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Beato il servo che, nel Figlio, depone la sua volontà nella volontà del Padre (FF 183) – Nel pio transito di S. Francesco d’Assisi

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Ricordiamo il transito di S. Francesco (morto il 3 ottobre 1226, di sabato), risalendo alle Fonti francescane.
San Bonaventura, nella Legenda Major descrive così gli ultimi momenti della preziosa vita del Santo di Assisi:
«… Avvicinandosi il momento del suo transito, fece chiamare intorno a sé tutti i frati del luogo e, consolandoli della sua morte con espressioni carezzevoli li esortò con paterno affetto all’amore di Dio. Si diffuse a parlare sulla necessità di conservare la pazienza, la povertà, la fedeltà alla santa Chiesa romana, ma ponendo sopra tutte le altre norme il santo Vangelo. Mentre tutti i frati stavano intorno a lui, stese sopra di loro le mani, intrecciando le braccia in forma di croce (giacché aveva sempre amato questo segno) e benedisse tutti i frati, presenti e assenti, nella potenza e nel nome del Crocifisso. Inoltre aggiunse ancora: “State saldi, o figli tutti, nel timore del Signore e perseverate sempre in esso! E, poiché sta per venire la tentazione e la tribolazione, beati coloro che persevereranno nel cammino iniziato! Quanto a me, mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla Sua grazia!”. Terminata questa dolce ammonizione, l’uomo a Dio carissimo comandò che gli portassero il libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il passo di Giovanni, che incomincia: “Prima della festa di Pasqua...” (Gv 13, 1). Egli, poi, come poté, proruppe nell’esclamazione del salmo: “Con la mia voce al Signore io grido, con la mia voce il Signore io supplico” e lo recitò fin al versetto finale: “Mi attendono i giusti, per il momento in cui mi darai la ricompensa” (cfr. Sal 141, 1-8). Quando, infine, si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore (cfr. At 7, 60)» (FF 1241 - 1242 - 1243).

Ecco il testo della Vita secunda di Tommaso da Celano, il quale ricorda come Francesco «accolse la morte cantando» (FF 804):
«804. Alla morte dell’uomo - dice il saggio - sono svelate tutte le sue opere. È appunto ciò che vediamo gloriosamente compiuto nel Santo. Percorrendo con animo pronto la via dei comandamenti di Dio, giunse attraverso i gradi di tutte le virtù alla più alta vetta, e rifinito a regola d’arte, come un oggetto in metallo duttile, sotto il martello di molteplici tribolazioni, raggiunse il limite ultimo di ogni perfezione. Fu allora soprattutto che brillarono maggiormente le sue mirabili azioni, e rifulse chiaramente alla luce della verità che tutta la sua vita era stata divina, quando, dopo aver calpestato le attrattive di questa vita mortale, se ne volò libero al cielo. Infatti, dimostrò di stimare una infamia vivere, secondo il mondo, amò i suoi sino alla fine, accolse la morte cantando. Quando sentì vicini gli ultimi giorni, nei quali alla luce effimera sarebbe succeduta la luce eterna, mostrò con l’esempio delle sue virtù che non aveva niente in comune con il mondo. Sfinito da quella malattia così grave, che mise termine ad ogni sua sofferenza, si fece deporre nudo sulla terra nuda, per essere preparato in quell’ora estrema, in cui il nemico avrebbe potuto ancora sfogare la sua ira, a lottare nudo con un avversario nudo. In realtà aspettava intrepido il trionfo e con le mani unite stringeva la corona di giustizia. Posto così in terra, e spogliato della veste di sacco, alzò, come sempre il volto al cielo e, tutto fisso con lo sguardo a quella gloria, coprì con la mano sinistra la ferita del lato destro, perché non si vedesse. Poi disse ai frati: “Io ho fatto il mio dovere; quanto spetta a voi, ve lo insegni Cristo!”.
805. A tale vista, i figli proruppero in pianto dirotto e, traendo dal cuore profondi sospiri, quasi vennero meno sopraffatti dalla commozione. Intanto, calmati in qualche modo i singhiozzi, il suo guardiano, che aveva compreso per divina ispirazione il desiderio del Santo, si alzò in fretta, prese una tonaca, i calzoni ed il berretto di sacco: “Sappi - disse al Padre - che questa tonaca, i calzoni ed il berretto, io te li do in prestito, per santa obbedienza! E perché ti sia chiaro che non puoi vantare su di essi nessun diritto, ti tolgo ogni potere di cederli ad altri”. Il Santo sentì il cuore traboccare di gioia, perché capì di aver tenuto fede sino alla fine a madonna Povertà. Aveva infatti agito in questo modo per amore della povertà, così da non avere in punto di morte neppure l’abito proprio, ma uno ricevuto in prestito da altri. Aveva poi l’abitudine di portare in testa un berretto di sacco per coprire le cicatrici riportate nella cura degli occhi, mentre gli sarebbe stato necessario un copricapo di lana qualsiasi, purché fine e morbidissima.
806. Poi il Santo alzò le mani al cielo, glorificando il suo Cristo, perché poteva andare libero a lui senza impaccio di sorta. Ma per dimostrare che in tutto era perfetto imitatore di Cristo suo Dio, amò sino alla fine i suoi frati e figli, che aveva amato fin da principio. Fece chiamare tutti i frati presenti nella casa, e cercando di lenire il dolore che dimostravano per la sua morte, li esortò con affetto paterno all’amore di Dio. Si intrattenne a lungo sulla virtù della pazienza e sull’obbligo di osservare la povertà, raccomandando più di ogni altra norma il santo Vangelo. Poi, mentre tutti i frati gli erano attorno, stese la sua destra su di essi e la pose sul capo di ciascuno cominciando dal suo vicario: “Addio - disse - voi tutti figli miei, vivete nel timore del Signore e conservatevi in esso sempre! E poiché si avvicina l’ora della prova e della tribolazione, beati quelli che persevereranno in ciò che hanno intrapreso! Io infatti mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla sua grazia”. E benedisse nei presenti anche tutti i frati, ovunque si trovassero nel mondo, e quanti sarebbero venuti dopo di loro sino alla fine dei secoli.
807. Nessuno si usurpi questa benedizione, che impartì ai presenti per gli assenti. Come è stata riportata altrove, ha chiaramente qualche riferimento personale, ma ciò va piuttosto riferito all’ufficio.
808. Mentre i frati versavano amarissime lacrime e si lamentavano desolati, si fece portare del pane, lo benedisse, lo spezzò e ne diede da mangiare un pezzetto a ciascuno. Volle anche il libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il Vangelo secondo Giovanni, dal brano che inizia: Prima della festa di Pasquaecc. Si ricordava in quel momento della santissima cena, che il Signore aveva celebrato con i suoi discepoli per l’ultima volta, e fece tutto questo appunto a veneranda memoria di quella cena e per mostrare quanta tenerezza di amore portasse ai frati.
809. Trascorse i pochi giorni che gli rimasero in un inno di lode, invitando i suoi compagni dilettissimi a lodare con lui Cristo. Egli poi, come gli fu possibile, proruppe in questo salmo: Con la mia voce ho gridato al Signore, con la mia voce ho chiesto soccorso al Signore. Invitava pure tutte le creature alla lode di Dio, e con certi versi, che aveva composto un tempo, le esortava all’amore divino. Perfino la morte, a tutti terribile e odiosa, esortava alla lode, e andandole incontro lieto, la invitava ad essere suo ospite: “Ben venga, mia sorella morte!”.
810. Si rivolse poi al medico: “Coraggio, frate medico, dimmi pure che la morte è imminente: per me sarà la porta della vita!”. E ai frati: “Quando mi vedrete ridotto all’estremo, deponetemi nudo sulla terra come mi avete visto ieri l’altro, e dopo che sarò morto, lasciatemi giacere così per il tempo necessario a percorrere comodamente un miglio”. Giunse infine la sua ora, ed essendosi compiuti in lui tutti i misteri di Cristo, se ne volò felicemente a Dio.
811. Un frate suo discepolo, assai rinomato, vide l’anima del padre santissimo salire direttamente al cielo. Era come una stella, ma con la grandezza della luna e lo splendore del sole, e sorvolava la distesa delle acque trasportata in alto da una nuvoletta candida.
812. Si radunò allora una grande quantità di gente, che lodava e glorificava il nome del Signore. Accorse in massa tutta la città di Assisi e si affrettarono pure dalla zona adiacente per vedere le meraviglie, che il Signore aveva manifestato nel suo servo. I figli intanto effondevano in lacrime e sospiri il pio affetto del cuore, addolorati per essere rimasti orfani di tanto padre. Ma la singolarità del miracolo mutò il pianto in giubilo e il lutto in esplosione di gioia. Vedevano distintamente il corpo del beato padre ornato delle stimmate di Cristo e precisamente nel centro delle mani e dei piedi, non i fori dei chiodi, ma i chiodi stessi formati dalla sua carne, anzi cresciuti con la carne medesima, che mantenevano il colore oscuro proprio del ferro, e il costato destro arrossato di sangue. La sua carne, prima oscura di natura, risplendendo di un intenso candore, preannunziava il premio della beata risurrezione. Infine, le sue membra divennero flessibili e molli, non rigide come avviene nei morti, ma rese simili a quelle di un fanciullo.
813. Era in quel tempo ministro dei frati della Terra di Lavoro frate Agostino. Da tempo aveva perduto l’uso della parola, ma, quando giunse all’ora della morte, gridò tutto ad un tratto: “Aspettami, Padre, aspetta! Ecco, ora vengo con te”. Tutti i presenti l’udirono e si chiedevano sorpresi a chi parlasse a questo modo. “Non vedete - rispose con sicurezza - il nostro padre Francesco, che va in cielo?”. E subito la sua anima santa, libera dalla carne, seguì il padre santissimo».



Giotto di Bondone, Morte di S. Francesco, 1325-28, Cappella Bardi, Basilica di S. Croce, Firenze

Bartolomé Carducho, Morte di S. Francesco, 1593, Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona



José Benlliure y Gil, La nobile Jacopa dei Settesoli venera il corpo di S. Francesco, suo padre spirituale, XX sec.

Sull'ultima ricognizione canonica dei resti di S. Francesco d'Assisi

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Antonio Montúfar, S. Francesco appare a papa Niccolò V, con donatori, 1628, Los Angeles County Museum of Art (LACMA), Los Angeles

Gérard Douffet, Papa Niccolò V visita la tomba di S. Francesco, 1627, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neuburg an der Donau 


Laurent de La Hyre, Il papa Niccolò V si fa aprire nel 1449 la tomba di S. Francesco, 1630, Musée du Louvre, Parigi

L'albero di S. Francesco o Esaltazione dell'Ordine francescano, con S. Francesco circondato da S. Chiara, S. Ludovico di Tolosa, S. Elisabetta d'Ungheria, S. Antonio da Padova, S. Bernardino da Siena, papi Sisto IV, Niccolò IV, Alessandro V, S. Bonaventura ed il Cardinal Pietro Aureolo, 1484, Tesoro della Basilica di S. Francesco, Sacro Convento, Assisi

L'immagine distorta e quella vera di S. Francesco d'Assisi in una vignetta

Sinodo: perché rileggere il Liber Gomorrhianus dopo il “coming out” del monsignore vaticano

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Da sabato 3 ottobre i mass-media sono praticamente completamente catalizzati dalla vicenda “pruriginosa” del “coming out” del  “monsignore” dell’ex Sant’Uffizio e docente di teologia dogmatica in alcuni prestigiosi atenei pontifici della Capitale, autore di numerose ed impeccabili pubblicazioni (tra queste una significativa e perfettamente ortodossa sull'immutabilità di Dio: v. qui), sbandierata ai quattro venti da una sua intervista al Corriere della sera (v. qui) e poi da una sua “conferenza stampa”, nel corso della quale ha anche presentato il suo partner convivente (v. quiqui, qui e qui), che non ha mancato di rilasciare - c'era da aspettarselo - un'intervista sempre al Corriere (v. qui). Sulla vicenda, v. anche il commento di S. Em.za il card. Ruini (v. qui, qui e qui).
Krysztof Charamsa durante una messa
La vicenda, come facile intuire, ha conosciuto un clamore mediatico davvero senza pari (v. qui, quiqui, qui, quiqui, qui, quiqui e qui) ed è servito anche da improvvida “cassa di risonanza” ad un altro evento, parallelo e vigiliare del Sinodo, che probabilmente sarebbe passato in sordina e dedicato appunto al tema de quo, vale a dire una conferenza a porte chiuse, svoltasi a Roma, di “cattolici” LGBT (vqui; qui e, per la traduzione inglese, qui).
La Santa Sede, tramite il Direttore della Sala Stampa, P. Lombardi, pur esprimendo rispetto per «le vicende e le situazioni personali e le riflessioni su di esse», lamentava come la stessa rappresentasse un’indebita pressione sul Sinodo giusto alla vigilia della sua apertura (alcuni hanno avanzato l'ipotesi che trattasi addirittura in "golpe omosessualista": v. qui, il cui scopo è quello di trasformare il Sinodo in un evento gay-friendly: v. qui); dichiarava peraltro che il predetto prelato non potesse più svolgere alcun incarico presso la Congregazione per la dottrina della fede e presso le università pontificie, rimettendo ogni altra valutazione al vescovo della diocesi presso cui il monsignore era incardinato (v. qui testo della dichiarazione di P. Lombardi).
Krysztof Charamsa con il suo partner
Tale dichiarazione è stata un’occasione mancata per la Sala Stampa, che, lungi dall’esprimere “rispetto” (????), avrebbe, al contrario, dovuto esprimere tutto il suo disappunto e rammarico per questa vicenda di tradimento del celibato sacerdotale ed al contempo esprimere l’assoluta incompatibilità tra omosessualità e sacerdozio cattolico, richiamando ad es. l’Istruzione della Congregazione per l’educazione cattolica «circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al seminario e agli ordini sacri» del 31.8.2005-4.11.2005 (v. il testo qui. V. qui anche l'intervista al card. Zenon Grocholewski) e tutto il relativo magistero (v. qui). Un’occasione persa, peraltro, proprio in relazione al Sinodo, che si stava aprendo, ed a cui il clamore mediatico della vicenda del monsignore sembra chiaramente preordinato ad esercitare indebite pressioni. Un’occasione persa, ancora, anche per chiarire il magistero della Chiesa alla luce delle uscite recenti di alcuni prelati e partecipanti al Sinodo e non, che, non senza scandalo, con dichiarazioni estemporanee ed improvvide, hanno tentato di “normalizzare” o “compatire”, anche all’interno della Chiesa, le relazioni omosessuali (v. le recenti dichiarazioni del “card.” Kasper, v. qui e qui; del “vescovo” di Modena, Castellucci, v. qui e qui, e quelle del rag. Bianchi, che abbiamo già trattato qui). Un’occasione chiarificatrice mancata, inoltre, anche per denunciare come, oggigiorno, come ricordava in epoca non sospetta lo stesso scrittore cattolico Vittorio Messori, nei seminari vengano ammessi, o per lo meno tollerati, candidati al sacerdozio, che presentino tendenze omosessuali profondamente radicate (v. intervista a V. Messori del 2007, qui), che si manifestano, con grave scandalo per la Chiesa, sovente anche dopo l’ordinazione presbiterale a suon di vicende scandalistiche rilanciate puntualmente dai media.
Krysztof Charamsa con il suo partner
durante la conferenza stampa
Un’occasione persa anche per denunciare la totale assenza di fede – non intesa in senso sentimentalistico, ma come virtù teologica e teologale – in molti candidati al sacerdozio, che, privi del sacro timore di Dio, del Suo giudizio (prima ancora della riprovazione degli uomini!), della possibilità di una condanna eterna, compiono azioni contrarie al loro status o mancano, nella migliore delle ipotesi, della necessaria gravitas sacerdotale e della responsabilità che hanno, dinanzi al gregge affidato, quali ministri di Dio.
Per questo, è bene rileggere con attenzione e con la dovuta pietà, come suggerisce l’autore del contributo che segue, il testo di san Pier Damiani, il Liber Gomorrhianus, nel quale viene mostrata chiaramente come la Chiesa debba curare questa grave situazione del clero: non certo a suon di “rispetti” quasi conniventi e giustificativi o di false “misericordie” attente alla felicità ed ai piaceri terreni piuttosto che al destino eterno dell’uomo. Al contrario, ribadendo con maggior forza e giusto rigore la santa legge di Dio, ripristinandolo dei suoi diritti, da cui, stoltamente e con superbia diabolica, l’uomo ha pensato di distoglierlo.

