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Ma gli uomini non guardano il Cielo. Le mode del mondo contemporaneo: cercate le cose di Lassù!

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Ricevuto, volentieri rilanciamo quest’interessante contributo, che rilancia il tema che Romano Amerio aveva denominato della somatolatria ovvero quell'idolatria della perfezione fisica e del successo sportivo (cfr. anche CCC n. 2289).

LE MODE DEL MONDO CONTEMPORANEO: CERCATE LE COSE DI LASSÙ

di Fabio Iannone

I giovani dell’inizio del Terzo Millennio sembrano affetti da una particolare corsa ad alcune mode che non solo non hanno alcuna logica, ma, addirittura, cominciano ad inficiare la salute fisica e mentale degli esseri umani.
Fra queste, particolare attenzione merita l’usanza della depilazione, anche totale, degli uomini e delle donne. Se per le seconde la depilazione di alcune parti del corpo ha una funzione estetica e non crea problemi alla salute di colei che la pratica, avendo la donna peli meno ispidi dell’uomo, per via di questioni ormonali, per gli uomini la depilazione del corpo comporta gravi problematiche legate alla salute dovute a follicoliti ed irritazioni della pelle oltre ad eliminare la naturale funzione termoregolatrice del corpo che la presenza dei medesimi comporta.
In più, da che mondo e mondo la maturità dell’uomo, anche dal punto di vista sessuale, viene valutata anche rispetto alla presenza della peluria. Su ciò si tornerà, però, in seguito!
Beata Giacinta Marto:
«I peccati che portano più anime all'inferno
sono i peccati della carne
.
Verranno mode che offenderanno molto Gesù.
Le persone che servono Dio non devono seguire la moda.
La C
hiesa non ha moda. Gesù è sempre lo stesso.
»
Volendo affrontare la questione da un punto di vista religioso, si deve notare che queste pratiche, unitamente a quelle di incisione della pelle e del corpo in genere, quali tatuaggi o buchi agli orecchi, sono tassativamente vietati per gli uomini (Lev. capp. 19-20).
Ma risulta facile la critica: molti precetti ebraici sono (o sarebbero) decaduti, poiché per fede ci si salva e non per le opere della legge, come dice San Paolo apostolo. D’altro canto lo stesso Apostolo delle Genti nella I lettera ai Corinzi (6, 19-20) invita ad avere rispetto del corpo «tempio dello Spirito» e, quindi, a non maltrattarlo, ma a lasciarlo così com’è. Pertanto, anche dal punto di vista morale-cristiano tali pratiche, per di più dannose per la salute, sembrerebbero, e lo sono, vietate e peccaminose.
Ma vi è un aspetto più subdolo nella questione affrontata: il progetto di rendere la donna e l’uomo uguali! Ma potranno mai essere uguali due esseri creati diversi? È forse uguale la funzione dei due generi? Ovviamente no. Le pratiche e le mode corporali che vogliono rendere l’uomo uguale, anche riguardo all’aspetto, alla donna è contro ogni logica (per chi non crede) e demoniaco (per chi crede). L’uomo e la donna non sono uguali, ma pari (ovviamente a parità di condizioni).
Ma vi è di più! Pensiamoci bene: quali sono gli esseri umani privi di peli in tutte le parti del corpo? I bambini, ovviamente. In un mondo in cui la pedofilia dilaga, coloro che desiderano il proprio “partner” depilato anche nelle proprie parti più intime, dovrebbero pensare che “qualcuno” (sarà una forza occulta? La massoneria? Il diavolo?) vuole che gli uomini e le donne desiderino di giacere, seppur per abitudine e per moda, con chi non ha peli. Pertanto, che il partner sia maturo sessualmente o meno ciò non ha più importanza, adulto o bambino è ormai indifferente!
È forse per questo che la pedofilia dilaga?
Un’ultima riflessione en passant: si parla tanto di discriminazione degli omosessuali o di altre discriminazioni, ma nessuno parla dei maltrattamenti psicologici che è costretto a subire colui che decide di non seguire le mode e, per esempio, di presentarsi in spiaggia non depilato! O una persona che non ha tatuaggi! O una persona che non fuma spinelli, etc. …!
Sant’Agostino diceva: «L’uomo è ciò che ama»(InEpistolam Joannis ad Parthos): ma cosa ama un uomo che compie azioni che non hanno alcun senso logico, solo perché vanno di moda, e che per giunta possono rivelarsi dannose per la propria salute? Ovviamente non ama nulla! Neanche se stesso! Pertanto, si potrebbe dire che l’uomo si sta trasformando in un “nulla”, sembrando un “nulla” agli occhi degli altri uomini. Ed ecco: tutto ora è consentito, perché sul nulla tutto può essere fatto. Ogni scelleratezza diventa legittima: homo homini lupus!
Ma l’uomo non è un nulla: è il capolavoro della creazione divina. Risuonano le parole del salmista: «che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani» (Sal. 8, 5-7) ed ancora «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, ti ha benedetto Dio per sempre»(Sal. 45, 3).
Non distruggiamo con le mode la migliore delle opere di Dio, fatta a sua immagine e somiglianza, benedetto da Dio, e gestiamo bene il potere che ci è stato dato sulla creazione!
Pertanto, «cerchiamo le cose di lassù» come dice san Paolo (Col. 3,1), quelle cose di cui siamo fatti, piuttosto che legarci a mode passeggere e dannose, oltre che illogiche, se non, addirittura, penose.

Immagini per meditare: contro una pace fraintesa .....

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Cristóbal de Villalpando, S. Francesco d'Assisi ed i Santi sconfiggono l'Anticristo, 1692-93 circa, Philadelphia Museum of Art, Philadephia

Nuova intervista esclusiva di don Nicola Bux su liturgia, motu proprio Summorum Pontificum, matrimonio e divorziati risposati

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Dopo una prima intervista concessaci lo scorso marzo, don Nicola Bux, che ringraziamo, ce ne ha concessa un’altra sui temi oggi più dibattuti riguardo all’applicazione del m.p. Summorum Pontificum e su quelle che saranno le problematiche all’attenzione del prossimo Sinodo ordinario, in ottobre, sulla famiglia.

Caro don Nicola, ti ringrazio di aver concesso al nostro blog una tua nuova breve intervista.
Permettimi di cominciare, entrando subito nel vivo.
1. Si è sostenuto che il m.p. del 2007 del papa Benedetto XVI, Summorum Pontificum, mirasse alla pacificazione liturgica tra gli amanti del rito antico e quelli del rito nato a seguito delle riforme di papa Montini. Si è però obiettato che tale atto del papa-teologo, in verità, non abbia portato ad alcuna pacificazione, ma anzi abbia generato o, secondo alcune visioni accentuato, pure da un punto di vista pastorale, delle fratture esistenti nelle comunità ecclesiali, anche all’interno di una stessa parrocchia! In effetti, talora si è lamentato che una diversa celebrazione, compiuta peraltro pure in giorni diversi, non faciliti l’unità pastorale. Basti pensare, ad es., ad alcune feste e ricorrenze liturgiche che sono celebrate in giorni diversi nel rito antico e nel rito riformato. 
Ecco, come giudichi ad otto anni dalla sua entrata in vigore il m.p. papale? Può farci un bilancio? Davvero è riuscito nel suo intendimento di pacificazione liturgica? E come coniugare, da un punto di vista pastorale, l’unità se si celebrano le feste – o per lo meno alcune feste – in giorni diversi?

R. L’atto benedettiano, a ben leggere, postula il reciproco arricchimento tra le due forme – come egli tecnicamente le ha definite – dell’unico rito romano: pertanto, potremmo definirlo un atto aperto allo sviluppo, com’è giusto che sia ogni intervento riformatore. Lo stesso Ratzinger aveva auspicato, da cardinale, nuovi prefazi e i nuovi santi in calendario. Il messale romano ha sempre conosciuto tali progressive integrazioni. È paradossale che gli attuali sostenitori della riforma paolina siano diventati così ‘reazionari’ da sostenerne l’intangibilità. Ne parlo perché convinto della opportunità della riforma liturgica, non di taluni epigoni che qui e là ha raggiunto. Ogni studioso della liturgia conosce le tappe del suo sviluppo organico nella storia: il punto è proprio sull’“organico”. La Sacrosanctum Concilium sostiene che le forme nuove devono scaturire da quelle esistenti ed essere con quelle coerenti (23). Proprio su questo punto, però, i sostenitori del messale tridentino hanno da ridire: davvero la Messa del Novus Ordoè in continuità con quella precedente? La struttura evidentemente è la medesima: due parti, parola ed eucaristia, con due premesse – l’introduzione penitenziale e l’offertorio (abbastanza falcidiato, confrontandolo con quello bizantino) – , uno sviluppo, costituito dai riti di Comunione, e la conclusione con la benedizione e il congedo. D’altro lato, come detto per l’offertorio, più che per la semplificazione avvenuta, questa parte, come le altre, sopportano spesso l’insulto della cosiddetta creatività, di cui la costituzione liturgica non parla mai, ma solo di adattamenti a determinate condizioni. Ora, uno sguardo equilibrato, dovrebbe portare gli uni e gli altri ad ammettere una ‘riforma della riforma’: espressione di Joseph Ratzinger, mutuata, credo, dal grande studioso tedesco Klaus Gamber. Lo squilibrio è dovuto al fatto che la riforma postconciliare è stata come un pasto frettoloso: perciò non è stata assimilata, e qui e là è rimasta inapplicata o rigettata. Se fosse avvenuto come con le riforme di Pio X e Pio XII, che furono graduali, non sarebbe accaduto. Nel post concilio si lascio spazio alla sperimentazione, ma questa fu preso come definitiva. Quanto alla pacificazione, da quello che ha osservato il cardinal Sarah, la situazione non è uniforme: pare che là dove i guasti sian stati maggiori, il m.p. abbia preso più piede – America del Nord, Paesi Bassi, Africa e Asia – mentre dove non è accaduto, la conflittualità è più evidente. Il fatto è che sempre più giovani seminaristi e sacerdoti si interessano al Vetus Ordo e desiderano impararlo: tempo dieci anni, passata questa generazione, ciò sarà più evidente e imponente.
Come conciliare i due calendari? Non accade già ora che in una diocesi o in una parrocchia si celebri una memoria o una festa, che non si celebra nell’altra, in quanto titolare o dal grado maggiore? Nelle chiese orientali, che vivono a gomito su uno stesso territorio, la differenza di calendario non è un problema. E poi, non si sostiene nella Chiesa odierna che la diversità è ricchezza e che l’unità non è uniformità? Bisogna studiare di più e avere pazienza, la pazienza dell’amore, come scrive l’Apostolo (cfr. 1 Cor 13,4).

2. Una seconda domanda: si è molto discusso, soprattutto a partire dal m.p. - che ha avuto il merito quantomeno di riportare in auge temi che, forse con sufficienza, si ritenevano esauriti – della c.d. ermeneutica della continuità in ambito liturgico (e non solo). Del resto, uno dei temi cari al pontificato di papa Ratzinger era appunto quello di rileggere i documenti conciliari alla luce della Tradizione bimillenaria della Chiesa, pena una sostanziale incomprensione di quei testi e la conclusione che gli stessi siano in decisa rottura con ciò che la Chiesa ha creduto sempre ed ovunque – secondo la nota affermazione di S. Vincenzo di Lerins. Orbene, ancora oggi c’è chi lamenta come i documenti del Vaticano II debbano, al contrario, leggersi facendosi quasi astrazione dal magistero anteriore e, quindi, tanto per fare un esempio la Sacrosantum Concilium prescindendo dalla Mediator Dei di Pio XII, che pure aveva “preparato la strada” al documento conciliare del 1963. E proprio questi “profeti della discontinuità” (se vogliamo chiamarli così) lamentano che tale operazione sia come leggere il Vangelo alla luce dell’Antico Testamento.
Tu, don Nicola, condividi questo punto di vista? Cosa risponderesti a questi “profeti della discontinuità”? Possibile che ancor oggi non si riesca a fare una lettura piana e pacifica dei documenti conciliari alla luce della Tradizione della Chiesa, nonostante il magistero di Benedetto XVI? Perché tante resistente? Quali le ragioni, secondo te, di questa non accettazione di tale chiave di lettura? E quali, se esistono, le eventuali soluzioni?

R. La Chiesa è attraversata da una crisi di fede, che genera confusione e, come ho già detto mesi fa, porta all’affermazione di un pensiero non cattolico. Senonché, Gesù ha detto che chi è sapiente, sa estrarre dal tesoro cose nuove e cose antiche (cfr. Mt 13, 52). L’idea di una nuova Chiesa, ha attraversato la storia: dagli gnostici ai catari, da Gioacchino da Fiore a Lutero, da Giansenio agli attuali novatori. Il pensiero di sant’Agostino ha portato a coniare il detto: Novum Testamentum in Vetere latet, Vetum Testamentum in Novo patet(il Nuovo Testamento è adombrato nell’Antico, e questo trova compimento nel Nuovo): È difficile applicare questo al Vaticano II rispetto ai venti concili che l’hanno preceduto? Appare ragionevole chi sostiene che con questo concilio abbiamo una nuova visione di Chiesa? La Chiesa del Signore è sempre la stessa, in quanto Egli è lo stesso ieri, oggi e sempre: sarebbe paradossale che così non fosse per il Suo corpo che la Chiesa. Il fastidio verso la Tradizione, penso sia dovuto alla non comprensione del fatto che tradere sia un verbo di movimento e significa trasmettere ciò che si è ricevuto, integralmente, come dice Paolo a proposito dell’eucaristia, ma questo deposito, nel frattempo, come tutti i depositi – penso a quelli in banca – ha fruttificato e si è arricchito. Il discorso cosiddetto sull’ermeneutica del Vaticano II, fatto il 22 dicembre 2005, all’esordio del suo pontificato, da Benedetto XVI è talmente chiaro e ragionevole, che solo un pregiudizio impedisce di accettarlo. Causa di tale pregiudizio è l’ignoranza, dovuta alla mancanza di studio: se questo ci fosse, ci si accorgerebbe che i documenti del Vaticano II, a parte la maggiore o minora rilevanza di questo o di quello, e di certi passaggi, non enunciano nuove dottrine. Papa Giovanni parlò di aggiornamento: sull’interpretazione di questa parola è stato scritto molto, ma la mente di quell’uomo così tradizionale e così nuovo, impedisce di pensare che desse a quel termine un altro contenuto. Basta leggere il suo Giornale dell’Anima, per trovarlo intriso di quel ‘devozionismo’, tanto vituperato dai novatori. La soluzione è un confronto paziente e senza pregiudizi, come stiamo facendo con un gruppo di amici studiosi.
Aggiungo: «La mancanza di chiarezza nel rapporto tra livello dogmatico e livello liturgico, che è rimasta poi anche durante il Concilio, deve forse essere qualificata come il problema centrale della riforma liturgica; in base a questa ipoteca si spiega gran parte dei singoli problemi con i quali, da allora, abbiamo a che fare» (J. RATZINGER, Opera omnia, vol. 11, Teologia della liturgia, V. Forma e contenuto della celebrazione eucaristica, LEV, Città del Vaticano 2010,pp. 414-415). Questa riflessione dell’allora cardinal Joseph Ratzinger appare del tutto coerente con l’argomento alla ribalta della cronaca ecclesiale e non solo – la comunione ai divorziati risposati – per le sue implicazioni dogmatiche e liturgiche, oltre che canoniche e pastorali.

