che annullò una legge del Texas che puniva come reato la sodomia omosessuale. (…)
Né il caso Lawrence né alcuno degli altri precedenti sulla privacy stabilisce il diritto che i ricorrenti reclamano qui. Diversamente dalle leggi penali che vietavano i contraccettivi e la sodomia, le leggi sul matrimonio impugnate qui non comportano alcuna intrusione del governo. Non istituiscono un reato e non comminano pene. Le coppie dello stesso sesso rimangono libere di vivere insieme, di intrattenere rapporti intimi e di crescere le loro famiglie come credono. Nessuno è “condannato a vivere nella solitudine” dalle leggi contestate in questi casi – nessuno.
(…)
Insomma, i casi relativi alla privacy non offrono alcun sostegno alla posizione della maggioranza, perché i ricorrenti non cercano la privacy. Al contrario, cercano il pubblico riconoscimento del loro rapporto, oltre ai relativi benefici governativi. I nostri casi hanno sempre coerentemente negato alle parti in causa di tramutare lo scudo fornito dalle libertà costituzionali in una spada per reclamare diritti positivi dallo Stato. (…) Perciò, sebbene il diritto alla privacy riconosciuto dai precedenti ha certamente un peso nella protezione dei comportamenti intimi delle coppie dello stesso sesso, non fornisce alcun diritto affermativo di ridefinire il matrimonio né alcuna base per colpire le leggi in discussione qui.
(…)

3

(…)
Un interrogativo immediatamente provocato dalla posizione della maggioranza è se gli Stati debbano conservare la definizione del matrimonio come unione di due persone. (…) Sebbene la maggioranza inserisca qui e là l’aggettivo “due”, non offre in assoluto alcuna ragione per cui l’elemento delle due persone nella definizione essenziale del matrimonio debba essere preservato e l’elemento uomo-donna invece no. In verità, dal punto di vista della storia e della tradizione, il balzo dall’opposite-sex marriage al same-sex marriage è ben più grande di quello dall’unione di due persone alle unioni plurime, che hanno radici profonde in alcune culture del mondo. Se la maggioranza vuole fare il grande balzo, è difficile capire come possa dire no a quello più piccolo.
Colpisce quanta parte del ragionamento della maggioranza potrebbe essere applicato con la stessa efficacia alla pretesa di un diritto fondamentale al matrimonio plurimo. Se “c’è dignità nel legame tra due uomini o due donne che vogliono sposarsi e nella loro autonomia di fare scelte tanto profonde”, perché ci sarebbe meno dignità nel legame fra tre persone che, nell’esercizio della loro autonomia, vogliono fare la profonda scelta di sposarsi? Se due persone dello stesso sesso hanno il diritto costituzionale di sposarsi perché altrimenti i loro bambini potrebbero “subire lo stigma di sapere che le proprie famiglie sono in qualche modo meno”, perché lo stesso ragionamento non si applicherebbe a una famiglia di tre o più persone che allevano figli? Se non avere la possibilità di sposarsi “serve a mancare di rispetto e a subordinare” le coppie gay e lesbiche, perché la stessa “imposizione di questo svantaggio” non dovrebbe servire a mancare di rispetto e a subordinare le persone che trovano compimento nelle relazioni poliamorose? (…)
Non intendo equiparare il matrimonio delle coppie dello stesso sesso ai matrimoni plurimi sotto tutti gli aspetti. Ci possono ben essere differenze rilevanti che esigono diverse analisi legali. Ma se ci sono, i ricorrenti non ne hanno indicata una. Interrogati sulle unioni coniugali plurime durante il dibattimento, i riccorenti hanno affermato che il loro Stato “non ha istituti di questo tipo”. Ma è proprio questo il punto: lo Stato in questione qui non ha neanche l’istituto del same-sex marriage.

4

Verso la fine del suo parere, la maggioranza offre forse l’illuminazione più chiara riguardo alla sua decisione. Allargare il matrimonio per includere le coppie dello stesso sesso, insiste la maggioranza, “non rischia di causare danni a loro né a terze parti”. (…)
Storicamente, l’affermazione del “principio del danno” appartiene più alla filosofia che alla legge. L’elevazione della piena autorealizzazione individuale al di sopra dei vincoli che la società ha espresso nella legge può essere o meno un tema affascinante di filosofia morale. Ma l’autorità di Giudice non conferisce alcuno speciale discernimento morale, filosofico o sociale tale da giustificare l’imposizione ai cittadini di tali percezioni con il pretesto di un “giusto processo” [“due process”]. C’è invece un processo dovuto [process due] al popolo su questioni di questo tipo – il processo democratico.
(…)

IV

La legittimità di questa Corte risiede ultimamente “nel rispetto accordato ai suoi giudici” (…). Tale rispetto sgorga dalla percezione – e dal fatto – che noi esercitiamo le decisioni sui casi con umiltà e senso del limite secondo la Costituzione e la legge. Il ruolo della Corte concepito dalla maggioranza, invece, è tutto tranne che umile e delimitato. A più riprese la maggioranza esalta il ruolo della magistratura nel portare a compimento il mutamento sociale. A detta della maggioranza, tocca alle corti, non al popolo, la responsabilità di rendere “nuove dimensioni della libertà… legittime per le prossime generazioni”, di fornire il “discorso formale” sulle questioni sociali e di garantire “discussioni neutre, prive di commenti sprezzanti o denigratori”.
La stravagante idea della supremazia della magistratura è particolarmente evidente nella sua descrizione – e nel rigetto – della pubblica disputa intorno al same-sex marriage. Sì, concede la maggioranza, da un lato ci sono millenni di storia umana attraverso tutte le società conosciute che hanno popolato il pianeta. Ma dall’altro lato ci sono stati un “ampio processo”, “molte meditate deliberazioni delle Corti distrettuali”, “innumerevoli studi, articoli, libri e altri scritti divulgativi e accademici”, e “più di 100” perizie solo in questi casi. A che pro consentire la prosecuzione del processo democratico? È giunta l’ora che la Corte decida il significato del matrimonio, sulla base della “interpretazione meglio informata” di cinque giuristi riguardo a “una libertà che resta impellente nella nostra epoca”. La risposta è di certo là, dentro una di quelle perizie o ricerche.
Coloro che hanno fondato il nostro paese non si riconoscerebbero nella concezione del ruolo della magistratura che ha la maggioranza. Del resto rischiarono le proprie vite e i propri beni per il prezioso diritto di governarsi da sé. Non avrebbero mai pensato di cedere quel diritto a giudici non eletti e non responsabili su una questione di indirizzo sociale. E di certo non avrebbero trovato soddisfazione in un sistema che dà ai giudici il potere di calpestare le decisioni politiche a condizione che lo facciano dopo “una discussione davvero ampia”. Nella nostra democrazia, il dibattito intorno alle legge non è un requisito sufficiente ad autorizzare i tribunali a imporre il loro volere.
(…)
Chiudendo questa disputa in forza della Costituzione, la Corte la elimina dall’ambito della decisione democratica. L’arresto del processo politico su un tema di rilevanza sociale tanto profonda avrà conseguenze. Chiudere un dibattito tende e chiudere le menti.
(…)
In tutti gli Stati che hanno adottato democraticamente il same-sex marriage, il rispetto per le sincere convinzioni religiose ha portato gli elettori e i legislatori ad accogliere compromessi per la pratica religiosa. La decisione della maggioranza che impone il same-sex marriage ovviamente non può realizzare compromessi simili. La maggioranza gentilmente prospetta che i credenti possano continuare a “difendere” e “insegnare” la loro visione del matrimonio. Il Primo Emendamento tuttavia tutela la libertà di “esercitare” la religione. Malauguratamente, la maggioranza non utilizza questa parola.
Si sollevano gravi problemi quando le persone di fede esercitano la religione in modi che possono essere percepiti in conflitto con il nuovo diritto al same-sex marriage – quando, per esempio, un college confessionale offre alloggi per studenti sposati solo a coppie di sesso opposto, o quando un’agenzia per le adozioni rifiuta di sistemare i bambini presso coppie sposate dello stesso sesso. Per la verità, il Procuratore generale ha candidamente ammesso che le esenzioni fiscali di cui godono alcuni enti religiosi sarebbero messe in discussione se questi ultimi si opponessero al same-sex marriage. (…) È probabile che simili questioni arriveranno presto davanti a questa Corte. Purtroppo le persone di fede non possono trarre alcun conforto dal trattamento che ricevono oggi dalla maggioranza.
Probabilmente l’aspetto più scoraggiante della decisione odierna è la misura in cui la maggioranza si sente in dovere di infangare chi nel dibattito sta dall’altra parte. La maggioranza assicura in modo superficiale che non intende denigrare le persone che non possono accettare il same-sex marriage per ragioni di coscienza. Difficile far quadrare tale annuncio con l’affermazione immediatamente successiva, dove la maggioranza spiega che “la conseguenza necessaria” delle leggi che codificano la definizione tradizionale del matrimonio è la “umiliazione o stigmatizzazione” delle coppie dello stesso sesso. (…) Secondo la maggioranza, gli americani che non hanno fatto altro che seguire la visione del matrimonio che è esistita per tutta la nostra storia – e in particolare i dieci milioni di persone che hanno votato per confermare la definizione del matrimonio in vigore nei loro Stati – hanno fatto in modo di “escludere”, “svilire”, “mancare di rispetto e subordinare” e di “ferire la dignità” dei loro vicini gay e lesbiche. Questi evidenti attacchi alla reputazione di persone per bene avranno effetti, nella società e nei tribunali. Per di più sono del tutto gratuiti. Una cosa è stabilire che la Costituzione tuteli un diritto al same-sex marriage; ben altro è descrivere chiunque non condivida l’”interpretazione meglio informata” della maggioranza come un bigotto.
(…)

* * *

Se siete fra i tanti americani – di qualunque orientamento sessuale – che guardano con favore all’estensione del same-sex marriage, allora celebrate in tutti i modi il verdetto di oggi. Celebrate il raggiungimento di una meta ambita. Celebrate la possibilità di una nuova forma di espressione dell’impegno affettivo. Celebrate la disponibilità di nuovi benefici. Ma non celebrate la Costituzione. Non ha nulla a che fare con essa.
I respectfully dissent.

“In sacram Eucharístiam singulári caritáte ferebátur; cujus et frequénter percipiéndæ consuetúdinem instaurávit, et morem e sublími throno públice in tríduum adorándæ invexísse perhibétur. Pudicítiam ádeo cóluit, ut étiam in exsángui córpore, revivíscere visus, ejus amórem testarétur. Accéssere cæléstia dona éxtasis, lacrimárum, futurórum evéntuum cognitiónis, scrutatiónis córdium, virtútis in humáni géneris hostem” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI ANTONII MARIÆ ZACCARIA, CONFESSORIS