Sinodo: perché rileggere il Liber Gomorrhianus dopo il  “coming out” del monsignore vaticano

di Giulio Ginnetti

Krysztof Charamsa con il compagno Eduard
(Ansa/Del Castillo)
«Se questo vizio assolutamente ignominioso e abominevole non sarà immediatamente fermato con un pugno di ferro, la spada della collera divina calerà su di noi, portando molti alla rovina», scrive san Pier Damiani nel Liber Gomorrhianus, riferendosi alla sodomia diffusa tra il clero del suo tempo. Queste parole hanno un’impressionante attualità alla luce delle dichiarazioni rilasciate, alla vigilia del Sinodo, al “Corriere della Sera” da monsignor Krzysztof Charamsa, ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede e segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale vaticana, oltre che docente alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum.
Il prelato polacco ha dichiarato tra l’altro: “Voglio che la Chiesa e la mia comunità sappiano chi sono: un sacerdote omosessuale, felice e orgoglioso della propria identità. Sono pronto a pagarne le conseguenze, ma è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana”. La sodomia è stata purtroppo praticata nel corso dei secoli, ma nessun sacerdote, della Curia Romana è mai arrivato a vantarsene pubblicamente e nessuna assemblea di vescovi ha mai messo all’ordine del giorno dei suoi lavori la comprensione e la “misericordia” verso le coppie omosessuali. E’ questa una buona ragione per rileggere le pagine infuocate del Liber Gomorrhianus, (Edizioni Fiducia, Roma 2015, euro 10), con un’introduzione di Roberto de Mattei.
Nel suo coming out il teologo vaticano si rivolge esplicitamente ai padri sinodali invitandoli a rivedere le loro posizioni nei confronti dell’ampia comunità LGBT: “(…) vorrei dire al Sinodo che l’amore omosessuale è un amore familiare, che ha bisogno della famiglia. Ogni persona, anche i gay, le lesbiche o i transessuali, porta nel cuore un desiderio di amore e familiarità. Ogni persona ha diritto all’amore e quell’amore deve essere protetto dalla società, dalle leggi. Ma sopratutto deve essere curato dalla Chiesa”.
Charmasa giustifica quindi la liceità del comportamento omosessuale, rivendicando l’esistenza di una presunta natura omosessuale: “(…) una coppia di lesbiche o di omosessuali deve poter dire alla propria Chiesa: noi ci amiamo secondo la nostra natura (…). La Bibbia non parla mai di omosessualità. Parla invece degli atti che io definirei “omogenitali”. Possono essere compiuti anche da persone eterosessuali, come succede in molte prigioni. In questo senso potrebbero essere un momento di infedeltà alla propria natura e quindi un peccato. Quegli stessi atti compiuti da una persona omosessuale esprimono invece la sua natura. Il sodomita biblico non ha niente a che fare con due omosessuali che oggi in Italia si amano e vogliono sposarsi”.
In tale prospettiva, secondo il teologo vaticano, non vi è una natura umana oggettiva ma esisterebbero tante nature quante sono le soggettive tendenze sessuali e in questo senso, stravolgendo a proprio piacimento l’insegnamento cattolico, il peccato non consiste nel tradire la suprema legge naturale ma nel tradire la propria personale natura.
Charmasa dopo aver, come se nulla fosse, reso noto di “avere un compagno che lo aiuta a trasformare le ultime paure nella forza dell’amore”, conclude la sua intervista, sottolineando come “su questi temi la Chiesa sia in ritardo rispetto alle conoscenze che ha raggiunto l’umanità. E’ già successo in passato: ma se si è in ritardo sull’astronomia le conseguenze non sono così pesanti come quando il ritardo riguarda qualcosa che tocca la parte più intima delle persone. La Chiesa deve sapere che non sta raccogliendo la sfida dei tempi”.
Tuttavia, se la società ha mutato il suo giudizio e atteggiamento nei confronti dell’omosessualità nel corso dei secoli, lo stesso non è avvenuto per la Chiesa cattolica in quanto essa è sempre rimasta fedele al suo immutabile Magistero dottrinale. In questo senso, la Chiesa ha incessantemente insegnato che la pratica dell’omosessualità è un abominevole vizio contro natura, che provoca non solo la corruzione spirituale e la dannazione eterna degli individui, ma anche la rovina morale della società, colpita da un germe mortale che avvelena le radici stesse della vita civile. Nel corso dei secoli tale insegnamento è stato trasmesso e confermato interrottamente dalla Sacra Scrittura, dai Padri della Chiesa, dai santi Dottori e dai Pontefici.

“Igitur, solitúdinis amóre, erémum quamdam apud Squillácum in Calábriæ fínibus pétiit. Quo in loco, cum ipsum orántem Rogérius comes Calábriæ inter venándum, latrántibus ad illíus spelúncam cánibus, reperísset, sanctitáte viri permótus, illum ac sócios fovére et cólere impénse cœpit. Nec liberálitas sine præmio fuit; cum enim idem Rogérius Cápuam obsidéret, eúmque Sérgius quidam excubiárum magíster pródere statuísset, Bruno, adhuc in dicta erémo vivens, in somnis illi ómnia apériens, ab imminénti perículo cómitem liberávit” (Lect. VI – II Noct.) – SANCTI BRUNONIS, CONFESSORIS ET ORDINIS CARTHUSIANORUM INSTITUTORIS

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Dopo la memoria di san Mauro, che abbiamo celebrato ieri, ecco un altro figlio spirituale del Patriarca dei monaci d’Occidente, il quale, sul grande tronco della vita monastica, innestò un ramo speciale di vita semi-anacoretica (cfr. per una rilettura moderna ed aggiornata della figura di san Bruno, Pietro De Leo (a cura di), San Bruno di Colonia: un eremita tra Oriente ed Occidente, Catanzaro 2004, passim).
Questo grande riformatore dell’istituto eremitico alla fine dell’XI sec., che, all’autorità del padre sapeva congiungere la tenerezza della madre (Si tratta di un verso di un breve componimento dedicatorio, di sette versi, che apparve in alcune edizioni intorno al 1515 dell’Epistola dei monaci certosini calabresi, scritta dopo la morte del Santo, e con la quale chiedevano suffragi per l’anima del loro fondatore: … Cum terrore [le versione moderne usano: vigorendr.] patris monstravit viscera matris…, cioè  «Bruno  … alla severità di un padre si associò la tenerezza viscerale di una madre. …»: Epistola encyclica a S. Brunonis obitum quaquaversum nuntiarunt ejus in Turritana eremo discipuli, solitaque pro illius anima suffragia postularunt, in PL 152, col. 553-554, nt. 252), ha, d’altronde, un titolo speciale nei fasti agiografici della Chiesa romana. Risiedé a Roma per qualche tempo, a fianco del beato Urbano II, allo scopo di aiutarlo con i suoi consigli e con la sua collaborazione (cfr. Pietro De Leo (a cura di), L’Ordine certosino e il papato dalla fondazione allo scisma d’Occidente, Catanzaro 2004, passim). Ma affinché, nella capitale del mondo cattolico, il Santo ritrovasse in un certo qual modo l’atmosfera di devoto raccoglimento che circondava la sua prima fondazione certosina della diocesi di Grenoble, secondo la leggenda, Bruno chiese ed ottenne dal papa, nel 1091, l’antica chiesa del titulus Cyriaci alle terme di Diocleziano, che erano all’epoca assolutamente deserte e desolate (così ricorda M. ArmelliniLe chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, p. 820). La chiesa sorgeva dove ora si trova il Ministero delle Finanze e se ne sono riconosciute le vestigia gettando le fondamenta del nuovo palazzo nel 1874 (cfr. ibidem, p. 819; C. HuelsenLe Chiese di Roma nel medio evo, Firenze 1927, p. 246). Dopo questa donazione, più o meno leggendaria, sarebbe nata l’aspirazione dei Certosini di fondare un convento sulle rovine delle limitrofe Terme di Diocleziano.
Dopo aver eretto, nel 1370, una certosa a Santa Croce in Gerusalemme – che però per l’afflusso di pellegrini e per la sua posizione malsana – la rendevano poco adatta alla vita semi-eremitica dei figli di san Bruno, finalmente i certosini riuscirono, dopo vari tentativi, ad ottenere le Terme di Diocleziano ottenendo dal papa Pio IV l’autorizzazione a trasferire la Certosa da Santa Croce alle Terme, che si trovavano all’epoca in uno stato pietoso e che l’incuria aveva quasi raso al suolo (cfr. M. Armelliniop. cit., p. 797).
La certosa di Santa Maria degli angeli alle Terme (S. Mariæ Angelorum in Thermis Diocletiani) (per riferimenti sulla Chiesa e sulla relativa certosa, cfr. ibidem, pp. 821-822; C. Huelsenop. cit., p. 535), dapprima chiusa sotto Napoleone Bonaparte nel 1810, fu riaperta nel 1814 col ritorno del papa a Roma. Nel 1873 allorché furono estese a Roma le leggi eversive dell’asse ecclesiastico e di soppressione degli ordini religiosi contemplativi, la Certosa fu incamerata dal governo italiano. Alcuni monaci continuarono coraggiosamente ancora ad abitarla con grandi difficoltà non potendovi esercitare la loro vocazione solitaria. Quel luogo, un tempo aperta campagna, si andava popolando di palazzi moderni; nelle vie circostanti la circolazione diventava sempre più intensa; per di più gran parte del monastero era stato trasformato in museo che attirava folle di visitatori. Di conseguenza il Capitolo Generale, nel 1884, ordinò ai monaci di lasciare Roma.
Dopo la soppressione della Certosa, il Procuratore Generale visse con qualche confratello in un modesto appartamento di Via Palestro, sino alla fine della seconda guerra mondiale, quando la Procura fu trasferita in Via Cassia alla Tomba di Nerone.
L’intero Convento, con gli opportuni adattamenti, è stato sede del Museo Nazionale Romano e della Soprintendenza alle Antichità di Roma fino agli anni ‘90 del XX sec., ospitando tra l’altro, nel chiostro piccolo, la celebre collezione di sculture “Ludovisi”, poi trasferita insieme alla maggior parte dei reperti a Palazzo Massimo sul fianco destro della Stazione Termini e quindi poco lontano dalla vecchia Certosa.
Nel 2000 tutto il Convento è stato ristrutturato, lasciando intatti all’esterno, sia il chiostro grande che quello piccolo, che hanno continuato ad ospitare, all’interno del piano superiore, ultramoderno, le collezioni che non avevano trovato posto a Palazzo Massimo.
Le parti più trascurate del Convento e quelle più visibili a tutti dal suo esterno sono i giardinetti e le loggette che compongono le antiche celle dei monaci, in Via Cernaia, non avendo ancora la Soprintendenza alle Belle Arti, messo mano al loro restauro.
La Roma cristiana ha dedicato nel 1990 (benché eretta nel ‘64) una chiesa a questo santo nel suburbio gianicolense.
La messa è la stessa del 23 gennaio, per san Raimondo, salvo la prima colletta.
San Bruno, che abbandona il mondo e la sua gloria e si ritira in una profonda solitudine per pregare, per digiunare e per prepararsi a ben morire, ci offre una grande lezione di forza cristiana. Nel mondo, così numerose sono le opportunità che ci portano al male, poiché è molto difficile conservare l’innocenza e santificarsi. Che cosa fanno allora le anime generose? Come Israele fugge per sfuggire alla corruzione degli egiziani; come la colomba di Noè, non trovando dove posarsi sulla terra tutta ricoperta di fango, tornò verso il santo Patriarca nell’arca, così queste anime preoccupate di assicurare la loro salvezza coi mezzi più efficaci e più sicuri, abbandonano il mondo e si rifugiano nel chiostro. Agendo così, esse si salvano e, col loro esempio, assicurano, con un immenso merito per esse stesse, anche la salvezza di un gran numero.


Girolamo Marchesi, S. Bruno, 1525 circa, Walters Art Museum, Baltimora

Juan Sánchez Cotán, S. Bruno in preghiera, Museo de Bellas Artes, Granada

Francisco de Zurbarán, Apoteosi di S. Bruno, 1637-39, Museo de Bellas Artes, Cadice

Nicolas Mignard, S. Bruno in preghiera nel deserto, 1638, Musée Calvet, Avignone

Jusepe de Ribera, Visione di S. Bruno, 1643, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte, Napoli


Sebastiano e Marco Ricci, Visione di S. Bruno, 1700 circa, collezione privata

Petrus Bombelli, S. Bruno, 1785

Sacerdozio e santità in un aforisma di S. Pio X

7 ottobre 1571: San Pio V, il Papa di Lepanto

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Nella ricorrenza della festa del Sacratissimo Rosario e della Vergine delle Vittorie, rilancio questo contributo tratto da Chiesa e postconcilio.


Juan Sánchez Cotán, Apparizione della Vergine del Rosario ad un gruppo di certosini, XVII sec., Museo de Bellas Artes, Granada

Guillaume Perrier, La Vergine offre il Rosario a S. Domenico alla presenza di altri Santi, XVII sec., Musée des ursulines, Mâcon


Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato, Madonna del Rosario, 1643, Chiesa di S. Sabina, Roma


Tiziano Vecellio, Allegoria della battaglia di Lepanto ovvero Filippo II offre al Cielo l'Infante don Fernardo con le insegne di vittoria di Lepanto, 1573-75, Museo del Prado, Madrid

Tiziano Vecellio, La Spagna soccorre la Religione, con sullo sfondo la Battaglia di Lepanto, 1572-75, museo del Prado, Madrid

Paolo Veronese, La Battagliadi Lepanto con i SS. Pietro, Rocco, Giustina e Marco che implorano la Vergine perchè conceda la vittoria alla flotta cristiana, 1581-82, Palazzo Ducale, Sala del Collegio, Venezia

Juan de Toledo e Mateo Gilarte, Battaglia di Lepanto, 1663-65, Chiesa di San Domenico, Murcia


Rivelazione di S. Pio V e vittoria della Lega Santa a Lepanto, Museo Naval, Madrid


Juan de Toledo e Mateo Gilarte, Battaglia di Lepanto, 1663-65 circa,  Fondazione Murcia, Murcia

Anonimo, I vincitori di Lepanto: Don Juan de Austria, Marco Antonio Colonna ed il doge Sebastiano Venier, Castello di Ambras, Galleria dei Ritratti, Innsbruck

Battaglia di Lepanto ovvero Don Giovanni d'Austria riceve le insegne da parte dei cardinali legati, XX sec., Chiesa della Visitazione, Ain Karim




7 Ottobre 2015 - 444° Anniversario della Battaglia di Lepanto

Non ci si poteva esimere dal ricordare ancora questa data, solitamente taciuta dai media, ma anche dalla Chiesa recente, tutta presa a scusarsi anche di essersi difesa: ha mutato la vita nel nostro Continente a quel tempo, e per i secoli a venire; e, insieme, ci lascia misurare con inquietudine quanto la situazione nelle nostre terre sia mutata oggi, e di segno opposto.