3. Il prossimo ottobre, come noto, si svolgerà in Vaticano il Sinodo ordinario sulla famiglia. Tra i profili, che saranno oggetto di discussione, vi è la questione – sostenuta da diversi prelati, tra i quali il card. Kasper (e non solo lui) – circa l’ammissione dei divorziati risposati al sacramento dell’Eucaristia, sebbene conviventi col nuovo coniuge non certo ut frater et soror. Ora, comprendo che si tratta di una tematica delicata, ma si è proposto di superare – a quanto ci è dato comprendere – il problema dottrinale (giacché la Scrittura afferma, senza mezzi termini, che l’adultero non può ereditare il Regno di Dio! E l’adultero – nell’ottica della Bibbia – non è solo colui che tradisce il proprio coniuge …) insistendo sia dal punto di vista teologico con la distinzione tra divorziato con colpa (a cui sarebbe addebitabile la separazione ed il divorzio) e divorziato senza colpa (che avrebbe subito il divorzio e, quindi, meriterebbe rifarsi una vita) sia dal punto di vista canonico con la modifica delle norme canoniche sul processo di nullità matrimoniale volte ad una “semplificazione” della procedura di nullità (ad es., si parla con insistenza della proposta di abolire la c.d. doppia sentenza conforme). Per modello si è insistito più volte sull’esperienza delle Chiese ortodosse. Ora chiedo a te come liturgista di dirci come stiano le cose presso le Chiese ortodosse e cioè se e come avviene, in quell’esperienza, questa riammissione ed eventualmente con quali limiti. Come teologo, quindi, ti chiedo una sorta di giudizio prognostico in merito al Sinodo e se cioè ritieni davvero che la materia su cui s’intenderebbe deliberare sia nella disponibilità dei Padri sinodali e dello stesso Papa.

R. Gli ortodossi non fanno la comunione nel rito delle seconde nozze, in quanto nel rito bizantino del matrimonio non è prevista la comunione, ma solo lo scambio della coppa comune di vino, che non è quello consacrato. Inoltre, tra i cattolici si suol dire che gli ortodossi permettono le seconde nozze, quindi tollerano il divorzio dal primo coniuge: in verità non è proprio così, perché non si tratta dell’istituzione giuridica moderna. La chiesa ortodossa è disposta a tollerare le seconde nozze di persone il cui vincolo matrimoniale sia stato sciolto da essa, non dallo Stato, in base al potere dato da Gesù alla Chiesa di “sciogliere e legare”, e concedendo una seconda opportunità in alcuni casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia divenuto una finzione). È prevista (per quanto scoraggiata) anche la possibilità di un terzo matrimonio. Inoltre, la possibilità di accedere alle seconde nozze, nei casi di scioglimento del matrimonio, viene concessa solo al coniuge innocente (v. il mio Mito e realtà delle seconde nozze tra gli ortodossi).
La verità è che bisogna considerare il matrimonio nel rito ortodosso essenzialmente come una sorta continuazione, rivestita di forme liturgiche, del matrimonio così com’era concepito dal diritto giustinianeo, stante la volontà delle chiese ortodosse – almeno a partire da una certa epoca (un esempio di questo cedimento è rappresentato dalla raccolta del c.d. Nomocanone in 14 titoli redatto dal patriarca di Costantinopoli, Fozio, nell’883) – di vivere in armonia con le autorità civili, ricevendone favori e concessioni, pure a costo di alterare il messaggio evangelico  (v. Cyril Vasil’, Separazione, divorzio, scioglimento del vincolo matrimoniale e seconde nozze. Approcci teologici e pratici delle Chiese ortodosse, in Robert Dodaro (a cura di), Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, Cantagalli, Siena, 2014, pp. 94-95).
Le seconde (e terze) nozze, dunque, a differenza del primo matrimonio, sono celebrate con un rito speciale, definito “di tipo penitenziale”, tanto è vero che le preghiere proprie del rito delle seconde nozze non hanno nulla del tono festivo delle preghiere del rito abituale del matrimonio (il primo), giacché «non contengono– è stato opportunamente sottolineato da Andrea Palmieri – invocazioni di prosperità, ma richieste di perdono» e le immagini bibliche ricorrenti evocate in esse - e questo mi sembra significativo - «non sono quelle delle coppie benedette, ma quelle dei peccatori» (Il rito per le seconde nozze nella Chiesa greco-ortodossa, ed. Ecumenica, Bari, 2007, p. 111). Tuttavia, il carattere penitenziale non è da intendersi legato  - nota Basilio Petrà– tanto alla celebrazione in se delle seconde nozze, quanto alla debolezza ed alle proclività al peccato dell’essere umano, che non ritiene potercela fare senza ricorrere alle seconde nozze (così in Divorzio e seconde nozze nella tradizione greca. Un’altra via, Cittadella ed., Assisi, 2014, p. 167).
Poiché nel rito delle seconde nozze mancava, almeno in antico, il momento dell’incoronazione degli sposi (che la teologia ortodossa ritiene il momento essenziale del matrimonio), le seconde nozze non sono un vero sacramento, ma volendo semplificare al massimo e secondo le categorie teologiche e liturgiche occidentali, per usare la terminologia latina, un sacramentale, che consente ai nuovi sposi di considerare la propria unione come pienamente accettata dalla comunità ecclesiale. Il rito delle seconde nozze si applica, significativamente, pure nel caso di sposi rimasti vedovi.
La non sacramentalità delle seconde nozze troverebbe conferma, secondo taluni, nella scomparsa della comunione eucaristica dai riti matrimoniali bizantini, sostituita dalla coppa intesa come simbolo della vita comune; ciò appare come un tentativo di ‘desacramentalizzare’ il matrimonio, forse per l’imbarazzo crescente che le seconde e terze nozze inducevano, a motivo della deroga al principio dell’indissolubilità del vincolo, che è direttamente proporzionale al sacramento dell’unità: l’Eucaristia. A tal proposito, il teologo ortodosso Alexander Schmemann ha scritto che, proprio la coppa, elevata a simbolo della vita comune, «mostra la ‘desacramentalizzazione’ del matrimonio ridotto ad una felicità naturale. In passato, questa era raggiunta con la Comunione, la condivisione dell’Eucaristia, sigillo ultimo del compimento del matrimonio in Cristo. Cristo deve essere la vera essenza della vita insieme» (mia traduzione da The Mystery of Love, in For the Life of the World. Sacraments and Orthodoxy, New York 1973, pp. 90-91). Come rimarrebbe in piedi questa ‘essenza’?
Dunque, si tratta di un “qui pro quo”, imputabile alla scarsa o nulla considerazione per la dottrina in ambito cattolico, per cui si è affermata l’opinione, meglio l’eresia, che la Messa senza la Comunione non sia valida. Tutta la preoccupazione della comunione per i divorziati-risposati, che poco ha a che fare con la visione e la prassi orientale, è una conseguenza.
La verità è, come nota l’arcivescovo Cyril Vasil’, riprendendo l’osservazione di un altro autore, Pierre L’Huillier, le chiese ortodosse «non hanno praticamente mai elaborato una dottrina chiara dell’indissolubilità del matrimonio», permettendo un certo lassismo, che ha condotto ad un’impropria espansione delle cause legittime di divorzio a paragone di quelle previste dalla più antica normativa canonica orientale (Cyril Vasil’, op. cit., p. 115).
In ogni caso, volevo concludere che il sinodo, che si terrà in ottobre, per statuto, non ha prerogative dottrinali, che appartengono solo al papa ed al concilio unito al pontefice.

4. Un’ultima domanda: Mons. Livi, in un recente contributo sul blog Disputationes Theologicae (qui, di recente, la seconda parte del contributo) ha sostenuto che, in fondo alla proposta kasperiana – che sarà oggetto di discussione in sede sinodale – riguardo al tema dei c.d. divorziati risposati ed agli omosessuali, sia possibile ravvisare l’assalto finale del pensiero gnostico-massonico alla Chiesa di Cristo. Ed in vista del Sinodo, è notizia di pochi giorni fa, rilanciata anche dal nostro blog, è in programma a Roma dal 10 al 12 settembre prossimi una conferenza, organizzata dall’associazione liberal International Academy for Marital Spirituality, a cui dovrebbe partecipare, ed anzi dovrebbe introdurre i lavori, il card. Óscar Rodríguez Maradiaga, che è attualmente una delle personalità più vicine al papa e rappresenta un po’ l’ala liberal all’interno dell’assise sinodale. Oltre ovviamente ad altre personalità.
Ecco, condividi l’opinione di Mons. Livi e come ritieni possa coniugarsi l’indivisibile unione di un uomo e di una donna – secondo la nota definizione tomistica dell’unione coniugale come “individua coniunctio maris et feminae” – nel nostro tempo nel quale vi è un’esaltazione della libertà individuale – oserei dire quasi un’ubriacatura – anche da un punto di vista pastorale?

R. Stimo mons. Livi, e non dubito che siamo in presenza della riedizione riveduta e corretta, per dir così, dello gnosticismo che ha sempre combattuto l’Incarnazione del Verbo, caratteristica originale del cristianesimo cattolico. Non so, però, se si tratti dell’assalto finale. Nel primo secolo della nostra èra, sentir parlare della risurrezione della carne, del corpo e dell’anima dell’essere umano, era quanto di più antitetico alla mentalità pagana potesse esserci. E se il Cristo fosse una sembianza di Dio? – dissero non pochi cristiani, quando ancora vivevano gli apostoli -è possibile che Dio sia venuto nella carne? E Giovanni dice: “Ogni spirito che confessa Gesù Cristo venuto in carne, è da Dio; e ogni spirito che non confessa Gesù, non è da Dio; ed è quello dell’Anticristo, di cui avete udito che viene e che ora è già nel mondo” (I Gv 4,2-3). Col suo Vangelo l’apostolo testimone oculare, ribatte all’eresia, chiamata docetismo (dal greco dokêin). Due secoli dopo si dirà da altri cristiani seguaci del prete Ario: il Cristo è soltanto uomo; altri al contrario ribatteranno, è solo Dio. Il dibattito cristologico sembrava concluso nel V secolo col concilio di Calcedonia, in realtà è continuato a fasi alterne fino a Bultmann e ai teologi razionalisti, e quanti altri che hanno distinto e/o separato il “Gesù storico” dal “Gesù della fede”. Ed oggi ancora si ripropone: c’è chi vorrebbe abolirla o ridurla, l’incarnazione e la divinità di Cristo, per dialogare meglio con ebrei e musulmani. A pensare che per sostenere la fede nell’incarnazione, Atanasio più volte è stato in esilio, Cirillo, Ambrogio,Pier Crisologo hanno sopportato scherni, insulti e persecuzioni!
L’unione sacramentale tra l’uomo e la donna, secondo l’Apostolo, è un mistero grande in rapporto all’unione tra Cristo e la Chiesa: il mistero-sacramento, che permane grazie all’incarnazione del Verbo: «poiché siamo membra del corpo di Cristo», e in questa luce san Paolo, fa comprendere il passo di Genesi 2,24: «i due saranno una sola carne» (Ef. 5, 30-32). Dunque, il matrimonio, col diventare una sola carne, permette ai coniugi di entrare in quel mistero e di santificarsi. Ecco cosa deve essere messo al centro del prossimo sinodo, se è vero che la sacra liturgia con i santi sacramenti, costituisce la fonte e il culmine della vita spirituale e morale della Chiesa.

Grazie don Nicola ancora una volta per la tua attenzione nei riguardi del nostro blog per questa tua seconda intervista esclusiva.

R. Grazie a voi!

San Teodoro Studita e il “Sinodo dell’adulterio”

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Più di un anno fa avevamo parlato già della vicenda di san Teodoro Studita e del c.d. scisma moechianico (v. qui). Ora al tema ha dedicato uno scritto anche il prof. De Mattei, tradotto in inglese da Rorate caeli, e rilanciato anche da Il Timone.
In ogni caso, in vista del prossimo Sinodo di ottobre, il cui scopo è dichiaratamente quello di tentare di cambiare i fondamenti dell'etica cattolica come osservato da un attento osservatore (v. qui) e contro cui un ruolo significativo sarà svolto dalla Chiesa d'Africa (v. qui la dichiarazione del card. Sarah), il fronte dei cardinali e vescovi ortodossi e fedeli alla dottrina si sta vieppiù allargando con la stampa di un volume nei prossimi giorni scritto a più mani da ben undici cardinali ed edito dalla senese Cantagalli. La notizia era già stata da noi data alcuni giorni addietro (v. qui) ed oggi riceve ulteriori dettagli, come ci racconta Corrispondenza romana (la notizia in inglese è qui e qui), che non manca peraltro di sottolineare come durante l’evento sinodale si vedrà riconosciuta la santità dei coniugi Martin, genitori di Santa Teresa del Bambin Gesù e del Volto santo (v. l’articolo di Cristina Siccardi).
Nel frattempo, è significativo che il primo intervento al Sinodo sarà quello dello Spirito Santo, come ha ironizzato Sandro Magister, giacché le letture della messa del giorno di apertura dell’evento – il 4 febbraio – saranno quelle della XXVII domenica del Tempo ordinario anno B, vale a dire il testo di Mc. 10, 2-12 (v. qui. La notizia è ripresa anche da Riscossa cristiana) e la prima lettura il testo di Gen. 2, 18-24. Insomma, il Signore dirà la sua, con la speranza che i novatori non facciano finta di non aver compreso … .

