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“… la mia pace, non come la dà il mondo, io la do a voi …”: sul significato della Vera Pace

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Cosa deve intendersi per pace? è solo assenza di guerra? la può dare il mondo? Questi sono alcuni interrogativi da cui l’Autore del seguente contributo muove alla luce del suo significato più autentico, partendo cioè da chi della pace ne è il Principe, pacem Christi in regno Christi, come ricorderà più volte Pio XI (v. anche Allocuzione al Concistoro Segreto, Iam annus, del 14 dicembre 1925). Per cui, ogni sforzo di costruire una pace senza di Lui sarà vano. Come dice il Sal. 127 (126): «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode. Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno» (vv. 1-2).

Mosaico della Tomba di papa Pio XI, Grotte Vaticane, Città del Vaticano, Roma

“… la mia pace, non come la dà il mondo, io la do a voi …” (Gv 14, 27)

di Vincenzo Sasso

Oggi si fa un gran parlare della pace. Soprattutto di fronte alla minaccia del terrorismo, e alla minaccia di una reazione antimusulmana dovuta agli atti di terrorismo. Bisogna saper stare in pace con tutti! Dunque, la pace che si invoca sarebbe l’unione di tutti gli uomini, che vivono in concordia, o almeno nel “rispetto reciproco”. Qual è lo scopo di questa pace? La sicurezza: l’integrità fisica della persona, la conservazione delle sue sostanze, la garanzia di poter continuare a vivere e ad esprimersi come essa ritiene. Quale sarebbe il fondamento di questa pace? Il diritto di ogni uomo a vivere sicuro, lontano dai pericoli, a prescindere dalla sua appartenenza nazionale e religiosa e dalle sue scelte di vita. È la pace che propugna il liberalismo. Oggi si direbbe anche: il relativismo.
Questo tipo di pace potrebbe essere anche chiamata, almeno sotto un certo aspetto, “concordia”. La pace serve alla libertà. Infatti, si tratta di unire gli uomini sotto il comune impegno a rispettare i confini della individualità altrui. Individualità vista, appunto, come contraddistinta essenzialmente o, meglio, definita dalla libertà di matrice liberale o borghese. Invece, per la persona di buon senso, che segue la logica, e per il cattolico in particolare, la libertà è solo finalizzata al bene: non può esistere un diritto della libertà alla scelta del male. Infatti, la libertà rimane sempre un bene creato e come tale si deve misurare con la natura circostante e la sua ragion d’essere. La libertà è quindi la facoltà della volontà di scegliere il bene che mostra l’intelletto; solo la ragione può mostrare la strada, non una voglia irrazionale e neanche il potere.
Tralasciando il discorso filosofico, a cui comunque siamo obbligati in quanto esseri dotati di ragione, cosa dice Gesù Cristo nel Vangelo? A mia memoria, vi sono due passi in cui Egli tratta della pace. Il primo è molto significativo e molto politicamente scorretto, oltre che, di questi tempi, ecclesialmente scorretto ed è questo: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (Mt 10, 34-37); vulgata: «Nolite arbitrari quia pacem venerim mittere in terram: non veni pacem mittere, sed gladium: veni enim separare hominem adversus patrem suum, et filiam adversus matrem suam, et nurum adversus socrum suam: et inimici hominis, domestici ejus. Qui amat patrem aut matrem plus quam me, non est me dignus: et qui amat filium aut filiam super me, non est me dignus». Il secondo passo completa il quadro della rivelazione divina sul tema della pace e ne svela pienamente il vero senso ed è questo: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14, 27a); vulgata: «Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis: non quomodo mundus dat, ego do vobis».
Penso che non ci sia bisogno di commentare questi passi. Noto soltanto che in entrambi risulta evidente la precedenza del dono di Dio e quindi della libertà dell’uomo ad accoglierlo e a corrispondervi responsabilmente rispetto al desiderio umano di pace e alla sua capacità di raggiungerla con le sue forze.
Ma lascio la parola al Dottore comune san Tommaso d’Aquino, che nella Summa theologiae offre una spiegazione precisa, sintetica e allo stesso tempo esaustiva di cosa è veramente la pace.

S.Th. II-II, q. 29, a. 1.
arg. 1: Sembra che la pace si identifichi con la concordia. Infatti… […]
arg. 2: La concordia è una certa unione di volontà. Ora, l’essenza della pace consiste in tale unione: infatti Dionigi afferma (I nomi divini, cap. XI), che “la pace è l’elemento che unisce tutte le cose, e ne produce il consenso”. Dunque la pace s’identifica con la concordia.
arg. 3: Due cose che hanno il medesimo contrario sono identiche tra loro. Ora, è identico il contrario che si oppone alla concordia e alla pace, cioè il dissenso; infatti S. Paolo afferma: “Egli non è il Dio del dissenso, ma della pace” (1Cor 14, 33). Perciò la pace si identifica con la concordia.
s.c.: IN CONTRARIO: La concordia può esserci anche tra gli empi, sia pure nel male. Invece Isaia afferma che “non c’è pace fra gli empi” (Is 48, 22). Dunque la pace non si identifica con la concordia.
co.: RISPONDO: […] la concordia propriamente è in rapporto ad altri: poiché consiste nel consenso dei voleri di più cuori in una determinata decisione. […] Il cuore di un uomo però può tendere verso cose diverse: e questo in due modi. Primo, in base alle sue diverse potenze appetitive: l’appetito sensitivo, p. es., spesso è in contrasto con l’appetito razionale, secondo le parole di S. Paolo: “La carne ha desideri contrari allo spirito” (Gal 5, 17). Secondo, in quanto un’identica potenza appetitiva tende verso oggetti contrastanti, che non è possibile conseguire simultaneamente. E quindi è inevitabile un contrasto tra i moti dell’appetito. Ora, nel concetto di pace si ha l’unione di codesti moti: poiché l’uomo non ha il cuore pacificato fino a che non ha ciò che vuole, oppure avendo ciò che vuole, non è in condizione di poter avere altre cose che pure vorrebbe. Invece questa unione non rientra nel concetto di concordia. Perciò la concordia implica l’unione degli appetiti di diverse persone; mentre la pace oltre a questo implica l’unione degli appetiti in ciascuna di esse.