7 ottobre 1571: San Pio V, il Papa di Lepanto

Da Ludwig von Pastor, “Storia dei Papi. Dalla fine del medio evo”, Desclée, Roma 1950, vol. 8, pp. 1566-1572

Con indescrivibile tensione aveva Pio V tenuto gli occhi rivolti all’Oriente. I suoi pensieri erano continuamente presso la flotta cristiana, i suoi voti la precorrevano di molto. Giorno e notte egli in ardente preghiera la raccomandava alla protezione dell’Altissimo. Dopo che ebbe ricevuto notizia dell’arrivo di Don Juan a Messina, il papa raddoppiò le sue penitenze ed elemosine. Egli aveva ferma fiducia nella potenza della preghiera, specialmente del rosario.
In un concistoro del 27 agosto Pio V invitò i cardinali a digiunare un giorno la settimana ed a fare straordinarie elemosine, solo colla penitenza potendosi sperare misericordia da Dio in sì grande distretta. Sua Santità – così notificò ai 26 di settembre del 1571 l’ambasciatore spagnuolo – digiuna tre giorni la settimana e dedica quotidianamente molte ore alla preghiera: ha ordinato anche preghiere nelle chiese. Per assicurare Roma da un’improvvisa irruzione di corsari turchi, il papa al principio di settembre aveva comandato che si terminasse la fortificazione di Borgo. Soltanto molto rare arrivavano notizie sull’armata cristiana e pertanto alla Curia si stava in penosa incertezza. Fu quindi come una liberazione l’apprendere finalmente ai primi di ottobre l’arrivo della flotta della lega a Corfù.
Giunta ai 13 di ottobre la nuova che la flotta turca trovavasi a Lepanto e che quella della lega si sarebbe messa in movimento il 30 settembre, non v’aveva dubbio che il cozzo era imminente. Il papa, sebbene fermamente fiducioso della vittoria delle armi cristiane, ordinò tuttavia straordinarie preghiere diurne e notturne in tutti i monasteri di Roma: egli poi in simili esercizi andava avanti a tutti col migliore esempio. La sua preghiera doveva finalmente venire esaudita. Nella notte dal 21 al 22 ottobre arrivò un corriere mandato dal nunzio a Venezia Facchinetti e rimise al cardinal Rusticucci che dirigeva gli affari della segreteria di Stato una lettera del Facchinetti contenente la notizia portata a Venezia il 19 ottobre da Giofrè Giustiniani della grande vittoria ottenuta presso Lepanto sotto l’ottima direzione di Don Juan. Il cardinale fece tosto svegliare il papa, che prorompendo in lagrime di gioia pronunziò, le parole del vecchio Simeone:nunc dimittis servum tuum in pace”. Si alzò subito per ringraziare Iddio in ginocchio e poi ritornò in letto, ma per la lieta eccitazione non poté trovar sonno.
La mattina seguente si recò a S. Pietro per nuova calda preghiera di ringraziamento, ricevendo poscia gli ambasciatori e cardinali ai quali disse che ora dovevansi fare nel prossimo anno gli sforzi estremi per continuare la guerra turca. In quest’occasione egli alludendo al nome di Don Juan ripeté le parole della Scrittura: “fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Ioannes”. (…) Tanto Colonna quanto il papa avevano chiara coscienza di quanto mancasse ancora per raggiungere la grande meta dell’abbattimento della potenza degli ottomani: ambedue erano così concordi sui passi da intraprendersi che Pio V associò il suo esperimentato ammiraglio ai cardinali deputati per gli affari della lega, che dal 10 dicembre tenevano quasi ogni giorno coi rappresentati di Spagna, Requesens e Pacheco, e cogli inviati di Venezia due sedute, spesso della durata di cinque ore.
Sotto pena di scomunica riservata al papa tutto era tenuto rigorosissimamente segreto, perché il sultano aveva mandato a Roma degli spioni parlanti italiano. Nelle consulte ordinate dal papa nei mesi di ottobre e novembre era venuta in prima linea la provvista dei mezzi finanziarii; ora trattavasi principalmente dello scopo dell’impresa da compiersi nella prossima primavera. E qui solo malamente i rappresentanti sia di Spagna, sia di Venezia potevano nascondere la gelosia e avversione, che nutrivano a vicenda. Gli interessi particolari dei due alleati emersero sì fortemente che venne messa in forse qualsiasi azione comune. I veneziani volevano servirsi della lega non solo per riavere Cipro, ma anche per fare nuove conquiste in Levante. Filippo II, invece, avverso ad ogni rafforzamento della repubblica di S. Marco, fece dichiarare dal Requesens che la lega doveva in primo luogo muovere contro gli stati berbereschi dell’Africa, perché questi tornassero in possesso della Spagna. In questa proposta i veneziani videro una trappola per impedirli dalla riconquista di Cipro ed esporli al pericolo di perdere anche Corfù mentre la loro flotta combatteva gli stati berbereschi pel re di Spagna. A Venezia ritenevasi ora sicuro che Filippo II volesse trarre il maggior utile possibile nel suo proprio interesse dalle forze della lega.
Non può dirsi con certezza quanto le lagnanze per ciò sollevate siano giustificate. Per giudicare rettamente il re di Spagna va in ogni modo tenuto conto del contegno della Francia, il cui governo fu abbastanza svergognato da proporre al sultano subito dopo la battaglia di Lepanto un’alleanza diretta contro la Spagna. Filippo II era perfettamente a giorno delle trattative che la Francia conduceva non solo col sultano, ma anche cogli ugonotti, i capi della rivoluzione neerlandese e con Elisabetta d’Inghilterra. In conseguenza egli doveva fare i conti con un contemporaneo attacco d’una coalizione franco-neerlandese-inglese-turca. Non fu pertanto solo gelosia verso Venezia quella che guidò il re cattolico. Del resto lo stesso Don Juan confessò ch’era contro il tenore del patto della lega rinunciare alla guerra contro il sultano a favore di un’impresa in Africa.
Di fronte al contrasto degli interessi spagnuoli e veneziani Pio V continuò a rappresentare la concezione più vasta e sommamente disinteressata: egli pensava alla liberazione di Gerusalemme, a cui doveva precedere la conquista di Costantinopoli. Ma, come scrisse Zúñiga all’Alba il 10 novembre 1571, un colpo efficace nel cuore della potenza ottomana era possibile soltanto in vista di un attacco contemporaneo e all’impensata per terra e per mare. Di qui i continuati sforzi di Pio V per arrivare a una coalizione europea contro i Turchi. Se a questo riguardo nulla era da sperarsi dalla Francia, che nel luglio aveva mandato un ambasciatore in Turchia, egli tuttavia sperava di guadagnare all’idea almeno altre potenze, prima di tutti l’imperatore, poi Polonia e Portogallo. A dispetto di tutti gli insuccessi finallora incontrati egli coi suoi legati e nunzi continuò a spingere sempre a questa meta.
Pio V cercava di utilizzare al possibile a questo riguardo il più leggero segno di buona volontà. Così prese occasione dalle frasi generiche, con cui Massimiliano II assicurò di essere disposto ad aiutare la causa cristiana, per dargli l’aspettativa da parte degli alleati di un aiuto di 20,000 uomini a piedi e di 2000 a cavallo. L’imperatore ringraziò ai 25 di gennaio del 1572 dell’offerta deplorando di non potere subito decidersi in un negozio di tale importanza. A Roma il duca di Urbino fece risaltare che c’era poco da sperare da Massimiliano ed anzi nulla dai principi tedeschi, specialmente dai protestanti. In un memoriale del papa del gennaio 1572 egli sostenne con buone ragioni l’idea che la guerra dovesse condursi là dove esercito e flotta potessero operare congiunte e dove «noi siamo padroni della situazione», quindi principalmente colla flotta in Levante. Se i Turchi venissero attaccati in Europa dall’imperatore e dalla Polonia, tanto meglio; ma la cosa principale è che si attacchi tosto, perché chi semplicemente si difende non combatte; chi vuole conquistare deve andare avanti risoluto.
La lega quindi si volga contro Gallipoli aprendosi così lo stretto dei Dardanelli. Ma per tale impresa era incondizionatamente necessaria una intesa della Spagna con Venezia, mentre invece i loro rappresentanti da mesi altercavano a Roma nel modo più spiacevole. Quando finalmente i veneziani fecero la proposta, conforme alle clausole del patto della lega del maggio 1571, di far decidere dal papa i punti contestati, anche la Spagna non osò fare opposizione.
Decise Pio V che la guerra della lega dovesse continuarsi nel Levante, che nel marzo la flotta pontificia si riunisse con la spagnuola a Messina e s’incontrasse con la veneta a Corfù, donde le tre forze unite dovevano procedere secondo gli ordini dei loro ammiragli, che gli alleati aumentassero, potendolo, le loro galere fino a 250 e procurassero secondo la proporzione prescritta nel patto della lega 32,000 soldati e 500 cavalieri oltre alla corrispondente artiglieria e munizioni e che alla fine di giugno dovessero trovarsi riuniti a Otranto 11,000 soldati (1000 pontifici, 6000 spagnuoli e 4000 veneziani). Ognuno degli alleati doveva preparare vettovaglie per sette mesi. Queste convenzioni vennero sottoscritte il 10 febbraio 1572.
Il 16 Pio V ammonì il gran maestro dei Gerosolimitani di tenere pronte le sue galere a Messina. I preparativi nello Stato pontificio, pei quali il denaro venne procurato principalmente col Monte della Lega, furono spinti avanti sì alacremente che nello stesso giorno si poté inviare ad Otranto 1800 uomini. A Civitavecchia erano pronte tre galere ed altre là erano attese da Livorno. Il papa era tutto pieno del pensiero della crociata: egli viveva e movevasi nel progetto, di cui fin dal principio era stato da solo l’anima.
Per dieci anni, così si espresse Pio V col cardinale Santori, deve farsi guerra ai Turchi per mare e per terra. La bolla del giubileo, in data 12 marzo 1572, concedeva a tutti coloro, che prendevano essi stessi le armi o volevano equipaggiare un altro o contribuire con denaro, le stesse indulgenze che per il passato avevano acquistate i crociati; i beni di quelli, che partivano per la guerra, dovevano essere sotto la protezione della Chiesa nè potevano venire pregiudicati da chicchessia; tutte le loro liti dovevano sospendersi fino al loro ritorno o a che ne fosse accertata la morte ed essi dovevano restare esenti da ogni tributo.
Da una notizia del 15 marzo 1572 appare quanto la faccenda tenesse occupato il papa: in questa settimana si sono tenute in Vaticano niente meno che tre consulte in proposito. Per infervorare Don Juan, alla fine di marzo del 1572 gli vennero mandati come speciale distinzione lo stocco e il berretto benedetti a Natale. Con nuove speranze Pio V guardava al futuro: buona ventura gli risparmiò di vedere che la gloriosa vittoria di Lepanto rimanesse senza immediate conseguenze strategiche e politiche a causa della gelosia e dell’egoismo degli spagnuoli e veneziani, che dal febbraio 1572 disputarono sulle spese della spedizione dell’anno passato. Tanto più grandi furono però gli effetti mediati.
Quanto profondamente venisse scosso l’impero del sultano, risulta dal movimento che prese i suoi sudditi cristiani. Non era affatto ingiustificata la speranza d’una insurrezione di cui sarebbe stata la base la popolazione cristiana di Costantinopoli e Pera, che contava 40,000 uomini. Aggiungevasi la sensibile perdita della grande flotta, che d’un colpo era stata annientata con tutta l’artiglieria e l’equipaggio difficile a surrogarsi.
Se anche, in seguito della grandiosa organizzazione dell’impero e della straordinaria attività di Occhiali, si riuscì a creare un nuovo equivalente, l’avvenire doveva tuttavia insegnare che dalla battaglia di Lepanto data la lenta decadenza di tutta la forza navale di Turchia: era stato messo un termine al suo avanzare e l’incubo della sua invincibilità era stato per la prima volta distrutto. Ciò sentì istintivamente il mondo cristiano ora respirante più agevolmente. Di qui la letizia interminabile, che passò rumorosa per tutti i paesi. «Fu per noi tutti come un sogno», scrisse l’11 novembre 1571 a Don Juan da Madrid Luis de Alzamara; “credemmo di riconoscere l’immediato intervento di Dio”.
Le chiese de’ paesi cattolici risuonarono dell’inno di ringraziamento, il Te Deum. Primo fra tutti Pio V richiamò il pensiero al cielo: nelle medaglie commemorative, che fece coniare, egli pose le parole del salmista: “la destra del Signore ha fatto cose grandi; da Dio questo proviene”. Poiché la battaglia era stata guadagnata la prima domenica d’ottobre, in cui a Roma le confraternite del rosario facevano le loro processioni, Pio V considerò autrice della vittoria la potente interceditrice, la misericordiosa madre della cristianità e quindi ordinò che ogni anno nel giorno della battaglia si celebrasse una festa di ringraziamento come “commemorazione della nostra Donna della vittoria”.
Addì 1° aprile 1573 il suo successore Gregorio XIII stabilì che la festa venisse in seguito celebrata come festa del Rosario la prima domenica d’ottobre. In Ispagna e Italia, i paesi più minacciati dai Turchi, sorsero ben presto chiese e cappelle dedicate a Maria della Vittoria. Il senato veneto pose sotto la rappresentazione della battaglia nel palazzo dei dogi le parole: “né potenza e armi né duci, ma la Madonna del Rosario ci ha aiutato a vincere”. Molte città, come ad es. Genova, fecero dipingere la Madonna del Rosario sulle loro porte ed altre introdussero nelle loro armi l’immagine di Maria che sta sulla mezza luna.

Card. Burke: "Il matrimonio è naturale e sacro"

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Lo scorso 30 settembre si svolgeva, quasi alla vigilia del Sinodo, a Roma, presso la prestigiosa sede dell’Università Pontificia Angelicum, il convegno internazionale “Permanere nella verità di Cristo”, evento sponsorizzato anche su questo blog. Relatori erano i cardinali Carlo Caffarra e Raymond L. Burke, nonché Mons. Cyril Vasil’ ed il prof. Stephan Kampowski. L’evento è stato ben descritto da alcuni partecipanti (v. qui, quiquiqui, qui e qui. Per una sintesi delle relazioni, v. qui, riprodotta anche qui). Possono anche ascoltarsi gli audio delle relazioni dei cardinali: le uniche, al momento, disponibili (qui il saluto del Rettore, l'introduzione e la relazione del card. Caffarra; qui quella del card. Burke). Qui di seguito riproduciamo il testo della relazione del card. Burke, rinviando al seguente link per quella, altrettanto interessante, del card. Caffarra (v. anche qui).
Nella memoria, dunque, di S. Giovanni Leonardi e del Venerabile Pio XII, il Pastor Angelicus, rilancio questo contributo, che è riprodotto anche da Chiesa e postconcilio.