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Oggi, il Martirologio romano festeggia la martire Zoe, arrestata dai pagani, perché nel natalis degli Apostoli, ella si era recata al Vaticano per pregare. Il suo corpo fu deposto da Pasquale I nella basilica di Santa Prassede.
Sembra che, attorno alla solennità degli Apostoli, la liturgia vi abbia raggruppato le feste più legate a questa. Difatti, essa celebra oggi un altro grande devoto ed emulo dell’apostolo Paolo: sant’Antonio Maria Zaccaria, canonizzato da Leone XIII il 27 maggio 1897, che estese il suo ufficio a tutta la Chiesa con rito doppio.
Questo celebre predicatore lombardo fa parte del gruppo dei santi mandati da Dio nel XVI sec. per effettuare in Italia quella riforma ecclesiastica, che era stata troppo desiderata da molto tempo, ma che non potevano ottenere i soli canoni del Concilio di Trento. Occorrevano degli uomini che li applicassero eroicamente, e per far ciò occorrevano dei santi.
Antonio morì a trentasei anni, il 5 luglio 1539, ma nel rapido corso della sua vita elevò un edificio spirituale che sfida i secoli. La Congregazione religiosa fondata da lui sotto il patronato dell’apostolo dei Gentili ha il merito di aver aiutato efficacemente san Carlo Borromeo nella sua opera riformatrice ed oggi ancora essa porta dei frutti abbondanti e magnifici.
Roma cristiana ha dedicato al nostro Santo una chiesa nel rione Trastevere, costruita nel 1933.
Tutta la messa – che rivela subito lo stile di un redattore moderno – tende a presentarci sant’Antonio Maria Zaccaria come un discepolo zelante ed un imitatore dell’apostolo san Paolo.
Il redattore, avendo voluto inserire una sintesi della vita del Santo nella colletta, questa risulta satura di pensieri ed il cursus le fa difetto. Il segreto di tutta la sorprendente attività del Santo ci è manifestato da queste parole: alla scuola di Paolo, aveva imparato a conoscere Gesù. Tutta la saggezza soprannaturale è lì, perché Gesù è difatti Dei virtus e Dei sapientia.
La lettura evangelica (Mc 10, 15-21), che vuole fare allusione alla gioventù del santo Fondatore della Congregazione di San Paolo apostolo, riporta la chiamata allo stato religioso del giovane che aveva consultato Gesù sul modo di salvare la sua anima. Non si saprebbe come insistere su questa pagina dei Vangeli, che, dall’età apostolica, ha riempito il mondo di monasteri e di case religiose. Ai secolari, sebbene pratichino la virtù, manca sempre qualche cosa: Unum tibi deest, cioè la sicurezza di poter perseverare al riparo dal peccato, esposti come si è a mille pericoli ed occasioni, con l’uso indipendente della propria volontà. Coloro, dunque, a cui Dio ha donato la grazia di comprendere i vantaggi della vita religiosa – Jesus intuitus eum dilexit eum – sono i suoi preferiti, perché hanno in mano i mezzi più efficaci per salvare se stessi e gli altri.
Bisogna meditare queste parole di san Gregorio Magno, inviate all’imperatore Maurizio, che voleva impedire, con un editto, ai soldati ed ai decurioni di farsi monaci: « Multi enim sunt qui possunt religiosam vitam etiam cum sæculari habitu ducere. Et plerique sunt, qui nisi omnia reliquerint, salvari apud Deum nullatenus possunt» (San Gregorio MagnoAd Mauricium Augustum, in Epistolarum, lib. III, Epist. LXV, in PL 77, col. 663B). Per comprendere ciò va ricordato che i decurioni, per sfuggire alle responsabilità pubbliche – assai onerose – tentassero di abbandonare le curie cittadine. Uno dei modi per far ciò era entrare nella vita religiosa. Di fronte alle sempre più frequenti vocazioni religiose dei decurioni, nel 592 l’imperatore Maurizio si vide costretto ad emanare una legge, in forza della quale chi fosse coinvolto in publicis administrationibus non era permesso intraprendere la vita ecclesiastica. Nell’agosto del 593, papa Gregorio gli manifestò il suo apprezzamento per tale provvedimento, ma disapprovò il fatto che avesse proibito pure l’entrata in monastero, visto che precedenti disposizioni di legge avevano già stabilito che le congregazioni dovessero presentare i rendiconti dei decurioni accolti al loro interno e, se necessario, pagarne i debiti (cfr. Roberta RizzoPapa Gregorio Magno e la nobiltà in Sicilia, Officina di Studi Medievali, Palermo, 2008, p. 122. Su questa fuga di decurioni, cfr. L. De SalvoI munera curialia nel IV secolo. Considerazioni su alcuni aspetti sociali, in Atti del X Convegno Internazionale dell’Accademia romanistica costantiniana (in onore di Arnaldo Biscardi; Spello-Perugia-Gubbio, 7-10 ottobre 1991), ESI, Napoli, 1995, pp. 291 ss., partic. pp. 301 ss.). Anzi, una legge di Valentiniano III aveva statuito che i curiales, che avessero voluto abbracciare lo status di religioso, per dimostrare la sincerità della loro vocazione, erano tenuti a cedere tutti i loro beni alla congregazione in cui entravano (così ricorda Roberta Rizzoop. cit., pp. 122-123, nt. 22). Nel novembre 597, il papa trasmise il testo di legge dell’imperatore Maurizio ai vescovi delle diocesi sicule ed ai metropoliti delle città più importanti dell’impero, stabilendo che quanti sono sottoposti agli obblighi del servizio militare o dell’erario (militiæ vel rationibus publicis) non potessero accedere alla vita ecclesiastica né entrare in monastero: forte era, in effetti, la preoccupazione del pontefice – a differenza di quelle politiche dell’imperatore – che le conversioni e le vocazioni non fossero genuine, in quanto motivate dalla volontà di eludere i doveri nei confronti dello Stato (San Gregorio MagnoAd Plurimos Metropolitas et Episcopos, in Epistolarum, cit., lib. VIII, Epist. V, in PL 77, col. 909B-910B). Per questo, prima di entrare in monastero, dovevano esseri liberati a rationibus publicis (così ricorda Roberta Rizzoop. cit., p. 123). Come rammenta la Rizzo (Roberta Rizzoop. cit., p. 123, nt. 24), già all’indomani della promulgazione della legge dell’imperatore Maurizio, san Gregorio, nel luglio 592, aveva raccomandato al vescovo di Squillace di non ordinare nessun sacerdote che fosse curiæ obnoxius (San Gregorio MagnoAd Joannem Episcopum Squillacinum, in Epistolarum, cit., lib. II, Epist. XXXVII, in PL 77, col. 575A-576A). Nel maggio del 594 aveva chiesto al vescovo Gennaro di Cagliari di indagare quanti volevano entrare negli Ordini sacri per scoprire se vi fosse qualcuno curiæ obnoxius (Id.Ad Januarium Episcopum, in Epistolarum, cit., lib. IV, Epist. XXVIivi, col. 694B-696B).
L’antifona per l’offertorio è tratta dal Sal. 138 (137) e fa allusione alla visione dei santi Angeli di cui fu favorito sant’Antonio Maria Zaccaria durante la celebrazione della sua prima messa.
Perché il Salmista parla qui dei riguardi dovuti agli angeli nel momento stesso in cui adoriamo Dio, loro Signore? I santi Padri rispondono: perché gli angeli sono stabiliti da Dio ministri della sua giustizia e della sua misericordia nel governo del mondo. Non saprebbero tollerare nessuna offesa alla divina Maestà, né nessuna agitazione nell’ordine stabilito da Lui. Essi non saprebbero tollerare alcun’offesa alla divina Maestà, né alcuno scuotimento nell’ordine da lui stabilito. È per questa ragione che l’Apostolo vuole che nelle chiese le donne, in segno di soggezione all’uomo, portino un velo sulla testa propter Angelos, cioè per non offendere con un disordine le angeli preposti all’osservanza delle regole stabilite.
Per celebrare correttamente i divini misteri, bisogna salire al santo Altare con quegli stessi sentimenti di adorazione e di amore che aveva Gesù quando li istituì il giovedì santo nel cenacolo e li rinnovò di un modo cruento l’indomani sulla Croce. Hoc enim sentite in vobis quod et in Christo Jesu; «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che aveva Gesù Cristo» (Fil. 2, 5).
Nella colletta di azione di grazie si fa allusione all’opera del santo Zaccaria nell’istituzione e nella diffusione della pia devozione delle Quarantore. L’adorazione del Santissimo Sacramento per quaranta ore consecutive fu inaugurata a Milano nel 1547 su iniziativa di una confraternita, ma trovò in sant’Antonio M. Zaccaria il suo propagatore più zelante. Pietro e Paolo sono due figure trascendenti, che riempiono per tutti i secoli la storia della Chiesa. Tutto il potere gerarchico, che regge fino agli estremi confini del mondo la famiglia cristiana, emana da Pietro come da una sorgente; la più maggior parte della rivelazione dogmatica del Nuovo Testamento viene da Paolo, da cui pure dipendono, come il Dottore delle Genti, tutti i Padri ed i Predicatori. Così, mentre Pietro governa e regge il gregge di Cristo, Paolo insegna, e qual scuola è quella di Paolo! Quali uomini apostolici non ha formato? Uomini che rispondono ai grandi nomi di Timoteo, Tito, Ignazio, Policarpo, Giovanni Crisostomo, e, dopo una lunga serie mai interrotta di apostoli e di giganti del cristianesimo, sant’Antonio Maria Zaccaria e san Paolo della Croce.









Giovanni Gualassini, S. Antonio Maria Zaccaria, XX sec., museo diocesano, Modena-Nonantola

E. Pierini, S. Antonio M. Zaccaria, 1898, museo diocesano, Perugia-Città della Pieve



Mattia Traverso, S. Antonio M. Zaccaria, XX sec., Parrocchia S. Sebastiano, Livorno




Il sangue versato per l’indissolubilità del matrimonio – Santi Giovanni Fisher e Tommaso Moro

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Il 6 luglio il calendario tradizionale della Chiesa, oltre all’Ottava dei Santi Apostoli Pietro e Paolo ed alla memoria di Santa Maria Goretti, indica la festa di San Tommaso Moro, fissata in questa data dal papa Pio XI.
Per questo, appare quantomeno opportuno postare quest’interessante contributo di Cristina de Magistris, che, sebbene risalente al febbraio 2014, appare ancor oggi di straordinaria attualità.


Hans Holbein il Giovane, Thomas More, 1527, Frick Collection, New York

Pieter Paul Rubens, S. Tommaso Moro, 1625-30, Museo del Prado, Madrid

Il sangue versato per l’indissolubilità del matrimonio – San Giovanni Fisher e san Tommaso Moro