San Teodoro Studita e il “Sinodo dell’adulterio”

di Roberto de Mattei

Col nome di “Sinodo dell’adulterio” è entrata nella storia della Chiesa un’assemblea di vescovi che, nel IX secolo, volle approvare la prassi del secondo matrimonio dopo il ripudio della legittima moglie. San Teodoro Studita (759-826), fu colui che con più vigore vi si oppose e per questo fu perseguitato, imprigionato e per ben tre volte esiliato.
Tutto iniziò nel gennaio 795 quando l’imperatore romano di Oriente (basileus) Costantino VI (771-797) fece rinchiudere la moglie Maria di Armenia in monastero e iniziò una illecita unione con Teodota, dama d’onore della madre Irene. Pochi mesi dopo l’imperatore fece proclamare “augusta” Teodota, ma non riuscendo a convincere il patriarca Tarasio (730-806) a celebrare il nuovo matrimonio, trovò finalmente un ministro compiacente nel prete Giuseppe, igumeno del monastero di Kathara, nell’isola di Itaca, che benedisse ufficialmente l’unione adulterina.
San Teodoro, nato a Costantinopoli nel 759, era allora monaco nel monastero di Sakkudion in Bitinia, di cui era abate lo zio Platone, venerato anche lui come santo. Teodoro ricorda che l’ingiusto divorzio produsse un profondo turbamento in tutto il popolo cristiano: concussus est mundus(Epist. II, n. 181, in PG, 99, coll. 1559-1560CD) e, assieme a san Platone, protestò energicamente, in nome dell’indissolubilità del vincolo. L’imperatore deve ritenersi adultero – scrisse – e perciò deve ritenersi gravemente colpevole il prete Giuseppe per avere benedetto gli adulteri e per averli ammessi all’Eucarestia. «Incoronando l’adulterio», il prete Giuseppe si è opposto all’insegnamento di Cristo e ha violato la legge divina (Epist.I, 32, PG 99, coll. 1015/1061C). Per Teodosio era da condannare altresì il patriarca Tarasio che, pur non approvando le nuove nozze, si era mostrato tollerante, evitando sia di scomunicare l’imperatore che di punire l’economo Giuseppe.
Questo atteggiamento era tipico di un settore della Chiesa orientale che proclamava l’indissolubilità del matrimonio ma nella prassi dimostrava una certa sottomissione nel confronti del potere imperiale, seminando confusione del popolo e suscitando la protesta dei cattolici più ferventi. Basandosi sull’autorità di san Basilio, Teodoro rivendicò la facoltà concessa ai sudditi di denunciare gli errori del proprio superiore (Epist. I, n. 5, PG, 99, coll. 923-924, 925-926D) e i monaci di Sakkudion ruppero la comunione con il patriarca per la sua complicità nel divorzio dell’imperatore. Scoppiò così la cosiddetta “questione moicheiana” (da moicheia= adulterio) che pose Teodoro in conflitto non solo con il governo imperiale, ma con gli stessi patriarchi di Costantinopoli. È un episodio poco conosciuto sul quale, qualche anno fa, ha sollevato il velo il prof. Dante Gemmiti in un’attenta ricostruzione storica, basata sulle fonti greche e latine (Teodoro Studita e la questione moicheiana, LER, Marigliano 1993), che conferma come nel primo millennio la disciplina ecclesiastica della Chiesa d’Oriente rispettava ancora il principio dell’indissolubilità del matrimonio.
Nel settembre 796, Platone e Teodoro, con un certo numero di monaci del Sakkudion, furono arrestati, internati e poi esiliati a Tessalonica, dove giunsero il 25 marzo 797. A Costantinopoli però il popolo giudicava Costantino un peccatore che continuava a dare pubblico scandalo e, sull’esempio di Platone e Teodoro, l’opposizione aumentava di giorno in giorno. L’esilio fu di breve durata perché il giovane Costantino, in seguito a un complotto di palazzo, fu fatto accecare dalla madre che assunse da sola il governo dell’impero. Irene richiamò gli esiliati, che si trasferirono nel monastero urbano di Studios, insieme alla gran parte della comunità dei monaci di Sakkudion. Teodoro e Platone si riconciliarono con il patriarca Tarasio che, dopo l’avvento di Irene al potere, aveva pubblicamente condannato Costantino e il prete Giuseppe per il divorzio imperiale. Anche il regno di Irene fu breve. Il 31 ottobre 802 un suo ministro, Niceforo, in seguito a una rivolta di palazzo, si proclamò imperatore. Quando poco dopo morì Tarasio, il nuovo basileus fece eleggere patriarca di Costantinopoli un alto funzionario imperiale, anch’egli di nome Niceforo (758-828). In un sinodo da lui convocato e presieduto, verso la metà dell’806, Niceforo reintegrò nel suo ufficio l’egumeno Giuseppe, deposto da Tarasio. Teodoro, divenuto capo della comunità monastica dello Studios, per il ritiro di Platone a vita di recluso, protestò vivamente contro la riabilitazione del prete Giuseppe e, quando quest’ultimo riprese a svolgere il ministero sacerdotale, ruppe la comunione anche con il nuovo patriarca.
La reazione non tardò. Lo Studios venne occupato militarmente, Platone, Teodoro e il fratello Giuseppe, arcivescovo di Tessalonica, vennero arrestati, condannati ed esiliati. Nell’808 l’imperatore convocò un altro sinodo che si riunì nel gennaio 809. Fu quello che, in una lettera dell’809 al monaco Arsenio, Teodoro definisce “moechosynodus”, il “Sinodo dell’adulterio” (Epist. I, n. 38, PG 99, coll. 1041-1042c). Il Sinodo dei vescovi riconobbe la legittimità del secondo matrimonio di Costantino, confermò la riabilitazione dell’egumene Giuseppe e anatemizzò Teodoro, Platone e il fratello Giuseppe, che fu deposto dalla sua carica di arcivescovo di Tessalonica. Per giustificare il divorzio dell’imperatore, il Sinodo utilizzava il principio della “economia dei santi” (tolleranza nella prassi). Ma per Teodoro nessun motivo poteva giustificare la trasgressione di una legge divina. Richiamandosi all’insegnamento di san Basilio, di san Gregorio di Nazianzo e di san Giovanni Crisostomo, egli dichiarò priva di fondamento scritturale la disciplina dell’“economia dei santi”, secondo cui in alcune circostanze si poteva tollerare un male minore – come in questo caso il matrimonio adulterino dell’imperatore.
Qualche anno dopo l’imperatore Niceforo morì nella guerra contro i Bulgari (25 luglio 811) e salì al trono un altro funzionario imperiale, Michele I. Il nuovo basileus richiamò dall’esilio Teodoro, che divenne il suo consigliere più ascoltato. Ma la pace fu di breve durata. Nell’estate dell’813, i Bulgari inflissero a Michele I una gravissima sconfitta presso Adrianopoli e l’esercito proclamò imperatore il capo degli Anatolici, Leone V, detto l’Armeno (775-820). Quando Leone depose il patriarca Niceforo e fece condannare il culto delle immagini, Teodoro assunse la guida della resistenza contro l’iconoclastia. Teodoro infatti si distinse nella storia della Chiesa non solo come l’oppositore al “Sinodo dell’adulterio”, ma anche come uno dei grandi difensori delle sacre immagini durante la seconda fase dell’iconoclasmo. Così la domenica delle Palme dell’815 si poté assistere ad una processione dei mille monaci dello Studios che all’interno del loro monastero, ma bene in vista, portavano le sante icone, al canto di solenni acclamazioni in loro onore. La processione dei monaci dello Studios scatenò la reazione della polizia. Tra l’815 e l’821, Teodoro fu flagellato, incarcerato ed esiliato in diversi luoghi dell’Asia Minore. Alla fine poté tornare a Costantinopoli, ma non nel proprio monastero. Egli allora si stabilì con i suoi monaci dall’altra parte del Bosforo, a Prinkipo, dove morì l’11 novembre 826.
Il “non licet” (Mt 14, 3-11) che san Giovanni Battista oppose al tetrarca Erode, per il suo adulterio, risuonò più volte nella storia della Chiesa. San Teodoro Studita, un semplice religioso che osò sfidare il potere imperiale e le gerarchie ecclesiastiche del tempo, può essere considerato uno dei protettori celesti di chi, anche oggi, di fronte alle minacce di cambiamento della prassi cattolica sul matrimonio, ha il coraggio di ripetere un inflessibile non licet.

Fonte: Corrispondenza romana, 26.8.2015

“Vedevo vicino a me, dal lato sinistro, un angelo in forma corporea, … non era grande, ma piccolo e molto bello, con il volto così acceso da sembrare uno degli angeli molto elevati in gerarchia che pare che brucino tutti in ardore divino … . Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avesse un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio … ” (“Libro della Vita”, sez. III, 29, 13) – IN FESTO TRANSVERBERATIONIS CORDIS SANCTÆ THERESIÆ VIRGINIS

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Gianlorenzo Bernini, Estasi di S. Teresa d’Avila, 1647-52, Chiesa di S. Maria della Vittoria, Cappella Cornaro, Roma

Antonio Viladomat y Manalt (attrib.), Transverberazione di S. Teresa, XVIII sec., collezione privata

Francisco Salzillo y Alcaraz, S. Teresa col cuore transverberato, XVIII sec., Davis Museum, Wellesley College, Wellesley

Incompatibilità tra la fede e l'eresia in un aforisma di S. Agostino d'Ippona

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(In Psal. LIV, n. 19, in PL 36, col. 641. L'immagine del Santo d'Ippona è di Carlo Cignani, XVII sec.)

“Nullum finem fecit prædicándi Dei verbum, nisi gravi morbo oppréssus. Hæréticos perpétuo insectátus et coram et scriptis, ac nullo loco passus consístere, Africam a Manichæórum, Donatistárum, Pelagianórum aliorúmque prætérea hæreticórum erróre magna ex parte liberávit” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI AUGUSTINI, EPISCOPI, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS

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Sant’Agostino ha l’immenso merito di aver inaugurato l’era dei Dottori e di aver fatto, nel IV sec., per la teologia cattolica, ciò che, otto secoli più tardi, fece l’Aquinate per la Scolastica. Tutti i dottori della prima parte del Medioevo pensano e parlano dopo il vescovo d’Ippona, la cui personalità ricorda, a questo riguardo, quella di un altro illustre convertito, san Paolo, dapprima feroce nemico del Cristo, poi araldo del Vangelo su tutta la terra.
Il corpo di sant’Agostino, sottratto dai vescovi africani alla profanazione dei Vandali, fu portato dapprima in Sardegna, poi a Pavia, a cura di Liutprando. Si conserva ancora a San Pietro in Ciel d’Oro.
Non ci sorprende che l’Ordodel Laterano annunci: Sancti patris nostri Augustini festivitas sollemniter et devotissime condigno celebretur honore, poiché l’Ordine dei canonici lateranensi seguiva la Regola di sant’Agostino. Ma prima di questi, sono stati gli stessi papi che hanno portato il ricordo di sant’Agostino nella loro residenza del Laterano. Nel 1900, si è scoperta, sotto la basilica del Sancta Sanctorum(Scala Santa), una sala della biblioteca, lo scrinium sanctum contemporaneo di san Gregorio Magno, con un affresco di 2,50 m. di altezza che rappresentava Agostino, identificato dall’iscrizione seguente: Diversi diversa patres, hic omnia dixit,/ romano eloquio mystica verba sonans. L’affresco, che risale al VI sec., rappresenta un personaggio calvo ed imberbe, vestito della toga col clavus sulla spalla, i piedi nudi. Egli è seduto su un sedile di rara forma, con una sorta di schienale arrotondato; davanti a lui un libro aperto su una scrivania. Ha il braccio destro steso in direzione della scrivania e la mano sinistra tiene un rotolo. Non appare alcun nimbo intorno alla testa. La lettura dello stico da noi riportato nel testo, e che un è un po’ cancellato, comporta qualche variante secondo che si adotti una versione piuttosto che un’altra.




Ma questa attestazione, ovviamente, non è una garanzia di un culto. Le testimonianze della liturgia locale di Roma, infatti, ignorano la festa di sant’Agostino sino all’XI sec. Questa, invero, apparve nei sacramentari gelasiano-franchi dell’VIII sec.: Gellone, Angoulême e Rheinau hanno al 28 agosto il natale sancti Augustini, mentre San Gallo annuncia al 15 settembre una translatio sancti Augustiniche è nota solo ad essa. Tutti hanno un formulario identico, nel quale le tre orazioni sono dei riutilizzi dei testi del Gregoriano; solo il prefazio è proprio. Queste sono le stesse orazioni che si trovano nei libri romani dell’XI e del XII sec., nonché nel messale del Laterano.
Anche se il calendario di Cartagine offre la data del 29 agosto per la depositio di Agostino, la data del 28 è attestata da Prospero di Aquitania e da Vittore Vitense. È il giorno in cui la memoria di Agostino è inscritta nel martirologio geronimiano e, a suo seguito, nella quasi totalità dei calendari e martirologi, da Napoli e da Montecassino alla Spagna, dall’Italia alla Germania, dalla Francia all’Inghilterra. Ma il culto del grande Dottore d’Occidente non supera le frontiere del romanum eloquium, giacché è sconosciuto da tutte le liturgie orientali (cfr. Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, pp. 280-281).
Nel XV sec., a Roma, sul luogo in cui già si elevava una cappella dedicata a sant’Agostino, presso San Trifone, il cardinale d’Estouteville fece erigere, in onore del santo d’Ippona, una splendida chiesa che è una delle più frequentate nella Città eterna.
La sua festa fu elevata al rango di rito doppio dal 1298.
La messa, non essendo antica, è stata redatta spigolando qua e là nel Sacramentario. Così l’introito e le due letture sono le medesime del 29 gennaio; la prima colletta è identica all’oratio super populum del lunedì della II settimana di Quaresima. Il resto è dal Comune dei Dottori, salvo il versetto alleluiatico che è simile a quello della festa di san Silvestro I.
Ricordiamo oggi, per l’edificazione spirituale, tre celebri parole del grande Dottore d’Ippona: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuoreè inquieto finché non riposa in te. - Signore fammi conoscere chi Tu sei e chi sono io. - Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova, tardi ti ho amato».
Sant’Agostino è uno di quei rari santi la cui grandezza non ebbe ad attendere il riconoscimento dovuto alla morte ed alla luce dell’eternità per essere apprezzata nel suo valore. No, i contemporanei stessi ne ebbero consapevolezza; anche, in Africa, non si celebrava un concilio senza che il vescovo della cittadina di Ippona ne fosse l’anima. Sulla tomba di santa Monica ad Ostia, nell’attuale chiesa di Santa Aurea, il console Anicio Auchenio Basso, nell’anno 408,unì le lodi del figlio a quelle di sua madre:

GLORIA • VOS • MAIOR • GESTORVM • LAVDE • CORONAT
VIRTVTVM • MATER • FELICIOR • SVBOLIS (cfr. Felice Grossi Gondi, Trattato di Epigrafia cristiana latina e greca del mondo romano occidentale, vol. I, Roma 1920, pp. 275-276)

La gloria delle opere, maggiore di ogni lode, vi incorona:
la madre, specchio di virtù, più beata del figlio.