S.Th. II-II, q. 29, a. 2.
ad 3: La pace consiste nella quiete e nella coesione dell’appetito. Ora, come l’appetito può avere per oggetto il bene vero o il bene apparente; così anche la pace può essere vera o apparente. Ma non può esserci vera pace che nel desiderio del vero bene; perché qualsiasi male, anche se da un certo punto di vista è bene e soddisfi così l’appetito, ha molte carenze, che lasciano l’appetito inquieto e turbato. Perciò la vera pace non può trovarsi che nei buoni e nel bene. Mentre la pace dei cattivi è una pace apparente e non vera. Nella Scrittura infatti si legge: “Vivendo in grandi guerre, a motivo della loro ignoranza, tanti e così gran mali essi chiamano pace” (Sap 14, 22).
ad 4: La vera pace non ha per oggetto che il bene; perciò, come esistono due tipi di bene, cioè quello perfetto e quello imperfetto, così esistono due tipi di vera pace. C’è una pace perfetta, che consiste nella fruizione del sommo bene (ndc: Dio), mediante la quale tutti gli appetiti si fondono quietandosi in un unico oggetto. E questo è l’ultimo fine della creatura ragionevole, secondo le parole del Salmista: “Ha messo la pace tra i tuoi fini” (Sal 147, 3; vulgata: qui posuit fines tuos pacem). C’è poi una pace imperfetta, che è l’unica possibile in questo mondo. Poiché, anche se i moti principali dell’anima tendono a Dio, ci sono sempre delle cose, che dentro e fuori turbano questa pace.

Volendo operare una sintesi, concludo ricordando l’insegnamento dell’Enciclica Quas primas di Pio XI e affermando che fino a che le Nazioni non si sottometteranno a Cristo Re esse non avranno la pace. Perché solo l’Ordine impresso da Dio nella Creazione e rinsaldato nella Redenzione è vero ordine. Quello umano, da cui deriva la pace umana, è, come tutte le nozioni che l’uomo elabora per sostituirsi a Dio, un inganno.

Inno alla Guadalupana - alla Vergine Maria di Guadalupe

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Juan de Sáenz, Vergine di Guadalupe con le immagini delle Apparizioni, XVII sec.

Sebastián Salcedo (o Zalcedo), Vergine di Guadalupe, 1779, Art Museum, Denver


Autore anonimo, Vergine di Guadalupe, XVIII sec., Indianapolis Museum of Art, Indianapolis

Joaquín Villegas (attrib.), L'Eterno Padre dipinge la Vergine di Guadalupe, XVIII sec., Museo Nacional de Arte, Città del Messico

Nicolas Enriquez, Vergine di Guadalupe, XVIII sec.


Miguel Cabrera, Mons. Juan de Zumarraga, XVIII sec.

Juan Rodríguez Juárez, Vergine di Guadalupe con le sue quattro apparizioni, 1773, Metropolitan Museum of Art, New York

Anonimo, Benedetto XIV riceve la Guadalupana a S. Pietro, XX sec.
Nel 1752 una copia della Tilma Guadalupana, realizzata Miguel Cabrera fu donata al papa Benedetto XIV dal padre Francisco López, S.J., incaricato delle pratiche per la concessione dell'ufficio e messa propria della Vergine di Guadalupe; il pontefice a sua volta ne fece dono alla chiesa del monastero romano della Visitazione

Gonzalo Carrasco Espinosa S.J., La Vergine di Guadalupe sconfigge il demonio, XX sec.

Mons. Luis María Martínez y Rodríguez, Arcivescovo di Città del Messico e Primate del Messico, trentiduesimo successore di Mons. Juan de Zumarraga e custode della venerata immagine della Vergine di Guadalupe, celebra un Pontificale nell'Antica Basilica di Nostra Signora di Guadalupe sul Tepeyac

Evento eccezionale: S. Messa di mezzanotte e Mattutino celebrati dal card. Burke a Roma - S. Trinità dei Pellegrini - 24-25 dicembre 2015

Betlemme nella Bibbia e nella storia - In cammino verso il Natale

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Toh, un Cristo è risorto .... Sull'affioramento di un nuovo cattolicesimo, non salottiero, in terra di Francia. A dispetto del laicismo imperante