di Cristiana de Magistris

Anche l’indissolubilità del matrimonio ha i suoi martiri, che la santa Chiesa di Dio celebra ogni anno col fasto dovuto ai suoi figli più illustri. Il 22 giugno, nel martirologio romano si legge: “Santi Giovanni Fisher, vescovo, e Tommaso Moro, martiri, che, essendosi opposti al re Enrico VIII nella controversia sul suo divorzio e sul primato del Romano Pontefice, furono rinchiusi nella Torre di Londra in Inghilterra. Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, uomo insigne per cultura e dignità di vita, in questo giorno fu decapitato per ordine del re stesso davanti al carcere; Tommaso More, padre di famiglia di vita integerrima e gran cancelliere, per la sua fedeltà alla Chiesa cattolica il 6 luglio si unì nel martirio al venerabile presule”. San Giovanni Fisher e san Tommaso Moro furono decapitati per aver difeso l’indissolubilità del matrimonio contro il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona. In tal modo rimasero fedeli al papa come a capo supremo della Chiesa, negando il giuramento di fedeltà al re Enrico VIII che si era proclamato “Capo supremo della Chiesa d’Inghilterra”. 
In un momento storico come quello attuale in cui par si voglia mettere in discussione anche l’indissolubilità del matrimonio, occorre rispolverare il passato e meditare a fondo sullo scisma d’Inghilterra, originato da un divorzio, e sul sangue dei suoi martiri, che ancor oggi continua a proclamare che il sacramento del matrimonio è di diritto divino.
La questione dell’indissolubilità del matrimonio si pose nel 1525 quando il re d’Inghilterra Enrico VIII, non avendo avuto eredi maschi da Caterina d’Aragona, si preoccupò della sua discendenza. Enrico era ancora cattolico al punto di aver meritato dal papa Leone X, nel 1521,  il titolo di “defensor fidei” per la sua apologia dei sacramenti della Chiesa cattolica contro l’eresia luterana, titolo che – con ironica incongruenza – rimane coniato tuttora sulle monete inglesi.
Poiché Caterina era la vedova di suo fratello, Enrico pensò di poter metter in dubbio la validità del matrimonio. La storia mostrerà che – più che la preoccupazione per il trono – fu la sua passione per Anna Bolena, per altro cortigiana della moglie, che lo condusse al divorzio da Caterina  e al susseguente scisma. Infatti, quando papa Clemente VII si rifiutò di annullare il matrimonio, Enrico gli disobbedì e si proclamò “Capo Supremo della Chiesa d’Inghilterra”, incorrendo nella scomunica. Ecco il succedersi degli eventi.
Nel 1527 il re aveva consultato – tra gli altri – Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, circa lo stato del suo matrimonio con Caterina d’Aragona che Enrico riteneva essere invalido. Fisher assicurò il re che non vi era il minimo dubbio sulla validità del matrimonio e che era pronto a difendere tale asserto davanti a chiunque. Per descrivere l’atteggiamento di Giovanni Fisher, il segretario del cardinal Campeggio, legato pontificio, nel 1529 così scrisse di lui: “Per non mettere in pericolo la sua anima, e per non essere sleale col re o mancare al dovere verso la verità in una materia così importante, egli dichiarò, affermò e dimostrò con ragioni probanti che il matrimonio del re e della regina non poteva essere sciolto da nessun potere umano o divino e per questo era disposto a dare la vita”.
Nel 1525, il vescovo di Rochester aveva scritto: “Una riflessione che mi colpisce profondamente circa il sacramento del matrimonio è il martirio di san Giovanni Battista, che morì per aver rimproverato la violazione del matrimonio. C’erano crimini in apparenza molto più gravi per la cui condanna il Battista poteva esser giustiziato, ma non c’era crimine più adatto dell’adulterio che potesse causare lo spargimento di sangue dell’amico dello sposo, poiché la violazione del matrimonio non è un insulto di poco consto a Colui che è lo Sposo per antonomasia”. A quel tempo, il problema del divorzio del re e della regina non era ancora stato sollevato. Ma le circostanze della morte di Fisher lo avvicineranno non poco alla sorte del Battista. Entrambi imprigionati, entrambi decapitati, entrambi vittime di donne impure. Ma ciò che Erode fece a malincuore, Enrico VIII compì con piena e crudele deliberazione.
Giovanni Fisher scrisse diversi libri in difesa di Caterina. I vescovi, che temevano l’ira del re – indignatio regis mors est, solevano dire –, lo invitarono a ritrattare, ma invano. Egli non poteva negare ciò che sapeva essere la verità.
La situazione, intanto, lungi dal sedarsi diveniva sempre più scottante. Il re, con le sue manie dittatoriali, non aveva alcuna intenzione di cedere. Roma aveva inviato i suoi legati per risolvere la complessa vicenda. Il clero inglese – salvo il vescovo di Rochester – era tristemente compatto nella resa, ossia nella desistenza all’autorità del re che finì col proclamarsi “Capo supremo della Chiesa d’Inghilterra”, atto, questo, reso possibile proprio dalla capitolazione dei vescovi con quella che è passata alla storia come la “sottomissione del Clero” del 15 maggio 1532. Il giorno dopo, Tommaso Moro, fino a quel momento gran cancelliere d’Inghilterra, rassegnò le sue dimissioni. Piuttosto che scendere a compromessi, preferì ritirarsi. Nel 1533 Enrico sposò Anna Bolena e nel 1534,attraverso il cosiddetto “Atto di Supremazia”, si proclamò “capo supremo sulla terra della Chiesa d’Inghilterra”.
Tutti i vescovi prestarono il loro giuramento sulla supremazia del re in campo religiosotranne uno, Giovanni Fisher, il quale fu subito imprigionato nella torre di Londra, dove, durante i lunghi mesi di cattività, scrisse tre opere, due in inglese (A spiritual consolation e The ways of perfect religion) ed una in latino sulla necessità della preghiera. Nel medesimo giorno, il 13 aprile del 1534, venne fatto arrestare anche Tommaso Moro.
Durante la prigionia di Giovanni Fisher e Tommaso Moro (aprile 1534-giugno 1935), Enrico VIII proseguì con tenacia l’organizzazione d’una chiesa nazionale indipendente da Roma. Il re tentò di conquistare Giovanni Fisher alla sua causa attraverso la mediazione di alcuni vescovi che lo visitarono nella sua prigione. Durante uno di questi colloqui, Giovanni Fisher esortò i presuli ad essere uniti “nel reprimere l’intrusione violenta ed illegale fatta ogni giorno contro la comune madre, la Chiesa di Cristo” piuttosto che nel promuoverla. Fu quella l’occasione per pronunciare il suo storico giudizio sui suoi fratelli nell’episcopato: “La fortezza (ossia la Chiesa, ndt) è tradita da coloro stessi che dovrebbero difenderla!”.
Il 7 maggio il re inviò uno dei suoi consiglieri per tentare ancora una volta di piegare Fisher al compromesso. Il santo Vescovo ribadì senza mezzi termini che “secondo la legge di Dio, il re non è né può essere il Capo supremo della Chiesa d’Inghilterra”. Enrico non aveva bisogno d’ulteriori prove, e quando papa Paolo III – nella speranza di salvare la vita al vescovo di Rochester – lo nominò cardinale di Santa Romana Chiesa, Enrico VIII, alludendo all’imminente decapitazione del Santo, disse che il Sovrano Pontefice poteva ben inviare la berretta rossa, ma questa non avrebbe trovato più la testa su cui posarsi.  
La sentenza venne eseguita alle 10 del 22 giugno 1535 nella Torre di Londra: la sua testa rimase esposta all’ingresso del ponte di Londra fino al 6 luglio, quando venne gettata nel Tamigi e sostituita da quella di Tommaso Moro, che nella sua autodifesa, dopo la condanna a morte, disse che la vera causa della sua accusa di tradimento era stato il rifiuto di accettare l’annullamento del matrimonio di Enrico con Caterina.
Prima di morire, mentre nella torre di Londra Fisher meditava sull’incredibile cambiamento di scena avvenuto in Inghilterra negli ultimi 10 anni. “Guai a noi – scrisse nel suo libro sulla necessità della preghiera – che siamo nati in questi tempi maledetti, tempi – e lo dico piangendo – in cui chiunque abbia il minimo zelo per la gloria di Dio [… ] sarà mosso al pianto vedendo che tutto va alla rovescia, il bell’ordine delle virtù è capovolto, la luce spendente della vita è estinta, e della Chiesa non è rimasto nulla se non palese iniquità e falsa santità. La luce del buon esempio è spenta in coloro che dovrebbero brillare come lucerne in tutto il mondo […]. Purtroppo da loro non viene alcuna luce, ma solo tenebre oscure e inganno pestilenziale per cui innumerevoli anime si perdono”. Queste parole erano indirizzate anzitutto ai vescovi che, mancando gravemente al loro dovere di pascere il gregge di Cristo, invece di opporsi, con l’esempio e la predicazione, alla tirannia di Enrico, avevano tristemente cooperato all’apostasia con il loro silenzio colpevole.
San Tommaso Moro, nella stessa prigione e nel medesimo tempo, scriveva il suo “De tristitia Christi”, la sua opera sull’infinito amore e l’inesausta misericordia di Dio. Anche lui, riflettendo sull’apostasia dei vescovi inglesi, scriveva: “Se un vescovo è sopraffatto da uno stupido sonno che gli impedisce di compiere il suo dovere di pastore delle anime – come il capitano pauroso di una nave che, atterrito dalla tempesta, si nasconde e abbandona l’imbarcazione alle onde – se un vescovo agisce in questo modo, io non esito a paragonare la sua tristezza a quella che conduce all’inferno. Anzi, la considero assai peggiore poiché tale tristezza in questioni religiose sembra derivare da una mente che dispera dell’aiuto di Dio”.
Giovanni Fisher e Tommaso More furono giustiziati e, cogliendo la palma d’un glorioso martirio, volarono dalla prigione terrena ai gaudi dell’eterna beatitudine. Con san Giovanni Battista, essi sono i martiri dell’indissolubilità del matrimonio come non mancò di affermare Pio XI in occasione della loro canonizzazione: essi morirono perché non desistettero di “illustrare, provare e difendere coraggiosamente la santità del casto connubio”.
Ma quale fu la sorte di Enrico VIII dopo il suo divorzio da Caterina d’Aragona?  Il re “sposò” Anna Bolena che, tre anni dopo, egli stesso fece giustiziare con l’accusa di alto tradimento, incesto e adulterio. Il giorno dopo l’esecuzione, il re “sposò” Jane Seymour, che morì nel 1537, un anno dopo, per complicazioni sopravvenute nel dare alla luce l’unico erede maschio alla corona, Edoardo VI. Enrico sposò allora, nel 1540, Anna di Cleves da cui divorziò pochi mesi dopo per sposare Caterina Howard, anch’essa fatta giustiziare dal re, nel 1542. L’ultima moglie fu Caterina Parr, che scampò alla morte perché questa colse prima Enrico, nel 1547.
Durante il suo ultimo connubio, il corpo di Enrico VIII, obeso, iniziò ad essere coperto di ulcere purulente. Morì all’età di 55 anni, nel 1547. Le sue ultime parole furono: “Monaci, monaci, monaci”, che probabilmente manifestavano il suo rimorso per aver espulso tanti monaci dai loro monasteri ed usato i loro beni per le sue guerre.
Un frate francescano gli aveva predetto che, come accadde al re Acab che fu maledetto da Dio, anche il suo sangue, dopo la morte, sarebbe stato leccato da cani. E così avvenne. Dalla bara di Enrico VIII fuoriuscì del liquido che subito divenne la bevanda di un cane.
A questa macabra fine si aggiunge un fatto storico degno di nota. Enrico VIII aveva giustificato il suo divorzio da Caterina col pretesto di voler dare un discendente maschio alla corona inglese. Ma, nonostante i suoi 5 successivi “matrimoni”, il re – morto l’unico erede maschio a meno di 18 anni – non riuscì a perpetuare la dinastia dei Tudor che, infatti, terminò con Elisabetta I, la quale, rimasta nubile, fece sì che la corona passasse agli Stuart. A chiudere la dinastia dei Tudor fu dunque l’unica figlia di Anna Bolena, colei che Enrico – divorziando da Caterina – aveva sposato per assicurare la discendenza alla corona.
Lo scisma anglicano è fondato su un divorzio. Se l’indissolubilità del matrimonio venisse negata, occorrerebbe per logica revocare la scomunica di Enrico VIII e a tutta la chiesa anglicana da lui fondata. Ma rimarrebbe il sangue dei martiri di quell’indissolubilità a testimoniare che il matrimonio è di diritto divino e  nessuno, neppure “la Chiesa ha su di esso alcun potere”  ..
I Vescovi inglesi del XVI secolo mancarono gravemente al loro dovere per quella pusillanimità di cui spesso si macchiano gli uomini di Chiesa. Lo scisma della Chiesa inglese fu dovuto non tanto alla forza malvagia di Enrico VIII quanto alla loro desistenza, solennemente manifestata con l’inglorioso Atto di “sottomissione del Clero” del 15 maggio 1532.
L’indissolubilità del matrimonio è nell’ora attuale al centro di un acceso dibattito. Memori di ciò che avvenne nel XVI secolo in Inghilterra, non ci stupiremo di trovare nella Chiesa vescovi pavidi e pronti alla resa. Confidiamo che la divina Provvidenza susciti miracolosamente anime generose, pronte a difendere i diritti di Dio, vescovi e laici emuli di san Giovanni Fisher e Tommaso Moro. Ma soprattutto speriamo che, nello scenario decadente che è sotto i nostri occhi, non ci tocchi la cattiva sorta di trovare nelle gerarchie ecclesiastiche qualche novello Erode o Enrico VIII: quod Deus avertat!

Fonte: Conciliovaticanosecondo, 26.2.2014

Beato Stepinac, strada in salita per la canonizzazione

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Ricevuto, rilancio volentieri quest’articolo di Guido Villa, pubblicato in versione ridotta su La Nuova Bussola Quotidiana, dal titolo Stepinac, chi non vuole la canonizzazione. Ringraziamo l’Autore per l’attenzione che ha voluto prestare al nostro blog mediante il suo contributo dedicato al beato Alojzije Stepinac, insigne sostenitore - come lo ha definito lo storico gesuita Giovanni Sale - dei diritti di Dio e dell'uomo (v. qui), tanto da meritare, pochi giorni dopo la morte, una solenne cappella papale di Requiem dal papa Giovanni XXIII, durante la quale il pontefice tenne una commovente omelia.


Beato Stepinac, 
strada in salita per la canonizzazione

di Guido Villa

Le speranze dei cattolici croati di vedere presto canonizzato il beato cardinale Alojzije Stepinac, arcivescovo di Zagabria, martire del comunismo titino, hanno subito una brusca battuta di arresto. Lo scorso 28 maggio, infatti, mentre la Presidente croata, Kolinda Grabar Kitarović, incontrava papa Francesco in Vaticano, e di concerto con i vescovi croati, invitava il Pontefice in Croazia affinché, tra l’altro, avesse luogo la canonizzazione di Stepinac, l’inviato speciale del Papa, il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, s’incontrava a Belgrado con il Presidente della Serbia, l’ultra-nazionalista Tomislav Nikolić, proprio per parlare di Stepinac, come confermato anche dall’agenzia di stampa governativa Tanjug.
Papa Giovanni XXIII incensa
il tumulo del Cardinale Stepinac
Nikolić non ha usato mezzi termini, e ha affermato che la canonizzazione di Stepinac distruggerebbe tutto ciò che di buono è stato fatto finora per migliorare i rapporti tra la Croazia e la Serbia, e dopo avere sottolineato di provare «sincero rispetto per tutte le confessioni religiose presenti in Serbia», ha aggiunto: «Quindi, vi prego, dopo che avete contato i chicchi di grano in una mano, metteteli nell’altra mano e contateli di nuovo». Il messaggio è chiaro: il Vaticano non deve canonizzare Stepinac senza il consenso dei serbi – che, evidentemente, non ci sarà mai –, altrimenti le tensioni tra serbi e croati, e di conseguenza tra la Chiesa ortodossa e quella cattolica, potrebbero di nuovo acuirsi.
La posizione serba, peraltro già nota, è stata ben compresa in Vaticano, e infatti, secondo quanto riferito dalla Presidente croata, papa Francesco le avrebbe rivelato che, pur non essendoci dubbi sulla persona del cardinale Stepinac, «nel frattempo è stata istituita una commissione mista con la Chiesa ortodossa al fine di valutare ancora alcuni aspetti». Un’ulteriore conferma di questa frenata viene dall’incontro di Belgrado. Nel comunicato ufficiale si legge che il cardinale Koch «ha proposto la formazione di un gruppo di esperti della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa serba, la quale indagherà su tutte le circostanze storiche, e cercherà, attraverso il dialogo, di creare un’atmosfera di collaborazione e di comprensione». La Presidente croata ha lamentato che una tale iniziativa avrebbe dovuto essere presa molto prima, tuttavia appare evidente come la creazione di questa commissione rappresenti il segnale che la Santa Sede ha recepito i desiderata serbi. Il dialogo con gli ortodossi è troppo importante, e la canonizzazione del beato Alojzije Stepinac, almeno per il momento, non s’ha da fare.
Partic. dell'urna del Beato Stepinac,
Cattedrale di Zagabria.
Foto di Dennis Jarvis
In termini generali, è singolare che a un’istanza non cattolica venga concesso il diritto di veto – perché di questo si tratta – su un processo interno alla Chiesa cattolica che già viene condotto con criteri teologici e storici molto severi. Nel caso specifico, ciò che il popolo croato ha di più caro, vale a dire il suo cammino spirituale e la sua fede, dei quali la beatificazione e la canonizzazione dei suoi santi sono parte integrante, nonché quasi cinquant’anni di sofferenze di questo popolo ai tempi del comunismo, finiscono per essere consegnati alla mercé dei serbi, e per tragica ironia della sorte, proprio dalla Santa Sede, alla quale il popolo croato, su esempio del cardinal Stepinac, è indissolubilmente legato e fedele senza riserve.
Questa decisione non è stata presa per il desiderio di ricercare la verità storica, che è già conosciuta, bensì per guadagnare tempo, nella speranza, in verità piuttosto labile, che col tempo i malumori dei serbi si stemperino, e crea un pericoloso precedente per futuri processi di beatificazione e di canonizzazione presso la Chiesa croata.
C’è quindi da prevedere che tempi duri attendano altre cause di beatificazione e canonizzazione che si riferiscono all’ultimo secolo di storia del popolo croato, caratterizzato, fin dalla fondazione, nel 1918, del primo Stato unitario - più tardi chiamato Jugoslavia - da un forte conflitto tra croati e serbi, e soprattutto ai cinquant’anni di dittatura comunista. Ciò vale, ad esempio, per il processo di beatificazione della Serva di Dio Marica Stanković, suora laica condannata nel 1948 da un “Tribunale del popolo” per avere guidato, come si legge nell’atto d’accusa, un’«organizzazione ustascio-terroristica» - tale veniva giudicata l’Azione Cattolica dal regime comunista. Lo stesso destino potrebbe essere riservato alla causa relativa ai frati francescani martiri di Široki Brijeg e dell’Erzegovina, uccisi durante la Seconda Guerra Mondiale dai partigiani titini in quanto falsamente accusati di collaborazionismo con il regime ustascia e l’occupante tedesco.
In questo clima, non migliore sorte attenderebbe la causa di beatificazione, recentemente avviata, del cardinale Franjo Kuharić, arcivescovo di Zagabria dal 1970 al 1997, cui i serbi rimproverano l’appoggio dato all’azione militare “Tempesta” del 1995, e anche quella del primo arcivescovo di Vrhbosna (Sarajevo), Josip Stadler, morto nel 1918, che, in difesa della fede cattolica, entrò in conflitto con la Chiesa ortodossa serba. Le beate martiri della Drina, suore di varie nazionalità uccise dai serbo-cetnici nel 1944 nei pressi di Sarajevo, difficilmente riceverebbero il placet per la canonizzazione da una Commissione nella quale i serbi hanno diritto di veto, giacché questi considerano l’essere cattolico sinonimo di ‘ustascia’.
Come dimostrato dall’abbondante documentazione storica che lo riguarda, la figura del beato Stepinac è assolutamente limpida. Pur accogliendo favorevolmente l’indipendenza della Croazia proclamata nel 1941, egli conservò una lucida capacità di giudizio sul regime ustascia, avvertendo che la benedizione di Dio poteva scendere sul Paese e sul popolo croato solamente se si fosse osservata la Legge di Dio quale espressa nei Dieci Comandamenti. In diverse omelie egli condannò coraggiosamente le stragi di serbi, ebrei e rom attuate dalle milizie ustascia, denunciando la politica razziale del governo croato attuata su imitazione di quella della Germania nazista, scrisse numerose e vibrate lettere di protesta al Poglavnik (Duce), Ante Pavelić, per le violenze commesse nei confronti delle minoranze, giungendo, in una di queste, a definire il lager di Jasenovac, dove morirono decine di migliaia di persone di etnia serba, ebraica e rom, ma anche oppositori del regime e sacerdoti cattolici, una «macchia sul popolo croato».
Processo del Beato Stepinac nel 1946
Nell’azione del beato Stepinac non mancò l’aiuto fattivo ai perseguitati, a qualsiasi popolo essi appartenessero. Secondo documenti dell’intelligence britannica, già nel 1941 egli guidò una delegazione che incontrò Pavelić per protestare contro la deportazione di ebrei e serbi. Egli spesso intervenne presso le autorità dello Stato raccomandando richieste della comunità ebraica, chiedendo la scarcerazione di persone arrestate, e perfino di persone accusate di collaborare con i partigiani. In un promemoria inviato dal funzionario ebraico Weltmann al delegato apostolico in Turchia, mons. Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, si legge: «Sappiamo che mons. Stepinac ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per aiutare e attenuare lo sfortunato destino degli ebrei in Croazia … La preghiamo di comunicare a mons. Stepinac l’espressione del nostro profondo ringraziamento per l’aiuto che ha porto, e lo preghiamo di continuare un’azione così onorevole di salvare i nostri fratelli, sorelle e figli… ».
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in un clima di inaudita violenza contro la Chiesa cattolica, Stepinac fu arrestato dalle autorità comuniste una prima volta il 17 maggio 1945, e trattenuto in carcere fino al 3 giugno. Il giorno dopo la sua liberazione, egli fu convocato da Tito, il quale gli offrì la guida di una cosiddetta “Chiesa cattolica popolare”, separata da Roma, con la promessa di una posizione di onore nel nuovo Stato jugoslavo a guida comunista. Stepinac rifiutò, firmando in questo modo la sua condanna. Egli fu quindi di nuovo arrestato, sottoposto a un processo-farsa di stampo stalinista, e condannato a sedici anni di reclusione in regime di carcere duro. Dopo cinque anni di prigionia nel carcere di Lepoglava, sottoposto a continui maltrattamenti, umiliazioni e a diversi tentativi di avvelenamento, fu assegnato al confino nella parrocchia natia di Krašić, non lontano da Zagabria, dove fu tenuto prigioniero fino al 1960, quando morì per le conseguenze dell’avvelenamento subito in carcere.
Funerale del Beato Stepinac
Il beato Alojzije non si piegò mai dinanzi ai senzadio di ogni colore e ideologia, e nonostante gli allettamenti del mondo e la prova della persecuzione, rimase fedele a Cristo e alla Chiesa, ed è a lui che dobbiamo il fatto che oggi il popolo croato, nella sua maggioranza, sia ancora cattolico, e resista alle lusinghe delle nuove ideologie che mettono in pericolo la vita e la famiglia.
Se vogliamo, questo è forse l’unico motivo per il quale la figura del beato Alojzije possa essere considerata “controversa”. Soprattutto in questi tempi, in cui non pochi pastori cercano l’applauso facile del mondo e non passano attraverso la “porta stretta” che conduce in Cielo, egli non è una figura che porta la falsa pace voluta dal mondo, bensì la spada della divisione quale naturale conseguenza dell’impegno per la verità e l’amore, per Dio e la sua Legge.
È auspicabile che non si esiti a proporre questo santo alla venerazione della Chiesa universale, anche a costo di entrare in conflitto con il mondo e la sua falsa pace, giacché il suo esempio e la sua intercessione ci saranno d’aiuto in questi tempi estremamente difficili. 