Bottega Lucchese, S. Giovanni Leonardi, XVIII-XIX sec., museo diocesano, Lucca







Il matrimonio è naturale e sacro

di Raymond Leo Burke*


Al momento attuale nella Chiesa non esiste una materia più importante da trattare della verità sul matrimonio. In un mondo nel quale l’integrità del matrimonio è sotto attacco già da molti decenni, la Chiesa è rimasta sempre l’araldo fedele della verità del piano di Dio per l’uomo e la donna, nella unione fedele, indissolubile e procreativa del matrimonio. Nel presente momento, certamente sotto la pressione di una cultura totalmente secolarizzata, confusione e perfino errore sono entrati nella Chiesa e minacciano di indebolire o compromettere gravemente la testimonianza della Chiesa, a detrimento della intera società.
La confusione e l’errore sono diventati evidenti a tutti durante la recente sessione della Terza Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicata alla discussione del tema “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto della evangelizzazione”, e tenuta nel mese di ottobre del 2014. La relazione presentata dopo la prima settimana di discussioni nel Sinodo ha reso spaventosamente chiara la gravità della situazione. La relazione stessa mancava di qualsiasi riferimento consistente al costante magistero della Chiesa sul matrimonio e si presentava come un manifesto, un tipo di incitamento ad un nuovo approccio alle questioni fondamentali della sessualità umana nella Chiesa, un approccio chiamato rivoluzionario, e non senza ragione, dai mezzi di comunicazione secolari. Infatti, il documento è stato rivoluzionario nel senso che è staccato da quello che la Chiesa ha sempre insegnato e praticato per quanto riguarda il matrimonio.
Adesso alla vigilia della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi nella quale l’oggetto è “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”, vorrei offrire delle considerazioni canoniche essenziali. Dico “essenziali” perché è importante ricordare che l’istituto stesso del Sinodo dei Vescovi ha necessariamente un aspetto giuridico per garantire che l’istituto serva correttamente al bene della Chiesa. Il matrimonio e il suo frutto più bello, la famiglia, hanno anche un essenziale aspetto giuridico che garantisce il giusto rapporto tra gli sposi che costituiscono il matrimonio e tra gli sposi e tutti quanti che si rapportano al matrimonio concreto quale istituto pubblico e precisamente quale istituto fondamentale della società stessa – la prima cellula della società e la Chiesa domestica.
Prima presenterò delle considerazioni canoniche sul Sinodo stesso e poi delle considerazioni canoniche intorno ai temi presentati per la discussione dei Padri Sinodali tramite l’Instrumentum laboris della XIV Assemblea Generale Ordinaria.
Considerazioni canoniche sul Sinodo dei Vescovi

1. La natura del Sinodo dei Vescovi

Frequentemente nelle presentazioni vulgate dei lavori del Sinodo dei Vescovi, si è data l’impressione che la dottrina e la prassi perenne della Chiesa saranno alterate con una votazione a maggioranza dei Padri Sinodali. Ma il Sinodo dei Vescovi non ha l’autorità di cambiare dottrina e disciplina. La natura e lo scopo del Sinodo dei Vescovi sono descritti nel can. 342 del Codice di Diritto Canonico, che riporto verbalmente:
Il sinodo dei Vescovi è un’assemblea di Vescovi i quali, scelti dalle diverse regione dell’orbe, si riuniscono in tempi determinati per favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi, e per prestare aiuto con i loro consigli al Romano Pontefice stesso nella salvaguardia e nell’incremento della fede e dei costumi, nell’osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica e inoltre per studiare i problemi riguardanti l’attività della Chiesa nel mondo1 .
Il Sinodo dei Vescovi non è convocato dal Romano Pontefice per suggerire cambiamenti nella dottrina e disciplina della Chiesa, ma piuttosto per assistere il Romano Pontefice nella salvaguardia e nella promozione della sana dottrina riguardante la fede e i costumi, e nel rafforzamento della disciplina per la quale le verità della fede sono vissute nella prassi.
È importante ricordare che il canone stesso è tratto dal Motu proprio Apostolica sollicitudo con il quale il Beato Papa Paolo VI ha istituto il Sinodo dei Vescovi al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II. Dal Motu proprio e dalle norme che lo hanno messo in pratica è chiaro che il Sinodo esiste per favorire la comunione nella Chiesa, dando al Romano Pontefice un particolare istituto perché egli possa ricevere l’aiuto dell’episcopato disperso in tutto il mondo nel suo servizio petrino. Ricordo le parole della Costituzione dommatica sulla Chiesa, Lumen gentium, del Concilio Ecumenico Vaticano II:
Questo sacrosanto sinodo, seguendo le orme del concilio vaticano primo, insegna e dichiara con esso che Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa chiesa e ha mandato gli apostoli come egli stesso era stato mandato dal Padre (cf. Gv. 20, 21), e ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero fino alla fine dei tempi pastori nella sua chiesa. Affinché lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione2 .
Chiaramente, l’istituto del Sinodo dei Vescovi è uno strumento privilegiato del rapporto tra i Vescovi quali successori degli Apostoli e il Romano Pontefice quale successore di San Pietro. Il rapporto è essenziale alla vita della Chiesa ed è molto delicato. Per questo motivo, anche se non c’è tempo oggi di farlo, è importante studiare in profondità l’istituto del Sinodo dei Vescovi, dalla sua costituzione, per evitare distorsioni dannose per la Chiesa universale.
Considerando le sfide che gli sposi e la famiglia affrontano nella cultura odierna, è evidente che l’aiuto principale che il Sinodo dei Vescovi dovrebbe offrire al Romano Pontefice è la discussione dei mezzi per preparare più profondamente le coppie che intendono sposarsi, per accompagnarle specialmente nei primi anni di matrimonio, e per aiutare le coppie che si trovano in difficoltà e perfino in uno stato che non corrisponde alla verità del matrimonio come Dio l’ha creato dall’inizio, e che Cristo, insistendo sulla verità del matrimonio, lo ha restituito alla sua bellezza originale.
Infatti, la discussione sul matrimonio e sulla famiglia durante l’assemblea del Sinodo nell’ottobre del 2014 è stata presentata in termini di evangelizzazione. L’appello frequente di Papa Francesco alla Chiesa, di andare nelle periferie, ha come scopo l’evangelizzazione della gente che vive nelle periferie. Tale evangelizzazione, secondo l’insegnamento di Papa Giovanni Paolo II, ci porta a raggiungere la “«misura alta» della vita cristiana ordinaria”3  che è “raccolta dal Vangelo e dalla viva Tradizione” nella Chiesa4 . Il Sinodo perciò ha il compito di suggerire i modi per la Chiesa d’essere più fedele alla verità sul matrimonio e sulla famiglia, insegnataci dal Vangelo e dalla Tradizione viva. Per quanto riguarda il matrimonio cristiano e la famiglia, e la chiamata all’evangelizzazione, già nella Familiaris consortio Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato che “la famiglia cristiana […] è la prima comunità chiamata ad annunciare il Vangelo alla persona umana in crescita e a portarla, attraverso una progressiva educazione e catechesi, alla piena maturità umana e cristiana”5 .
La Chiesa e perciò il Sinodo devono dare attenzione speciale alla santità del matrimonio, alla fedeltà, all’indissolubilità e alla procreatività dell’unione matrimoniale. La vita familiare cristiana è necessariamente nella cultura odierna un segno di contraddizione. Il Sinodo deve essere l’occasione per la Chiesa universale di dare ispirazione e forza alle coppie cattoliche per la loro testimonianza alla verità di Cristo, della quale la nostra cultura ha tanto bisogno. Il Sinodo deve essere un aiuto alle famiglie cristiane nell’essere, secondo la descrizione antica, Chiesa domestica, il primo luogo nel quale la fede cattolica è insegnata, celebrata e vissuta. I fedeli vivendo in un matrimonio in difficoltà certamente devono godere dell’attenzione particolare della Chiesa che, ad imitazione del Salvatore, annuncia a loro la verità di Cristo e porta a loro la grazia di Cristo per vivere fedelmente e generosamente la vocazione matrimoniale fino alla fine.

2. La “plenitudo potestatis” e la “potestas absoluta”

Vorrei accennare anche ad un’altra confusione che è stata diffusa in questo tempo delle due assemblee del Sinodo dei Vescovi sul matrimonio e sulla famiglia. Nella discussione sui mezzi per affrontare il frequente naufragio di matrimoni, alcuni hanno suggerito che la pienezza della potestà (plenitudo potestatis) del Romano Pontefice significa che egli potrebbe sciogliere qualsiasi matrimonio, per dare la possibilità agli sposi divorziati di entrare in una nuova unione.
Un tale suggerimento non tiene conto della necessaria distinzione tra la pienezza della potestà e la potestà assoluta. La pienezza di potestà del Romano Pontefice, descritta nel can. 331 del Codice di Diritto Canonico, è al servizio della verità della dottrina e della disciplina nella Chiesa universale. Il Santo Padre esercita il suo potere con totale obbedienza a Cristo e non può prendere provvedimenti contro la verità di Cristo, appellandosi ad una potestà assoluta e perciò arbitraria. In altre parole, sarebbe contraddittorio asserire un potere del Romano Pontefice sopra la legge divina.
Rimane allora vera anche per il Romano Pontefice la disciplina contenuta nel can. 1141 del Codice di Diritto Canonico: “Il matrimonio rato e consumato non può essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte” 6. La stessa disciplina, di diritto divino, è contenuta nel can. 853 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali.
A questo riguardo si deve anche osservare che il naufragio di molti matrimoni non significa che tutti o neanche molti sono naufragati per ragione della nullità del matrimonio. L’esperienza pastorale insegna che molti matrimoni validi naufragano per il peccato, per la mondanità e l’egoismo che sono in se stessi nocivi al proseguimento del patto di amore fedele e duraturo.

3. Il rapporto tra dottrina e disciplina

Per quanto riguarda le questioni canoniche sul matrimonio, e specialmente il processo canonico per la dichiarazione di nullità del matrimonio, è frequentemente asserito che cambiamenti nella disciplina canonica possono essere introdotti senza intaccare in alcun modo la dottrina sull’indissolubilità del matrimonio. Anche il falso suggerimento che il Romano Pontefice possa sciogliere qualsiasi matrimonio in casi speciali – ovviamente non nei casi del legittimo esercizio del potere petrino nello scioglimento di un matrimonio “in favore della fede” – pretende che si possa sciogliere un matrimonio rato e consumato in un caso speciale senza intaccare la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio.
Ma è più che evidente che un processo inadeguato per arrivare alla verità su un matrimonio accusato di nullità comporterebbe una mancanza del dovuto rispetto all’indissolubilità. Infatti negli Stati Uniti, dal 1971 al 1983, è stato concesso un processo molto semplificato, con la riduzione della figura del difensore del vincolo e l’effettiva eliminazione della doppia sentenza conforme. Con il tempo e non senza ragione, il processo per la dichiarazione di nullità del matrimonio è stato qualificato popolarmente come “divorzio cattolico”. In altre parole, nella percezione comune, mentre la Chiesa dichiarava l’indissolubilità del matrimonio nella sua dottrina, nella prassi permetteva a parti tenute da un legame matrimoniale di sposarsi con un’altra persona senza che fosse previamente dimostrata la nullità del vincolo matrimoniale precedente.
Nello stesso modo, se fosse possibile – ma non lo è – per il Romano Pontefice sciogliere un matrimonio rato e consumato, allora la verità dell’indissolubilità del matrimonio cadrebbe. Anche in quel caso la percezione popolare dovrebbe concludere che la Chiesa, in qualche modo, non è coerente nella sua dottrina.
Per quanto riguarda il rapporto tra la disciplina canonica e la dottrina, mi riferisco alla magistrale presentazione dell’insostituibile servizio del diritto canonico per la salvaguardia e la promozione della sana dottrina, che Papa Giovanni Paolo II ha fatto, specialmente alla luce dell’antinomianismo del periodo postconciliare, nella Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges con la quale ha promulgato il Codice di Diritto Canonico nel 1983.
Il santo Pontefice descrisse la natura del diritto canonico, indicando il suo sviluppo organico dalla prima alleanza di Dio con il Suo santo popolo. Egli ricordò il « lontano patrimonio di diritto contenuto nei libri del Vecchio e Nuovo Testamento dal quale, come dalla sua prima sorgente, proviene tutta la tradizione giuridico-legislativa della Chiesa” 7. In particolare ha notato come Cristo Stesso ha dichiarato di non essere venuto per distruggere «il ricchissimo retaggio della Legge e dei Profeti» ma per dargli compimento 8. Il Signore infatti ci insegna che è la disciplina che apre la via alla libertà nell’amore di Dio e del prossimo. Così Papa San Giovanni Paolo II ha dichiarato : “In tal modo gli scritti del Nuovo Testamento ci consentono di percepire ancor più l’importanza stessa della disciplina e ci fanno meglio comprendere come essa sia più strettamente congiunta con il carattere salvifico della stessa dottrina evangelica” 9.
Egli ha articolato il fine del diritto canonico, cioè, il servizio della fede e della grazia, ricordando che, lontano da essere un ostacolo alla nostra vita in Cristo, la disciplina canonica salvaguarda e promuove la vita cristiana:
Stando così le cose, appare con chiarezza che il Codice non ha come scopo in nessun modo di sostituire la fede, la grazia, i carismi e soprattutto la carità dei fedeli nella vita della Chiesa. Al contrario, il suo fine è piuttosto di creare tale ordine nella società ecclesiale che assegnando il primato all’amore, alla grazia e ai carismi, rende più agevole contemporaneamente il loro organico sviluppo nella vita sia della società ecclesiale, sia anche delle singole persone che ad essa appartengono10 .
È evidente che la disciplina della Chiesa non può mai essere in conflitto con la dottrina che ci arriva in una linea ininterrotta dagli Apostoli. Infatti, come osservò Papa San Giovanni Paolo II, “in realtà, il Codice di diritto Canonico è estremamente necessario alla Chiesa”11 . In ragione del rapporto stretto e inseparabile tra la dottrina e il diritto, ha poi ricordato che il servizio essenziale del diritto canonico alla vita della Chiesa necessita che le leggi siano osservate e, al tale fine, “l’espressione delle norme fosse accurata, e perché esse risultassero basate su un solido fondamento giuridico, canonico e teologico”12.

Considerazioni specifiche

L’Instrumentum laboris, nel n. 114, che corrisponde al n. 48 del documento finale della Assemblea dell’ottobre scorso propone due cambiamenti nella disciplina della Chiesa: 1) “la necessità di rendere più accessibili ed agili, possibilmente del tutto gratuite, le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità”, e 2) “andrebbe considerata la possibilità di dare rilevanza al ruolo della fede dei nubendi in ordine alla validità del sacramento del matrimonio”13 .