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In diverse occasioni abbiamo lamentato come la Francia, sazia del suo laicismo, si avvii inesorabilmente verso la propria rovina (culturale, morale, sociale e politica) dinanzi all’avanzata di islam forte e compatto ideologicamente e religiosamente. Di quella Francia, ormai priva di anticorpi in grado di resistere ad un impatto con una cultura forte quale quella musulmana, dicevamo che era praticamente spacciata e prossima alla rovina. Non era - la nostra - una visione millenarista o catastrofista, ma una semplice constatazione disincantata e crudamente realista su una nazione incapace di reagire proprio perché ha tagliato (quasi) del tutto le proprie radici, abbandonandosi ad un pensiero decadente e debole, privo di un’identità forte. Eppure la Francia, ad un tempo fille aînée de l’Eglise, figlia primogenita e prediletta della Chiesa, sembrava - come indicato da molti - avviata oltre alla rovina sopra indicata anche alla definizione sradicazione della fede cristiana da quelle terre (cfr. Giulio Meotti, Cattolici adieu, in Il Foglio, 27.1.2014).
Sulla condizione della Francia ci sono molte profezie. Tra queste particolarmente confortante è quella della Venerabile Marta Robin: «La Francia scenderà fino in fondo all’abisso, fino al punto in cui non si vedrà più alcuna soluzione umana, né alcuna speranza di risollevarsi. Resterà totalmente sola, abbandonata da tutte le altre nazioni, che volgeranno altrove lo sguardo, dopo averla condotta alla perdizione. Non resterà a lungo in questo estremo limite, sarà salvata, ma non dalle armi né dal genio degli uomini, perché non resterà logo alcun mezzo umano. … La Francia sarà salvata, perché il Buon Dio interverrà grazie alla S. Vergine. È lei che salverà la Francia e il mondo. … Il Buon Dio interverrà grazie all’intercessione della S. Vergine e per mezzo dello Spirito Santo. Ci sarà un’era nuova e, a partire da quel momento, si realizzerà la profezia del profeta Isaia sull’unione dei cuori e l’unità dei popoli. … Dopo questo nuovo “avvento” dello Spirito Santo, che si manifesterà in modo del tutto particolare in Francia, questa realizzerà veramente la sua missione di figlia primogenita della Chiesa e la prova, purificandola, le renderà il suo titolo perduto» (Bernard PeyrousVita di Marthe Robin, Effetà Editrice, Cantalupa 2009, p. 134). Profezie non molto diverse sono state formulate anche dalla carmelitana di origine libanese Santa Mariam Baouardy e dal mistico vietnamita servo di Dio Marcel Nguyn Tân Văn (ibidem).
Significativo è che la Chiesa in Francia, che è seme di una rinnovata società civile, passi attraverso giovani generazioni. Più silenziosi, molto più silenziosi, rispetto ai laicisti ed alla propaganda ateistica di Stato. Sono come piccoli semi e giovani virgulti, lontani dai salotti intellettuali, e che dovranno crescere pur tra mille difficoltà. Questo, oltre ad essere segno di resistenza in un generale contesto di decadente debolezza, è, tuttavia, la miglior garanzia per una risorgenza morale e spirituale francese. Ed al contempo il segno che la fede cristiana in terra francese, anche se parrà soccombere stretta tra l’islam ed il laicismo, non potrà essere sradicata.

Toh, un Cristo è risorto

Chi l’avrebbe mai detto? Nella Francia martoriata dal terrorismo islamico affiora un nuovo cattolicesimo, per nulla salottiero, unico antidoto al laicismo esasperato

di Matteo Matzuzzi

I cattolici non erano spariti, basti pensare alle oceaniche adunate di giovani accovacciati a Notre-Dame per la messa degli studenti

“Sono le minoranze creative che determinano il futuro, e in questo senso la chiesa cattolica deve comprendersi come minoranza creativa che ha un’eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva ed attuale” (Benedetto XVI, 26 settembre 2009)