“Igitur Cyríllus et Methódius illi expeditióni destináti, et in Moráviam célebri lætítia excépti, ánimos christiánis institutiónibus tanta vi tamque operósa indústria excoléndos aggrediúntur, ut non longo intervállo ea gens nomen Jesu Christo libentíssime déderit. Ad eam rem non parum sciéntia váluit dictiónis Slavónicæ, quam Cyríllus ante percéperat, multúmque potuérunt sacræ utriúsque Testaménti lítteræ, quas próprio pópuli sermóne reddíderat” (Litteræ Encyclicæ Leonis Papæ XIII – Lect. IV – II Noct.) - SANCTORUM CYRILLI ET METHODII, EPISCOPORUM ET CONFESSORUM, SLAVICÆ GENTIS APOSTOLORUM

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Ecco due celebri missionari orientali che appartengono tuttavia anche a più di un titolo alla storia della Roma papale. Difatti, i popoli slavi sono debitori a Cirillo ed a Metodio della loro civiltà, della loro fede e, più ancora, della loro primitiva comunione con la Cattedra di Pietro, comunione che ha lasciato nella storia numerose ed indelebili tracce. Ancor’oggi, il pellegrino slavo che arriva a Roma e va’ a prostrarsi sul sepolcro del Principe degli Apostoli vede un quadro che rappresenta il Salvatore tra il santi Pietro e Paolo. Ora questa venerata icona sulla quale è tracciata un’iscrizione slava fu, si dice, deposta lì dai santi Cirillo e Metodio, quale omaggio della loro devozione alla Sede apostolica.
Si conosce la vita dei due fratelli. Al tempo di Adriano II, Roma li vide entrare trionfalmente nelle sue mura, seguiti da una truppa scelta di discepoli carichi di un prezioso fardello: le reliquie del martire Clemente ritrovate da essi nel Chersoneso.
Cirillo e Metodio giustificarono davanti al concilio romano la loro missione, e ricevettero la consacrazione episcopale dalle mani del Papa. Tuttavia le difficoltà sollevate contro di essi dai loro avversari furono assai pesanti; così che Cirillo, chiamato prima Costantino, all’estremo delle forze, preferì lasciare a suo fratello la cura della missione slava e restare a Roma all’ombra di San Clemente, dove preparò il suo proprio sepolcro. La morte non tardò a raggiungerlo, il 14 febbraio 869, ad appena quarantadue anni. Del suo sepolcro primitivo, nel narthex del titulus clementis, resta una pittura interessante. L’anima dell’apostolo defunto è presentata al Giudice supremo dai suoi santi protettori, Michele e Gabriele, l’apostolo Andrea e Clemente cingono il trono divino, mentre Metodio eleva, supplicante, il calice eucaristico per il riposo dell’anima di suo fratello Cirillo.
Un’altra pittura rievoca ugualmente Cirillo e Metodio nel titulus clementis. Si trova anch’essa nel nartece, a sinistra della porta, e rappresenta la traslazione del corpo del martire Clemente nella basilica che porta il suo nome. Dietro la bara portata dai diaconi, marcia per primo il papa Nicola I coi due fratelli, Cirillo e Metodio, a destra ed a sinistra. Il Pontefice è rivestito della casula e del pallio, e la sua fronte è coronata del regnum; mentre gli apostoli degli slavi hanno una semplice casula sotto la quale scendono, sulla tunica, le bande della stola. Due chierici portano le ferule episcopali dei due fratelli, ed il Papa non ne ha. È significativo notare che il nimbo rotondo orna solamente la testa di Nicola e di san Cirillo: si spiega del resto facilmente l’assenza di questo segno di venerazione liturgica intorno alla testa di Metodio. Il pittore romano dell’XI sec. aveva conoscenza soltanto della venerazione, di cui erano oggetto nell’Urbe, di Nicola I e di Cirillo, ignorando completamente la sorte dell’altro apostolo degli Slavi morto nell’885 in Moravia.
Un terzo monumento molto importante esisteva una volta a Roma, e si riferiva all’apostolato slavo dei due santi Vescovi ed all’opera zelante di missionario che aveva anche compiuta presso i bulgari il papa Formoso prima di salire sulla Cattedra apostolica. Si tratta dell’oratorio di San Lorenzo supra sanctum clementem, eretto tra le costruzioni del Celio che già reggeva, un tempo, il grande tempio di Claudio. Lì, nel 1689, Ciampini scoprì per la prima volta un’abside dipinta dove si vedeva il Salvatore tra i due Principi degli Apostoli Pietro e Paolo, Lorenzo ed Ippolito. Il Signore dava a Pietro il volume della Legge, e si leggevano queste parole: DÑUS (le)GEM (dat), «Il Signore dà la legge».
Si vedevano anche il papa Formoso ed il re dei Bulgari, Michele, prostrati davanti a lui in atto di adorazione.
Questo Michele è lo stesso Boris o Bogoris, primo re cristiano dei Bulgari, che, convertito alla fede da san Metodio, attirò al Cristo quasi tutto il suo popolo. Assunse il nome di Michele al momento del battesimo (864), in onore del suo padrino, l’imperatore bizantino Michele III.
Per non comunicare con l’intruso Fozio di Costantinopoli, Boris inviò dei messaggeri al papa Nicolò I da cui, nell’867, egli ricevette la celebre lettera che rispondeva alle sue questioni. Boris cambiò in seguito (889) il diadema reale con il saio monastico e morì santamente nello stato religioso il 2 maggio 907. Presso i Bulgari è onorato del culto liturgico dei santi.
Dobbiamo menzionare qui altri cinque personaggi, tutti discepoli e coadiutori dei santi Cirillo e Metodio nell’evangelizzazione dei Bulgari.
San Naum, prima di associarsi al vescovo Clemente per convertire la Bulgaria, aiutò nella loro missione i santi Cirillo e Metodio. Lavorò con loro alla traduzione dei libri liturgici in slavo ed andò con i due santi a Roma a vedere il papa Adriano II.
San Clemente condivise in origine le fatiche e le persecuzioni dei due fratelli apostoli della Moravia; scacciato in seguito dalla Pannonia, entrò in Bulgaria e morì nel 916 quale vescovo di Tiberiopolis.
San Gozardo successe nell’885 a Metodio in qualità di metropolita della Moravia e della Pannonia. Scacciato l’anno seguente, l’esiliato diresse la sua attività missionaria presso i Bulgari, in quest’impresa egli ebbe per imitatori Saba (o Sabba) ed Angelario, di cui si sa soltanto che erano oggetto di un culto liturgico.
La festa dei santi Cirillo e Metodio non fu introdotta nel Messale romano che da Leone XIII.
Roma cristiana ha dedicato ai due santi fratelli una chiesa nella zona Acilia Nord, Santi Cirillo e Metodio, costruita nel 1996-97.
La messa Sacerdótesè la stessa per la traslazione di san Leone Magno il 28 giugno, salvo le particolarità seguenti. Le collette sono proprie.
Il Vangelo è tratto da san Luca (Lc. 10, 1-9). Solo la Chiesa cattolica ha diritto e l’incarico di andare ed insegnare, nella persona degli apostoli, a tutte le genti: Euntes, docete omnes gentes, «Andate ed insegnate a tutte le genti» (Mt 28, 19).
La divina Eucarestia non è solamente l’antidoto contro i peccati commessi, è anche una leva potente che slancia l’anima verso il cielo. Può essere paragonata a quel zampillo di acqua di cui parla il Vangelo che si eleva impetuoso. Così parlava di sé sant’Ignazio di Antiochia: Sento in me qualche cosa che mi eleva, mentre risuona ai miei orecchi come una voce che mi dice: vieni al Padre.



Icona russa dei SS. Cirillo e Metodio, XVIII-XIX sec.


Artur Orlenov, SS. Cirillo e Metodio, 2007



Josef Zelený, SS. Cirillo e Metodio, 1863, Monastero benedettino, Rajhrad


Realismo e volontarismo. Cosa c’è alla base di una sentenza assurda

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Nella memoria di S. Elisabetta del Portogallo, regina e vedova del tirannico re portoghese Diniz, morta nel 1336 e pronipote dell'omonima Santa sovrana d'Ungheria, rilancio quest’interessante saggio di Carlo Manetti sulla sentenza della Corte Suprema USA che ha liberalizzato, in tutti gli Stati USA, il c.d. matrimonio omosessuale, di cui abbiamo già parlato (v. qui).

Francisco de Zurbarán, S. Elisabetta del Portogallo, 1635 circa, Museo del Prado, Madrid

José Gil de Castro, S. Elisabetta del Portogallo, 1820, Museo de Arte Colonial de San Francisco, Santiago del Cile