Pedro Berruguete, SS. Ambrogio ed Agostino, 1495-1500, museo del Prado, Madrid

Juan Pantoja de la Cruz, S. Agostino, 1601, museo del Prado, Madrid

Jusepe de Ribera, S. Agostino, XVII sec., museo del Prado, Madrid

Guercino, S. Agostino medita sulla Trinità, 1636, museo del Prado, Madrid

Anonimo, S. Agostino e l'angelo, XVII sec., museo del Prado, Madrid

Gaspar de Crayer, S. Agostino e l'angelo, 1655 circa, museo del Prado, Madrid

José García Hidalgo, Conversione di S. Agostino, 1663, museo del Prado, Madrid

Mateo Cerezo, Visione di S. Agostino, 1663, museo del Prado, Madrid

Claudio Coello, Trionfo di S. Agostino, 1664, Museo del Prado, Madrid

Bartolomé Esteban Murillo, S. Agostino fra il sangue di Cristo ed il latte della Vergine, 1663-64, Museo del Prado, Madrid

Miguel Jacinto Menéndez, S. Agostino appare e fa cessare la piaga delle locuste, 1734, Museo del Prado, Madrid

Antonio Viladomat, S. Agostino con la Sacra Famiglia, XVIII sec., Museo del Prado, Madrid

Philippe de Champaigne, S. Agostino d’Ippona, 1645-50, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles

Antonio Rodríguez, S. Agostino, XVII sec., Museo Nacional de Arte (MUNAL), Città del Messico

François Perrier, S. Agostino offre il suo cuore al Bambin Gesù, 1634, Musée d'art et d'histoire de Saint-Denis, Saint-Denis 

S. Agostino e l'Angelo, Monastero dell'Incarnazione, Madrid

Presbiterio con l'Arca di S. Agostino, sec. XIV, Chiesa di S. Pietro in Ciel d'Oro, Pavia



Arca marmorea di S. Agostino, sec. XIV, Chiesa di S. Pietro in Ciel d'Oro, Pavia





L'urna di cristallo e la cassa altomedievale con le reliquie del Santo contenute nell'Arca marmorea di S. Agostino, Chiesa di S. Pietro in Ciel d'Oro, Pavia


S. Agostino giacente, Arca marmorea di S. Agostino, sec. XIV, Chiesa di S. Pietro in Ciel d'Oro, Pavia

“Intuére, rex acerbíssime, tuo spectácula digna convívio. Pórrige déxteram, ne quid sævítiæ tuæ desit; ut inter dígitos tuos rivi défluant sacri cruóris. Et, quóniam non exsaturári épulis fames, non restíngui póculis pótuit inaudítæ sævítiæ sitis; bibe sánguinem scaturiéntibus adhuc venis exsécti cápitis profluéntem. Cerne óculos in ipsa morte scéleris tui testes, aversántes conspéctum deliciárum. Claudúntur lúmina non tam mortis necessitáte quam horróre luxúriæ” (Ambr., De Virg. – Lect. VI – II Noct.) - IN DECOLLATIONE SANCTI JOANNIS BAPTISTÆ

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Di san Giovanni Battista ci siamo occupati in occasione della sua Natività il 24 giugno scorso, ricordando anche i luoghi legati a tale evento con una serie di video. In uno di questi in particolare, Padre Frédéric Manns - autorevole biblista della Custodia di Terrasanta - conduce lo spettatore in un affascinante percorso di scoperta della figura del Battista, il personaggio profetico per eccellenza, dalla sua nascita ad 'Ain Karem sino alla sua morte a Macheronte (v. qui) e sepoltura.

Il nome arabo di Macheronte è Qalaat al-Mishnaqa. Il fatto tragico della morte del Battista trova riscontro nel racconto di Giuseppe Flavio. Il re nabateo Areta IV Philopatris volle vendicare con una guerra l’affronto subito da Erode Antipa, che aveva ripudiato sua figlia Shaudat, per sposare Erodiade la moglie di suo fratello Filippo.

Giuseppe Flavio riporta il sentimento popolare che intese la sconfitta di Erode Antipa come una punizione divina: Ora, alcuni giudei pensavano che la distruzione dell’esercito di Erode (Agrippa) veniva da Dio, giustamente, come punizione per quanto aveva fatto a Giovanni detto il Battista. Perché Erode lo aveva fatto uccidere, sebbene fosse un uomo giusto, e aveva esortato i giudei a praticare la virtù, sia nella giustizia l’uno verso l’altro, sia nella pietà verso Dio, e perciò a farsi battezzare (Giuseppe FlavioAntiquitates Judaicæ, XVIII, 109-119).

La decollazione di san Giovanni Battista, il 29 agosto, fin dal IV sec. era celebrata in Africa, in Oriente, in Siria e un po’ dovunque. Manca nel Sacramentario Leoniano, ma appare nel Gelasiano.

Si conosce la sorte delle reliquie del precursore del Signore. Fu dapprima sepolto in Samaria, a Sebastya, presso l’attuale Nablus, ma nel 362, sotto Giuliano l’apostata, i pagani violarono la sua tomba e bruciarono le sue sacre ossa. 

Rufino di Aquileia racconta, nella sua Storia ecclesiastica, in effetti, che il 29 agosto 362, su ordine dell'empio imperatore Giuliano l’Apostata, i pagani di Sebastya distrussero la tomba venerata del Precursore e del profeta Eliseo, bruciando gran parte dei resti e disperdendone le ceneri. Parte delle reliquie furono salvate da alcuni monaci di passaggio che le consegnarono a Gerusalemme all’igumeno Filippo. Scrive Rufino: «Al tempo dell’imperatore Giuliano … a Sebaste città della Palestina, avvenne che i pagani invasero il sepolcro di San Giovanni Battista: dapprima ne dispersero le ossa, ma poi le raccolsero di nuovo per bruciarle; mischiarono con della polvere quelle sacre ceneri e le dispersero per campagne e villaggi. Ma per disposizione divina avvenne che da Gerusalemme sopravvenissero alcuni provenienti dal monastero di Filippo … mischiatisi fra coloro che raccoglievano le ossa destinate al fuoco, dopo averne raccolti essi pure con molta cura e pietosa premura, per quanto riusciva loro possibile, si allontanarono di là furtivamente…e recarono al santo padre Filippo quelle venerande reliquie» (Rufino, Historia Ecclesiastica, II, 28, in PL 21, col. 536).
In senso analogo si esprimono Teodoreto, Filostorgio ed altri.
Una parte delle reliquie poté essere rimessa a sant’Atanasio, ad Alessandria, e poi dal patriarca Teofilo, il 27 maggio 395, riposte nella basilica (Martyrium) che era stata dedicata al Precursore sul sito dell’ex tempio di Serapide.
Gran parte delle reliquie che si salvarono dal fuoco e dalla distruzione sarebbero state, infine, tumulate nella città di Mira.
Si sa per certo, infatti, che nel 540 le reliquie del Santo erano pervenute a Mira, centro anatolico dell’antica Licia, luogo in cui nel 1099 vennero recuperate (comprate o rapinate non è certo ...) dai Genovesi di ritorno dall’assedio di Antiochia, avvenuto nel corso della prima crociata.

Le preziose reliquie giunsero, dopo un viaggio durato tre mesi, finalmente a Genova, come ci tramandano gli scritti di Jacopo da Varagine, il 6 maggio dello stesso anno, e trasportate stabilmente nella Cattedrale di San Lorenzo dopo una probabile sosta nella chiesa di San Giovanni di Prè, prospiciente l’omonima marina.

Nonostante tutto ciò, la tomba del Battista a Sebastya continuò ad essere meta di devoti pellegrinaggi, tanto che san Girolamo testimonia i miracoli che vi avvenivano. Lì, secondo la testimonianza sempre dell’autore della Vulgata, erano venerate, oltre la tomba del Battista, anche quelle dei profeti Abdia ed Eliseo (Donato BaldiEnchiridion locorum Sanctorum documenta S. Evangelii loca respicientia, Jerusalem 1955, p. 231. V. anche san GirolamoEpist. 46, in PL 22, col. 491; Id., Comment. in Abdias, in PL 25, col. 1099). Sotto la basilica, che fu eretta in onore del Battista, le reliquie di Eliseo e di Giovanni erano conservate in «in due casse ricoperte d’oro e d’argento, davanti alle quali ardevano in perpetuo delle lampade», come racconta un documento all’inizio del VI sec. (Baldiop. cit., p. 232). Oggi ancora si può vedere a Sebastya il luogo, che esse occupavano nella cripta della chiesa del XII costruita sul luogo della basilica bizantina, mentre il ricordo della scoperta della testa del Precursore è legato ad un’altra chiesa, di minori dimensioni, che si trova ad una certa distanza, presso il Forum (foro). Nel 1931, sono stati scoperti, in quest’ultima, degli affreschi, molto danneggiati, rappresentanti la decapitazione di Giovanni e la scoperta della sua testa (F. ZayadineSamarie, in Bible et Terre Sainte, n. 121 (1970), pp. 6-14, partic. pp. 13-14).





Per quanto concerne la sorte della testa di Giovanni Battista, essa è difficile da ricostruire. Niceforo (Niceforo Callisto XanthopoulosEcclesiasticæ Historiæ, lib. I, cap. 19, in PG 145, col. 689-692) e Simeone Metafraste, in accordo con Giuseppe Flavio (Giuseppe FlavioAntiquitates Judaicæ, XVIII, 5, 1-2; Id., XVIII, 116-119), affermano che il capo del Battista fu sepolto da Erodiade nella fortezza di Machairos (Macheronte) dove, probabilmente, era stato ucciso. Altri affermano che fosse stato sepolto nel palazzo di Erode a Gerusalemme. Una tradizione vorrebbe, in effetti, che la sacra reliquia della testa, scoperta nella Città Santa sotto l’impero di Costantino, venisse trasferita segretamente ad Emesa, l’odierna Homs, in Fenicia (ora in Siria), e nascosta in un luogo ignoto sino a che non fosse stato manifestato in una rivelazione che portò, nel 452-453, il vescovo Uranio a farne il riconoscimento autentico. Per un’altra tradizione, l’imperatore Teodosio fece deporre ad Hebdomon, un quartiere di Costantinopoli, corrispondente all’odierna Bakırköy, il presunto capo di san Giovanni, un tempo conservato a Gerusalemme da alcuni monaci.

Non si sa nulla di un trasferimento del capo di san Giovanni Battista a Roma. Quello che, ancora oggi, è venerato a San Silvestro in Capite appartiene, non al Precursore, ma a quel celebre prete martire Giovanni, che i pellegrini dell’Alto Medioevo visitavano sulla via Salaria vetus, sul cimitero chiamato precisamente ad septem palumbas ad Caput Sancti Johannis.

Ecco come si esprime il De Locis SS. MartyrumInde, non longe in Occidente, ecclesia sancti Johannis martyris, ubi caput ejus in alio loco sub altari ponitur, in alio corpus.

Il suo nome figurava probabilmente nel Martirologio Geronimiano, il 24 giugno, con quello di Festus, ma sarebbe stato senza dubbio assorbito da quello del Precursore.
A questo san Giovanni della via Salaria, era dedicata una piccola chiesa speciale, presso quella di San Silvestro, che, in ragione della santa reliquia, prese il titolo di IN CAPITE.
La reliquie, secondo una leggenda, la Magna Legenda Sancti Grati, non fondata però su dati storici, sarebbe stata portata a Roma dal vescovo san Grato d’Aosta, il quale, durante un viaggio in Terra Santa assieme a san Giocondo, dai ruderi del palazzo di Erode, sarebbe stato portato da un angelo presso un pozzo da cui riemerse miracolosamente la testa del Battista. Il santo vescovo la raccolse e, nascosta, la portò con sè. Sulla strada del ritorno, ovunque andasse, si verificavano miracoli e le campane suonavano prodigiosamente. Giunto a Roma e presentatosi al papa, egli consegnò la testa del Battista al Pontefice, ma, per prodigio, la mandibola rimase attaccata alle sue mani. San Grato allora la portò ad Aosta ed ancora oggi questa è venerata nella Cattedrale (Per riferimenti, cfr. Amato Pietro FrutazLe fonti per la storia della Valle d’Aosta, vol. 1, Roma 1966, pp. 181-182, 194). Per questo motivo, spesso san Grato è raffigurato con tra le mani la testa di san Giovanni.
Fino al 1411 la reliquia romana, reputata appartenente al Battista, veniva portata ogni anno in processione da quattro arcivescovi. Il cranio custodito a Roma è senza la mandibola, conservata nella cattedrale di San Lorenzo a Viterbo.
La spada del boia troncò il capo di Giovanni, ma su questo capo, come canta Paolo Diacono, nell’inno delle Lodi Ut queant laxis del 24 giugno, Dio ha posto la triplice corona di profeta, di martire e di vergine: Serta ter denis alios coronant Aucta crementis, duplicata quosdam; Trina centeno cumulata fructu Te sacer ornant (Paolo DiaconoCarmen VDe Sancto Joanne Baptista, 10, in PL 95, col. 1597).
In onore del glorioso Precursore decollato, furono erette nel basso Medioevo parecchie chiese e confraternite destinate all’assistenza religiosa dei condannati a morte. Produssero un gran bene e, grazie ad esse, la soddisfazione della giustizia umana, tutta avvolta all’epoca di un’atmosfera di compassione e di amore, si elevò all’altezza di un atto di religione, in modo che questi infelici, assistiti da dei “consolatori” e nel bacio del Crocifisso, potevano salire rassegnati al patibolo, felici di poter soddisfare Dio e la società per il crimine commesso. Perciò san Giuseppe Cafasso, “consolatore” zelantissimo dei condannati a morte, diceva: “Su cento appesi, cento salvati!”.
A Roma, due chiese erano dedicate alla decollazione di san Giovanni Battista. La prima si trovava vicino alle prigioni di Tor di Nona, di fronte a Castel Sant’Angelo. In questa chiesetta si portavano i condannati a morte perché ricevessero prima della pena gli ultimi conforti religiosi (Cfr. M. ArmelliniLe chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 351). L’altra, denominata San Giovanni Decollato o della Misericordia o Santa Maria in Petrocia o della Fossa, nel rione Ripa, esiste ancora oggi, e non è lontana dal Velabro, ed uno dei numerosi privilegi di cui godeva la sua confraternita era di poter, ogni anno, liberare durante la Quaresima un condannato a morte. In questa chiesa si seppellivano, in fosse comuni, i cadaveri dei condannati a morte (Ibidem, pp. 632-633). Esse sono coperte da chiusini in marmo sui quali è scritto: Domine, cum veneris iudicare, noli me condemnare (Signore, quando verrai a giudicare, non condannarmi). Nella camera storica dell’Arciconfraternita sono conservati numerosi cimeli relativi all’attività della medesima: tra le altre cose, il cesto che raccoglieva la testa dei giustiziati, l’inginocchiatoio sul quale Beatrice Cenci recitò l’ultima sua preghiera, le barelle sulle quali i confratelli trasportavano i resti dei condannati a morte per la sepoltura.
Riguardo all’origine dell’odierna celebrazione, da un punto di vista liturgico, nel VII sec. a Roma si annunciava al 30 agosto, dopo il natale dei Santi Felice ed Adautto: Et depositio Helisæi et decollatio sancti Iohannis Baptistæ. La doppia menzione di Eliseo e di Giovanni Battista rileva chiaramente l’origine della festa del Precursore. La festa della Decollazione di san Giovanni è incontestabilmente legata ai santuari sorti sulla tomba e sulla sepoltura del capo del Battista.
Il Lezionario di Gerusalemme dell’inizio del V sec. infatti già ne fa menzione. I Bizantini ed i Siriani d’Antiochia la celebrano il 29 agosto; i Copti lo fanno il 30 perché il 29 è il giorno del Nuovo Anno, e gli Armeni il sabato della III settimana dopo la Dormizione della Théotokos. In Occidente, il martirologio geronimiano annuncia la festa alla stessa data, facendo menzione di Sebaste: In Provincia Palestina civitate Sebastea natale sancti Iohannis Baptistæ, qui passus est sub Herode rege. Essa dové essere stabilita a Roma sotto il papa Teodoro (642-649), che era di origine palestinese.
Nei secc. XI e XII, il titolo di «Decollatio» è prevalso a Roma su quello di «Passio», che era dato dai sacramentari dell’VIII sec. Il sacramentario di San Trifone parla di Revelatio capitis, insistendo sull’invenzione della reliquia.