Scherzava ma neanche tanto, Vittorio Messori, quando qualche tempo fa disse che non era un caso se la Madonna aveva scelto Lourdes e una giovinetta semianalfabeta per palesarsi. Insomma, apparire a Castel Gandolfo non avrebbe forse avuto l’impatto che ebbe nella Francia indelebilmente segnata dalla tempesta rivoluzionaria. E non è una semplice coincidenza se i vescovi d’Oltralpe, ogni volta che debbono riunirsi per sgranare il rosario delle chiese chiuse o demolite, analizzare le statistiche della partecipazione alla messa domenicale o per stilare comunicati in risposta al politico di turno che vorrebbe togliere la croce occitana dal gonfalone di Tolosa, si ritrovino a due passi dalla grotta ove Maria apparve a Bernadette. Quasi fosse una supplica alla Vergine perché li aiuti a rievangelizzare una terra che pure un tempo era la figlia prediletta della chiesa e che ora è divisa tra i casermoni delle banlieue che paiono piccole enclave d’Arabia in Europa e la pulizia neutralista che mira a sradicare ogni parvenza di cristianesimo insita nella storia francese.
Eppure qualcosa si muove, o quantomeno i segni di un’inversione di tendenza, nel popolo fedele – ridotto nei numeri ma assai fervente – iniziano a intravedersi. Il Figaro, qualche settimana fa, pubblicava un dossier in cui si parlava senza remore di “rivoluzione” (seppur silenziosa) in atto, sottolineando un’acclarata e sempre più evidente “dinamicità” del cattolicesimo cosiddetto ortodosso. Frenava gli entusiasmi il sociologo Yann Raison du Cleuziou, autore nel 2014 di un saggio dal titolo che più esplicito non si potrebbe (Qui sont les cathos aujourd’hui?, Desclée De Brouwer), quando sosteneva che “tutti gli indicatori mostrano che il declino c’è e che la sola religione in crescita è l’islam”. Però, ammetteva, “sta mutando il rapporto di forze all’interno della chiesa”. E il cambiamento si concretizza nell’affermarsi dei “neocattolici”, capaci di prendere il sopravvento sui “cattolici d’apertura”.
Distinzione prettamente francese, che va ben oltre il vecchio e consunto schema che tendeva a dividere progressisti da una parte e tradizionalisti dall’altra, come fossero i buoni e i cattivi nel Giudizio universale michelangiolesco. La galassia, ha scritto Eugénie Bastié, è troppo eterogenea per ridurre tutto a vetusti cliché. Lo riconoscono anche i cattolici della gauche, seppur con fastidio e a malincuore, nostalgici del “cattolicesimo da café” e della stagione che aveva nel cardinale François Marty il proprio leader spirituale: “Oggi, tutto il cattolicesimo sociale è accusato di essere responsabile della crisi più generale del cattolicesimo ed è altresì imputato di non riconoscere pubblicamente che esso stesso è il responsabile della perdita d’influenza del cattolicesimo” nel mondo, scriveva già un anno fa Vincent Soulage, militante socialista, consigliere municipale a Nanterre fino al 2008, docente di storia e ben introdotto tra i cosiddetti cattolici di sinistra.
Pare finito il tempo delle grandi aperture – per qualcuno, cedimenti – allo zeitgeist, allo spirito del tempo; così come sembra essere stata posta la pietra tombale sulla stagione degli edotti dialoghi tra maître à penser di gran fama ma poco accessibili al resto della massa cattolica. “Per i ‘nuovi cattolici’ dialogare non significa ascoltare gli intellettuali laici e rispondere annuendo, non dicendo nulla che possa offendere gli altri”, osserva Samuel Gregg sul Catholic World Report. Non si vuole più dialogare con il mondo: lo si vuole sfidare.
C’è ora una combinazione di “vecchio e nuovo”, nota ancora Gregg, che appare sulla scena virtuale, a cominciare dalla tv: accanto a figure del calibro di Rémi Brague o Pierre Manent, si trova la brillantezza di un Fabrice Hadjadj, che per spiegare quanto sia fondamentale il matrimonio tra uomo e donna, scrive nel suo ultimo libro (Ma che cos’è una famiglia?, Edizioni Ares) che “il mio ombelico come cicatrice e il mio pene come indice mi manifestano che sono grazie a un altro e per un altro, che posso compiermi solo con l’altro e anche nell’altro – non sviluppandomi ma fruttificando, cioè dando nascita a un altro (figlio) con un’altra (donna)”. Certo, osserva ancora Gregg, la bein-pensance, il politicamente corretto, continua a soffocare la vita culturale francese. Cultura che è ancora dominata da una sinistra che tende a etichettare i suoi critici come reazionari o qualcosa cui la parola ‘fobico’ può servire come suffisso. Il punto, però, è che per l’opinione pubblica i cattolici sono meno intimiditi da ciò. E questo è un contesto con il quale i pensatori laici francesi non sono avvezzi ad avere a che fare”. Il motore della rivoluzione (o rinascimento) sono i giovani, che magari non sanno neppure chi è monsignor Georges Pontier, il presidente della Conferenza episcopale nazionale, ma sanno tutto dell’abbé Pierre-Hervé Grosjean, parroco di Saint-Cyr-l’Ecole, attivissimo sui social network, ex scout (come i tre quarti degli attuali seminaristi francesi) e, soprattutto, sempre col colletto alla romana e non di rado in talare nera. Cosa che ha interdetto una nazione intera, sospettosa verso quei segni così familiari ai lefebvriani, forti oltralpe. Colletto e sottana, “portati come se fosse cosa ovvia in un mondo che cristiano non lo è più”. È lui, Grosjean, ad aver fornito l’immagine migliore sul nuovo corso: “Prima, il cristianesimo era un’evidenza. Adesso è divenuto una causa da difendere”.