Realismo e volontarismo. Cosa c’è alla base di una sentenza assurda

La sentenza del 26 giugno 2015 della Corte Suprema Americana sul cosiddetto “matrimonio” tra omosessuali rappresenta una vittoria dell’irrazionalismo volontarista. Si immagina la vita come regolata dalla volontà; ma la volontà, privata della guida della ragione, viene snaturata nella sua stessa essenza, privata del suo fine e ridotta a delirante strumento dell’opposto del suo scopo…

di Carlo Manetti

La sentenza di venerdì 26 giugno scorso della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ripropone, in maniera tragica, il tema dello scontro tra il realismo razionale e l’irrazionalismo volontarista. Se, a prima vista, essa appare (confronta articolo) come l’ultima battaglia, anche se, oggettivamente, la più importante, della guerra tra la concezione testualista ed originalista (il diritto e, soprattutto, la Costituzione dicono ciò che dicono, indipendentemente dagli interessi materiali ed ideologici delle parti in causa) e quella ideologica del diritto (la Costituzione ha indicato un modello ideologico, una via, in continua evoluzione, e tocca all’interprete e, quindi, in primo luogo al giudice interpretare e, se del caso, forzare il diritto fino a renderlo docile strumento attuativo dell’ideologia), questa lotta ne sottende un’altra più antica e più generale: quella tra la natura e la volontà.
Da sempre, le concezioni del diritto e, conseguentemente, della legge si possono raggruppare due grandi filoni: quello, lato sensu, giusnaturalista e quello, lato sensu, giuspositivista. Il giusnaturalismo è l’applicazione al diritto della filosofia realistica, mentre il giuspositivismo è la branca giuridica della filosofia volontarista.
La lettura realistica della realtà (altro modo di definire la filosofia realistica) è un’ovvietà, quasi una tautologia, come il bisticcio di parole che la esprime significa molto bene: la realtà è ciò che esiste “realmente”, vale a dire in sé e non solo nel pensiero del soggetto che la pensa. Risulta, quindi, ovvio che un pensiero, per essere realistico, veritiero e non illusorio, deve rappresentare in maniera fedele il suo oggetto; il compito del pensiero è, pertanto, eminentemente passivo: il pensiero è come una pellicola fotografica, che si deve lasciare impressionare dalla luce, con la conseguenza che maggiore è la sensibilità (e, dunque, la profondità) del pensiero e maggiore sarà la sua fedeltà al reale. Lo stesso processo astrattivo, che permette di passare dalla conoscenza sensibile dei fenomeni a quella razionale dei concetti, non è altro che un riconoscimento più profondo della realtà: una fotografia fatta con una pellicola molto più sensibile, nel paragone precedente.
La filosofia realistica non è altro che il riconoscimento del fatto che esiste una realtà e che compito dell’uomo, in quanto essere razionale, è quello di conoscerla e, conseguentemente, prendere atto, anche nel comportamento, della realtà conosciuta. Questo compito non è solo doveroso, ma anche possibile. La ragione umana è comune a tutti gli uomini e, qualora non sia intaccata da patologie e/o da incrostazioni ideologiche, procede nella medesima maniera in tutti gli uomini.
Esistono, però, correnti di pensiero che si oppongono a tanta linearità. Il punto di partenza è la passività del processo astrattivo: esso è passivo, semplice acquisizione della realtà, solo se esistono realmente gli universali, vale a dire le realtà di cui i concetti, che, con tale processo, la mente acquisisce, sono rappresentazione. La teoria che ne nega l’esistenza e li riduce a semplice flatum vocis si chiama, appunto, nominalismo. La sua prima conseguenza è l’eliminazione del concetto stesso di natura.
Natura ed universale coincidono[1]. Ridurre gli universali a semplici nomi o, come fa, genialmente, quanto improvvidamente, Abelardo[2] (1079-1142), a concetti, privi di una loro esistenza reale, significa ridurre la natura all’insieme delle caratteristiche accidentalmente comuni a più individui, riuniti in un insieme arbitrariamente deciso dal classificatore.
L’eliminazione del concetto di natura apre la strada a tutte quelle dottrine note, nel loro complesso, con il nome di Volontarismo. Se non esiste una natura, ma esistono solo enti singoli, all’essere umano è preclusa ogni conoscenza veramente scientifica, essendo stata completamente eliminata ogni forma di metafisica. Essendo, così, eliminato il suo stesso fine, vale a dire la conoscenza della verità, la ragione tende a perdere quasi ogni valore. Si immagina la vita come regolata dalla volontà; ma la volontà, privata della guida della ragione, viene snaturata nella sua stessa essenza, privata del suo fine e ridotta a delirante strumento dell’opposto del suo scopo.
Negli animali l’istinto è perfetto, in quanto non è stato creato per sottomettersi a null’altro che a se stesso. Negli uomini, invece, gli istinti non hanno la perfezione e l’impermeabilità che posseggono negli animali, poiché debbano essere governati ed incanalati dalla ragione. L’anima razionale dell’uomo deve governare tutto l’essere umano e, quindi, gli istinti umani sono fatti per essere governati dalla ragione e, dunque, necessitano della guida razionale per raggiungere il loro grado di perfezione. La volontà è lo strumento attraverso il quale la ragione conduce gli istinti a servire le finalità che ella determina; la volontà è la determinazione dell’uomo a perseguire le finalità della sua anima razionale.
Risulta di ogni evidenza che, senza le finalità prodotte dalla ragione, la volontà non ha uno scopo verso cui indirizzare gli istinti. La gravità dell’irrazionalismo volontarista sta proprio qui: la volontà – che per natura non ha fini propri, ma attua fini che le vengono dalla ragione – nel momento in cui la ragione non esercitasse più la sua guida, si troverebbe, inesorabilmente, a dover obbedire agli istinti, con un assoluto e totale ribaltamento delle gerarchie all’interno della persona. Questo è quanto affermato da Sigismund Schlomo Freud (1856-1939), attraverso il concetto di inconscio: l’inconscio, che per Freud è, di fatto, sempre subconscio (vale a dire istinti), governa la ragione, che finge di dare ordini alla volontà, ma, in realtà, esegue gli ordini degli istinti.
Il volontarismo, normalmente, tenta di coprire questo ribaltamento, evitando spiegare che cosa intenda per volontà ed esaltando termini quali «sentimenti», «passioni»… Si giunge persino a parlare di «dedizione», senza, ovviamente, specificare a chi o a cosa.
Il volontarismo nasce in ambito teologico, come estrema esaltazione dell’onnipotenza della libertà di Dio. Si afferma che Dio non può essere limitato dalla ragione, altrimenti la ragione sarebbe più grande di Dio; se ne deduce che di Dio noi possiamo conoscere ed apprezzare unicamente la volontà; fino a ridurre Dio a pura volontà. L’ovvia conseguenza di ciò è l’assoluta inconoscibilità di Dio, nella sua ontologia, ed il rifiuto di ogni esame razionale sia della Fede che della morale. Questa visione si adatta perfettamente all’Islam, come ha molto ben chiarito il persiano Abu Hāmid Mohammad ibn Mohammad al-Ghazālī (1058-1111), forse il più grande teologo islamico.
Il volontarismo teologico trova la sua massima espressione nella cosiddetta «teologia afasica»[3], che nega che di Dio si possa dire alcunché. Queste teorie hanno avuto una certa penetrazione anche nel Cristianesimo, soprattutto nel tentativo di esaltare la trascendenza divina, contro le riduzioni della Fede a pura filosofia.
Il volontarismo lascia qualche traccia in alcuni settori della teologia francescana, a partire da Giovanni Duns Scoto (1265-1308), che esaltava la superiorità della volontà rispetto alla conoscenza. La teologia francescana ha condotto una durissima lotta contro l’intellettualismo all’interno del Cattolicesimo, esaltando sempre la dimensione mistica ed il rapporto amoroso con Dio. È in questo senso che vanno intese le parole di Duns Scoto, geniale complesso teologo, che, però, è stato portato alle sue estreme conseguenze e, forse, stravolto da Guglielmo d’Occam (1285-1347), il vero fondatore del volontarismo teologico in seno al Cristianesimo. Occam separa in senso assoluto Fede e ragione, disprezzando ogni tentativo razionale di comprensione.
Dal volontarismo teologico, il passo verso il volontarismo gnoseologico è breve: se Dio non è razionale e, conseguentemente, non è razionalmente comprensibile, nemmeno il creato è comprensibile attraverso la ragione. La conseguenza è l’impossibilità di comprendere il mondo circostante, gli altri uomini e, in ultima analisi, se stessi. Il vuoto, lasciato dall’eliminazione della ragione del suo ruolo, viene riempito dalla sovra esaltazione di tutto ciò che non è razionale: passioni, sentimenti, istinti, potere…
Sul piano della filosofia politica, il passaggio dal volontarismo teologico a quello gnoseologico e politico avviene con l’Illuminismo, anche se vi sono tentativi che lo precedono, quali, ad esempio, la scuola giuridica gallicana di Marsilio da Padova (1275-1342), Niccolò Machiavelli (1469-1527) o tutto il contrattualismo inglese seicentesco; ma nessuno di questi precursori raggiunge la completa coerenza dell’irrazionalismo della filosofia dei Lumi. L’Illuminismo è, dottrinalmente, la completa negazione della capacità della ragione di conoscere il vero e, conseguentemente, è la dottrina (rectius l’insieme delle dottrine) che porta a più completo compimento il volontarismo.
Con la filosofia realistica, la politica è parte dell’etica e l’etica discende dalla conoscenza della realtà, attraverso la ragione. La politica è, quindi, subordinata al diritto naturale, discende dall’etica naturale, che, a sua volta, deriva dalla natura stessa dell’uomo. Il fine della politica è il bene comune, vale a dire l’applicazione alla situazione concreta del diritto naturale, che, rispecchiando, come abbiamo detto, la natura umana, fa il bene dei singoli e delle comunità, che, in ultima analisi, coincidono.
Con il volontarismo e, in modo particolare, con l’Illuminismo, è l’attuazione della volontà del detentore del potere politico; tale volontà diviene bene per definizione e, quindi, tanto i singoli quanto le comunità debbono piegarsi ad essa.
Sul piano più squisitamente giuridico, la filosofia realistica conduce al giusnaturalismo, vale a dire alla diretta applicabilità del diritto naturale quale norma, diremmo con linguaggio contemporaneo, «di rango sovra costituzionale», con la conseguenza che una legge che dovesse violare il diritto naturale non sarebbe, già sul piano giuridico, una legge, bensì un crimine sotto le mentite spoglie di norma. In quest’ottica, non esiste differenza concettuale tra le norme interne di un’organizzazione criminale e, ad esempio, la nazista «Soluzione Finale» o la legge 194 del 1978 per la legalizzazione dell’aborto in Italia.
Con il volontarismo, invece, come abbiamo visto, non esiste nessun diritto superiore alla volontà del legislatore (o del detentore del potere politico che dir si voglia), con l’ovvia conseguenza che, negli esempi fatti sopra, la «Soluzione Finale» o la legge 194 del 1978 divengono leggi vigenti, con l’obbligo giuridico di osservarle.
Ecco che, in quest’ottica, chiunque si trovi nella materiale possibilità di farlo può imporre al resto dei consociati ogni suo capriccio. Ecco che la Corte Suprema degli Stati Uniti può imporre che in tutta l’Unione la volontà di due persone del medesimo sesso di consumare stabilmente ripetutamente rapporti contro natura debba essere definita «matrimonio»[4], qualora ottenga il timbro governativo.

[1] Quando usiamo il termine «universale», sottolineiamo l’aspetto concettuale di questa realtà; quando, invece, usiamo il termine «natura», sottolineiamo l’aspetto ontologico della medesima realtà.

[2] Vedi articolo.

[3] dal verbo greco φημί (femì), che significa «parlare», preceduto dall’α, cosiddetto «privativo», che nega il significato della parola che lo segue.

[4] L’etimologia della parola matrimonio rende queste affermazioni pseudo giuridiche ancora più ridicole. «Matrimonio» deriva dall’unione delle parole latine mater (madre) e munus (compito, dovere); il matrimonio è, quindi, la situazione giuridica che permette alla donna di compiere il suo dovere di madre, cioè di mettere al mondo dei figli legittimi.

Pietro Abelardo, precursore dell’irrazionalismo modernista

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Nella memoria di Santa Veronica Giuliani e dei Santi martiri di Gorcum, rilancio questo contributo di Carlo Manetti, ideale continuazione del saggio postato ieri.


Michele Zammattei, S. Veronica Giuliani, 1851, Museo diocesano, Rovigo




Jean-Baptiste Nolin ispirato da un dipinto di Johan Zierneels, Apoteosi dei martiri di Gorcum, 1675, Rijksmuseum Amsterdam 

Premessa: questo breve saggio di Carlo Manetti è il necessario sviluppo della nota n. 2 all’articolo “Realismo e volontarismo. Cosa c’è alla base di una sentenza assurda", dello stesso Autore.