1. La proposta di radicale modificazione del processo per la dichiarazione di nullità

La prima proposta assai diffusa di modificare radicalmente il processo per la dichiarazione di nullità del matrimonio, cosicché le parti in una causa di nullità possano ricevere più facilmente e più rapidamente una tale dichiarazione, ha già trovato una risposta, già prima dell’altra Assemblea sinodale, attraverso la legislazione papale sul processo canonico per l’esame delle accuse di nullità matrimoniale, emanata l’8 settembre. Non commento la nuova legislazione, ma tratto la questione per i principi coinvolti.
Nella sua presentazione al Concistoro Straordinario del 20 e 21 febbraio 2014, il Cardinale Walter Kasper ha asserito che il processo per la dichiarazione di nullità non è di diritto divino e perciò potrebbe essere radicalmente alterato14 . Egli ha suggerito un processo amministrativo, per esempio, un incontro del Vescovo o di un sacerdote designato dal Vescovo con una parte che accusa il suo matrimonio di nullità, in base al quale il Vescovo dichiarerebbe la nullità del matrimonio15 .
Mentre è vero che il processo nei suoi singoli elementi non è di diritto divino, un processo adatto a scoprire la verità del matrimonio accusato di nullità è assolutamente richiesto dalla legge divina. L’attuale processo è il frutto della plurisecolare esperienza della Chiesa circa il giusto trattamento di una accusa di nullità matrimoniale e, come ha magistralmente illustrato Papa Pio XII nella sua allocuzione alla Rota Romana nel 194416 , si compone di vari elementi tutti adatti a scoprire la verità delle situazioni di naufragio matrimoniale che sono normalmente assai complesse.
Per i casi più semplici, per esempio, per il caso di una persona che ha attentato il matrimonio quando era ancora legata ad un preesistente matrimonio, esiste un processo documentale, con la celerità appropriata. Come spiego nel mio contributo, alterare l’attuale processo senza rispetto della evoluzione storica dello stesso rischia di sottrarre al processo la possibilità di arrivare al suo giusto fine, un giudizio emanato con certezza morale, secondo la verità scoperta tramite lo stesso.
Sono stato per molti anni presso la Segnatura Apostolica, prima quale Difensore del Vincolo dal 1989 al 1995 e, poi, quale Prefetto dal 2008 fino al novembre dell’anno scorso. In modo consistente l’esperienza della Segnatura Apostolica insegna che, quando il tribunale ha personale ben preparato, le cause procedono senza ingiustificati ritardi. Allo stesso tempo, un processo per arrivare ad una decisione in una materia così importante e delicata ha, per necessità, i suoi tempi per raccogliere le prove, per esaminarle, e alla fine per emanare un giudizio con morale certezza. Con amarezza ho verificato molte volte che il Vescovo diocesano non ha curato sufficientemente la preparazione del personale necessario per il suo tribunale. In altre parole, non è il processo che ha bisogno di modifiche, ma la prassi di alcuni Vescovi di non provvedere per il tribunale gli operatori giusti e preparati.

2. La fede requisita per un valido consenso matrimoniale

La natura stessa ci insegna del matrimonio: l’abbandono della casa familiare da parte di un uomo e di una donna affinché possano, con l’aiuto di Dio, formare una nuova casa. Abbandonano le loro proprie famiglie per diventare “un’unica carne”, per formare una nuova famiglia17 . Quello che la natura ci insegna, quello che è iscritto in ogni cuore umano, è anche manifestato nel corpo dell’uomo e della donna. La stessa verità, rivelata nella natura, è anche rivelata nelle Sacre Scritture e insegnata dal Magistero. Non ci può essere nessuna contraddizione, infatti, tra quello che Dio ha rivelato attraverso la natura e quello che Egli ha rivelato nella Sua parola ispirata. Non ci può essere nessuna contraddizione tra la natura e la grazia, le quali ambedue hanno la loro origine in Dio e riflettono la Sua verità, bellezza e bontà, delle quali Egli ha dato una partecipazione alle Sue creature. L’uomo, sopra ogni altra creatura terrestre, partecipa dell’Essere di Dio, perché Dio ha creato l’uomo, maschio e femmina, a sua immagine18 .
Il matrimonio, istituto da Dio fin dall’inizio, ha sofferto gli effetti del peccato originale dal quale Cristo ci ha salvato nella Sua Incarnazione Redentiva. Ricordiamo come la prima manifestazione dello stato decaduto di Adamo e Eva è stata la loro vergogna19 . La Seconda Persona della Santissima Trinità, prendendo la nostra natura umana, ha purificato e elevato il matrimonio, costituendolo nella dignità di Sacramento, affinché gli sposi possano più facilmente e pienamente vivere secondo il piano di Dio voluto per loro fin dall’inizio.
Il matrimonio è una realtà naturale e fa parte della creazione di Dio. Con la sua istituzione Dio lo ha dotato delle caratteristiche naturali: un’unione tra un uomo e una donna che è esclusiva, permanente e aperta alla vita. Un’unione che manca o esclude una di queste proprietà non è un vero matrimonio nel senso naturale. Nella nuova alleanza, il matrimonio tra i battezzati è anche una realtà soprannaturale, un sacramento. Ma l’elevazione del matrimonio a sacramento non toglie la realtà naturale. Infatti, il matrimonio sacramentale mantiene tutte le sue proprietà naturali20 .
L’aggettivo “naturale” applicato al matrimonio può avere due sensi. Può riferirsi alla bellezza e integrità del matrimonio dall’inizio, dal momento della creazione dell’uomo e della donna da parte di Dio. Può anche riferirsi alla natura decaduta dell’uomo dopo il peccato originale, agli effetti del peccato originale che rendono più difficile per gli sposati di vivere la verità della loro unione coniugale.
La catechesi sulla grazia matrimoniale conferita sugli sposi è la chiave per affrontare l’attuale confusione nella Chiesa. In una società totalmente secolarizzata esiste la tendenza di vedere il matrimonio da un punto di vista puramente naturale, nel senso dello stato decaduto dell’uomo e così di ridurre l’insegnamento di Cristo sul matrimonio alla espressione di un ideale che è impossibile raggiungere per la maggioranza. Ma la verità è che Cristo, fedele alle Sue promesse, rimane sempre in mezzo a noi nella Chiesa21 . Egli non cessa mai di effondere in abbondanza la grazia divina nei nostri cuori, affinché noi possiamo vivere in Lui in ogni fibra del nostro essere, in ogni dimensione della nostra vita.
La nostra catechesi sul matrimonio deve essere centrata sulla replica di Cristo al tentativo dei Farisei di confonderLo sulla questione del divorzio. Dobbiamo ricordare anche che la catechesi centrata sull’insegnamento di Cristo è sempre accompagnata dalla Sua grazia a vivere la verità enunciata nel Suo insegnamento.
Il contratto matrimoniale è, per natura, sacro, perché è stato istituto da Dio per unire un uomo e una donna nel Suo amore fedele e duraturo del quale il frutto incomparabile è la procreazione ed educazione dei Suoi figli. Così, anche prima che Cristo elevasse il matrimonio alla dignità di sacramento, il matrimonio ha sempre coinvolto non soltanto gli sposi ma anche Dio, quale Autore vivo del matrimonio. Per questa ragione, il contratto matrimoniale è anche chiamato alleanza, perché è una fondamentale e più bella manifestazione dell’alleanza tra Dio e uomo, e, specialmente come insegna San Paolo nella Lettera agli Efesini, dell’alleanza tra Cristo, lo Sposo, e la Chiesa, Sua Sposa22 . Questo è il senso di chiamare matrimonio un sacramento naturale.
Deve essere allora chiaro che l’elevazione del matrimonio legittimo a sacramento non costituisce per gli sposi un nuovo contratto; il matrimonio continua ad essere costituito dal loro originale atto del consenso matrimoniale. Allo stesso tempo è chiaro che la validità del consenso matrimoniale dei battezzati non dipende dal livello della loro fede nel Sacramento del matrimonio. È stato suggerito che molti matrimoni sono nulli per la mancanza di fede o per la fede insufficiente nel Sacramento del matrimonio. La mancanza o la debolezza della fede di uno o ambedue gli sposi può significare che uno o ambedue non rispondono pienamente alla grazia del Sacramento, ma certamente non rende il matrimonio nullo.
La sacramentalità, applicata al matrimonio, deve essere giustamente intesa. Talvolta si parla della sacramentalità come una qualche addizione al matrimonio per renderlo cristiano, ma questo non è vero. La sacramentalità non è un elemento o una proprietà del matrimonio. È piuttosto la forza soprannaturale che permea e vivifica ognuno degli elementi e proprietà del matrimonio, elevandoli all’ordine della efficacia soprannaturale. La sacramentalità coincide con il matrimonio stesso, che, per il Sacramento del battesimo, fa parte dell’economia della salvezza23 .
Chiaramente è la fede e il battesimo che fanno sacramentale il matrimonio. Il matrimonio è sacramentale quando gli sposi sono vivi in Cristo per il battesimo. Così Papa San Giovanni Paolo II ha insegnato nella Esortazione postsinodale Familiaris Consortio:
Infatti, mediante il battesimo, l'uomo e la donna sono definitivamente inseriti nella Nuova ed Eterna Alleanza, nell'Alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa. Ed è in ragione di questo indistruttibile inserimento che l'intima comunità di vita e di amore coniugale fondata dal Creatore, viene elevata ed assunta nella carità sponsale del Cristo, sostenuta ed arricchita dalla sua forza redentrice24 .
In altre parole, il battesimo dà alla persona un nuovo rapporto ontologico con Dio. Il matrimonio dà ad un uomo e a una donna un nuovo rapporto con se stessi. Se scelgono liberamente di stabilire questo nuovo rapporto tra se stessi, questo riguarda anche il già esistente rapporto ontologico con Dio. Quello che succede supera la loro volontà. Infatti, l’unico modo con il quale due cristiani che si sposano potrebbero veramente escludere la sacramentalità sarebbe quello di cessare di essere cristiani – ma questo non lo possono fare. La volontà umana non è onnipotente, non ha il potere di cambiare l’ordine dell’essere stabilito da Cristo, ma deve cooperare con lui25 .
È sufficiente che gli sposi intendano fare quello che la Chiesa intende, perché gli sposi stessi, non la Chiesa, sono i ministri e i recipienti del Sacramento. L’intenzione richiesta per il valido conferimento del Sacramento del matrimonio è semplicemente l’intenzione della realtà naturale, cioè l’intenzione di sposarsi. Se questa è la loro intenzione, ambedue vivendo in Cristo, ricevono quello che intendono elevato, anche senza che si rendano conto, a livello sacramentale, arricchito e trasformato dalla grazia. Gli sposi devono avere l’intenzione di sposarsi. Per quanto riguarda la sacramentalità, non è richiesta alcuna ulteriore intenzione26 .
Nell’allocuzione alla Rota Romana del 1º febbraio 2001, Papa San Giovanni Paolo II ha spiegato sinteticamente l’argomento al riguardo. Vale la pena di citare la sua chiara spiegazione:
Quasi all’inizio del mio pontificato, dopo il Sinodo dei Vescovi sulla famiglia del 1980 nel quale fu trattato, mi sono pronunciato al riguardo nella Familiaris consortio, scrivendo: «Il sacramento del matrimonio ha questo di specifico fra tutti gli altri: di essere il sacramento di una realtà che già esiste nell’economia della creazione, di essere lo stesso patto coniugale istituito dal Creatore al principio». Di conseguenza, per identificare quale sia la realtà che già dal principio è legata all’economia della salvezza e che nella pienezza dei tempi costituisce uno dei sette sacramenti in senso proprio della Nuova Alleanza, l’unica via è quella di rifarsi alla realtà naturale che si è presentata dalla Scrittura nella Genesi. È ciò che ha fatto Gesù parlando dell’indissolubilità del vincolo coniugale, ed è ciò che ha fatto San Paolo illustrando il carattere di «mistero grande» che ha il matrimonio «in riferimento a Cristo e alla Chiesa».
Del resto dei sette sacramenti il matrimonio, pur essendo un «signum significans et conferens gratiam», è il solo che non si riferisce ad un’attività specificamente orientata al conseguimento di fini direttamente soprannaturali. Il matrimonio, infatti, ha come fini, non solo prevalenti ma propri «indole sua naturali», il bonum coniugum e la prolis generatio et educatio.
In una diversa prospettiva, il segno sacramentale consisterebbe nella risposta di fede e vita cristiana dei coniugi, per cui esso sarebbe privo di una consistenza oggettiva che consenta di annoverarlo tra i veri sacramenti cristiani. Perciò, l’oscurarsi della dimensione naturale del matrimonio, con il suo ridursi a mera esperienza soggettiva, comporta anche l’implicita negazione della sua sacramentalità. Per contro, è proprio l’adeguata comprensione di questa sacramentalità nella vita cristiana ciò che spinge verso una rivalutazione della sua dimensione naturale.
D’altra parte, l’introdurre per il sacramento requisiti intenzionali o di fede che andassero al di là di quello di sposarsi secondo il piano divino del «principio» – oltre ai gravi rischi che ho indicato nella Familiaris consortio: giudizi infondati e discriminatori, dubbi sulla validità di matrimoni già celebrati, in particolare da parte di battezzati non cattolici – , porterebbe inevitabilmente a voler separare il matrimonio dei cristiani da quello delle altre persone. Ciò si opporrebbe profondamente al vero senso del disegno divino, secondo cui è proprio la realtà creazionale che è un «mistero grande» in riferimento a Cristo e alla Chiesa27 .
Dal punto di vista psicologico, queste parole possono essere difficili da capire ed accettare. La loro comprensione dipende dalla comprensione dell’effetto ontologico, dal carattere sacramentale impresso nell’anima dal Sacramento del battesimo.
Certamente, lo sposo cristiano deve intendere quello che la Chiesa intende, che non è differente, nella sua essenza, dal sacramento naturale, se anche è arricchito e perfezionato dalla grazia sacramentale. Se quelli che si preparano a sposarsi dimostrano che non intendono quello che la Chiesa intende, poi, come ci ha insegnato Papa San Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio, “il pastore delle anime non può ammetterli alla celebrazione”28 .
In questo senso si deve osservare che un argomento forte per la validità di un matrimonio celebrato nella Chiesa è il rito stesso, specialmente gli elementi centrali del rito, che tutti sottolineano la natura del patto matrimoniale “con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla generazione e educazione della prole”29 , e le sue proprietà essenziali, cioè l’unità e l’indissolubilità30 .

3. Nota sulla “via penitenziale”

Il tempo non mi permette di affrontare una discussione ampia della “via penitenziale” che è presentata nei nn. 122 e 123 dell’Instrumentum Laboris31 . Tale “via penitenziale” ha un carattere giuridico perché tocca la realtà pubblica del matrimonio. Infatti, la “via penitenziale”, come proposta non è stata mai parte della disciplina canonica della Chiesa Cattolica, ma sembra essere una versione della prassi nelle Chiese Ortodosse. LaRelatio Synodi, n. 122 dell’Instrumentum Laboris, la descrive come “una accoglienza non generalizzata alla mensa eucaristica, in alcune situazioni particolari ed a condizioni ben precise, soprattutto quando si tratta di casi irreversibili e legati ad obblighi morali verso i figli che verrebbero a subire sofferenze ingiuste” 32.
La “via penitenziale” soffre di tutte le difficoltà che la prassi delle Chiese Ortodosse soffre. Al tale riguardo, mi riferisco all’eccellente studio della questione della prassi ortodossa di S.E.R. Mons. Cyril Vasil’, S.I., Segretario della Congregazione per le Chiese Orientali, nel libro Permanere nella verità di Cristo: Matrimonio e comunione nella Chiesa Cattolica33 .
Per il momento, osservo soltanto che è molto difficile capire come la “via penitenziale” è coerente con la verità insegnata da Cristo sul caso dei divorziati che attentano il matrimonio. È anche difficile capire come è veramente penitenziale, perché esclude l’intenzione ferma di emendare la vita, che è essenziale alla penitenza.
Si deve anche chiarire il senso dei “casi irreversibili”, perché la terminologia in se stessa non è coerente con la realtà della grazia conferita con il consenso matrimoniale. Alla fine, senza, in nessun senso, sottovalutare la sofferenza dei bambini in tali situazioni, non si può dire che la loro sofferenza è ingiusta, come se l’insegnamento della verità di Cristo generasse situazioni di ingiustizia. È piuttosto il frutto naturale della situazione dei loro genitori. 