Pare essere questa la chiave del successo, l’alchimia speciale tra la tradizione e la modernità, tra l’ancoraggio alla città degli uomini e il rigore in dottrina. Le comunità sorgono ovunque, come Noé 3.0, Nouveaux Outils pour l’Evangélisation, progetto organizzato dal cardinale Philippe Barbarin a Lione – vero epicentro della rinascita – e che ha avuto il battesimo ufficiale con l’iniziativa #Erbilight, la festa delle luci celebrata da una delegazione di lionesi nell’Iraq martoriato dalle persecuzioni. La leader, Natalia Trouiller, è riuscita nell’impresa di far diventare tendenza su Twitter l’hastag #quaresima. Ora sorride: “I cattolici francesi ce ne hanno messo di tempo per realizzare che sono una minoranza. Oggi qui non si respira più un’aria cristiana. E quando uno è minoritario, ha bisogno di armi: fare lobby è una, internet è un’altra”. Lapalissiano, e pure facile a dirsi. Eppure i risultati si vedono, nonostante i numeri, freddi e costanti da decenni, diano il senso di un’agonia: il 56 per cento dei francesi è battezzato, ma a messa la domenica ci va solo il 6 per cento. Sono trent’anni che va così, si fa sapere. Ma i cattolici in Francia non erano spariti, basti pensare alle affollate messe domenicali (ove non è raro sentir cantare in gregoriano) nel sud del paese, realtà più restia a farsi contagiare dalle cicliche folate novatrici nordeuropee che almeno da mezzo secolo propugnano un lifting alle strutture e alla pastorale cattolica. Sono un dato di fatto pure le oceaniche adunate di giovani accovacciati a Notre-Dame de Paris per la messa degli studenti e i cinquantamila ragazzi che nel 2011 andarono a Madrid per la Giornata mondiale della Gioventù (a Cracovia, il prossimo luglio, dovrebbero essere sessantamila). Il fatto è che si era come chiusi, quasi costretti a stare nelle catacombe, osservava il Figaro. Specie nelle regioni del nord, Parigi inclusa. Una presenza sterile nella società e di fatto invisibile.
L’ha capito per tempo anche l’arcivescovo della capitale, il cardinale André Vingt-Trois, che dodici mesi fa presentò – in occasione dell’Avvento – un programma di iniziative e manifestazioni affidate ai giovani per “andare a incontrare i nostri contemporanei”. Basta salotti e più strada per “testimoniare la fede”. Solo marketing, storceva il naso chi poco si rallegrava nel vedere i banchetti tra un café e un bistrot, nel quartiere latino piuttosto che a Montmartre. Diceva un parroco parigino al Monde che solo i ragazzi possono salvare la situazione, loro che sono “meno succubi del complesso di non sapere parlare bene della fede” che ha annichilito le generazioni precedenti. “I cattolici non sempre sono ricevuti bene”, ma è venuto il tempo di “esprimere ciò che sono e ciò in cui credono”. E il vicario diocesano, richiamando proprio la frattura lamentata dagli intellò gauchisti, diceva che è finito il tempo “in cui la fede è esclusivamente qualcosa da vivere nell’ambito privato”, come perorato dai cathos d’ouverture. Proprio a questo proposito, è di un anno fa il dibattito avviato dal periodico La Vie su quella che il sito Chretiens de Gauche, cristiani di sinistra, ha definito “la frattura fondamentale che attraversa oggi il cattolicesimo”. Ci sono, si legge, due criteri per classificare i cattolici. Il primo è il rapporto con il mondo, il secondo è l’importanza da dare alla religione nella sfera pubblica. Quanto al punto iniziale, la domanda è: “La nostra religione deve difendere una tradizione plurisecolare o è capace di aprirsi al mondo e dialogare con esso?”. In secondo luogo, la constatazione che la fede non occupa solamente un posto centrale nella propria vita, ma anche la rivendicazione che la religione deve intervenire nella vita sociale.
“È la posizione integralista”, sentenziava Chretiens de Gauche. Una visione opposta a quella dei “marginalisti”, secondo i quali la religione va vissuta nella sfera privata. In sostanza, “i cattolici d’apertura si pongono nella linea del Vaticano II, che consiste nel considerare come indispensabile e positiva l’apertura alla modernità”. Si tratta, faceva intendere padre Christian Mellon, promotore de “La politique una bonne nouvelle” e strenuo difensore dell’apertura al mondo, di quell’orientamento secondo cui il cattolico deve stare nel mondo, anche se in modo discreto. L’opposto, insomma, della strategia perseguita per decenni dall’Action catholique, quella della quasi totale invisibilità. L’importante, chiosava Mellon, è che “l’etichetta cattolica non sia esibita come una bandiera per fermare il cambiamento”. Poi c’è, dall’altra parte, il “cattolicesimo d’identità”, radicato nel magistero di Giovanni Paolo II, che “vuole riaffermare il proprio posto nella società” e privilegia certe questioni quali famiglia, bioetica e difesa della vita “a detrimento delle questioni sociali”, puntualizzano i detrattori d’oltralpe. Ma l’analisi non spiega perché a farsi largo nella minoranza cattolica francese siano i “nuovi”.
Lo scrittore e giornalista Jean Sevillia ricordava tempo fa che “è dagli anni Ottanta che assistiamo alla scomparsa dei cosiddetti cristiani di sinistra”, in particolare da quando Karol Wojtyla mandò sulla cattedra episcopale parigina Jean Marie Lustiger, ebreo convertito che vide morire la madre e la sorella ad Auschwitz. Lo chiamavano “il bulldozer”, per la sua capacità di tradurre in atti le parole d’ordine del Papa polacco, pur declinandole in una versione prettamente transalpina. Ma è altrettanto vero che “molti anziani preti hanno conservato quella mentalità” degli anni Sessanta e Settanta. Se oltre a ciò si considera poi che la Francia ha schiere intere di teologi “apparentemente ansiosi di svuotare la fede cattolica di ogni contenuto morale” con il mantra di non “sparare sentenze (eccezion fatta, naturalmente, sulle questioni ambientali ed economiche)”, si comprende perché i gruppi religiosi di fresca creazione, attivi e immersi nella società, riscontrino più successo tra i giovani cresciuti sotto il pontificato giovanpaolino. La loro stessa presenza e vitalità conferma quanto fosse stato profetico il teologo gesuita Gaston Fessard in un libro uscito postumo nel 1979, Eglise de France, prends garde de perdre la foi!. Fessard demoliva la politica sociale dell’episcopato francese attuata nel decennio precedente. Parlava di una chiesa naïf che aveva sposato un programma ideologico di sinistra, con una tendenza a distorcere la fede in una ideologia socialista e marxista. Ammoniva che, proseguendo su tale strada, la Francia avrebbe perso la propria anima, arrendendosi all’acquiescenza allo spirito del tempo. Solo una ventata d’aria fresca avrebbe potuto invertire il corso della storia.