Tito Chartophylax, Icona di S. Giovanni Battista (Ο Άγιος Ιωάννης ο Πρόδρομος), 1536, Chiesa della Panaghia Chryseleousis, Empa

Geertgen tot Sint Jans, Leggenda delle reliquie di S. Giovanni Battista, 1484 circa, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Bernardino Luini, Salomé con la testa decapitata del Battista, 1515-25 circa



Andrea di Bartolo Solari (Andrea Solario), Salomé con la testa del Battista, 1510-24, Metropolitan Museum of Art, New York

Andrea di Bartolo Solario, Testa del Battista, 1507, Musée du Louvre, Parigi

Scuola italiana, Testa del Battista, The Ashmolean Museum of Art and Archaeology, Oxford

Copia di Andrea Solari, Testa del Battista, XVI sec., museo del Prado, Madrid

Scuola italiana, Testa del Battista, 1511, National Gallery, Londra

Francesco Cairo, Testa del Battista, XVII sec.

Jusepe de Ribera, Testa del Battista, 1644, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

Jusepe de Ribera, Testa del Battista, XVII sec., Museo civico Filangieri, Napoli



Andrea Vaccaro, Testa del Battista, XVII sec.

Sebastián de Llanos y Valdés, Testa del Battista, XVII sec., collezione privata



Autore anonimo sivigliano, Testa del Battista, XVII sec., Ayuntamiento de Sevilla, Siviglia

Domenichino, Testa del Battista, 1649

Orazio Gentileschi, Carnefice con la testa del Battista, 1612-13, Museo del Prado, Madrid



Belisario Corenzio, Salomé con la testa del Battista, XVII sec.

Pier Francesco Mazzucchelli (detto Il Morazzone), Decapitazione del Battista, 1620 circa

Martin Faber, Decollazione del Battista, 1616, Musée de Valence, Valence

Pieter Paul Rubens, Decollazione del Battista, 1608-09, collezione privata



Caravaggio, Decollazione di S. Giovanni Battista, 1608, Saint John Museum, La Valletta

Massimo Stanzione, Decollazione di S. Giovanni Battista, 1630 circa, Museo del Prado, Madrid

Juan Bautista Maino, Salomé con la testa del Battista, XVII sec.

Carlo Dolci, Salomé con la testa del Battista, 1665-70, Royal Collection, Windsor

Onorio Marinari, Salomé riceve la testa del Battista appena tagliata, 1680 circa

Onorio Marinari, Salomé con la testa del Battista, XVII sec., Szépművészeti Múzeum,  Budapest

Onorio Marinari, Salomé con la testa del Battista, XVII sec., collezione privata

Jusepe Leonardo, Decollazione del Battista, 1637 circa, Museo del Prado, Madrid

Giovanni Andrea Ansaldo, Decollazione del Battista, 1615

John Rogers Herbert, Giovanni Battista rimprovera Erode, 1848, collezione privata

Vasily Grigoryevich Khudyakov, Decollazione del Battista (Усекновение головы Иоанна Предтечи),  1857

Jan Adam Kruseman, Salomé con la testa del Battista, 1861 orca, Rijksmuseum, Amsterdam

Faustino Ranieri, Decollazione del Battista, XIX sec.

Francesco Grandi, Decollazione del Battista, 1882, Museo diocesano, Rimini

Roberto Ferri, S. Giovanni decollato, 2008, Duomo, Montepulciano

Scuola Napoletana, S. Giovanni nel deserto, XVII sec., collezione privata


“Exínde cœpit supérnis abundáre delíciis, illustrári visiónibus, colliquéscere seráphicis ardóribus. Angelo tutelári, sanctæ Catharínæ Senénsi, Vírgini Deíparæ inter assíduas apparitiónes mire familiáris, a Christo has voces audíre méruit: Rosa cordis mei, tu mihi sponsa esto” (Lect. VI – II Noct.) – SANCTÆ ROSÆ A SANCTA MARIA, VIRGINIS LIMANÆ

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Questo delicato fiore della Chiesa del Perù ha avuto il raro privilegio che il suo ufficio venisse redatto da quel pio e dotto liturgista che fu il Cardinal Giovanni Bona.
La popolarità della nostra Santa, morta il 24 agosto 1617, fu tale che Roma aveva permesso, sin dalla beatificazione, la celebrazione della sua Messa votiva nel mondo intero, caso unico nella storia del culto dei santi. Fu canonizzata il 12 aprile 1671.
La festa di santa Rosa fu iscritta nel calendario ed elevata da Benedetto XIII al rito doppio nel 1727, in modo che essa ha praticamente soppresso quella dei due martiri del cimitero di Commodilla, ridotta al rango di mera commemorazione.
Come santa Caterina da Siena, Rosa era iscritta al Terz’Ordine di san Domenico; nella basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma, presso la tomba della vergine di Siena, si venera il crocifisso dinanzi al quale Rosa aveva costume di fare l’orazione.
Prima di ammettere la pia vergine peruviana alle sue nozze mistiche, Dio si compiacque farla passare attraverso la prova del fuoco. Egli la purificò con dure penitenze corporali, per mezzo anche di quelle pene mistiche che soffrì l’anima che non è ancora abituata al contatto con la divinità, la quale, al dire dell’Apostolo, è sempre ignis consumens.
La messa è dal Comune delle Vergini, come il 10 febbraio, ma la prima colletta è propria, nella quale è disegnato un bel programma di vita spirituale. Ciascuno di noi deve esprimere Gesù Cristo nella sua vita, nei suoi pensieri, nelle sue parole, togliendo alla pietà cristiana tutto quel che di aspro o di spigoloso può conferirle talora la nostra mortificazione; cosi che la devozione appia anche agli altri soave ed amabile, come appariva appunto quella del Divin Maestro e della sua sposa oggi celebrata.



Scuola di Cusco, S. Rosa col Bambino Gesù, 1680-1700, Museo de Arte de Lima, Lima

Claudio Coello, S. Rosa con il Bambino Gesù, 1683, Museo del Prado, Madrid

Bartolomé Esteban Murillo, S. Rosa da Lima, 1670, Museo Lázaro Galdiano, Madrid


Gregorio Vásquez de Arce y Ceballos, Matrimonio mistico di S. Rosa (o Caterina da Siena) alla presenza di S. Barbara, S. Giuseppe e S. Agostino, 1670,  Museo de Arte del Banco de la República, Bogotà

Scuola catalana, S. Rosa stringe il Bambino Gesù, 1788 circa, collezione privata


Nicolás Correa, Nozze mistiche di S. Rosa, 1691, Museo Nacional de Arte (MUNAL), Città del Messico

Anonimo, S. Rosa ai piedi di S. Domenico, XVII sec., Museo de Arte Religioso, Basilica Cattedrale, Lima 

Francisco Martínez, S. Rosa rifiuta la mano di un pretendente, XVII sec., Museo Universitario BUAP, Città di Puebla

Francisco Martínez, S. Rosa nel suo eremitaggio domestico, XVII sec., Museo Universitario BUAP, Città di Puebla

Francisco Martínez, S. Rosa attaccata dal demonio, XVII sec., Museo Universitario BUAP, Città di Puebla

Francisco Martínez, S. Rosa conversa con Gesù Bambino, XVII sec., Museo Universitario BUAP, Città di Puebla

Francisco Martínez, Matrimonio mistico di S. Rosa, XVII sec., Museo Universitario BUAP, Città di Puebla

Cristóbal de Villalpando, Nozze mistiche di S. Rosa, XVII sec., Cattedrale Metropolitana, Città del Messico

Juan Tinoco, Matrimonio mistico di S. Rosa, XVIII sec., Cappella Ochavo, Cattedrale, Puebla

Jose del Pozo (attrib.), S. Rosa, 1810-20 circa, Museo de Arte de Lima, Lima

Madonna del Rosario tra i SS. Domenico e Rosa, chiesa di S. Domenico, Lucera


Altare di S. Rosa, con i crani di S. Rosa e di S. Martino de Porres e le reliquie di S. Giovanni Macias, Basilica di S. Domenico, Lima



Reliquia del cranio di S. Rosa, Basilica di S. Domenico, Lima

Ricostruzione computerizzata del verosimile volto di S. Rosa sulla base dei rilievi del cranio

Sempre il matrimonio .........

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Il matrimonio è il fulcro, da sempre, della morale cristiana, contro cui i nemici della Chiesa e della fede cristiana si sono accaniti.
Proprio in difesa del matrimonio, la Chiesa annovera alcuni martiri. Tra questi uno è san Giovanni Battista, il cui martirio è stato celebrato ieri, morto per la purezza ed indissolubilità del vincolo nuziale.
Ma anche san Tommaso Moro, che si oppose ad un atto del Parlamento (inglese) direttamente contrario alla legge di Dio e della sua Santa Chiesa (v. qui e qui).
Insomma, nella storia della Chiesa, il matrimonio è stato uno dei terreni di scontro tra opposte forze. Ieri come oggi. Rilancio volentieri, perciò, questa riflessione tratta da Rorate caeli.

Marriage, it's always been marriage


From the very first Martyrdom, that of the "Greatest born of women", Saint John the Baptist, whose Beheading we celebrate today, the purity/indissolubility of marriage has always been the essential moral and social dogmatic centerpiece of Christian life since the fullness of time, when Our Lord Jesus Christ, "by virtue of His supreme legislative power ...restored the primeval law in its integrity by those words which must never be forgotten, 'What God hath joined together let no man put asunder'." (Casti connubii, 34)
Always marriage: always marriage, whose purity the Greeks were at times led to corrupt by Imperial orders. Always marriage -- the rejection of the indissolubility of a single marital bond at the end made that most Catholic Isle, the Dowry of Mary, be led astray by a murderous and lecherous tyrant.
In the Sacrosanct Council of Trent, the Sacrament was completely surrounded with utmost protection. But despite so much attack from the neo-paganized society around us, it is incredibly under attack from the very top of our own Church, and, worse, as always happens with Modernists, they do not wish to disestablish indissolubility itself. No, they want to disestablish it in all but name: if a "remarried" couple is not in need of confession and can approach the most Blessed Sacrament in purity officially (and so an unmarried couple, or a homosexual or polygamous "partnership" of any sort), then what is the purpose of the Sacrament at all, much less of its indissolubility?
As always, these evil hierarchs now at the highest echelons of the Church,
"put their designs for her ruin into operation not from without but from within; hence, the danger is present almost in the very veins and heart of the Church, whose injury is the more certain, the more intimate is their knowledge of her. Moreover they lay the axe not to the branches and shoots, but to the very root, that is, to the faith and its deepest fires. And having struck at this root of immortality, they proceed to disseminate poison through the whole tree, so that there is no part of Catholic truth from which they hold their hand, none that they do not strive to corrupt. Further, none is more skilful, none more astute than they, in the employment of a thousand noxious arts; for they double the parts of rationalist and Catholic, and this so craftily that they easily lead the unwary into error; and since audacity is their chief characteristic, there is no conclusion of any kind from which they shrink or which they do not thrust forward with pertinacity and assurance. To this must be added the fact, which indeed is well calculated to deceive souls, that they lead a life of the greatest activity, of assiduous and ardent application to every branch of learning, and that they possess, as a rule, a reputation for the strictest morality. Finally, and this almost destroys all hope of cure, their very doctrines have given such a bent to their minds, that they disdain all authority and brook no restraint; and relying upon a false conscience, they attempt to ascribe to a love of truth that which is in reality the result of pride and obstinacy." (Pascendi, 3)

May Saint John the Baptist, through his most pure and blessed blood, preserve the Church in this extremely perilous time.
Saint Pius X, pray for us.

La Messa dell’assemblea culla l’agnosticismo - Editoriale di settembre di “Radicati nella fede”

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Nella memoria liturgica di S. Raimondo Nonnato, cardinale e confessore, rilancio quest’editoriale di Radicati nella fede del mese di settembre 2015.


Vicente Carducho, Martirio di S. Raimondo, XVI-XVII sec., Museo del Prado, Madrid

Jerónimo Jacinto de Espinosa, S. Raimondo Nonnato, XVII sec., Museo del Prado, Madrid

Diego Gonzáles de Vega, Cristo incorona S. Raimondo Nonnato, 1673, Museo del Prado, Madrid


Francisco Pacheco, Ultima comunione di S. Raimondo, 1611


Francisco de Zurbarán, Madre implora benedizione di S. Raimondo, XVII sec.