Conclusione

Ci sono altri aspetti canonici della discussione sinodale che potrei segnalare. Ho voluto almeno indicare le considerazioni più centrali.
Per concludere: viviamo in un tempo nel quale il matrimonio è sotto un attacco veramente feroce, che cerca di offuscare e macchiare la bellezza sublime dello stato matrimoniale come Dio lo ha voluto dall’inizio, dalla creazione. Il divorzio è diventato comunissimo, come è anche comunissima la pretesa di rimuovere dall’unione coniugale, con ogni mezzo esterno, la sua essenza procreativa. E adesso la cultura è andata ancora oltre nel suo affronto a Dio e alla Sua legge, pretendendo di dare il nome di matrimonio ai rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso.
Perfino nella Chiesa c’è chi oscura la verità dell’indissolubilità del matrimonio. Ci sono anche quelli che negano che gli sposati ricevono la grazia particolare per vivere eroicamente un amore fedele, duraturo e procreativo, mentre il Signore stesso ci ha assicurato che Dio dà agli sposati la grazia per vivere quotidianamente la loro vita, il mistero della loro unione, secondo la verità evangelica.
Nella attuale situazione, la testimonianza della Chiesa allo splendore della verità del matrimonio deve essere limpida e coraggiosa. Una parte, forse minima ma certamente essenziale, è il rispetto per l’aspetto giuridico del matrimonio. È impossibile che la Chiesa salvaguardi e promuova la vita matrimoniale senza osservare la giustizia, senza la quale non ha senso parlare dell’amore, che è l’essenza del matrimonio e che san Paolo ha chiamato un grande mistero perché è una partecipazione nell’amore di Cristo, Sposo, per la Chiesa, Sua Sposa34.

* Patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta, questo pubblicato da La Nuova Bussola Quotidiana è il suo intervento nell'ambito di: Permanere nella Verità di Cristo, Convegno Internazionale in preparazione del Sinodo sulla famiglia, Angelicum - Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino, 30 settembre 2015

NOTE

1.  “Can. 342 - Synodus Episcoporum coetus est Episcoporum qui, ex diversis orbis regionibus selecti, statutis temporibus una conveniunt ut arctam coniunctionem inter Romanum Pontificem et Episcopos foveant, utque eidem Romano Pontifici ad incolumitatem incrementumque fidei et morum, ad disciplinam ecclesiasticam servandam et firmandam consiliis adiutricem operam praestant, necnon quaestiones ad actionem Ecclesiae in mundo spectantes perpendant.” Versione italiana: Codice di diritto canonico commentato, 3ª ed. Riveduta, ed. Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale (Milano: Àncora Editrice, 2009). [CDCC].

2. “Haec Sacrosancta Synodus, Concilii Vaticani primi vestigia premens, cum eo docet et declarat Iesum Christum Pastorem aeternum sanctam aedificasse Ecclesiam, missis Apostolis sicut Ipse missus erat a Patre (cfr. Io. 20, 21); quorum successores, videlicet Episcopos, in Ecclesia sua usque ad consummationem saeculi pastores esse voluit. Ut vero Episcopatus ipse unus et indivisus esset, beatum Petrum ceteris Apostolis praeposuit in ipsoque instituit perpetuum ac visibile unitatis fidei et communionis principium et fundamentum”. Sacrosanctum Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Constitutio dogmatica Lumen gentium, “De Ecclesia”, 21 Novembris 1964, Acta Apostolicae Sedis 57 (1965), 22, n. 18. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, vol. 1, pp. 157 e 159, n. 329.

3. “… «superiorem modum» ordinariae vitae christianae”. Ioannes Paulus PP. II, Epistula Apostolica Novo millennio ineunte, “Magni Iubilaei anni MM sub exitum”, 6 Ianuarii 2001, Acta Apostolicae Sedis 93 (2001), 288, n. 31. [NMI]. Versione italiana: EV, vol. 20, p. 69, n. 31. [NMIIt].

4. “… quod de Evangelio derivatur semper vivaque Traditione.” NMI, 285, n. 29. Versione italiana: NMIIt, p. 63, n. 58.

5. “… christiana enim familia est prima communitas, cuius est Evangelium personae humanae crescenti annuntiare eamque progrediente educatione et catechesi ad plenam maturitatem humanam et christianam perducere.” Ioannes Paulus PP. II, Adhortatio Apostolica Familiaris consortio, “De Familiae Christianae muneribus in mundo huius temporis”, 82, n. 2. [FC]. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, vol. 7, p. 1391, n. 1525. [FCIt].

6.  “Can. 1141 - Matrimonium ratum et consummatum nulla humana potestate nullaque causa, praeterquam morte, dissolvi potest”. Versione italiana: CDCC.

7.  “... longinqua illa hereditas iuris, quae in libris Veteris et Novi Testamenti continetur, ex qua tota traditione iuridica et legifera Ecclesiae, tamquam a suo primo fonte, originem ducit.” Ioannes Paulus PP. II, Constitutio Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 Ianuarii 1983, Acta Apostolicae Sedis 75, Pars II (1983), p. x. [SDL]. Versione italiana: Codice di Diritto Canonico commentato, ed. Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale, 3ª ed. riv. (Milano: Àncora Editrice, 2009), p. 61. [SDLIt].

8.    Cf. Mt 5, 17.

9. “Sic Novi Testamenti scripta sinunt ut nos multo magis percipiamus hoc ipsum disciplinae momentum, utque ac melius intellegere valeamus vincula, quae illud arctiore modo contingunt cum indole salvifica ipsius Evangelii doctrinae.” SDL, pp. x-xi. Versione italiana: SDLIt, p. 63.

10. “Codex eo potius spectat, ut talem gignat ordinem in ecclesiali societate, qui, praecipuas tribuens partes amori, gratiae atque charismati, eodem tempore faciliorem reddat ordinatam eorum progressionem in vita sive ecclesialis societatis, sive etiam singulorum hominum, qui ad illam pertinent.” SDL, p. xi. Versione italiana: SDLIt, p. 63.

11. “Ecclesiae omnino necessarius est.” SDL, p. xii. Versione italiana: SDLIt, p. 64.

12.  “... canonicae leges suapte natura observantiam exigent…accurate fieret normarum expressio…in solido iuridico, canonico ac theologico fundamento inniterentur.”SDL, p. xiii. Versione italiana: SDLIt, p. 66.

13. Sinodo dei Vescovi, XIV Assemblea Generale Ordinaria, “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”, Instrumentum Laboris (Città del Vaticano: Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi e Libreria Editrice Vaticana, 2015), p. 64, n. 114. [IL] 

14. Cf. Walter Kasper, Il vangelo della famiglia (Brescia: Edizioni Queriniana, 2014), p. 45. [Walter Kasper].

15.    Cf. Walter Kasper, p. 45.

16. Cf. Pius PP. XII, Allocutio, “Ad Praelatos Auditores ceterosque officiales et administros Tribunalis S. Romanae Rotae necnon eiusdem Tribunalis advocatos et procuratores,” 2 Octobris 1944, Acta Apostolicae Sedis 36 (1944), 281-290.

17.   Cf. Gen 2, 24; Mt 19, 5; Mc 10, 7; 1Cor 6, 16; Ef 5, 31.

18.   Cf. Gen 1, 27.

19.   Cf. Gen 3, 7.

20. Cf. Cormac Burke, The Theology of Marriage: Personalism, Doctrine, and Canon Law (Washington, DC: The Catholic University of America Press, 2015), pp. 1-2. [Cormac Burke].

21.    Cf. Mt 28, 20

22.  Cf. Ef 5, 21-32

23.   Cf. Ef 5, 21-32

24.  FC, p. 95, n. 13. Versione italiana: FCIt, p. 1415, n. 1568

25.  Cf. Cormac Burke, p. 6

26.  Cf. Cormac Burke, p. 11

27. Ioannes Paulus PP. II, Allocutio “Ad Romanae Rotae tribunal,” 1 Februarii 2001, Acta Apostolicae Sedis 93 (2001), 363-364, n. 8

28.  FC, p. 165, n. 68. Versione italiana: FCIt, p. 1739, n. 68

29.  Can. 1055, § 1

30.  Cf. can. 1056

31.   Cf. IL, pp. 67-68, nn. 122-123

32.   IL, p. 67, n. 122

33. Cf. Cyril Vasil’, Separazione, divorzio, scioglimento del vincolo matrimoniale e seconde nozze. Approcci teologici e pratici delle Chiese Orientali, Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, ed. Robert Dodaro (Siena: Edizioni Cantagalli, 2014), pp. 87-118.

34.  Cf. Ef 5, 32.


Fede e Chiesa in un aforisma di S. Ireneo di Lione

"Ad Granaténse sepúlcrum Isabéllam imperatrícem cum detulísset, in ejus vultu, fœde commutáto, mortálium ómnium caducitátem rélegens, voto se adstrínxit, rebus ómnibus, cum primum licéret, abjéctis, regum Regi únice inserviéndi. Inde tantum virtútis increméntum fecit, ut, inter negotiórum turbas, religiósæ perfectiónis simíllimam imáginem réferens, miráculum príncipum ap-pellarétur" (Lect. IV - II Noct.) "Nunca más serviré a un señor que se me pueda morir" - SANCTI FRANCISCI BORGIÆ, CONFESSORIS

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Oggi festeggiamo il duca di Gandia e marchese di Lombay, Francisco de Borja, che appare nei fasti della Chiesa, diffondente il profumo dell’umiltà, dello zelo e della povertà evangelica. Francesco, infatti, quarto duca di Gandia, nacque da Giovanni de’ Borgia e Giovanna d’Aragona, figlia minore di Ferdinando il Cattolico. Fin dall’infanzia ebbe sentimenti d’innocenza e di pietà. Ancora più ammirabili furono però gli esempi di virtù cristiana e di austerità che diede in seguito dapprima presso la corte dell’imperatore Carlo V e più tardi, nel 1539, come viceré di Catalogna. Colpito dall’orazione funebre di S. Giovanni d’Avila, oggi dottore della Chiesa, per la morte dell’imperatrice Isabella d’Aviz (+ 1° maggio 1539) per le complicazioni del suo ultimo parto (quello dell’infante Filippo II) e rimasto impressionato dai rapidi cambiamenti subiti dal corpo e dal bel volto dell’imperatrice defunta, di cui aveva dovuto accompagnare il feretro a Grenada perché fosse sepolta nelle tombe reali (Capilla Real de Granada), comprese la fragilità delle realtà umane e come egli non potesse non servire se non l’unico Re dei re, l’unico davvero incorruttibile: He traído el cuerpo de nuestra Señora en rigurosa custodia desde Toledo a Granada, pero jurar que es ella misma, cuya belleza tanto me admiraba, no me atrevo.[...] Sí, lo juro (reconocerla), pero juro también no más servir a señor que se me pueda morir (Juan Eusebio Nieremberg, Vida de San Franciscode Borja, Duque Cuarto de Gandia, Virrey de Cataluña y después Tercer General de la Compañía de Jesús, con el texto de sus obras inéditas, Madrid 1901, p. 51; Marcelle Auclair, La vida de Santa Teresa de Jesús, Madrid 199514, p. 98; Sant’Alfonso M. de’ Liguori, Via della salute e opuscoli affini, in Oreste Gregorio(a cura di), Opere ascetiche, vol X, Roma 1968, p. 18, nota 7).

José Moreno Carbonero, La conversione del Duca di Gandia (S. Francesco Borgia), 1884, Museo del Prado, Madrid

Paolo de Matteis, S. Francesco Borgia dinanzi al corpo dell'imperatrice Isabella, 1693 circa, collezione privata

Per questo, alla morte della moglie, Eleonora de Castro, nel 1546, poté entrare, nel 1548, nella Compagnia di Gesù, sebbene rimanesse ancora nel mondo per assolvere i suoi doveri di genitore nei confronti degli otto figli. Finalmente, nel 1550, raggiunta Roma, poté essere ordinato sacerdote e lì divenne uno dei principali collaboratori di S. Ignazio di Loyola.
Alla scuola del Fondatore dei Gesuiti, Francesco portò molto in alto il sentimento della sua bassezza e, mentre Dio si compiaceva affidargli la direzione suprema della giovane Compagnia di Gesù, onorandolo davanti ai principi ed ai pontefici di cui fu sempre una sorta di oracolo, egli aveva una così vile opinione di se stesso che si stimava la feccia dell’umanità. Si racconta che, passando la notte in una locanda, il suo compagno di viaggio, padre Bartolomé Bustamante (1492-1570), provinciale gesuita dell’Andalusia, che era sofferente di asma, non cessò, per tutta la notte, di tossire e, pensando di sputare verso la parete, sputava, invece, sul letto di Francesco e qualche volta anche sul suo volto; questi non pronunciò tuttavia una parola né cambiò posto, stimando che in quella stanza non c’era luogo più vile per lui dove potesse coricarsi. Fattosi giorno ed accortosi di questo, il padre Bustamante se ne doleva, ma Francesco gli rispose: “No, padre mio, non ti affliggere di ciò, perché certamente in tutta questa stanza non v’era luogo più adatto agli sputi che la mia faccia” (No tenga pena de esto, padre, que yo le certifico que no había en el aposento lugar más digno de ser escupido que yo) (Juan Eusebio Nieremberg, op. cit., pp. 360-361.Cfr. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, La vera sposa di Gesù Cristo cioè la monaca santa per mezzo delle virtù proprie d’una religiosa, Napoli 1760-61, ora in Opere Ascetiche, Voll. XIV-XV, Roma 1935, Capo XI, Della santa umiltà, § 4 - Seguita la stessa materia, dove si parla più particolarmente della tolleranza de’ disprezzi, p. 423; Id., Selva di materie predicabili ed istruttive per dare gli esercizi a’ preti ed anche per uso di lezione privata a proprio profitto, Napoli 1760, ora in Opere Ascetiche, in Opere di S. Alfonso Maria de Liguori, Vol. III, Torino 1880, parte II, Istruzione VII, Circa la mansuetudine, p. 144).
Non era questo, del resto, il sentimento del Cristo, che, sulla Croce, diceva col Salmista: Ego ... sum vermis et non homo; opprobrium hominum et abiectio plebis?


Pietro della Vecchia, S. Francesco Borgia dinanzi al feretro dell'imperatrice Isabella, XVII sec.


Alonso Cano, San Francisco de Borja, 1624, Museo de Bellas Artes, Siviglia


Jean Paul Laurens, S. Francesco Borgia dinanzi alla salma di Isabella del Portogallo, moglie di Carlo V, 1876, musée des Beaux-Arts, Brest


Presentazione del nuovo libro del card. Burke - Pontificia Università Lateranense, Roma, 14 ottobre 2015

10 ottobre 1958 - Traslazione da Castel Gandolfo della salma del Venerabile Pio XII - l'ultimo papa "romano de Roma" - a San Pietro

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(video con immagini di repertorio, sebbene non condivisibile nel commento)

(cliccare sull'immagine per il video)


(La voce del Papa)



Immagini della salma di Pio XII, in abito corale con mozzetta e camauro, esposta in Castel Gandolfo, prima di essere rivestito dei paramenti liturgici pontificali, avvolta cellophane per il procedimento di "imbalsamazione" ideato dal discusso archiatra prof. Riccardo Galeazzi Lisi, che, in verità, impedendo la dispersione dei vapori e liquidi cadaverici,  accelerò in maniera impressionante i processi decompositivi della salma

Ultima foto, prima della tumulazione, del corpo di Pio XII

Sacerdozio, fede, amore a Gesù Cristo e devozione in un aforisma di San Josemaría Escrivá de Balaguer

Rottura della legalità sinodale?