Tentazione, diavolo, radici cristiane, fede intimistica, Dio "in privato" in un aforisma di Benedetto XVI

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Ieri è venuto a mancare il papà del nostro presidente dott. Giuseppe Capoccia, Cav. Sandro Capoccia: gli siamo tutti vicini con la preghiera e con l'affetto, esprimendo a lui ed a tutta la sua famiglia il cordoglio dell'intera Scuola Ecclesia Mater.

“Quod Ariánis acérbe irátis negántibus, nedum in Athanásium recusávit ipse subscríbere, quin sancti Dionysii Mártyris, qui decéptus ab ipsis subscrípserat, captivátam simplicitátem ingeniosíssime liberávit. Quam ob rem illi gráviter indignántes, post multas illátas injúrias, exsílio illum mulctárunt: sed sanctus vir, excússo púlvere, nec cæsaris minas véritus, nec enses obstríctos, exsílium véluti sui ministérii offícium accépit; missúsque Scythópolim, famem, sitim, vérbera, divérsaque supplícia perpéssus, pro fide strénue vitam contémpsit, mortem non métuit, corpus carnifícibus trádidit” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI EUSEBII VERCELLENSIS, EPISCOPI ET MARTYRIS

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Quest’insigne campione della divinità del Verbo morì in pace, a Vercelli, il 1° agosto 370 o 371. Tuttavia, poiché in questo giorno (cioè il 1° agosto) si celebra la dedicazione della basilica esquilina di san Pietro in Vincoli, quando Clemente VII introdusse la commemorazione di sant’Eusebio nel Breviario, gli fissò il 15 dicembre per celebrarla, essendo questo giorno l’anniversario dell’ordinazione episcopale del santo (15 dicembre 345) da parte del papa san Giulio I. Quando, in seguito, l’Ottava dell’Immacolata Concezione fu estesa alla Chiesa universale, sant’Eusebio dovette cedere il posto e la sua festa fu rinviata all’indomani. Nel giorno della sua festa, ha inizio tradizionalmente la Novena di Natale.
Sant’Eusebio, sardo di nascita, fu per Vercelli quello che fu Ambrogio per Milano. A lui si deve l’abbandono del paganesimo da parte degli abitanti della regione piemontese; a lui si deve il santuario di Oropa, portando dall’Oriente in una grotta, posta in una selva dedicata al dio celtico Beleno o Belanu, che era l’equivalente locale di Apollo, una statuetta di una Madonna nera; lui si deve anche il santuario di Crea, che sostituì un altro boschetto sacro pagano. A Vercelli, eresse la sua cattedrale sull’antico tempio di Vesta.
Non morì precisamente di morte violenta; egli, tuttavia, ha il titolo di martire, come molti altri santi dell’antichità, perché vittima degli Ariani, subendo per la sua fede ortodossa lunghi anni di un duro esilio e, si racconta, anche la lapidazione da parte di questi. Come nota un autore, Eusebio svolse nella disputa con gli eretici seguaci di Ario un ruolo da protagonista: «Atanasio, in definitiva, garantiva l’ortodossia in oriente ed Eusebio in occidente» (Mattia Rossi, Eusebio di Vercelli nella storia: il defensor fidei, in Chiesa e postconcilio, 6.7.2013).
La messa è comune ai Martiri Pontefici: «Sacerdotes... ».
Di sant’Eusebio gli antichi storici fanno rilevare l’ingegnoso stratagemma, col quale sottrasse Dionigi di Milano dalla situazione compromettente a cui l’aveva trascinato l’astuzia degli Ariani. Questi, dopo aver carpito da lui la firma alla condanna di Atanasio, nel sinodo di Milano del 355, che si svolgeva nella nuova chiesa della Corte Imperiale, la Basilica maior, presentarono il foglio pure ad Eusebio, perché lo firmasse. – Come potrò credere - osservò allora argutamente il santo Vescovo di Vercelli – che il Figlio sia minore del Padre, quando voi alla sottoscrizione mia avete già preposto quella del mio figlio Dionigi? – Gli Ariani riconobbero legittima l’eccezione invocata da Eusebio, ed annullato il primo foglio, ne apprestarono uno nuovo, al quale per primo sottoscrivesse il Vescovo di Vercelli. Eusebio non voleva altro. Quando vide distrutta la compromettente firma di Dionigi, propose invece che si incominciassero i lavori del sinodo sottoscrivendo tutti insieme la fede di Nicea, giacché egli nutriva forti sospetti contro alcuni vescovi, poiché infetti d’eresia. Non l’avesse mai fatto! Si scatenò contro il Santo tutto il furore degli Ariani, sostenuti dall’imperatore Costanzo, i quali dopo molte grida, ingiurie e minacce, lo fecero bandire in esilio a Scitopoli, in Palestina, l’odierna Beit She’an, poi in Cappadocia e quindi nella Tebaide egizia sino al 361. Con lui patirono la condanna all’esilio anche san Lucifero di Cagliari e lo stesso Dionigi, che deposto dalla cattedra milanese, fu mandato in Cappadocia e sostituito sulla cattedra episcopale dall’ariano Aussenzio, seguace di Ulfila, l’Apostolo dei Goti, e appoggiato dall’imperatrice Giustina.
Eusebio accettò tutto lietamente la condanna e scossa, come dice il santo Vangelo, la polvere dei suoi calzari, si incamminò tutto giulivo per la via dell’esilio, come una delle molteplici funzioni del ministero episcopale.


Giovanni Battista Bernero, S. Eusebio, XVII sec., Duomo, Vercelli

Autore lombardo, S. Eusebio in trono, sec. XVI

Giovanni Mauro della Rovere detto il Fiammenghino, S. Eusebio, XVII sec., museo diocesano, Como

Luigi Reali, S. Eusebio, 1643, museo diocesano, Milano

Luigi Reali, S. Eusebio, XVII sec,, museo diocesano, Milano


Sebastiano Ricci, Vergine in gloria con i SS. Gabriele, Eusebio, Sebastiano e Rocco, 1724-25, Università degli Studi, Torino

Urna con le reliquie di S. Eusebio, Duomo, Vercelli


Madonna di Oropa portata da Eusebio, Santuario, Oropa

Eusebio porta la statua della Vergine, Basilica Antica, Santuario, Oropa

Inizio delle Antifone Maggiori. 1° Antifona: "O Sapientia"

L'educazione moderna .... politicamente corretta

2° Antifona: "O Adonai"

Divorziati risposati, Vangelo, Rivelazione e Magistero della Chiesa in un aforisma del card. Sarah

Misericordia, perdono dei peccati in un aforisma del card. Sarah

Canto Inviatorio durante la Novena di Natale: Regem venturm Dominum

3° Antifona: "O Radix Jesse"