Juan de Mesa, San Ramón Nonato, 1626-27, Museo de Bellas Artes, Siviglia

LA MESSA DELL’ASSEMBLEA CULLA L’AGNOSTICISMO

Editoriale “Radicati nella fede”
Anno VIII n. 8 - Settembre 2015



Ciò che non c’è più nella Messa, scompare inevitabilmente anche dalla vita cristiana. È solo questione di tempo, e nemmeno molto.
Così è stato con l’ultima riforma liturgica: i “vuoti” del rito sono diventati “vuoti” del nuovo cristianesimo.
Ne vorremmo sottolineare uno tra tutti: la scomparsa del submissa voce per il prete, che corrisponde all’assenza del silenzio per i fedeli. Ci sembra questo uno dei punti che più evidentemente indicano un cambiamento radicale nel rito cattolico. D’altronde è questo che soprattutto appare come scandaloso, per i fedeli che oggi si imbattono nella Messa tradizionale: le lunghe parti in cui il sacerdote, specialmente nel canone, pronunciando le parole sottovoce, non fa sentire alcunché ai fedeli, obbligandoli al silenzio.
Più volte abbiamo constatato che è questo a far problema, più dell’uso del latino.
Eppure questo è un aspetto determinante, che se eliminato, cambia tutto non solo nella messa, ma nel cristianesimo stesso.
Il submissa voce, il sottovoce per il prete e il corrispondente lungo silenzio per i fedeli, “incastra” prete e fedeli alla fede, senza appoggi umani. Il sacerdote all’altare deve stare di fronte a Dio, ripetendo sottovoce le parole di Nostro Signore, rinnovando il Sacrificio del Calvario. È un rapporto diretto, personale, intimo con Dio; certo mediato dalla consegna della Chiesa, che custodisce e trasmette le parole che costituiscono la forma del sacramento, ma che in quell’istante non si posa sull’umano della Chiesa, ma sul miracolo della grazia. Così facendo il prete, nel rito tradizionale, immediatamente insegna ai fedeli che ciò che conta è Dio stesso, la sua azione, la sua salvezza, e che queste ci raggiungono personalmente.
La nuova messa non è così, è tutta comunitaria. Il prete in essa, oltre ad essere tutto rivolto ai fedeli, opera come colui che narra ai fedeli ciò che il Signore ha fatto nell’ultima cena: racconta ai fedeli le parole e i gesti del Signore, così che l’azione sacramentale che ne scaturisce appare tutta mediata dall’attenzione che questi ultimi vi devono mettere. Scompare così per il prete il rapporto personalissimo con Dio nel cuore della messa cattolica, il canone, sostituito da questo estenuante rapporto con chi è di fronte all’altare. La nuova forma della messa comunitaria ha così trasformato il sacerdote, gettato in pasto all’attivismo più sfiancante, che è quello di farsi mediare la fede e il rapporto con Dio sempre dai fedeli. La nuova messa ha prodotto un nuovo clero non più aiutato a stare con Dio, non più ancorato all’atto di fede.
Il continuo dialogo nella messa, tra sacerdote e assemblea, ha anche modificato la concezione di Chiesa: oggi pensiamo la Chiesa come nascente dal basso, dal battesimo e quindi dal popolo cristiano; non la pensiamo più come realmente è, nascente dall’alto, da Dio, dal sacramento dell’Ordine. Chi pensa che la Chiesa sorga dal battesimo, non sopporta più quel prete all’altare, che sottovoce pronuncia le parole che costituiscono il miracolo del sacramento.
Anche i fedeli sono direttamente rovinati dal nuovo rito perché, continuamente intrattenuti dal parlare del prete, hanno disimparato anch’essi a stare di fronte a Dio. Così Dio stesso si trova sostituito dall’assemblea celebrante, che diventa ingombrante ostacolo nell’educazione al personale atto di fede.
In questi ultimi tempi si è tentato nella messa moderna di correre ai ripari, cercando invano di reintrodurvi un po’ di silenzio, collocato dopo la lettura del Vangelo, ma anche questo espediente rivela la gravità della nuova posizione. Questo silenzio reintrodotto, solitamente brevissimo, è un silenzio di riposo umano, di meditazione: esso è di tutt’altra natura rispetto a quello prodotto dal submissa voce. Il submissa voce produce un silenzio che avvolge il rapporto intimo del sacerdote con Dio, che dà la sua persona affinché accada l’azione divina che salva. Il silenzio del submissa voce è incentrato sull’azione di Dio e non sulla meditazione dell’uomo, ed è uno dei più grandi richiami al primato della vita soprannaturale, al primato della grazia.
Non c’è nulla da fare, occorre tornare alla Messa di sempre, per tornare alla centralità dell’atto di fede, personale risposta all’azione di Dio.
Sacerdoti e fedeli non possono resistere di fronte al mondo, se non sono costituiti in forza da questo rapporto personalissimo, che nessuna assemblea può sostituire.
L’alternativa? Un agnosticismo pratico, un dubbio di fede pratico, un sospeso dell’anima, riempito dalle parole di un’assemblea che intrattiene per non far pensare.
Osiamo dirlo: la nuova messa, tutta ad alta voce, tutta narrazione e predica, ha cullato i vari agnosticismi, dei preti e dei fedeli, non fermando il dramma dell’apostasia, cioè dell’abbandono pratico della vita cristiana. Ha illuso, dando, nel migliore dei casi, un po’ di calore umano a buon mercato, diseducando a una posizione di fede vera, assolutamente necessaria per attraversare la battaglia di questa vita.
Torniamo alla Messa tradizionale, prima palestra del cristianesimo, quello vero.

“Sed multis deínceps clárior miráculis, timens sui nóminis celebritátem, Arelátem ad beátum Cæsárium conténdit. A quo post biénnium discédens, secéssit in erémum; ubi diútius herbárum radícibus et cervæ lacte, quæ státis ad eum horis veniébat, admirábili sanctitáte vixit. Quæ cerva, insequéntibus quodam die cánibus régiis, cum in antrum Ægídii refugísset, Gálliæ regem ímpulit, ut ab eo summis précibus péteret, ut in loco spelúncæ monastérium éxstrui paterétur” (Lect. III – II Noct.) - SANCTI ÆGIDII, ABBATIS

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Il culto di quest’illustre Santo fu introdotto in Italia verso il IX sec. In effetti, il nome di sant’Egidio comparve soltanto nella seconda recensione del martirologio di Usuardo verso l’anno 875.
Lo si trova in seguito negli Addimenta del Geronimiano, poiché il culto del fondatore dell’abbazia di Saint-Gilles, in Linguadoca, doveva diffondersi a partire dal X sec., e soprattutto nei secc. XI e XII. L’importanza dell’abbazia, che costituiva una tappa per i pellegrini di Roma e di Compostella, contribuì parecchio al culto del Santo, tanto quanto la leggenda dello stesso, così elevata nei colori in cui si presenta (cfr. Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 284).
La devozione al Santo si sviluppò largamente in Italia, dove numerose chiese gli furono dedicate. A Roma se ne trova una in Vaticano (chiesa di Sant’Egidio a Borgo) attestata letterariamente solo nel XIII sec., sebbene certamente di epoca anteriore; Bonifacio VIII l’unì al Capitolo di San Pietro (cfr. Mariano Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 788-789; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 164). Si celebrava un tempo in questo giorno una grande festa, con fuochi d’artificio, musica, corse di cavalli attraverso il quartiere; questa chiesa era la sede di un’importante confraternita. Attualmente la chiesa è affidata alle cure delle Suore Francescane Missionarie di Maria, che, dal 1926, sovrintendono al Laboratorio per il restauro degli arazzi del Vaticano.
A Trastevere esiste ancora un’altra chiesa sotto il nome di sant’Egidio, che occupa lo spazio dell’antico tempio di San Lorenzo in Janiculoo de curtibus. Essa, concessa dal capitolo di Santa Maria in Trastevere nel 1610 ad un pio macellaio, tale Agostino Lancellotti, perché la restaurasse, fu aiutato dalle generose offerte della principessa di Venafro, agli inizi del XVII sec. ed affidata alle Carmelitane della riforma di santa Teresa e dedicata a Sant’Egidio (cfr. Mariano Armellini, op. cit., pp. 650-651). Sempre nel XVII sec., le Carmelitane Scalze lasciarono il convento, trasferendosi ad un altro poco distante. La chiesa è ora dedicata alla Madonna del Carmine. Dell’ex convento delle Carmelitane, oggi, una parte ospita un Museo del folklore e dei poeti romaneschi; mentre un’altra parte è sede principale dell’associazione laicale Comunità di Sant’Egidio.
L’autenticità degli Acta di sant’Egidio (Vita Ægidii) è dubbia. Egli visse probabilmente nella seconda metà del VII sec. e fondò, nella diocesi di Nîmes, un celebre monastero in onore dei santi Apostoli Pietro e Paolo, dove, dopo la sua morte, fu sepolto con onore. Urbano IV estese la festa di sant’Egidio alla Chiesa universale.
La messa è interamente quella del Comune degli Abati, come per san Saba, il 5 dicembre.
Una delle rappresentazioni più famose di sant’Egidio lo raffigurano che, mentre celebra la messa, un angelo dal Cielo gli porge un libro aperto (o una pergamena srotolata), il libro dei peccati di Carlo Magno (o forse  di Carlo Martello, prima della battaglia dei Poitiers contro i saraceni), sul quale il santo lesse il delitto che l’imperatore non aveva il coraggio di confessargli. Si trattava probabilmente di una relazione incestuosa del sovrano carolingio con la sorella Gisella da cui sarebbe nato il famoso conte Rolando/Orlando (per riferimenti sul peccato di Carlo Magno v. qui). Il Santo intercedé, offrendo il divin sacrificio in espiazione del re, e vide via via cancellato il peccato sino a scomparire del tutto dal libro dei peccati (v. Auctore Anonymo, Vita S. Ægidii abbatis, Caput III. Regimen monasterii; accessus ad Carolum regem et reditus ad monasterium, quod brevi subvertendum prædicit: iter Roman, ubi monasterium offert Pontifici, a quo exemptionis privilegium et dona impetrat, dein redit ad suos: beata Sancti mors, et sepultura, §§ 20-21, in Bollandisti, Acta Sanctorum, vol. XLI, Septembris, t. I, Die Prima, Parigi-Roma, 1868, pp. 302-303).



Maestro di S. Egidio, Messa di S. Egidioa favore di Carlo Martello, 1470-1500 circa, National Gallery, Londra



Maestro di S. Egidio, S. Egidio e la cerva, 1470-1500 circa, National Gallery, Londra




Hans Memling, Trittico della famiglia Moreel (famiglia Moreel con i SS. Guglielmo di Malavalle, Mauro, Cristoforo, Egidio e Barbara), 1484, Groeninge Museum, Bruges

Hans Memling, SS. Girolamo ed Egidio, 1491, St. Annen-Museum, Lubecca

“Regni vero negótia ita dispósuit, ut, accítis úndique prudentíssimis et sanctíssimis viris, nihil umquam sine illórum consílio molirétur; humíllimis ínterim précibus in cínere et cilício Deum déprecans, ut univérsum Hungáriæ regnum, ántequam e vita migráret, cathólicum vidére mererétur; vere, propter ingens dilatándæ fídei stúdium, illíus gentis Apóstolus nuncupátus, facta a Románo Pontífice ipsi posterísque régibus præferéndæ crucis potestáte” (Lect. V – II Noct.) “Dei Genitrícem, quam ardentíssime venerabátur, amplíssimo in ejus honórem constrúcto templo, Hungáriæ patrónam instítuit; ab eádem vicíssim Vírgine recéptus in cælum ipso suæ Assumptiónis die, quem Húngari e sancti regis institúto Magnæ Dóminæ diem appéllant” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI STEPHANI HUNGARIÆ, REGIS, CONFESSORIS

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Oggi si presenta a noi un re glorioso e santo; egli è preceduto dalla Croce, come lo sono gli arcivescovi, poiché Silvestro II gli concesse questo grande privilegio in considerazione dell’apostolato svolto da lui per la conversione degli Ungari (ungheresi) alla fede (cfr. Silvestro II, Epist. V, Legati notabilitis, 27 marzo 1000, in PL 139, col. 274-276).
Dando a santo Stefano il titolo di apostolo dell’Ungheria, si è già fatto di lui il suo panegirico. Tutto ciò che ci si poteva da un apostolo santo, egli lo fece; col suo esempio e con il suo ascendente, egli portò i magnati ed il popolo ad abbracciare la fede cattolica; egli dette al suo regno una legislazione cristiana; fondò e dotò di sedi episcopali il suo paese; eresse dei monasteri, edificò degli istituti di beneficenza, non soltanto in Ungheria, ma sino a Costantinopoli, a Gerusalemme, a Ravenna ed a Roma.
In Vaticano, l’antico monasterium Sancti StephaniCata Barbara patricia prese più tardi il nome degli Ungheresi, dopo che il loro santo re Stefano ne ebbe restaurato la chiesa e vi ebbe annesso un ospizio per i pellegrini che, dal suo regno, si recavano a Roma alle tombe degli Apostoli (cfr. M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vatican, Roma 18912, pp. 747-748; Ch. Huelsen, Le Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 472). Quest’ospizio si ergeva sul luogo occupato, in parte, dall’edificio della nuova sacrestia Vaticana costruita sotto il pontificato di Pio VI (cfr. M. Armellini, op. cit., p. 749). La chiesa era parrocchia e, sulla facciata, si leggeva quest’iscrizione:
ECCLA • HOSPITALIS • SĈI • STEPHANI • REGIS • HVNGAR (ibidem, p. 748)
Sette anni prima della sua morte, santo Stefano fu preceduto in Cielo da suo figlio, sant’Emerico, un angelo di verginale e fresco candore, che Dio illustrò con numerosi miracoli.
Il nostro santo lo seguì nella tomba il 15 agosto 1038, ma la sua festa fu fissata, con rito semidoppio, dal beato Innocenzo XI, nel 1686, al 2 settembre, in memoria della vittoria sui Turchi, riportata in questo giorno a Budapest dall’armata cristiana. Il 30 maggio in Ungheria si celebra con messa propria la festa dell’invenzione della mano destra del Santo (Missa In Festo Inventionis Manus Dexteræ Sancti Stephani Regis Hungariæ. Die XXX. Maji).
La messa è la stessa di san Ludovico, il 25 agosto, salvo le collette.
Bisogna notare la caratteristica che la santa liturgia pone oggi in rilievo nell’ufficio di santo Stefano. È stato, non solo re, ma apostolo; anche il titolo glorioso che, per lo stesso motivo, la liturgia bizantina attribuisce al grande Costantino, Iσαπόστολος, gli conviene parimenti.
La preghiera sulle oblazioni si ispira ad una frase del Pontificale Romano per l’ordinazione dei sacerdoti: agnoscite quod agitis; imitamini quod traciatis.
Vi è poi un’allusione speciale alla Passione del Salvatore, che viene a proposito nella messa di santo Stefano, poiché ricorda la sua devozione per i Luoghi santi di Gerusalemme, consacrati dal sangue della Redenzione. Il monastero di San Giorgio può essere considerato come il monumento di questa pietà; fu eretto dal pio Re nella Città santa ed un ospizio vi fu annesso per ricevere i pellegrini ungheresi.
La vicenda umana di santo Stefano ci insegna che basta per noi godere solo di un tesoro grandissimo quale quello della fede. Affinché il capitale fruttifichi, bisogna renderlo attivo e metterlo in circolo: diventando apostoli, assicureremo la nostra salvezza eterna ed acquisteremo un grande merito, secondo la parola attribuita a sant’Agostino, animam salvasti, tuam prædestinasti.