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In corso di Sinodo, verificato che la maggior parte dei Circuli minores (eccezion fatta, probabilmente, per quello tedesco) avevano espresso perplessità per l’Instrumentum laboris, avanzando proposte più o meno incisive di modifiche, che ne avrebbero stravolto l’impianto e forse l’avrebbero reso … meno eterodosso (sull’eterodossia dell’Instrumentum, v. le riflessioni dei Tre teologi e da noi riportate qui, nonché il Dossier redatto da Voice of the family, v. qui e qui. Sul lavoro dei Circuli, v. qui, qui, qui e qui), in corso di Sinodo si diceva, si è deciso di mutare alcune regole, pur discusse e discutibili che erano state rese note alla vigilia della sua apertura. Così, ad es., contrariamente a quanto era stato chiarito all’inizio (v. Briefing del card. Baldisseri), non ci sarà, probabilmente, come annunciato dal card. Tagle, alcuna relazione finale, salvo contraria suprema decisione (v. qui). Altra decisione assunta in corso di lavori è quella di “anticipare” la discussione sulla terza parte dell’Instrumentum (quella cioè più controversa) già alla seconda settimana di lavori (laddove questa doveva avvenire, secondo le originarie previsioni fissate nel calendario dei lavori, solo nella terza). Ed ancora, dopo lo smacco ricevuto dai progressisti dalla relazione introduttiva di presentazione dei temi del card. Péter Erdő, che ha spiazzato le loro attese (v. quiqui; qui e qui), a questi non è stato più consentito – contrariamente a quelle che erano le regole originariamente fissate – di poter tenere una nuova relazione introduttiva – questa volta sulla seconda parte dell’Instrumentum– a cui avrebbe fatto seguito, la prossima settimana, una terza, come previsto nel calendario dei lavori.
Una rottura della legalità sinodale – peraltro già messa in discussione dalle nuove regole di cui si è dato conto alla vigilia del Sinodo – non molto diversa da quella che avvenne all’esordio del Concilio Vaticano II.
Nella festa della solenne chiusura del Concilio di Efeso e della proclamazione del dogma della Divina Maternità di Maria; festa che fu estesa alla Chiesa Universale da Papa Pio XI con l’enciclica Lux Veritatis del 1931, nel XV centenario del Concilio efesino e con la quale venne affermato il vero senso dell’ecumenismo verso gli Orientali scismatici («… Ma sopra ogni altra cosa, un particolare e certamente importantissimo beneficio desideriamo che da tutti venga implorato, mediante la intercessione della celeste Regina. Ella cioè, che è tanto amata e tanto devotamente onorata dagli Orientali dissidenti, non permetta che questi miseramente continuino a stare staccati dall’unità della Chiesa e quindi dal Figlio suo, del quale Noi facciamo le veci sulla terra. ….»), rilanciamo quest’analisi della prof.ssa Guarini sulle segnalate novità sinodali.



Icona della Madre di Dio, 1878, Monastero, Valaam


Sinodo: ‘manovre’ e disincanti. E la verità?

Mai così segreti i lavori dell’assise. Inservibili le notizie fornite dai canali ufficiali. Inesistenti le traduzioni per i padri che non conoscono l’italiano. Il simbolico gesto di rottura dei vescovi polacchi[1]
Prendo spunto dall’articolo di oggi con cui Sandro Magister puntualizza con molti e precisi dettagli le dinamiche presenti nello svolgimento del Sinodo in corso e i loro aspetti più rilevanti emersi fino ad oggi. Cito Magister:
Già il Concilio Vaticano II aveva mostrato come il controllo delle procedure sia un fattore decisivo per governare e indirizzare un’assemblea. Per far tacere la protesta, la mattina del secondo giorno del sinodo è intervenuto papa Francesco in persona. Che ha rivendicato a sé la decisione sulle procedure adottate e ha chiesto ai padri di “non cedere all’ermeneutica cospirativa, che è sociologicamente debole e spiritualmente non aiuta”.C’è voluto però un tweet di un gesuita membro del sinodo, padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, perché si avesse notizia di queste precise parole di Francesco, che padre Federico Lombardi, il portavoce autorizzato, anche lui gesuita, s’era guardato dal citare, nel riassumere alla stampa l’intervento papale. [...] [Nei precedenti Sinodi] uno squadrone di parecchie decine di traduttori, molti chiamati apposta da fuori d’Italia, era messo all’opera 24 ore su 24 per assicurare un’istantanea versione in più lingue di tutti i testi sinodali, ma proprio tutti, dalla relazione introduttiva ai rapporti dei “circuli minores” alle proposizioni finali, comprese le sintesi scritte di ciascun intervento in aula. Oggi, di questo cantiere non c’è più nemmeno l’ombra. La relazione introduttiva del cardinale Erdõ – pur avvertita di capitale importanza da favorevoli e avversari – è stata letta in aula in italiano. E così è rimasta, nonostante molti dei 270 padri sinodali non siano affatto a loro agio con la lingua di Dante. Se alcune ore dopo è stata messa in rete una sua traduzione integrale in inglese, lo si deve non agli uffici vaticani, bensì alla Catholic News Agency, degli Stati Uniti. Molti padri sinodali temono che lo stesso avverrà per i rapporti dei circoli linguistici minori, redatti ciascuno nella rispettiva lingua e destinati a restare così, senza traduzioni di sorta. Ma il peggio avverrà con la relazione finale, da votare punto per punto nelle convulse battute conclusive del sinodo. “Se sarà letta e messa ai voti solo in italiano, in tanti rischiamo di non essere ben sicuri su ciò che andremo a votare”, ha lamentato in conferenza stampa l’arcivescovo di Philadelphia Charles Chaput. Già nel sinodo dell’ottobre del 2014 accadde questo. Per non dire delle scorrettezze che avvennero dietro le quinte nel pieno dei lavori, quando chi aveva il controllo delle procedure – la segreteria speciale del sinodo in primo luogo – si avvalse di questo per produrre quell’artefatto documento che portava il titolo di “Relatio post disceptationem”, poi smascherato in pubblico dallo stesso cardinale Erdõ e travolto in aula dalle successive discussioni [vedi]. Una più dettagliata ricostruzione di quella e di altre manovre è in questo E-Book di Edward Pentin, edito da Ignatius Press: The Rigging of a Vatican Synod? [vedi“L’ermeneutica cospirativa” contro cui papa Francesco si è scagliato non è purtroppo priva di appigli.

Sarebbe auspicabile che le proteste dei Padri sinodali, che risultano mosse fin dalla prima congregazione generale e diffuse attraverso i loro siti o altri luoghi della Rete, fossero formalizzate con più coesa determinazione (analogamente a quanto avvenne nel Vaticano II con il rigetto degli Schemi preparatori redatti dalla Curia) e venisse creato il ‘caso’ : sarebbe forse l’unico modo di uscire da una situazione anomala e rischiosa per una autentica continuità.
Siamo forse di fronte ad una minoranza non altrettanto determinata quanto la “Scuola renana”, artefice di quel comportamento rivoluzionario che cambiò le sorti del Concilio e della Chiesa?
Di fatto invece, più realisticamente, dobbiamo considerare che la Scuola renana - come del resto il manipolo progressista oggi - era forte dell’appoggio del Papa (sia in quel momento topico Giovanni XXIII, che nel prosieguo e in conclusione Paolo VI; mentre nel post-concilio sono stati determinanti anche i successivi applicatori). Credo che sia questo l’elemento che discrimina e rende meno efficace ogni attuale iniziativa di chi vive ed esprime la fedeltà al Depositum fidei.
A questo si aggiunge una osservazione di non poco rilievo, già formulata, che giova ribadire. Alcune figure di riferimento della gerarchia ecclesiale, che si sono levate focalizzando il discorso sui noti temi caldi del sinodo, giustamente sottolineano che non si può sganciare la morale dalla verità dalla quale la morale scaturisce e affermano che la pastorale non può essere sganciata dalla dottrina; ma ignorano completamente le distorsioni innescate dai punti controversi del Concilio. Non saprei dire se per prudenza – vista l’aria che tira – o per assuefazione da mitridatizzazione. E quindi c’è da chiedersi se e quando potranno venire al pettine i nodi, generati proprio da quei semi di trasformazione subdolamente indotta in chiave di una ‘continuità’ dichiarata ma in termini sofisti, oggi ben individuati (più volte espressi, sviluppati e documentati), sui quali tuttavia, in ambito ecclesiale, è di fatto preclusa ogni discussione e rifiutato il confronto. È evidente che se non si riconoscono le radici del male non si possono attuare i rimedi [vedi].
Le analogie della Sinodalità recidiva con alcune distorsioni conciliari erano state messe bene in evidenza qui - qui - qui - qui. Ma senza alcun effetto, come senza effetto sono rimaste le ‘suppliche’ di varia estrazione e provenienza. La tattica è quella di ignorare e lasciar cadere tutto ciò che non rientra nell’ottica rivoluzionaria in corso; e così vanificarlo, delegittimando con le emarginazioni e procedendo senza remore con ostinazione invincibile (umanamente). Del resto per Bergoglio, nell’Evangelii Gaudium: “Riformare vuol dire avviare processi aperti...”. Cos’altro è se non l’ermeneutica della continuità storicista?
Maria Guarini
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1. Leggiamo sul Secolo XIX del 9 ottobre che i padri sinodali polacchi sono stati richiamati all’ordine dal segretario generale, Lorenzo Baldisseri, perché avrebbero vìolato la riservatezza sui lavori del Sinodo: secondo quanto spiegato dal portavoce del Vaticano, padre Federico Lombardi, «la pubblicazione di sintesi degli interventi fatti dai padri sinodali per iniziativa di altri non è permessa. Ognuno può pubblicare il suo intervento autonomamente, ma non è previsto che faccia conoscere gli interventi degli altri. Si tratta di una norma comune, e tutti debbono rispettarla».

Himno de la Virgen del Pilar - Inno alla Vergine del Pilar

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Himno de la Virgen del Pilar

Virgen Santa, Madre mía,
luz hermosa, claro día,
que la tierra aragonesa
te dignaste visitar.

Este pueblo que te adora,
de tu amor favor implora
y te aclama y te bendice
abrazado a tu Pilar.

Pilar sagrado, faro esplendente,
rico presente de caridad.
Pilar bendito, trono de gloria,
tú a la victoria nos llevarás.

Cantad, cantad
himnos de honor y de alabanza
a la Virgen del Pilar.







Resistenza all'errore, ufficio di pastore, difesa della verità in due aforismi di Leone XIII e S. Pio X

Card. De Paolis: ”Oggi parliamo tanto di compassione, di amore e di misericordia. Ma senza verità, siamo fuoristrada”

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Una sintesi del convegno, svoltosi lo scorso 10 ottobre, in Roma, sul tema Matrimonio e famiglia. Tra dogma e prassi della Chiesa. L'articolo è tradotto in inglese da Rorate caeli.

SINODO: Card. De Paolis: ”Oggi parliamo tanto di compassione, di amore e di misericordia. Ma senza verità, siamo fuoristrada”

di Daniele Sebastianelli 

L’intervento del cardinale Velasio de Paolis
Di fronte alla crisi del matrimonio e della famiglia, la risposta che non può che venire dalle certezze della fede. Lo ha affermato il 10 ottobre il card. Velasio De Paolis, presidente emerito della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, durante i lavori del convegno Matrimonio e famiglia. Tra dogma e prassi della Chiesa, organizzato dalla Fondazione Lepanto e dall’Associazione Famiglia Domani e svoltosi a Roma nella Sala S. Pio X in Via dell’Ospedale, con la partecipazione di mons. Antonio Livi, del prof. Roberto de Mattei, e del prof. Giovanni Turco, alla presenza di alcune centinaia di persone, tra cui molti sacerdoti e religiosi.
Il cardinale Velasio de Paolis
Abbiamo bisogno di verità”, ha ricordato con forza il cardinale, che è stato anche segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, e delegato pontificio per la congregazione dei Legionari di Cristo. “Oggi parliamo tanto di compassione, di amore e di misericordia. Ma senza verità, siamo fuoristrada”. L’impressione, secondo il card. Velasio De Paolis è che “le parole oggi non significhino più niente”, mentre “abbiamo bisogno di contenuti per ritrovare la realtà vera”. Riferendosi al problema dei divorziati risposati il cardinale è molto chiaro. Adottare “una prassi pastorale che va contro la dottrina è di una illogicità spaventosa. Non è cristiana”. In fondo “se ho una medicina che non funziona significa che non ho capito bene cos’ha il malato. Se mi limito a cambiare medicina invece di capire le cause della malattia potrei anche uccidere il malato”. La soluzione, per il prelato, non può essere che una: “i peccatori non vanno respinti, ma va trovata la strada giusta. La via dell’amore nella verità”.  “La misericordia non va confusa con l’amore”,  ha aggiunto il cardinale,  “e l’amore è inseparabile dalla verità”.
il prof. Roberto de Mattei
Il prof. Roberto de Mattei, presidente della Fondazione Lepanto, ha inaugurato il convegno affermando che il matrimonio e la famiglia, vengono “messi in discussione all’interno della Chiesa”, una cosa che “non era mai accaduto nella storia”. Dopo aver ripercorso alcuni passaggi storici nella vita della Chiesa, de Mattei ha ricordato l’esempio di san Pier Damiani e di tutti i grandi riformatori del suo secolo che “non hanno invocato la legge della gradualità  o del male minore, non hanno definito il concubinato dei preti come una situazione irreversibile di cui prendere atto, non hanno invitato a cogliere gli elementi positivi nelle unioni omosessuali e delle convivenze extra matrimoniali.
il prof. Giovanni Turco
Dal canto suo, il prof. Giovanni Turco, docente all’Università degli Studi di Udine, ha spiegato come oggi i luoghi sociologici si sostituiscono ai luoghi teologici e ha focalizzato l’attenzione sul principio di non contraddizione secondo il quale “ogni cosa è ciò che è. Anche il matrimonio e la famiglia”. Quindi, “o il matrimonio è indissolubile o non lo è. Non c’è pastorale che tenga”; “o si è in peccato, o no”, “la verità non ammette gradi”. Per il professore “La falsa ed erronea impostazione di un problema, porterà ad una falsa soluzione del problema”, perché “il bene è il criterio della prassi, non il contrario”. Oggi, ha spiegato,
Mons. Antonio Livi
Mons. Antonio Livi, decano emerito della facoltà di Filosofia della Pontificia Università lateranense, ha ribadito che non ci può essere separazione tra dottrina e prassi e che, nella Chiesa, “la pastorale ha lo scopo preciso di operare per il bene delle anime”.  Come il cardinale De Paolis, anche mons. Livi ha apertamente criticato le tesi del card. Kasper, dicendosi convinto che il porporato tedesco non può ignorare la difformità delle sue idee da quelle del Magistero e dell’evidenza razionale.  Ma quando si sbaglia, ha affermato il monsignore, “si può inseguire un fine occulto, cioè convincere gli altri a credere qualcosa di falso. E questa è ipocrisia”.