Pietro Abelardo, precursore dell’irrazionalismo modernista

di Carlo Manetti

Pietro Abelardo (1079-1142), anche detto Pietro Palatino, monaco, filosofo, teologo e compositore, divenne famoso per la storia d’amore con Eloisa (1099-1164), più che per il suo genio filosofico; si può, però, pensare che le due cose non siano del tutto scollegate e, anzi, possano essere entrambe conseguenza della sua debolezza etica, come egli stesso scrive nella «Historia calamitatum mearum», vale a dire nella sua autobiografia: «la ricchezza insuperbisce sempre gli stolti, le sicurezze terrene indeboliscono il vigore dell’animo, che si fa poi facilmente adescare dalle lusinghe dei sensi … la pietà divina mi richiamò a sé, umiliandomi perché ero superbissimo e avevo dimenticato che tutte le qualità di cui mi vantavo non mi appartenevano, ma erano doni divini».
Abelardo fu certamente dotato di genio filosofico non comune, di una capacità argomentativa e logico-razionale d’eccezione, di un eloquio fluente e di un fascino personale enorme… Ciò che gli è sempre mancato è stata la capacità di concentrarsi sull’oggetto, invece che sulla propria persona: il passo della sua autobiografia citato non è solo e tanto il riconoscimento dei suoi peccati contro il sesto comandamento, ma l’analisi, finalmente lucida, del suo approccio all’intera esistenza.
L’importanza di Abelardo non risiede tanto nelle conclusioni filosofiche e teologiche a cui giunse, nella loro stragrande maggioranza dubbie, quando non palesemente erronee, ma nella modalità argomentativa, totalmente razionale e scevra da ogni principio di autorità. Secondo alcuni, egli anticipa, così, la Scolastica, proprio per la centralità della ragione umana come strumento cognitivo. Ci permettiamo, però, di osservare che questo approccio, non mitigato, come invece sarà nella Scolastica, dalla sottomissione aristotelica del soggetto all’oggetto da indagare e da conoscere, aprirà, piuttosto, la strada al soggettivismo moderno e contemporaneo. L’assolutizzazione della ragione umana, in Abelardo, come in tutto il pensiero moderno, si traduce, di fatto, in una assolutizzazione del pensiero del soggetto e, quindi, del proprio pensiero: la ragione cessa di essere lo strumento attraverso il quale si raggiunge la verità, per divenire il mezzo di affermazione dell’esaltazione del soggetto, quasi indipendentemente dai contenuti delle proprie affermazioni.
Quanto il soggettivismo di Abelardo sia precursore del pensiero contemporaneo lo dimostra la sua posizione circa il rapporto tra ragione e Rivelazione. Tutta l’accettazione della filosofia e, conseguentemente, della ragione, come strumento conoscitivo, dopo le resistenze e l’ostilità presente nei primi secoli del cristianesimo ed anche in alcuni Padri della Chiesa, è basata sul duplice principio secondo il quale la ragione aiuta la Fede, rendendo più facile credere, e la Fede aiuta la ragione, illuminandola e, quindi, rendendo l’uomo più ragionevole e, addirittura, più razionale, perché lo avvicina alla completezza della Verità. Come si vede, in quest’ottica, la verità è concepita come oggettivamente esistente, indipendentemente dalla sua conoscenza da parte del soggetto; è l’uomo (ogni singolo uomo) che, essendo un essere razionale, ha il dovere di conoscerla. In quest’ordine di idee, ciascuna persona umana ha il dovere di credere tutto ciò che sente come vero, indipendentemente dalla sua capacità di comprenderlo, poiché, come si diceva, la verità è oggettiva e non dipende in alcun modo dal soggetto pensante.
Per Abelardo, invece, «nulla deve essere creduto, se non è stato prima capito», come egli stesso soleva affermare. Questo approccio, prima ancora di escludere tutta la parte sovrarazionale della Fede, sposta il focus della conoscenza dall’oggetto al soggetto: tutto ciò che non è capito dal soggetto e, quindi, da lui posseduto deve essere rifiutato; e la comprensione del soggetto che crea in lui l’obbligo di adesione, non l’oggettiva veridicità. Questo modo di ragionare antepone il dominio del soggetto sull’oggetto alla effettiva esistenza di questo.
Fondamentale ed emblematica, al tempo stesso, dell’approccio abelardiano è la sua posizione sugli universali. La questione era se i termini universali, che sono riferibili ad una pluralità di enti particolari e, quindi, distinguono ciascuno di essi da tutti gli enti che di tale pluralità non fanno parte, indichino una realtà oppure no; e, se non indicano nessuna realtà esistente, che cosa sono. Da un lato, si collocano i realisti, che affermano esistere una realtà oggettiva (natura) sottostante agli universali; mentre, dall’altro, si pongono i nominalisti, i quali sostengono essere gli universali unicamente flatus vocis, vale a dire il nome che viene dato collettivamente ad un insieme di enti arbitrariamente accorpati.
Abelardo ritiene di poter risolvere la questione con un colpo di genio, vale a dire trovando una soluzione intermedia rispetto a quelle proposte e, allo stesso tempo, accomunare entrambi i contendenti nel medesimo errore. Sia i realisti, concependolo come entità metafisica, sia i nominalisti, intendendolo come puro flatus vocis, danno all’universale lo status di cosa; Abelardo, invece, ritiene che gli universali non siano cose reali, ma unicamente concetti, discorsi.
La tesi concettualista, di fatto, altro non è che una forma di nominalismo: se gli universali non sono altro che l’illustrazione delle caratteristiche comuni agli enti di un determinato gruppo, caratteristiche che li distinguono da quelli che di tale gruppo non fanno parte, significa che gli universali non hanno una loro esistenza reale e che gli unici ad esistere sono i singoli enti. Definire gli universali semplici nomi o, in maniera più complessa ed articolata, concetti o, addirittura, discorsi (insieme di concetti concatenati) è, di fatto, la medesima cosa.
La posizione abelardiana sugli universali è emblematica di tutto il suo approccio alla filosofia: centrale non è la tesi sostenuta, ma la genialità del filosofo che la esprime e del modo in cui la esprime. Questo ha, come conseguenza, l’immaginaria creazione di una terza via tra le tesi contrapposte, quando, invece, se ne sposa appieno una, sia pur esprimendola con diverso argomentare. A ciò consegue, ulteriormente, il fatto che le tesi abelardiane appaiano come posizioni più moderate e, quindi, più facilmente accettabili, anche quando sposano, come nel caso di specie, totalmente una dottrina erronea.
Per rafforzare quest’idea di distinzione dalla tesi erronea, de facto, sostenuta, Abelardo, come poi faranno i modernisti otto e novecenteschi, attacca le idee da cui vuole marcare la distanza. Egli, ad esempio, accusa i nominalisti di «triteismo», poiché, se gli universali non fossero altro che nomi, Dio, in quanto Trinità, cioè universale delle singole Persone Divine, non esisterebbe e, quindi, ciascuna delle singole Persone Divine sarebbe un dio a sé stante. È palese che la medesima accusa può essere rivolta alla dottrina concettualista, ma questo attacco serve ad Abelardo ed alla sua tesi per presentarsi come qualche cosa di conforme alla dottrina cattolica.
Anche in campo etico, il suo soggettivismo si manifesta come anticipatore delle correnti moderniste. Sottolineando, correttamente, come non possa esserci peccato senza il consenso della persona agente, svaluta l’oggettiva bontà o malvagità delle azioni. Di qui, una svalutazione del ruolo della Grazia: se l’importante è la buona intenzione, questa è possibile all’uomo anche naturalmente, senza necessità di un intervento soprannaturale di Dio. Tutta la teologia della Grazia, come necessaria per compiere le azioni buone e per resistere alle tentazioni, viene, così, distrutta dalla svalutazione del ruolo delle azioni, in definitiva non decisive per la salvezza. Qui l’anticipazione della deriva morale seguita alla Nouvelle Théologie ed al Concilio Vaticano II è impressionante; si pensi alle aperture del sinodo sulla famiglia, basate sul principio che l’amore (Abelardo avrebbe parlato, più profondamente e più intelligentemente, di retta intenzione) rende buona ogni azione.
Possiamo certamente affermare che Abelardo sia stato uno dei più importanti esponenti del pensiero occidentale, soprattutto per la sua sorprendente anticipazione della modernità e della contemporaneità, intese non in senso cronologico, quanto in senso contenutistico. Il grandioso castello filosofico costruito dalla Scolastica e, in modo particolare, da San Tommaso d’Aquino ha, per secoli, arginato l’influsso di Abelardo, che, però, ha dispiegato tutta la sua potenza quando il pensiero occidentale ha abbandonato la razionalità aristotelico-tomista.

Moreno, il presidente che mise Gesù nella Costituzione

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Mentre sta volgendo a termine l’ultima tappa del viaggio apostolico del vescovo di Roma in terra sudamericana, non possiamo non ricordare chi, nel corso della tappa papale in Ecuador, è stato del tutto dimenticato, forse perché scomodo anche alla Chiesa attuale: il presidente martire, che volle che il suo Paese fosse consacrato al sacro Cuore di Gesù, Gabriel Gregorio García y Moreno y Morán de Buitrón, ucciso per mano dell’empia Massoneria (v. qui).


Immagine del sacro Cuore a cui il Presidente Moreno consacrò l'Ecuador e che fu intronizzato nella sede del Parlamento. Basilica del Voto Nazionale, Quito

Analogamente non possiamo non ricordare mons. José Ignacio Checa y Barba, arcivescovo di Quito, grande sostenitore del presidente Moreno e morto pur egli martire, in quanto avvelenato con il calice durante i riti del Venerdì Santo del 1877.



In loro ricordo e nella memoria liturgica del santo papa martire, fratello di Erma (l’autore del “Pastore”), san Pio I, rilancio questo breve saggio di Rino Cammilleri.

Moreno, il presidente che mise Gesù nella Costituzione

di Rino Cammilleri

Nella sua visita in Ecuador Sua Santità Francesco ha elencato i santi e i beati nazionali ecuadoregni ma ha tralasciato, ad avviso di chi scrive, una figura importante, un personaggio che vanta addirittura una sua statua a Roma, nel Collegio Ispanico. Si tratta di Gabriel Garcìa Moreno (1821-1875), che fu presidente della Repubblica ecuadoriana per ben due volte, dal 1861 al 1865 e dal 1869 fino alla morte. Certo, si tratta di un laico e non ancora Beato (anche se la sua causa presso la Congregazione  dei Santi è aperta). Il Pontefice ha preferito nominare Marianna De Jesùs, Miguel Febres, Narcisa de Jesùs e Mercedes de Jesùs Molina, tutti religiosi e tutti canonizzati o beatificati. Insomma, forse una scelta precisa, quella di Francesco, nel quadro di un discorso pastorale mirato. 

Allora lo ricordiamo qui, quel presidente. Sì, perché non si tratta di un presidente qualsiasi, bensì dell’unico che sia riuscito a introdurre come Preambolo nella Costituzione del suo Paese l’Atto di Consacrazione al Sacro Cuore  di Gesù. Quando, nel 1985, san Giovanni Paolo II visitò l’Ecuador e rinnovò quella Consacrazione, la formula usata da Wojtyla fu proprio quella del 25 marzo 1874, pronunziata a suo tempo dall’allora arcivescovo di Quito, monsignor José Ignacio Checa. Ve l’immaginate, nel secolo delle rivoluzioni liberali, una Repubblica Democratica col Sacro Cuore campeggiante nella Costituzione? Intollerabile per i “lumi” e i “patrioti” di tutto il mondo conosciuto. Infatti, Moreno venne assassinato il 6 agosto dell’anno seguente, a pugnalate, mentre usciva dalla messa nella cattedrale (messa cui usava assistere ogni mattina all’alba prima di andare al lavoro). L’arcivescovo Checa lo seguì due anni dopo, ingerendo nel Venerdì Santo un’ostia consacrata che qualcuno aveva provveduto ad avvelenare.

Moreno, avvocato, giornalista e politico, apparteneva a un’illustre famiglia e aveva viaggiato in Europa, dove aveva studiato le lingue e i sistemi politici. In patria, una volta eletto, aveva intrapreso con successo una vasta campagna di modernizzazione e moralizzazione economica. Con lui l’Ecuador era diventato in breve tempo uno dei Paesi più prosperi del Sudamerica: strade, ferrovie, scuole, ospedali. L’osservatorio astronomico di Quito divenne uno dei più importanti del mondo, l’esercito fu addestrato da istruttori prussiani, il voto fu esteso agli indios, i salari aumentati e le tasse ridotte. Ma i Lumi, come si è detto, non potevano sopportare che il boom del Paese fosse dovuto a un Presidente che aveva –orrore!- richiamato i gesuiti (regolarmente cacciati da chi l’aveva preceduto) e affidato loro le scuole superiori, che portava personalmente la Croce nelle processioni solenni (e pure paludato con le insegne della sua carica), che aveva –unico al mondo- protestato ufficialmente per l’invasione piemontese di Roma e, per giunta, inviato al b. Pio IX un risarcimento simbolico in denaro. La goccia che fece traboccare il vaso liberale fu, lo abbiamo visto, la Consacrazione al Sacro Cuore diventata –horribile dictu!- Preambolo della Costituzione. 

I liberali di quel secolo andavano per le spicce, alla mazziniana, e Moreno fece la fine di Pellegrino Rossi (il ministro delle finanze di Pio IX, assassinato sulle scale della cancelleria nel 1848). Però aveva dimostrato che un politico cattolico (di fatto, non di solo battesimo come quelli nostri attuali) poteva battere tutti per quanto riguardava buona politica e traguardi economici. Scomparso lui, l’Ecuador tornò alle sue guerre civili, colpi di Stato e miseria. Moreno era la confutazione vivente delle fandonie laiciste sull’”oscurantismo” e l’”arretratezza” di una Nazione che esalta le sue radici cattoliche e, anzi, se ne vanta. Una testimonianza concreta, infatti, vale più di ogni proselitismo. Come non si stanca di ripetere papa Francesco.

In memoriam del card. Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna (Milano, 13 giugno 1928 – Bologna, 11 luglio 2015)

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Euge serve bone et fidelis ... intra in gaudium Domini tui .... 






Ultime foto del compianto cardinale lo scorso 13 giugno, in occasione del suo compleanno. Anche nella malattia ci teneva al suo abito ed alla sua dignità sacerdotale ed episcopale, non amando vestirsi con abiti laici. Sacerdote e vescovo sino in fondo

Il Signore non ci ha detto: Predicate il Vangelo a ogni creatura tranne i musulmani, gli ebrei e il Dalai Lama (Card. Biffi, a. 2000)

Non dobbiamo temere tanto i cattolici non praticanti, quanto i praticanti non cattolici

Mi accusano di essere preconciliare, ma poi mi consolo, sapendo che lo era pure Gesù

Si può allora anche dire che tutte le religioni hanno del buono, e che tra esse si può scegliere a proprio gusto come si sceglie un libro da leggere o una musica da ascoltare. Si può dirlo, purché non si dimentichi che il cristianesimo è un'altra cosa: il cristianesimo è un fatto, e i fatti non si scelgono, «sono». Include ovviamente delle idee circa la divinità, delle norme etiche, dei riti, conte tutte le religioni; ma primariamente e per sé è un avvenimento, e come tale è unico e imparagonabile (Card. Biffi, a. 1995).

Ho pregato il santo (San Petronio, il patrono di Bologna) di far capire ai bolognesi che mangiare i tortellini con la prospettiva del paradiso, della vita eterna, rende migliori anche i tortellini, più che mangiarli con la prospettiva di andare a finire nel nulla.

Troppe parole di Gesù oggi risultano censurate dalla cristianità; almeno dalla cristianità nella sua parte più loquace.


Per alcuni suoi interventi magisteriali, v. qui

L’ottimismo è di rigore. Parola del card. Biffi

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Nelle prime ore del giorno dell’11 luglio scorso, quando ancora era buio, si è addormentato nel Signore il card. Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna (v. qui e qui).
La notizia era già data da noi nella giornata di ieri. Si sono, quindi, succeduti i ricordi di chi ha sottolineato come fosse un grande italiano (v. qui) e la sua esistenza fosse stata interamente cristocentrica (v. qui e qui), corroborata da una fede incrollabile (v. qui): «formidabile crociato anticonformista di una Chiesa che non c’è più» l’ha definito Giuliano Ferrara (v. qui). Il compianto cardinale era uno che aveva saputo leggere davvero i segni dei tempi (v. qui), fautore di un cattolicesimo vivace, capace di entusiasmare i fedeli e di sfidare senza timidezza la “mentalità mondana” (v. ad es. qui).
In suo ricordo, nella memoria liturgica di San Giovanni Gualberto, abate, e dei Santi martiri Nabore e Felice, rilancio questo contributo di Chiesa e post concilio.