Ma in Germania esiste ancora la Chiesa cattolica? Ovvero della discussione tedesca circa un rituale per la “benedizione” delle coppie omosessuali

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Il dubbio se esista in terra tedesca ancora la Catholicaè più che legittimo. È notizia di questi giorni che si sta discutendo in quelle lande ormai senza fede cattolica, conquistate dalla c.d. riforma luterana, di un rituale di benedizione – si fa per dire! – per le coppie omosessuali. Anzi, c’è chi – non a caso gesuita – ha ammesso di aver già “benedetto” in maniera riservata alcune di queste (v. qui). Ne parla anche Rorate caeli.
Già in altre occasioni avevamo segnalato la decadenza e la protestantizzazione della Chiesa tedesca (v. ad es. qui e qui). Oggi ne abbiamo – ahinoi – ulteriori ed amare conferme qualora si fossero nutriti dubbi in proposito. Il dramma è che quelle “innovazioni”, come un fluido malefico, corrompe il tessuto dell’intera Chiesa, non solo quella di Germania. Ne è riprova anche un recente saggio, pubblicato da un domenicano, nel quale si sostiene addirittura che S. Tommaso d’Aquino considererebbe l’inclinazione omosessuale addirittura come connaturale alla persona stessa (v. Sandro Magister, Un domenicano iscrive san Tommaso ai gay-friendly, ma l’Angelicum dice no, in blog Settimo Cielo, 18.12.2015)!

Germania, benedizione a coppie omo

Nella diocesi di Limburg, in Germania, si sta discutendo di un rituale speciale per benedire le coppie omosessuali. Sarebbe in corso una prima discussione relativa a una benedizione della Chiesa e a una cerimonia per gli omosessuali.

di MARCO TOSATTI

Nella diocesi di Limburg, in Germania, si sta discutendo di un rituale speciale per benedire le coppie omosessuali. Secondo un reportage della Franfurter Allgemeine Zeitung il rettore dell’Istituto dei gesuiti per Filosofia e Teologia, padre Ansgar Wucherpfennig, avrebbe dichiarato di aver già benedetto l’unione di coppie omosessuali, come anche altri preti avrebbero fatto; ma non con una cerimonia pubblica.
E allo stesso tempo il Decano della Chiesa cattolica di Francoforte, Johannes zu Eltz, avrebbe “annunciato una prima discussione relativa a una benedizione della Chiesa e a una cerimonia per gli omosessuali”, che avrebbe definito “una questione di giustizia che non possiamo sopprimere”. Secondo il Decano “è importante trattare gli omosessuali con apertura e apprezzamento”. Padre Wucherpfennig ha dichiarato che “gli omosessuali hanno trovato il loro posto nella Chiesa, anche come membri critici”.
Le dichiarazioni di padre Wucherpgennig, riprese da LifesiteNews, hanno suscitato un commento critico da parte di un noto blogger cattolico, Mathias von Gersdorff che ha rilevato che il gesuita “è noto per le sue stravaganti posizioni teologiche”. “Queste tristi dichiarazioni dimostrano una volta di più come certi circoli ecclesiastici in Germania vogliono ignorare il Magistero cattolico e la pratica della Chiesa universale per entrare in un ‘Cammino speciale tedesco’. Da notare che il precedente vescovo di Limburg, Franz Peter von Tebartz-van Elst, di recente rimosso dalla sua diocesi, si è fortemente opposto alla benedizione di una coppia omosessuale fatta nel 2008 da sacerdote locale, Peter Kollas”.

Fonte: La Stampa, 15.12.2015. L’articolo è ripreso anche da Il Timone.

Sant’Ambrogio di Milano e Teodosio: una storia di vera misericordia

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Del grande Santo Arcivescovo di Milano Ambrogio abbiamo più volte parlato.
Un recente saggio dimostra come l’insigne Dottore intendesse il vero significato della misericordia, ben distante da quello modernista, a buon mercato, senza pentimento e riparazione per il male commesso.
Nella Vigilia anticipata della festa di S. Tommaso Apostolo, rilancio questo contributo.