Il perfetto matrimonio cristiano di sant’Enrico e santa Cunegonda

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Nella memoria di S. Teresa d’Avila, vergine, rilancio questo studio di Cristina Siccardi.



Canonizzazione di S. Teresa il 12 marzo 1622, da parte del papa Gregorio XV alla presenza del card. Ludovico Ludovisi, cardinal nipote ed arcivescovo di Bologna, ponente della causa, Scala del Duca, Museo delle carmelitane scalze, Monasterio de la Anunciación de Nuestra Señora, Alba de Tormes.
Il cartiglio del papa recita: DECERNIMUS, BONAMEMORIAE THERESIAM VIRGINE DE AVILA CUIUS VITAE SANTITATE FIDEI SINCERITATE, ET MIRACULUM EXCELLENTIAE PLENE CONSTANT. SANCTAM ESSE, ET SANCTORUM VIRGINUM CATALOGO ADSCRIBIMUS


Alberto de Rossi (?), Stendardo originario della canonizzazione, 1622, Museo delle carmelitane scalze, Monasterio de la Anunciación de Nuestra Señora, Alba de Tormes  

Pedro Orrente, Visione mistica di S. Teresa, XVII sec., Parrocchia di S. Stefano protomartire, Valencia

Juan de Peñalosa y Sandoval, Visione del collare del 15 agosto 1561, XVII sec., Cattedrale, Astorga

 Luis Juárez, S. Teresa prega per le anime del Purgatorio, Museo Nacional del Virreinato, Tepzotlán

Pietro Paolo Raggi, Estasi di S. Teresa, XVIII sec., museo diocesano, Genova

Cristóbal de Villalpando, Visione della Trinità di S. Teresa, XVIII sec., Museo Soumaya, Città del Messico

Juan Correa, S. Teresa come pellegrina, XVII sec.

Felipe Diricksen (o Diriksen o Deriksen), Visione di S. Teresa con donatore, 1630 circa, collezione privata

Felipe Diricksen (o Diriksen o Deriksen), Visione del collare, 1642 circa, Universidad de Navarra, Pamplona


Scuola spagnola, S. Teresa abbadessa e martire, XVII sec., collezione privata





Sepolcro di S. Teresa, Chiesa dell'Annunciazione, Alba de Tormes

Reliquiario del braccio di S. Teresa, Chiesa dell'Annunciazione, Alba de Tormes

Reliquiario del cuore di S. Teresa, Chiesa dell'Annunciazione, Alba de Tormes

Il perfetto matrimonio cristiano di sant’Enrico e santa Cunegonda

di Cristina Siccardi

Enzo Bianchi, il monaco laico, fondatore della Comunità di Bose riconosciuta non come ordine monastico, ma come Associazione privata di fedeli (a norma dei canoni 322, 114, 116 e 117 del Codice di diritto canonico), sostiene le ragioni del riconoscimento delle unioni civili tra persone omosessuali ed anche la separazione tra coniugi che non vanno più d’accordo.
Lo ha affermato nel corso di un’assemblea pastorale diocesana tenutasi a Trento, secondo quanto riporta la testata L’Adige: «La Chiesa non può avvallare il divorzio, ma se due persone non stanno bene assieme, e si avvelenano reciprocamente l’esistenza, è meglio che si separino. Diversamente, se due persone dello stesso sesso si vogliono bene e sono propense ad aiutarsi ed a sostenersi reciprocamente è giusto che lo Stato preveda una regolarizzazione del loro rapporto».
E ha così proseguito: «Dobbiamo chiedere scusa alle famiglie per la presunta superiorità mostrata dai religiosi nei tempi passati: la vita di coppia è molto difficile, e noi dobbiamo essere in grado di riconoscere il grande merito di chi sceglie di costruire un nucleo famigliare. Tuttavia, in una realtà in cui tutto è precario, dal lavoro alle relazioni, non possiamo aspettarci che l’amore o la famiglia non lo sia. Su questo, però, non possiamo permetterci in alcun modo di giudicare, né, tantomeno, di escludere».
Come i Valdesi non hanno accolto le scuse di Papa Francesco (http://www.riscossacristiana.it), così i cattolici non possono certo accettare le scuse di Enzo Bianchi: egli, è a fianco di coloro che nel Sinodo si fanno interpreti di una tragica rivoluzione sui principi matrimoniali, esterna pretestuose scuse tese a raggiungere formule erronee di relazioni coniugali, dove la persona non è più responsabile delle proprie scelte, coscienti e serie, fatte durante il Sacramento nuziale, che non ha nulla a che vedere con la precarietà del lavoro e la precarietà delle relazioni. La relazione precaria è relativa ai propri comodi edonisti, narcisisti e narcinisti non certo al giuramento che si compie di fronte all’altare.
Assertore della «famiglia precaria», Enzo Bianchi, giungendo «dal Canavese verde e un po’ eretico (tra Monsignor Bettazzi, il filosofo Piero Martinetti, Adriana Zarri) dove respira – una testimonianza conciliare lunga mezzo secolo – la Comunità di Bose» (http://vaticaninsider.lastampa.it), è stato grande amico del Cardinale Martini, che definisce «pneumatoforo», ambasciatore dello Spirito: «Mi legava a Martini una solida amicizia. Differente, filiale, il rapporto con padre Pellegrino, che – non esita il Priore – colloco all’apice degli pneumatofori. Ci prese per mano, quando, agli esordi, la Comunità attirò non poche incomprensioni. Si rivelerà un vescovo straordinario, senza eguali nell’episcopato italiano odierno: di una statura da Padre della Chiesa». I Padri della Chiesa, in realtà, hanno lottato contro errori, eresie e falsi profeti o «pneumatofori»…
L’Imperatore del Sacro Romano Impero e ultimo esponente della dinastia degli Ottoni Sant’Enrico II (973 o 978 – 1024) e sua moglie Santa Cunegonda di Lussemburgo (978 ca. – 1039) vissero in tempi «precari», ma il loro rapporto non fu precario e divenne di esempio per tutto il mondo occidentale e addirittura si adoperarono per rinnovare la vita della Chiesa e propagare la fede in Cristo in tutta l’Europa.
Votato inizialmente ad una carriera ecclesiastica, ricevette un’educazione scrupolosa presso la scuola capitolare di Hildersheim e a Ratisbona presso il santo vescovo Wolfango. Là acquisì una profonda pietà ed una precisa conoscenza dei problemi religiosi. Enrico ebbe un fratello, Bruno, che rinunciò agli agi della vita di corte per divenire pastore di anime come vescovo di Augusta, nonché due sorelle: Brigida, che si fece monaca, e Gisella, che andò in sposa al celebre Santo Stefano d’Ungheria.
Nel 995 Enrico II succedette al padre quale duca di Baviera e nel 1002 al cugino Ottone III come re di Germania. Contro Enrico insorse il celebre Arduino d’Ivrea, che dopo tante fatiche aveva ottenuto la corona d’Italia, ma questi lo sconfisse con un’armata e poi raggiunse Roma con sua moglie Cunegonda per ricevere nel 1004 la corona d’Italia da Papa Benedetto VIII. Nel 1014 il Pontefice lo consacrò imperatore del Sacro Romano Impero.
Segnata dall’impronta del realismo e della chiaroveggenza, la politica di Enrico II fu caratterizzata dall’abbandono delle grandiose mire universaliste di Ottone III e rafforzò l’alleanza del potere imperiale con la Chiesa. Sovrano consacrato alla più alta carica religiosa, presidente dei sinodi episcopali, canonico di alcune cattedrali, accrebbe l’autorità del clero. Restaurò nel 1004 l’Arcivescovado di Merseburg e nel 1007 fondò, con i propri beni, quello di Bamberg. Fu assai sensibile ad un sano rinnovamento della vita monastica, appoggiando alcuni riformatori come Riccardo di Saint-Vanne, sostenendo l’Abbazia di Cluny e il suo Abate Odilone.
Nel 1022 presiedette, insieme a Papa Benedetto VIII, il Concilio di Pavia, a conclusione del quale vennero emanati sette canoni contro il concubinato dei sacerdoti e la difesa dell’integrità dei patrimoni ecclesiastici: questo Concilio è considerato un momento importante del processo di riforma delle Chiesa dell’XI secolo.
Durante il regno ebbe al suo fianco Cunegonda, incoronata regina nel 1002 a Paderborn. Le fonti attestano che ella svolse un ruolo politico di primo piano. Fondò il monastero femminile di Kaufungen, vicino a Kassel, nel 1021. La coppia imperiale non ebbe figli e la causa viene rimandata a due ipotesi: voto di castità dei coniugi oppure sterilità. Alla fine dell’XI secolo sorse la tradizione della castità degli sposi. I primi a descriverla furono alcuni monaci dell’abbazia di Monte Cassino, molto legati all’Imperatore, Amato e Leone d’Ostia.
Secondo altre fonti, contemporanee ai fatti storici, viene attestata la sterilità di Santa Cunegonda. Le prime conoscenze sul matrimonio imperiale poggiano su tre brevi testi. Il cronista Titmaro di Merseburg riferisce la dichiarazione fatta da Enrico II al Sinodo di Francoforte del 1007: «(…) per mia ricompensa divina, ho scelto Cristo come erede, poiché non mi resta più alcuna speranza di avere una discendenza». Il secondo testo è una lettera del Vescovo Arnoldo di Halberstat (novembre 1007) ad un suo confratello di Würzburg: «(…) rifiutandogli una discendenza umana, farà di Dio, a Lui piacendo, il suo erede». Infine il monaco cluniacense Rodolfo il Glabro lascia scritto (prima del 1047): «Vedendo che da Cunegonda egli non poteva avere figli, non se ne separò a causa di questo, ma accordò alla Chiesa di Cristo tutto il patrimonio che avrebbe dovuto a dei figli».
Nell’alto Medioevo, una simile situazione terminava spesso con il ripudio della sposa. Come dimostra Rodolfo il Glabro, il fatto essenziale che colpì i contemporanei e fondò i termini per la reputazione di santità, fu l’inaudito rifiuto dell’Imperatore di ripudiare la moglie. La ragione di tale scelta è stata cercata nella profonda pietà cattolica dell’Imperatore, pietà che gli veniva da una tradizione ottoniana: i comportamenti matrimoniali costituirono un punto capitale delle relazioni fra gli Ottoni e la Chiesa. Infatti i suoi predecessori osservarono sempre una condotta matrimoniale esemplare: una stretta monogamia, unioni canonicamente irreprensibili, l’assenza di figli illegittimi e ripudi caratterizzarono la loro vita familiare. Emblematica una biografia commissionata dallo stesso Enrico II, la Vita della sua bisavola Santa Matilde, dove il sacramento matrimoniale primeggia: l’unione sponsale è qui celebrata come indissolubile e spiritualmente benefica per ogni coniuge. Ne emerge una coppia di sposi di stampo evangelico, modello di vita coniugale.
Enrico II non volle essere da meno della sua antenata e fu deciso nel credere e testimoniare l’indissolubilità matrimoniale, e tenne per sposa la sua Cunegonda. Ben diversa, ma similissima alle ribellioni odierne alle leggi di Dio, le scelte di un altro sovrano, Enrico VIII, il quale per ripudiare-divorziare dalla propria moglie preferì ripudiare-divorziare dalla Chiesa di Roma. E il Papa di allora, Clemente VII, non venne a patti con il ribelle d’Inghilterra. Che cosa deciderà di fare Papa Francesco con gli attuali ribelli di Cristo?

“Cunctánti ex humilitáte seque tantæ rei ímparem profiténti amantíssimus Salvátor addit ánimum, simúlque exímia sanctitáte virum, Cláudium de la Colombière, ducem et adjutórem desígnat; eámque spe fovet illíus summæ utilitátis, quæ póstea e divíni Cordis cultu in Ecclésiam dimanávit” (Lect. V – II Noct.) - Stæ MARGARITÆ MARIÆ ALACOQUE, VIRGINIS

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La celebrità di quest’umile figlia di san Francesco di Sales è dovuta soprattutto a quello che il Signore, per suo mezzo, si degnò di completare e rivestire di una forma definitiva e liturgica la devozione verso il suo Sacro Cuore. L’eresia terrificante dei Giansenisti gelava già le anime e le allontanava da un Dio di cui l’infinita santità sembrava loro dover ridurre in cenere coloro che gli si avvicinavano troppo. È allora che il Signore, per opporre un rimedio a quest’errore funesto, apparve al mondo con un cuore di carne, raggiante di fiamme, e richiamò gli uomini che, se è Egli è sempre il Dio di ogni santità, non è meno uomo come gli altri ed anche loro Fratello primogenito.
Si tratta dunque di un aspetto particolare della pietà cattolica verso la santissima umanità di Gesù Cristo, cioè di quell’umanità sacrificata per noi e trapassata dalla lancia e dai chiodi sul Calvario, che mostra oggi agli uomini, per mezzo delle sue piaghe visibile, l’invisibile ferita del suo immenso amore.
La nostra santa morì di amore di Dio – come ci attesta anche il medico che ne constatò la morte – la sera di martedì 17 ottobre 1690 mentre invocava il nome di Gesù. Poco prima, Margherita Maria aveva dichiarato alla sua superiora, che, vistala prossima alla fine, aveva disposto che si andasse a cercare il medico: «Madre mia, non ho bisogno che di Dio solo e d’inabissarmi nel Cuore di Gesù Cristo» (Ivan Gobry, Sainte Marguerite Marie, la Messagère du Sacré-Coeur, Paris, 1989, trad. it. Andrea Marchesi (a cura di), Margherita Maria Alacoque e le rivelazioni del Sacro Cuore, Città Nuova, Roma, 20024, p. 176).
Fu canonizzata nel 1920; la sua festa fu inserita, con messa propria doppia nel calendario nel 1929. La sua aggiunta comportò lo spostamento della festa di sant’Edvige, morta il 15, al 16 ottobre.
La riforma del calendario di Paolo VI ha spostato santa Margherita Maria al 16 ottobre facendo sì che ella fosse festeggiata contemporaneamente a sant’Edvige, per lasciare spazio a sant’Ignazio di Antiochia, spostato dal 1° febbraio (che così ha lasciato libero quel giorno …), dietro pretesto che un martirologio siriano del IV sec. collocava la morte di sant’Ignazio al 17 ottobre, nonostante la tradizione romana lo festeggiasse al 1° febbraio almeno dal XII sec.
A santa Margherita Maria Alacoque, all’indomani della sua canonizzazione, la Roma cristiana innalzò una chiesa, la cui costruzione ebbe luogo tra il 1922 ed il 1925, ma fu consacrata solo nel 1950, nel rione Esquilino.
Un’altra è stata eretta e dedicata alla santa nel 2000 (Santa Margherita Maria Alacoque a Tor Vergata).


Tommaso Gazzarini, Gesù appare a Santa Margherita Alacoque, XIX sec., museo diocesano, Livorno





Corrado Giaquinto, S. Marrgherita Maria contempla il Sacro Cuore, 1765, collezione privata

S. Margherita riceve la Comunione da S. Claudio de la Colombière

S. Margherita, chiesa della Madonna del Sacro Cuore, Roma

Suor Marie-de-l’Eucharistie, S. Margherita Maria, XX sec., Musée de la civilisation, Québec

Dio, immagine di Dio, Gesù, buonismo in un aforisma del card. Ratzinger

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