Gyula Benczúr, Battesimo di Vajk (S. Stefano) per le mani di S. Adalberto di Praga, 1875, Magyar Nemzeti Galéria, Budapest


Gyula Benczúr, S. Stefano offre alla Vergine il suo regno facendone la Patrona Hungariae, XIX sec., Basilica di S. Stefano, Budapest

Ignác Roskovics, SS. Stefano e Ladislao d’Ungheria, 1882







Alajos Stróbl, S. Stefano, XIX sec., Altare maggiore, Basilica di S. Stefano, Budapest









Alajos Stróbl, S. Stefano, 1905-06, Bastione dei pescatori (Halászbástya), Budai Vár, Budapest








Károly Senyei, S. Stefano (Szent István), 1911, Monumento del Millennio (Millenniumi emlékmű), Piazza degli eroi (Hősök Tere), Budapest





Reliquia della c.d. sacra (mano) destra intatta di S. Stefano (Szent István ereklyéje a Szent Jobb), Basilica di S. Stefano, Budapest

Sezione anteriore e dorsale della sacra destra di S. Stefano, tratta da Georgius, Dissertatio historico-critica de sacra dextera divi Stephani primi Hungariae regis. Vindobonae 1771

Come deve comportarsi un vescovo dinanzi ad un divorziato ....

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“Lacrimárum dono insignítus, omnipoténti Deo placatiónis hóstiam quotídie offerébat. Quod cum aliquándo nocte Domínicæ Nativitátis perágeret, Christum Jesum sub pulchérrimi infántis spécie vidére proméruit. Tantúmque in eo erat commíssi gregis præsídium, ut cælitus aliquándo accéptum fúerit, pontíficis sui intercessióne ac méritis stetísse rempúblicam. Prophetíæ spíritu afflátus, plura humánæ cognitióni prorsus impérvia prædixit; morbos ac dæmones suis précibus sæpe fugávit; libros étiam cæléstem doctrínam ac pietátem spirántes, grammáticæ pene rudis, conscrípsit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI LAURENTII JUSTINIANI, EPISCOPI ET CONFESSORIS, PROTOPATRIARCHÆ ET COMPATRONI PRINCIPALIS VENETIARUM

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Questo santo vescovo, canonizzato nel 1690, vero esempio insigne di umiltà e di zelo pastorale, morì l’8 gennaio 1455, ma il suo natale cadendo durante l’ottava dell’Epifania, fece sì che la sua festa fosse trasferita, con rito semidoppio, da Innocenzo XII, nel 1692, a questo giorno che è l’anniversario della sua elevazione all’episcopato (5 settembre 1433).
San Lorenzo Giustiniani può, in qualche modo, essere considerato come uno dei precursori della riforma ecclesiastica intrapresa più tardi dal Concilio di Trento e da san Carlo Borromeo. Come sant’Antonino di Firenze, suo contemporaneo, egli reagì contro gli eccessi del fasto dell’Umanesimo e portò sul suo seggio patriarcale le virtù apostoliche dei religiosi. Egli apparteneva alla nuova congregazione dei canonici regolari di San Giorgio in Alga, fondata alla fine del ‘300 sull’isola veneziana di San Giorgio in Alga, presso un antico monastero benedettino abbandonato. Questa congregazione sarà poi soppressa, su richiesta del governo veneto, dal papa Clemente IX nel 1668 con la bolla Romanus pontifex.
Egli era semplice, molto austero con se stesso, vera ostia di propiziazione per il popolo che gli era affidato; le sue entrate andavano tutte ai poveri ed all’erezione di nuovi monasteri. La Serenissima era all’epoca alla vetta della gloria e della potenza, ma Dio amò farle sapere che, se lo stato veneziano restava in piedi, ciò era dovuto non all’abilità diplomatica dei suoi Dogi o alle sue galere ben armate, bensì alla santità ed ai meriti del suo vescovo.
La messa è la stessa di sant’Andrea Corsini, il 4 febbraio.
La prima colletta chiede a Dio, per intercessione del nostro Santo, che «devotiónem nobis áugeat».
Bisogna ricordare qui il senso antico della parola latina devotio, che implica, più che un atto di culto, la consacrazione stabile ed assoluta del cristiano alla Divinità: una sorta di professione religiosa, di cui quella che emettono i religiosi non ne è che uno sviluppo. Questo voto, o consacrazione definitiva dell’anima a Dio, è sigillato, infatti, da un sacramento irrevocabile: quello del Battesimo.

Moretto da Brescia, Madonna col Bambino con i SS. Giovanni evangelista e Lorenzo Giustiniani, con l’allegoria della Sapienza, 1550 circa, Museo diocesano, Brescia

Gentile Bellini, S. Lorenzo Giustiniani, 1465, Gallerie dell’Accademia, Venezia



Pordenone, S. Lorenzo Giustiniani ed altri santi (SS. Francesco, Agostino, Bernardino da Siena e Giovanni Battista) ed i due fratelli Turchini committenti, 1532, Gallerie dell’Accademia, Venezia

Gentile Bellini, S. Lorenzo Giustiniani, 1465 circa, Muzeum Narodowe w Warszawie, Varsavia


Sebastiano Santi, Cristo Crocifisso tra i SS. Agostino, Lorenzo Giustiniani, Antonio da Padova e Gaetano da Thiene, Chiesa dei SS. Geremia e Lucia, XIX sec., Venezia

Seguace di Jacopo Bellini, S. Lorenzo Giustiniani, 1500 circa, collezione privata

Giuseppe Angeli, Immacolata Concezione con i SS. Antonio abate, Lorenzo Giustiniani, Agostino e Bernardo di Mentone, 1765, Santa Maria Gloriosa dei Frari, Venezia

Edward Kaiser, copia di Madonna col Bambino tra i SS. Lorenzo Giustiniani e Zeno, 1874, collezione privata


Giovanni Battista Crosato, Vergine con Bambino con i SS. Antonio di Padova e Lorenzo Giustiniani, XIX sec., Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano, Roma

Felice Chiereghini, S. Lorenzo Giustiniani, 1788, Cattedrale, Padova

Il "piano B" dei novatori per il prossimo sinodo sulla famiglia

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Chi l’ha detto che non esiste un piano B qualora il teorema Kasper non fosse accolto dal prossimo Sinodo? La via di fuga dei novatori sarà rappresentata dal processo canonico di nullità …

Sinodo, ecco il piano B per il “divorzio cattolico”

di Marco Benelli

Il dibattito sulla famiglia, provocato da quanto emerso durante il Sinodo straordinario ed a margine dello stesso, ha riguardato soprattutto il versante teologico e della dottrina. Tuttavia in concomitanza con questi eventi, il Santo Padre ha posto in essere un atto importante, passato quasi in sordina: la costituzione di una Commissione speciale di studio per la riforma del processo matrimoniale canonico presieduta da monsignor Pio Vito Pinto, decano del Tribunale della Rota Romana. Se intenzione dichiarata del Papa era verificare la possibilità di procedere più rapidamente e obiettivamente alla sentenza sulla validità di tanti matrimoni, dall’analisi del pensiero dei componenti la commissione si poteva sin da subito comprendere quali fossero le soluzioni verso cui si voleva andare: l’eliminazione dell’obbligo della doppia sentenza conforme, l’istituzione di un giudice unico per la prima istanza o, addirittura, “l’amministrativizzazione” del processo canonico di nullità matrimoniale.

Per quanto riguarda il primo aspetto - obbligo della doppia sentenza conforme - sia il convegno tenutosi all’Università Gregoriana nel gennaio scorso a dieci anni dall’Istruzione Dignitas Connubii - di cui, secondo qualche partecipante, nell’occasione è stato celebrato “il funerale, seppur solennissimo”, sia il convegno sulla famiglia, svoltosi all’Università della Santa Croce nel marzo scorso, hanno registrato come un dato già acquisito, la sua eliminazione. Dovendosi a tal proposito rilevare come, finanche docenti che durante tutta la loro carriera hanno sostenuto l’importanza e rimarcato il valore di questa previsione normativa, abbiano accettato una resa incondizionata, arrivando addirittura a postulare il contrario rispetto a quanto affermato per decenni.

Sul secondo e sul terzo aspetto - istituzione di un giudice unico per la prima istanza ed “amministrativizzazione” del processo canonico di nullità matrimoniale -, invece, si sono registrate maggiori resistenze alla loro introduzione e alcune critiche argomentate.

Tuttavia, occorre rilevare che il dibattito, oltre a rimanere in ambito specialistico e scientifico - eccezion fatta per gli scritti del card. Raymond Burke e del card. Velasio De Paolis, pubblicati nel volume “Permanere nella Verità di Cristo” - , non ha avuto una grande eco come avrebbe meritato.

La sensazione è che la stessa corrente che ha finora spinto per il cambiamento dottrinale in materia di indissolubilità del matrimonio, usando la carta della pastorale, ora stia abbracciando questo argomento come una sorta di “piano B”. In altre parole, dato l’inasprirsi del confronto sul piano dottrinale ed il crescere del fronte contrario alla “teoria Kasper” - basti qui menzionare, ad esempio, gli interventi dei vescovi polacchi ed africani, del cardinale Sarah, dei professori americani e, dei 500 preti inglesi -, che sembra allontanare la possibilità di accoglienza di tale “tesi” da parte del magistero pontificio, si riscontra, nei sostenitori della suddetta “teoria”, un mutamento di strategia ed un cambiamento del fronte sul quale agire, al fine di raggiungere ugualmente l’obiettivo: intervenire sull’ambito del diritto canonico, per introdurre, né più e né meno, un “divorzio cattolico”. 

Questa strategia è avvantaggiata dal pressoché totale disinteresse dell’opinione pubblica verso il diritto nella Chiesa e della Chiesa - atteggiamento persistente da cinquant’anni a questa parte - che permette di agire indisturbati e con tranquillità, soprattutto quando gli addetti del settore, rinunciano a far sentire la propria voce o, peggio, decidono di mettere da parte le loro convinzioni, risultato di anni di studio, solo per cavalcare l’onda.

In particolare, per quanto concerne l’atteggiamento antinomiano della società in genere e dei fedeli in specie, si deve rilevare che con la celebrazione del Concilio Vaticano II si è determinato «un clima di “apertura al mondo”, che non di rado ha comportato il fraintendimento di voler adattare la fede e la vita cristiana a mentalità ed atteggiamenti incompatibili con il cristianesimo. Per quanto riguarda il diritto, è penetrato nella Chiesa uno spirito, assai diffuso in quegli anni di contestazione, contrario a quanto sapesse di ordine, esigenza sociale, istituzione, autorità, ecc. 

All’insegna della spontaneità e dell’autenticità, della libertà e della sola obbedienza allo Spirito e ai suoi carismi, si sottovalutavano e perfino si disprezzavano proprio quei valori più a cuore nel modo tradizionale di concepire il diritto nella Chiesa, specialmente dalla Controrifoma in poi»; tanto da far riaffiorare voci e comportamenti di opposizione nei confronti del diritto nella Chiesa, volti a riproporre la contrapposizione tra Chiesa del diritto e Chiesa della carità, oppure tra autorità e carisma. Dovendosi aggiungere che, nei confronti di tale situazione, non sono stati attrezzati, nel breve periodo, strumenti in grado di farvi fronte adeguatamente; basti pensare che, sebbene i documenti conciliari contengano molte dichiarazioni e disposizioni di netto contenuto giuridico, tuttavia non vi è una trattazione diretta e globale sulla natura ed il senso del diritto nella Chiesa in nessuno dei suddetti documenti e neanche nella costituzione dogmatica Lumen gentium che tratta del Mistero e dell’essenza della Chiesa.

In più, oltre al danno, si potrebbe avere la beffa, perché si farebbe passare tutto ciò, come un miglioramento “pastorale” del sistema, necessario per venire incontro alle esigenze dei fedeli, in contrapposizione ad un vecchio sistema, rigido e legalista.

Dunque, in vista del Sinodo, occorre suscitare il dibattito, anche su questo aspetto canonistico, in particolare sul lavoro che dovrà svolgere la succitata commissione; un dibattito, non solo a livello scientifico, ma anche “apologetico”, capace di dire e di fare la verità a livello dottrinale e pastorale, per arrivare a tutti i fedeli, in maniera che tutti possano comprendere la suprema importanza del favor veritatis nell’ambito del diritto matrimoniale canonico. Questo perché un eventuale cambiamento del processo canonico nella direzione suindicata comporterebbe necessariamente pesanti ripercussioni anche nell’ambito della dottrina ed in rapporto al ruolo di questa nella Chiesa.

Infatti la ricerca della verità, per la quale la secolare esperienza della Chiesa è giunta a delineare il processo canonico nelle forme che oggi si conoscono, e la carità o la misericordia sono imprescindibilmente unite, così, dove manca la prima, non ci può essere in alcun modo la seconda. San Giovanni Paolo II sottolineava mirabilmente, a tal proposito, che l’autorità ecclesiastica «prende atto, da una parte, delle grandi difficoltà in cui si muovono persone e famiglie coinvolte in situazioni di infelice convivenza coniugale, e riconosce il loro diritto ad essere oggetto di una particolare sollecitudine pastorale. Non dimentica però, dall’altra, il diritto, che pure esse hanno, di non essere ingannate con una sentenza di nullità che sia in contrasto con l’esistenza di un vero matrimonio. Tale ingiusta dichiarazione di nullità matrimoniale non troverebbe alcun legittimo avallo nel ricorso alla carità o alla misericordia. Queste, infatti, non possono prescindere dalle esigenze della verità. Un matrimonio valido, anche se segnato da gravi difficoltà, non potrebbe esser considerato invalido, se non facendo violenza alla verità e minando, in tal modo, l’unico fondamento saldo su cui può reggersi la vita personale, coniugale e sociale. Il giudice pertanto deve sempre guardarsi dal rischio di una malintesa compassione che scadrebbe in sentimentalismo, solo apparentemente pastorale. Le vie che si discostano dalla giustizia e dalla verità finiscono col contribuire ad allontanare le persone da Dio, ottenendo il risultato opposto a quello che in buona fede si cercava».