Maestro di Marradi, S. Giovanni Gualberto, XV sec., Museo diocesano, Faenza

Alessandro Allori, Miracolo del grano di S. Giovanni Gualberto, 1603, Museo di Palazzo Pretorio, Prato


Anonimo, S. Giovanni Gualberto, XVIII sec., Philadelphia Museum of Art, Philadelphia

Giuseppe Sanmartino, S. Giovanni Gualberto, 1773-1790, Cattedrale di San Cataldo, Taranto

È morto nella notte a Bologna il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003. Ne dà notizia la diocesi bolognese. Aveva 87 anni e da tempo era ricoverato in una clinica bolognese dove, attorno alle tre, è morto. Requiem aeternam ...

Vidi salire dal mare una bestia” (Ap 13,1)

L’ottimismo è di rigore.


Una delle mode culturali più curiose invalse nella cristianità in questi decenni interdice a chi si accinge a stilare un documento o proporre una riflessione sulla odierna condizione umana e sui tempi presenti di iniziare dai rilievi “negativi”: è d’obbligo partire da una rassegna dei dati improntata a un robusto ottimismo; bisogna sempre collocare in capo a tutto un esame della realtà che non tralasci di mettere in giusta luce i valori, la sostanziale santità, la “positività prevalente”.
Qualche volta mi sorprendo a immaginare, per mio personale divertimento, come sarebbe stata la lettera ai Romani se, invece che da quell’uomo difficile e sdegnoso che era l’apostolo Paolo, fosse stata stesa da qualche commissione ecclesiale o da qualche gruppo di lavoro dei nostri giorni.
L’epistola avrebbe cominciato a notare nel primo capitolo col dovuto risalto tutte le ricchezze spirituali e culturali espresse dal mondo pagano: le altezze sublimi raggiunte dalla filosofia greca; la sete del trascendente e il naturale senso religioso rivelati dalla molteplicità dei culti mediterranei; gli esempi di onestà morale, di correttezza civica, di abnegazione disinteressata, offerte dalle vicende edificanti della storia romana che una volta si insegnavano al ginnasio. Senza dubbio se la litanìa immisericorde dei vizi e delle aberrazioni mondane contenuta nell’attuale pagina ispirata, fosse suggerita oggi come contributo al testo da qualche incauto collaboratore, susciterebbe una concorde indignazione. E in realtà il giudizio di Paolo suona alle nostre orecchie insopportabilmente sgradevole: per lui gli uomini senza Cristo sono “colmi di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia” (Rm 1,29-31).
Messi in bella evidenza i pregi del paganesimo, la nuova lettera ai Romani passerebbe poi a esaltare le prerogative dell’ebraismo e la funzione già incoattivamente salvifica della Legge mosaica, della circoncisione, delle prescrizioni rituali.
Infine, arrivata al capitolo quinto, chiarirebbe che l’opera di Adamo non è stata poi così nefasta come una volta si diceva, dal momento che la creazione resta in se stessa buona; anzi in quanto è uscita dalle mani di Dio non può non essere già santa e sacra, senza che siano necessarie altre sopravvenienti consacrazioni.
Certo, a questo punto il discorso su Gesù Cristo, la sua redenzione, il suo intervento indispensabile per il riscatto dell’umanità dall’ingiustizia, dal peccato, dalla morte, dalla catastrofe, diventerebbe meno incisivo e convincente di quanto non sia nella prosa scabra e drammatica di Paolo; ma non si può avere tutto.
Non è che i ragionamenti qui giocosamente ipotizzati siano del tutto erronei in se stessi. Al contrario, contengono molta verità e vanno doverosamente compiuti, ma non come primo approccio alla realtà delle cose. Da essi non si può partire; ad essi si può solo approdare al termine di un lungo pellegrinaggio ideale: soltanto dopo che la visione della spaventosa miseria dell’uomo ci avrà aperto la mente e il cuore a desiderare e a capire la sospirata salvezza di Cristo, ci sarà consentito di apprezzare tutto quanto di bello, di giusto, di vero, riluce già nella notte del mondo, come riverbero del Redentore, che è la verità, la giustizia, la bellezza rese persona e divenute percepibili in un volto d’uomo.
Ogni autore cristiano ha sempre avviato il suo canto da un’ode tragica sull’umano destino per arrivare all’inno di vittoria e di gratitudine al Figlio di Dio crocifisso e risorto, unica nostra speranza, che solo ci ha ottenuto la salvezza.
L’uomo, che voglia celebrare veramente la propria grandezza, non può che principiare da un “epicèdio”, cioè da una lamentazione sullo stato di morte che enigmaticamente dall’inizio ha colpito l’universo e lo serra ancora in una morsa ineludibile.
Il fondamento dell’ottimismo cristiano non può essere la volontà di tener chiusi gli occhi. Bisogna per prima cosa guardare in faccia alla “Bestia” e renderci conto di quanto siano aguzzi i suoi denti e terrificanti i suoi artigli, se si vuole onorare e amare il “Cavaliere”, e si desidera capire davvero quale dono sia la nostra liberazione e la felicità che ci è stata assegnata in sorte.

(Giacomo Biffi, La Bella, la Bestia e il Cavaliere. Saggio di teologia inattuale, JACA BOOK 1984)

“Divíni amóris flamma succénsus, erga Christi Dómini passiónem, quam júgiter meditabátur, ac Deíparam Vírginem, cui se totum devóverat, singulári ferebátur pietátis afféctu; quem in áliis étiam verbo et exémplo excitáre, scriptísque opúsculis augére summópere stúduit. Hinc illa morum suávitas, grátia sermónis et cáritas in omnes effúsa, qua singulórum ánimos sibi arctíssime devinciébat” (Lect. V – II Noct.) – SANCTI BONAVENTURÆ, EPISCOPI ALBANENSIS, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS

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Il posto che occupa questo umile figlio di san Francesco nel cielo dei Dottori ecclesiastici, è quello d’un astro luminoso di suprema grandezza. Tutto l’edificio della teologia scolastica, tocca infatti il suo vertice in san Tommaso e in san Bonaventura, dopo dei quali la Scuola non farà quasi altro che seguirne, spiegarne e difenderne le posizioni. Dopo l’ardito movimento ascensionale sulle vette più inaccessibili della metafisica cristiana e della Teologia rivelata, i discepoli
dell’Angelico e del Serafico consacreranno buona parte delle loro energie nel mantenere il deposito sacro loro affidato.
Già i contemporanei unirono Tommaso e Bonaventura in un medesimo sentimento di viva ammirazione. Dopo la loro morte, il loro culto procedé di pari passo e parimenti congiunto, e Dante nel paradiso pone i suoi più bei cantici così sul labbro dell’Aquinate, che su quello di Giovanni Fidanza da Bagnoregio, detto poi Bona Ventura.
Eppure, questi due Sommi Dottori, che hanno fra loro tanti punti di contatto, ne hanno però degli altri per cui differiscono profondamente.
Tommaso rimase per tutta la sua vita l’uomo della cattedra scolastica e della placida speculazione; mentre invece Bonaventura accusa una più viva forza di sentimento, e riesce perciò anche all’azione ed al governo dei popoli.
Il Fidanza, infatti, era ancor giovane, quando venne elevato all’ufficio di Ministro Generale del proprio Ordine, lacerato allora dalle intestine discordie promosse dagli Spirituali.
Il Santo però, con quello spirito temperato di discreta prudenza, che tra due estremi fa subito vedere il giusto mezzo da seguire, seppe imporsi tanto ai rilassati che ai rigoristi, e salvò così la famiglia Francescana da uno scisma, che l’avrebbe condotta ad irreparabile rovina.
San Bonaventura, che nel 1273 era stato creato cardinale e vescovo di Albano da Gregorio X, mori l’anno dopo il 15 luglio a Lione, mentre vi si celebrava il Concilio Ecumenico.
I suoi funerali furono un trionfo, e col Papa vi prese parte l’intera assemblea. Tenne l’orazione funebre il cardinal Pietro da Tarantasia, futuro Innocenzo V, il quale esordì con le parole di David: Doleo super te, frater mi, Jonatha.
La messa è del Comune dei Dottori, come il 29 gennaio, tranne le parti seguenti: il versetto alleluiatico è quello del giorno di sant’Ambrogio, il 7 dicembre; l’antifona dell’offertorio è come il giorno 5 aprile. Tutto il resto, invece, è identico alla messa di san Leone Magno, il 28 giugno.
San Bonaventura è il vero rappresentante della scuola ascetica francescana, la quale ha popolarizzato fra il popolo una commovente devozione verso l’umanità santissima del Redentore. Quando san Bonaventura scrive sulla passione del Signore e sui pregi della Beatissima Vergine, il suo stile si riscalda e la sua penna spande un’unzione tutta serafica su quelle linee.
Sisto IV, canonizzando san Bonaventura nel 1482, ordinò che la sua festa nella basilica dei Santi Apostoli venisse considerata come una solennità del Sacro Palazzo Apostolico. Più tardi, venne dedicata, nella seconda metà del XVII sec., al Santo anche una chiesa ed un convento sul Palatino, appunto San Bonaventura al Palatino, nel rione Campitelli.
Altra chiesa fu edificata nel rione Trevi, tra la Fontana di Trevi e la Pontificia Università Gregoriana: Santa Croce e San Bonaventura dei Lucchesi. Questa chiesa, edificata alla fine del ‘600 su una precedente (San Nicola de Portiis o de Porcis o de Trivio o in porcilibus) era affidata ai cappuccini (Cfr. Mariano ArmelliniLe chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 261; Ch. HuelsenLe Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, pp. 407-408).
In seguito fu data ai Lucchesi (ibidem, p. 408) ed, infine, alla Società di Maria Riparatrice, conservandosi all’interno dell’edificio sacro le spoglie della beata Émilie d’Oultremont de Warfusée, in religione Maria di Gesù, vissuta nel XIX sec.
Nel quartiere Torre Spaccata, nel 1999, è stata consacrata una chiesa dedicata al nostro Santo, che era stata eretta in parrocchia nel 1974 ed affidata ai Frati Minori conventuali.

Domenico Antonio Vaccaro, Visione mistica di S. Bonaventura, 1696 circa, Museo dell’Opera di San Lorenzo Maggiore, Napoli 



Pieter Paul Rubens, S. Bonaventura, 1620 circa, Palais des beaux-arts, Lille

Francisco de Zurbarán, S. Bonaventura riceve S. Tommaso d'Aquino, 1659 circa, museo del Prado, Madrid

Giuseppe Canepa, S. Bonaventura, 1785, museo diocesano, Genova

Ferdinando Suman, S. Bonaventura rinviene la lingua di S. Antonio da Padova l'8 aprile 1263, 1847, Sacrestia Basilica sant’Antonio da Padova, Padova

Card. Raymond L. Burke: "Homilia Missa Domínica Sexta post Pentecosten", Church of Ss. Peter and Paul, Cork, Ireland, Sunday, July 5th, 2015

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Nella memoria liturgica di San Enrico II, imperatore e confessore, rilancio dal consueto Chiesa e postconcilio la traduzione italiana, curata dallo stesso sito, dell’omelia di S. Em.za il card. Raymond L. Burke, dettata in terra d’Irlanda nel corso del Pontificale del 5 luglio scorso, VI Domenica dopo Pentecoste, presso la chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Cork, celebrato in occasione dell’VIII Conferenza liturgica FOTA.



SS. Stefano, Cunegonda ed Enrico II, Cattedrale, Bamberga


Tomba dei SS. Enrico II e Cunegonda, Cattedrale, Bamberga


Enrico II è incoronato da Cristo, Miniatura dal Sacramentario di Enrico II, Bayerischen Staatsbibliothek, Monaco



Per i tre Reportriportati dal New Liturgical Movement, v. qui, qui e qui.

Card. Raymond Leo Burke. 
Omelia durante la Conferenza liturgica Fota tenutasi a Cork, in Irlanda

Riprendiamo da New Liturgical Movement dell’11 luglio scorso.


Nel corso della Conferenza liturgica Fota tenutasi a Cork, in Irlanda, Sua Eminenza Raymond card. Burke ha predicato la seguente omelia durante una Messa Pontificale celebrata la Domenica nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Le letture della messa a cui la predica si riferisce sono quelle della VI Domenica dopo Pentecoste, Romani 6, 3-11 e Marco 8, 1-9, il racconto della seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Possiamo ben identificarci con la folla che si era recata nel deserto per essere istruita da Cristo. Chiaramente, un gran numero di persone erano affamate della parola di verità che solo il Signore poteva dare loro, e, per questo motivo, avevano lasciato le ordinarie cerchie della loro vita quotidiana per trovarsi in un luogo straordinario con lui. Nelle parole di commento di Dom Prosper Guéranger sul Vangelo di oggi, il mondo era “andato sempre più in crescendo nella debolezza per gli effetti del peccato originale e quelli successivi” e aveva seguito “falsi maestri, che a poco a poco il suo ridotto la perdita della legge e dei doni naturali che, come dice sant’Ambrogio, era stati suo patrimonio vitale “La gente non era andata solo a vedere una figura popolare; era affamata della di verità parola di Cristo in una cultura segnata dalla confusione diffusa e dall’errore sulle realtà fondamentali della vita. Quelle persone sono rimaste con il Signore per tre giorni, e quindi non voleva lasciarli andare senza dar loro da mangiare. A quel punto, Cristo ha dimostrato che egli non stava solo parlando la parola di verità per loro, ma stava dando loro anche il cibo dell’amore divino. San Paolo ci istruisce sulla realtà della nostra vita in Cristo, che ha la sua sorgente nella sua incarnazione, nascita, vita nascosta a Nazaret e ministero pubblico che si conclude con la sua passione, morte, risurrezione e ascensione. Attraverso il sacramento del Battesimo, cominciamo a vivere in Cristo. Noi, come rami, siamo innestati nella vite che è Cristo, attingendo la nostra vita da Lui. Cristo riceve i nostri cuori nel suo cuore glorioso trafitto, dove li purifica dal peccato e li anima con l’effusione dello Spirito Santo, il fuoco del Divino Amore. Ascoltiamo le parole di san Paolo:
Fratelli, tutti noi che siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.