Fonte: La nuova bussola quotidiana, 6.9.2015

L’islam moderato non esiste!!!

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Mentre nella laica/atea Europa si fa propaganda al laicismo ed addirittura in quella che fu la figlia primogenita della Chiesa, cioè la Francia, si fa «evangelizzazione laica» a scuola per liberare il paese dalla fede cattolica (v. qui e qui), l’islam, che non è possibile distinguere in moderato ed integralista, avanza, preparando la distruzione dell’antico continente. Ed in Occidente c'è chi disprezza chi, al Meeting di Rimini, ha avuto il coraggio di affermarlo (v. qui)!
L'articolo oggi da noi rilanciato è stato tradotto in inglese da Rorate caeli. Una sintesi in francese è qui.


“L’islam moderato non esiste”

Padre Douglas al Bazi racconta il genocidio cristiano in Iraq

di Matteo Matzuzzi


Roma. “Per favore, se c’è qualcuno che ancora pensa che l’Isis non rappresenta l’islam, sappia che ha torto. L’Isis rappresenta l’islam, al cento per cento”. Ha alzato la voce, intervenendo al Meeting di Rimini, padre Douglas al Bazi, sacerdote cattolico iracheno e parroco a Erbil, formulando – a mo’ di provocazione e con toni duri – un’equazione che ben pochi si erano spinti a  sostenere. Porta sul corpo i segni delle torture subite nove anni fa, quando una banda di jihadisti lo sequestrò per nove giorni, tenendolo bendato e in catene, con il setto nasale fracassato da una ginocchiata: “Per i primi quattro giorni non m’hanno dato neanche da bere. Mi passavano davanti e mi dicevano ‘padre, vuoi dell’acqua?’. Ascoltavano tutto il giorno la lettura del Corano per far sentire ai vicini quanto fossero bravi credenti”. A padre Douglas non appartiene il felpato linguaggio della diplomazia, il perbenismo di gran moda di cui si fa gran uso per non urtare sensibilità  varie. Nessuno spazio, nelle sue parole, neppure per le discettazioni sul grado più o meno alto di moderazione insito nelle religioni e per gli appelli al dialogo a tutti i costi con i tagliatori di teste, gli impiccatori di vecchi studiosi in pensione e, perché no, con il califfo in persona. Più che con i salotti e con certi pulpiti occidentali, l’intervento di padre Douglas è in sintonia con quel che dicono da tempo i presuli locali, a partire dal patriarca di Baghdad, mar Louis Raphaël I Sako, che nel suo libro “Più forti del terrore” (Emi) ha accusato l’ayatollah al Sistani – la massima autorità sciita irachena – di non aver aperto bocca sulle persecuzioni dei jihadisti contro le minoranze perché “tanto non mi ascoltano”.

Padre Douglas al Bazi è responsabile di due centri di accoglienza per cristiani scampati all’avanzata dell’orda nera, non distante da Ankawa. Dopo la marcatura delle case cristiane dislocate nella piana di Ninive con la “n” di nazareno, un anno fa, “dalla mattina alla sera abbiamo ricevuto migliaia di profughi” e l’esodo ancora continua. “Io sono orgoglioso di essere iracheno, amo il mio paese. Ma il mio paese non è orgoglioso che io sia parte di esso. Quello che è successo alla mia gente è un genocidio. Vi imploro: non parlate di conflitto. E’ un genocidio”, ha detto il sacerdote, che di islam moderato non vuol sentire nemmeno parlare: “Quando l’islam vive in mezzo a voi, la situazione potrebbe apparire accettabile. Ma quando uno vive tra i musulmani, tutto diventa impossibile. Io qui non sono a spingervi all’odio verso l’islam. Io sono nato tra i musulmani, e tra essi ho più amici che tra i cristiani. Ma la gente cambia e se noi ce ne andremo nel mio paese nessuno più potrà distinguere la luce dalle tenebre. C’è chi dice ‘ma io ho tanti amici musulmani che sono simpatici’. Sì, certo. Sono simpatici, qui. Là la situazione è ben diversa”. Una situazione riguardo la quale aveva speso parole dure anche il vicepresidente della conferenza degli imam di Francia (e imam di Nimes) Hocine Drouiche, intervenuto lo scorso luglio al Parlamento europeo: “Nel mondo i cristiani sono perseguitati, braccati, privati del lavoro, imprigionati, torturati, assassinati. Tutti i mezzi sono usati per costringerli a rinnegare la loro fede, compreso il rituale dello stupro collettivo, considerato in certi stati come una forma di sanzione penale. Possedere una Bibbia è diventato un crimine, proibita è la celebrazione del culto, si è tornati ai tempi delle messe nelle caverne e dei primi martiri”. E la colpa, aveva aggiunto Drouiche in un discorso che ben poco risalto aveva avuto sui media europei, è “dell’islam contemporaneo”, che è molto più vicino “al settarismo, piuttosto che a una religione universale e aperta”.

“Credo che alla fine ci distruggeranno”
Il racconto di padre al Bazi è poi quello di chi rischia quotidianamente di essere assassinato per strada: “Noi non sappiamo mai se, uscendo da una chiesa, avremo la possibilità di rientrarci da vivi. A Baghdad hanno fatto esplodere la mia chiesa davanti ai miei occhi. Mi hanno sparato alle gambe con un AK-47, una specie di Kalashnikov, e probabilmente prima o poi mi ammazzeranno”. Eppure, la fede è solida: “Quando mi hanno incatenato, nei giorni del mio sequestro, hanno stretto ai polsi un grosso lucchetto. Dalla catena avanzavano dieci anelli, che ho usato per recitare il Rosario. Non l’ho mai fatto in maniera tanto profonda come in quella circostanza”. “Io – ha aggiunto padre Douglas – non imploro il vostro aiuto. Non sono spaventato, così come non è spaventata la mia gente. Credo ci distruggeranno, alla fine. Ma credo anche che l’ultima parola sarà la nostra. Gesù ci ha detto che bisogna portare la propria croce, ed è quello che noi in medio oriente stiamo facendo. Ma la cosa più importante non è di portare la croce, bensì di seguirla. E seguirla significa accettare, sfidare e impegnarsi fino alla fine. A questo noi non rinunceremo mai”. “Bisogna avere pazienza e portare la croce ogni giorno, ma dobbiamo anche reagire”, gli ha fatto eco padre Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo che ha ricordato come la città sia ora “divisa in decine di parti, ognuna delle quali è in mano a un gruppo jihadista diverso. La nostra chiesa di San Francesco è a sessanta metri dalla linea di fuoco. Hanno già colpito tante chiese, non sappiamo quando toccherà alla nostra”. Ecco perché padre Douglas, a conclusione del suo intervento, ha lanciato un monito all’occidente infiacchito: “Svegliatevi! Il cancro è alla vostra porta. Vi distruggeranno. Noi, cristiani del medio oriente, siamo l’unico gruppo che ha visto il volto del male: l’islam”.

Fonte: Il Foglio, 26.8.2015

La Natività di Maria a Gerusalemme, sul luogo della sua nascita - Chiesa di Sant'Anna alla Probatica

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"Permanere nella verità di Cristo" - Convegno internazionale in vista del Sinodo sulla famiglia, Roma, 30 settembre 2015

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Il prossimo pomeriggio del 30 settembre si svolgerà a Roma presso l’Angelicum un convegno internazionale, in preparazione al Sinodo ordinario di ottobre, il cui programma è illustrato da La nuova bussola quotidiana.
Un sinodo i cui drammatici effetti sono stati ampiamente anticipati con i due m.p. Mitis et misericors Jesus e Mitis Iudex Dominus Jesus, firmati lo scorso 15 agosto, pubblicati l’8 settembre e che entreranno in vigore il prossimo 8 dicembre (qui la conferenza stampa di presentazione). In questi due documenti, in maniera discutibile, è la nostra impressione (e speriamo rimanga solo tale e possa essere smentita), a parte alcune altre criticabili innovazioni che pur erano state anticipate a vari livelli ed avanzate dallo scorso sinodo straordinario del 2014, si sia posto un grave vulnusalla teologia dei sacramenti, degradando – pare di capire – la dignità di sacramento del matrimonio a quella di .... semplice sacramentale. In effetti, nel momento in cui si fa dipendere la validità o meno del matrimonio dalla fede di alcuno dei nubendi (che è cosa ben diversa dalla tradizionale esclusione della sacramentalità del vincolo), di fatto essa viene a soggiacere alla santità dei suoi ministri (nel matrimonio i ministri sono i due nubendi!). Il matrimonio, dunque, non è più valido ex operæ operato, bensì ex operæ operantis (cfr. CCC n. 1127-1128), ed il suo scioglimento diventa, di fatto, un vero e proprio divorzio .... . Ci auguriamo che la nostra sia solo un'impressione e che giunga un chiarimento adeguato.
Del resto, va ricordato che Giovanni Paolo II, al contrario, proprio parlando ai giudici rotali, aveva avuto modo di osservare: «L'importanza della sacramentalità del matrimonio, e la necessità della fede per conoscere e vivere pienamente tale dimensione, potrebbe anche dar luogo ad alcuni equivoci, sia in sede di ammissione alle nozze che di giudizio sulla loro validità. La Chiesa non rifiuta la celebrazione delle nozze a chi è bene dispositus, anche se imperfettamente preparato dal punto di vista soprannaturale, purché abbia la retta intenzione di sposarsi secondo la realtà naturale della coniugalità. Non si può infatti configurare, accanto al matrimonio naturale, un altro modello di matrimonio cristiano con specifici requisiti soprannaturali. Questa verità non deve essere dimenticata al momento di delimitare l'esclusione della sacramentalità (cfr. can. 1101 § 2) e l'errore determinante circa la dignità sacramentale (cfr. can. 1099) come eventuali capi di nullità. Per le due figure è decisivo tener presente che un atteggiamento dei nubendi che non tenga conto della dimensione soprannaturale nel matrimonio, può renderlo nullo solo se ne intacca la validità sul piano naturale nel quale è posto lo stesso segno sacramentale. La Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto i matrimoni tra i non battezzati, che diventano sacramento cristiano mediante il Battesimo dei coniugi, e non ha dubbi sulla validità del matrimonio di un cattolico con una persona non battezzata se si celebra con la dovuta dispensa» (Discorso alla Rota, 30 gennaio 2003).
Avevamo indicato con il contributo dell’ottimo Marco Benelli quale fosse il piano B dei novatori. La realizzazione di questo, tuttavia, è stata anticipata prima che il nuovo sinodo ne discutesse.  I vescovi perciò non potranno che prendere atto della novazione …, divenendo quasi superflua l'assise sinodale.


“Orándi assíduum stúdium, quamvis sátanæ insídiis várie vexátus et flagéllis intérdum cæsus, non intermittébat. Demum, sex ante óbitum ménsibus, síngulis nóctibus angélicum concéntum audívit; cujus suavitáte cum jam paradísi gáudia prægustáret, crebro illud Apóstoli repetébat: Cúpio dissólvi, et esse cum Christo” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI NICOLAI A TOLENTINO, CONFESSORIS

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G. Galassi, S. Nicola protettore della Chiesa militante e purgante, seconda metà XIX sec., Roma

Questa festa risale al tempo di Sisto V che, nel 1585, l’elevò al rito doppio. Clemente VIII la ridusse a semidoppia e Clemente IX la ristabilì nel suo rito primitivo.
San Nicola da Tolentino, nato verso il 1245, morto nel 1310 e canonizzato da papa Eugenio IV nel 1446, è una delle glorie più brillanti dell’istituto – all’epoca recente – degli Eremiti di Sant’Agostino, e la sua vita rimarca per il grande posto tenuto nella sua spiritualità dal mistero della Croce. Prima di arrivare a quelle gioie celesti di cui parla il Breviario, il Santo percorse l’aspro martirio delle sue austerità quotidiane, imprimendo così nel suo corpo le stigmate del Cristo.
A Roma, gli Agostiniani scalzi gli dedicarono, alla fine del ‘500, una chiesa nell’alta semita (chiesa di San Nicola da Tolentino), presso il titolo di Santa Susanna, nel rione Trevi, dove, ora, risiede il Collegio pontificio armeno, che celebra nel suo rito la festa del Santo (cfr. M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 271). Addossata al collegio, sulla piazza a sinistra della chiesa, si erge un khachkar che commemora il genocidio del popolo armeno. Un'altra analoga stele, ma più antica, si trova nel chiostro interno del collegio. All’interno della chiesa, in una cappella, degna di nota è la riproduzione del Santo Sepolcro.
La messa è quella Justused è la stessa di san Pietro Nolasco, il 31 gennaio. La prima colletta è propria. In questa si insiste sul valore della preghiera cristiana: umile come quella del pubblicano del Vangelo, ma, allo stesso tempo, animata da una confidenza filiale nei meriti del Cristo e nella Comunione dei Santi.


Piero della Francesca, Polittico di S. Agostino: pannello di S. Nicola da Tolentino, 1460-65, Museo Poldi Pezzoli, Milano


Antoniazzo Romano, SS. Vincenzo martire, Illuminata e Nicola da Tolentino, 1500 circa, Museo Comunale di S. Francesco, Montefalco


Vincenzo Civerchio, Polittico di San Nicola da Tolentino con S. Nicola tra i SS. Sebastiano e Rocco, 1495, Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia

Pietro Perugino, S. Nicola da Tolentino, 1507, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma



Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, S. Antonio da Padova tra i SS. Antonio abate e Nicola, 1530 circa, Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia

Santi di Tito, S. Nicola vincitore delle tentazioni demoniache, 1588, Museo civico, Sansepolcro 

Juan Pantoja de la Cruz, S. Nicola da Tolentino, 1601, Museo del Prado, Madrid

Luis de Carvajal, S. Nicola da Tolentino, 1604, Museo del Prado, Madrid

Giovan Francesco Guerrieri, Miracolo delle rose di S. Nicola da Tolentino, 1614,  Chiesa di Santa Maria del Ponte del Piano, Sassoferrato

Bartolomeo Guidobono, Madonna con il Bambino, S. Nicola e le anime purganti, 1697-98, Chiesa parrocchiale di S. Giovanni Decollato, Montoggio


Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino, S. Nicola da Tolentino, 1637, Collezione privata

Pietro Ricchi, S. Nicola da Tolentino intercede per la cessazione della pestilenza, con Cristo tra due angeli, 1637-38, chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, Gavardo

Luca Giordano, Miracolo delle pernici, 1682 circa, Galleria Corsini, Firenze


Nicola Maria Rossi, Visione di S. Nicola da Tolentino, 1736




Juan de Mesa, S. Nicola da Tolentino, XVII sec., Museo Nacional de Escultura, Valladolid
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