Il suo linguaggio non è solo figurato, anche se l’attrazione della folla a Cristo non nasce da un po’ di populismo inconsistente. La vita in Cristo è una vera e propria partecipazione alla sua sofferenza e morte, un vero e proprio carico della Croce, che porta già ora a condividere la felicità perfetta, che è il destino sicuro e definitivo della Via della Croce. Dom Prosper Guéranger commenta con queste parole l’insegnamento ispirato di San Paolo sulla vita cristiana:
La santità, le sofferenze, e quindi la gloria del Signore Gesù, la sua vita che si prolunga nelle membra (2Cor 4,10-11), ecco per san Paolo la vita cristiana: semplice e sublime nozione, che riassume ai suoi occhi l’inizio, il progresso e il compimento dell’opera dello Spirito d’amore in ogni anima santificata. ...Se il primo atto della santificazione del fedele sepolto nel suo battesimo con Gesù Cristo ha per oggetto di rifarlo interamente, di crearlo di nuovo nell’Uomo-Dio (Ef 2,10), di innestare la sua nuova vita sulla vita stessa del Signore Gesù per produrne i frutti, non saremo affatto sorpresi che l’Apostolo rifiuti di tracciare ai cristiani altro metodo di contemplazione, altra regola di condotta che lo studio e l’imitazione del Salvatore. La perfezione dell’uomo (Col 1,28) alla sua ricompensa (ivi 2,10) risiedono in lui solo: secondo dunque la conoscenza che avete ricevuta da lui, camminate in lui (ivi, 6), poiché voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo (Gal 3,27). Il Dottore delle genti dice chiaramente che egli non conosce e non potrebbe predicare altra cosa (1 Cor 2,2). Alla sua scuola, prendendo in noi i sentimenti che aveva Gesù Cristo (Fil 2,5), diventeremo altri Cristi, o piuttosto un solo Cristo con l’Uomo-Dio, mediante l’unione dei pensieri e la conformità delle virtù sotto l’impulso dello stesso Spirito santificatore. Quanto abbiamo bisogno di tornare al concetto semplice e sublime della santità di vita, per attingere la grazia del nostro battesimo, per rimanere sulla via della Croce, che sola ci porta la felicità!
(L’anno liturgico, Tempo dopo la Pentecoste vol. 2)

Quanto noi, membra del Corpo di Cristo vivente, abbiamo bisogno di essere più profondamente e saldamente uniti nel cuore con il Cuore di Gesù, in modo che la Chiesa possa portare la verità e l’amore di Cristo alla nostra cultura! Penso alla mia terra d’origine, gli Stati Uniti d’America, che ha celebrato ieri il Giorno dell’Indipendenza. La Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776, invocando “le Leggi della Natura e il Dio della Natura” per giustificare la separazione del popolo al governo del re di Gran Bretagna, per fondare una nuova nazione, ha chiarito le verità su cosa la nuova nazione doveva essere fondata: “Noi riteniamo queste verità di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della felicità”. Il documento osserva giustamente che tutto il governo esiste per garantire il rispetto e la tutela di questi diritti fondamentali. 
Ma quasi duecento anni più tardi, nel 1973, il più alto tribunale della nazione ha tolto il diritto alla vita dal innocenti e indifesi non ancora nati, e lo scorso 26 giugno, a dispetto delle “Leggi della Natura e del Dio della Natura”, la stessa Corte Suprema ha ridefinito la natura del matrimonio e del suo frutto, la famiglia, la prima cellula della vita della società. La confusione micidiale e l’errore che tali decisioni rappresentano per gli Stati Uniti d’America, e simile confusione ed errore in altre nazioni, esige dalla Chiesa una chiara, coraggiosa e instancabile testimonianza della parola di Cristo, della verità scritta su ogni cuore umano, della verità dalla quale la felicità del singolo e del bene comune assolutamente dipendono. La Chiesa non può stare in silenzio o in inerzia mentre un popolo si sta distruggendo da illegalità, anche se l’illegalità dunque vestito di capo della più alta autorità giudiziaria. 
Dove trova la Chiesa trova la lucidità, il coraggio e la costanza di testimoniare la verità che trasforma la società per il bene di tutti? E’ nel Cuore di Gesù: Egli effonde la grazia dello Spirito Santo nei nostri cuori, in particolare attraverso i sacramenti. Così siamo benedetti ancora una volta nel dedicare alcuni giorni nell’approfondimento della sacra liturgia e, in particolare, nello studio più approfondito della relazione della sacra Liturgia col sacerdozio regale dei battezzati; le letture di oggi dalle Sacre Scritture ci ricordano che i battezzati vengono consacrati per servire l’opera salvifica di Cristo nel mondo, a dare la vita, con Cristo, per la trasformazione del mondo. Papa San Giovanni Paolo II, nella sua prima Lettera enciclica, Redemptor hominis, riflettendo sulla missione regale dei battezzati, ci ha ricordato:
Ai nostri tempi, si ritiene talvolta, erroneamente, che la libertà sia fine a se stessa, che ogni uomo sia libero quando ne usa come vuole, che a questo sia necessario tendere nella vita degli individui e delle società. La libertà, invece, è un grande dono soltanto quando sappiamo consapevolmente usarla per tutto ciò che è il vero bene. Cristo c’insegna che il migliore uso della libertà è la carità, che si realizza nel dono e nel servizio. Per tale «libertà Cristo ci ha liberati» e ci libera sempre. La Chiesa attinge qui l’incessante ispirazione, l’invito e l’impulso alla sua missione ed al suo servizio fra tutti gli uomini. La piena verità sulla libertà umana è profondamente incisa nel mistero della Redenzione. La Chiesa serve veramente l’umanità, quando tutela questa verità con instancabile attenzione, con amore fervente, con impegno maturo, e quando, in tutta la propria comunità, mediante la fedeltà alla vocazione di ciascun cristiano, la trasmette e la concretizza nella vita umana. In questo modo viene confermato ciò a cui abbiamo fatto riferimento già in precedenza, e cioè che l’uomo è e diventa sempre la «via» della vita quotidiana della Chiesa.

Che questi giorni di studio della Sacra Liturgia ci conducano tutti a ritrovare nel Mistero della Fede, nel mistero eucaristico, il modello della nostra vita quotidiana per la nostra salvezza e per la salvezza del nostro mondo. Possiamo essere ispirati a cercare la verità di Cristo, unendo i nostri cuori al Suo nel sacrificio eucaristico. Così rafforzeremo sempre più la nostra vita in Lui nata dal Battesimo e porteremo frutti abbondanti per la nostra libertà e la libertà di tutti gli uomini. Vediamo ora innalziamo i nostri cuori, insieme con il Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria, al Cuore trafitto gloriosa di Gesù, aperto dalla lancia del soldato sul Calvario e sempre aperta per noi nel Sacrificio eucaristico. Nel Cuore Eucaristico di Gesù, possano i nostri cuori essere purificati dal peccato e infiammati di amore puro e disinteressato. Così possiamo vivere la verità del mistero della fede, nella fedeltà alla nostra consacrazione battesimale, per la salvezza del mondo.

Intervento radiofonico di don Nicola Bux, Chiesa e Liturgia - La Musica sacra e la liturgia, 14.7.2015

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Con Maria, sul monte Carmelo

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“Nec vero nomenclatúram tantum magnificentíssima Virgo tríbuit et tutélam, verum et insígne sacri scapuláris; quod beáto Simóni Anglico præbuit, ut cælésti hac veste ordo ille sacer dignoscerétur, et a malis ingruéntibus protegerétur” (Lect. V – II Noct.) - IN COMMEMORATIONE BEATÆ MARIÆ VIRGINIS DE MONTE CARMELO

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La Santa Madre di Dio oggi scende in Purgatorio per liberare le Anime Sante che sono giunte al termine della salutare purificazione e portarle con se in Paradiso. Alleluia” (Antica Antifona Mariana in onore della Madonna del Carmine del ‘500).










Oggi tutta la Chiesa latina si unisce ai Frati della beata Vergine del Monte Carmelo, nel celebrare le magnificenze della Madre di Dio verso quell’Ordine a lei dedicato.
Le origini di quest’insigne famiglia, che ha dato alla Chiesa moltissimi santi tra cui, sant’Andrea Corsini, sant’Alberto, santa Maddalena de’ Pazzi, santa Teresa ecc., sono note. Un po’ prima del 1185, un sacerdote calabrese, in seguito ad una rivelazione di Elia, così almeno egli asseriva, sali sul Monte Carmelo, e si diede a restaurare un antico monastero, - ve n’erano altri tre - di cui restavano solo i ruderi: «Ante aliquot annos - scriveva nel 1185 il prete Giovanni Greco (da Patmos) - quidam monachus, dignitate Sacerdos, capillitio albus, e Calabria oriundus, ex Prophetæ revelatione, in montem appellens, ea loca,monasterii nempe reliquias, vallo perparvo cinxit, et turri ædificata, temploque non ingenti extructo, Fratribusque ferme decem collectis, etiam nunc sanctum illum ambitum colit» (De Beato Alberto ex Can. Regulari Episc. Primum Vercellensi dein Patr. Hierosol. Legato Apostolico, et legislatore Ordinis Carmelitici, Vita B. Alberti, Caput VI, Conditio et numerus eorum quibus Regula data; hæc vero unde sumpta, explicatur, § 46, in Act. SS., vol. 10, Aprilis, tomo I, Parigi-Roma 1886, Octava Aprilis, p. 775).
Il nuovo istituto prosperò e, sebbene ultimo venuto, poté felicemente innestarsi alla grande tradizione più volte secolare della vita monastica, che cenobiti orientali e monaci benedettini avevano condotto sul Carmelo. Alberto Avogadro dei conti di Sabbioneta, patriarca di Gerusalemme, diede, nel 1207, alcune regole di vita a quegli eremiti che allora vivevano sotto il preposito, chiamato Brocardo, venerato in seguito come santo (e successore di san Bertoldo di Calabria), regole che in seguito, insieme con la recente istituzione, vennero approvate da Onorio III nel 1226 e da Gregorio IX.
La festa della commemorazione della Beata Vergine del Monte Carmelo col rito di doppio maggiore, venne introdotta nel Calendario assai più tardi, per opera di Benedetto XIII, e doveva commemorare l’apparizione mariana che il presbitero inglese, superiore generale dell’Ordine, Simone Stock, asserì essere avvenuta all’aurora del 16 luglio 1251 (giorno della celebrazione), durante la quale questi avrebbe ricevuto dalla Vergine uno scapolare e la rivelazione di privilegi connessi alla sua devozione.
Va ricordato che l’ultima apparizione di Maria, a Lourdes, avvenne proprio il 16 luglio, allorché la Vergine apparve a Bernadette «più bella che mai». Non a caso, proprio di fronte alla Grotta delle Apparizioni, vicino alla stessa, s’installò un monastero carmelitano.
Ancora, dalle memorie di Suor Lucia, apprendiamo che quel famoso 13 ottobre 1917, a Fatima, al termine del miracolo del sole, i tre pastorelli, dopo la visione della Sacra Famiglia e poi della Vergine Addolorata e di Gesù benedicente, rivide Maria «con aspetto simile alla Madonna del Carmine» (Suor Lucia, Quarta Memoria, in P. Luigi Kondor (a cura di), Memorie di Suor Lucia, vol. I, Secretariado dos Pastorinhos, Fatima, 2010, p. 177).
Nella Roma cristiana, la Vergine sotto il titolo del Carmelo è molto venerata e celebrata nella famosa festa trasteverina “de noaltri”. Dalla Chiesa di Sant’Agata in Trastevere, nella piazza a metà percorso di via della Lungaretta (piazza San Giovanni de Matha), ogni anno il sabato dopo il 16 luglio (solennità liturgica della Beata Vergine del Monte Carmelo), una statua lignea policroma del XIX secolo, che raffigura la Madonna del Carmine, detta appunto “de noaltri”, viene portata in processione per le vie del rione fino alla Basilica di San Crisogono, dove sosta per otto giorni, prima di tornare con un’altra processione nella chiesa di appartenenza.
Luogo di culto della Vergine del Carmelo, a Roma, è anche la chiesa di Santa Maria della Vittoria (cfr. Mariano Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 269-271), più nota per il celebre gruppo scultoreo berniniano della Transverberazione di Santa Teresa, ma che conserva anche l’ottocentesca scultura della Vergine con Bambino che dona lo scapolare a San Simone Stock nella Cappella del Carmine.
Altri luoghi dedicati alla Vergine sotto il titolo oggi venerato sono la chiesa del XVII sec. di Santa Maria del Carmine alle Tre Cannelle, costruita nel rione Trevi (ibidem, p. 289); la chiesa della Beata Vergine Maria del Carmelo sorta nel rione Prati nel 1925 (cfr. Massimo Alemanno, Le chiese di Roma moderna, vol. II, Quartieri Prati, delle Vittorie, Trionfale, Primavalle, Aurelio, Portuense e Gianicolense, Armando editore, Roma, 2006, pp. 46-47); la chiesa di Santa Maria del Carmine e San Giuseppe al Casaletto, nel quartiere gianicolense, sorta originariamente nel 1772, poi sostituita da una seconda nel 1853 ed infine da una terza nel 1933 dopo che la prima fu ceduta ai Camilliani e dedicata al loro Santo (ibidem, pp. 127-130). Un’ultima chiesa, dedicata a Santa Maria del Carmelo, in zona Mostacciano, istituita nel 1974 e consacrata nel 1986, è divenuta titolo cardinalizio dal 1988 (Beata Vergine Maria del Monte Carmelo a Mostacciano).

Alessandro Franchi, La Vergine consegna lo scapolare a S. Simone Stock, 1882, oratorio di S. Teresa, Siena

Scarsellino, Vergine Maria venerata dai Santi, ovvero S. Simone Stock riceve lo scapolare alla presenza dei Santi, 1609 circa, The Metropolitan Museum of Art, New York

Anonimo, Santísima Virgen del Carmen Cuzqueña, 1650 circa, Lima

Juárez Herrera, Patrocinio della Vergine del Carmelo, XVII sec., Museo del Carmen de Sn. Ángel, Città del Messico


Vicente López Portaña, Vergine del Carmelo col Bambino, XVIII sec., collezione privata






Vergine del Carmelo, Chiesa di S. Angelo, Siviglia




Festa della Dedicazione della Basilica crociata del Santo Sepolcro (15 luglio 1149)

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