Sant’Ambrogio di Milano e Teodosio: una storia di vera misericordia

di Cristiana de Magistris

Quando, nel IV secolo, la sede episcopale di Milano si rese vacante, Ambrogio, ancora neofita e prefetto della città, fu eletto vescovo da quel popolo che, agitato per l’elezione, era andato a sedare. Battezzato, ordinato presbitero e poi vescovo, Ambrogio difese la Chiesa dalla falsa scienza degli Ariani, opponendo con la sicurezza della sua dottrina un valido baluardo ai progressi dell’errore del tempo.
Per la fermezza intransigente dei suoi scritti e delle sue parole, per la strenua difesa dell’unica verità che salva e della libertà della Chiesa, la sua vita fu minacciata più volte dai seguaci dell’eresia da lui combattuta. Ma egli non temeva, perché – scrive Dom Guéranger – «per difendere l’eredità della Chiesa era pronto a versare il sangue». Alcuni cortigiani ardirono accusarlo di tirannide presso il principe. Rispose: «No, i vescovi non sono tiranni, ma piuttosto da parte dei tiranni essi hanno dovuto spesso soffrire persecuzioni».
L’eunuco Calligone, ciambellano di Valentiniano II, osò dire ad Ambrogio: «Come, me vivente, tu osi disprezzare Valentiniano? Io ti spaccherò il capo». «Che Dio te lo permetta! – rispose Ambrogio – Io soffrirò allora ciò che soffrono i Vescovi e tu avrai fatto ciò che sanno fare gli eunuchi». Tale era Ambrogio di Milano. Come tutti i veri Santi, sapeva coniugare perfettamente dolcezza e fermezza, amore alla verità e condanna dell’errore, o – in breve – giustizia e misericordia. Emblematico a tal riguardo fu il suo singolare rapporto con l’imperatore Teodosio, di cui Ambrogio fu grande amico e personale consigliere.
Grazie all’Editto di Milano con cui, nel 382, proclamò il Cristianesimo religione di Stato, Teodosio è considerato l’imperatore cristiano per antonomasia. Oltre a ciò, godeva della speciale stima del Vescovo di Milano perché testimoniava senza reticenze la sua fede anche sotto le insegne imperiali. Ma nel 390 le truppe dell’imperatore soppressero una rivolta uccidendo oltre 7000 persone in quella che è passata alla storia come la strage di Tessalonica. Di questo atto esecrando Ambrogio ritenne responsabile lo stesso Teodosio, al quale si narra abbia vietato l’ingresso in chiesa intimandogli di pentirsi e di fare penitenza.
Ambrogio non era un uomo intransigente. «Non sempre bisogna infierire contro quelli che hanno peccato – aveva scritto –; spesso la clemenza giova di più: a te ad acquistare pazienza, e al peccatore a correggersi» (In Lucam 7, 27). E neppure amava farsi censore delle autorità. Anzi, affermava che non si debbono riprendere se non in casi gravissimi. «Guarda – scriveva – che i re non devono essere temerariamente attaccati dai profeti di Dio e dai sacerdoti se non ci sono peccati molto gravi di cui debbano essere accusati; laddove ci sono, allora non si deve scusare ma correggere con giusti rimproveri» (Commento al Salmo 37, 43). Fu appunto il caso di Teodosio dopo il massacro di Tessalonica. E proprio in quel frangente Ambrogio riesce a congiungere l’esigenza della riparazione al perdono del peccato mediante quella discrezione cristiana che solo i veri Pastori sanno esercitare.
Nella lettera che scrisse a Teodosio nel 390 per esortarlo alla penitenza si legge: «Ti scrivo non per umiliarti, ma perché gli esempi dei re ti spingano a cancellare dal tuo regno questo peccato. Lo cancellerai umiliando la tua anima davanti a Dio». «Non ho verso di te alcun motivo di ostilità, ho timore: non oso offrire il Sacrificio se tu pretendessi assistervi». Era un modo indiretto ma chiaro per dire a Teodosio che non poteva accedere al Sacramento dell’Eucaristia. Un sogno gli aveva confermato la necessità di tale divieto: «Non da un uomo né attraverso un uomo, ma direttamente mi è stata rivolta questa proibizione. Mentre, infatti, ero preoccupato, la stessa notte in cui mi preparavo a partire mi è sembrato che tu (Teodosio) venissi in chiesa, ma a me non fu possibile offrire il Sacrificio».
Lo esorta allora alla preghiera, che può essere un’offerta umile e a Dio molto gradita: «Anche la semplice preghiera è un sacrificio: genera il perdono poiché contiene l’umiltà (…). Infatti, Dio dice che preferisce che si osservino i suoi comandamenti più che l’offerta del sacrificio. Questo proclama Dio, questo Mosè annuncia al popolo, Paolo predica alle genti. Fa’ ciò che al momento capisci essere più gradito. “Preferisco”, dice Dio, “la misericordia al sacrificio”. Non sono forse più cristiani quelli che condannano il loro peccato di quelli che credono di doverlo giustificare?». E se pure vi fossero peccati che non possono essere lavati con le lacrime del proprio pentimento – scriverà in altra occasione Ambrogio con memorabile eloquenza – «piangerà per te la madre Chiesa, che interviene per ciascuno come una madre vedova per il figlio unico. Essa, infatti, prova compassione, per una specie di connaturato spirituale dolore, quando vede i suoi figli avviarsi alla morte per dei vizi mortali» (In Lucam 5, 92).
Teodosio obbedì al Pastore del quale poi disse: «Non c’è che un vescovo al mondo: Ambrogio». E il suo sincero pentimento gli meritò da parte del Vescovo di Milano un tal plauso come pochi se ne leggono negli annali della storia: « – disse il santo Vescovo nell’elogio funebre dell’imperatore –, ho amato questo uomo che preferì ai suoi adulatori colui che lo riprendeva. Gettò a terra tutte le insegne delle dignità imperiali, pianse pubblicamente nella Chiesa il peccato nel quale lo si era perfidamente trascinato, e ne implorò il perdono con lacrime e gemiti. Semplici cortigiani si lasciano distogliere dalla vergogna, e un imperatore non ha arrossito di compiere la penitenza pubblica, e da allora in poi non un sol giorno passò per lui senza che avesse deplorato la sua mancanza».
Ambrogio ebbe vivissimo il senso del peccato perché aveva compreso a fondo la misericordia di Dio. A tal punto da fare della misericordia l’unica chiave per comprendere l’eterno piano salvifico di Dio. «Sant’Ambrogio – scrive il Cardinal Biffi – è sicuro che l’uomo deve essere salvato; il suo è un ottimismo teologico che non ignora affatto il peccato e la sua gravità. Ma nel suo ottimismo Ambrogio si spinge più lontano di tutti: secondo lui, la stessa nostra miseria nativa fa parte di un progetto di elevazione, sicché c’è, paradossalmente, qualcosa di positivo nella colpa, dal momento che Dio la vede come premessa necessaria alla manifestazione della misericordia, misericordia che per Ambrogio è il senso ultimo e la ragione decisiva di tutta l’azione creatrice».
Nel suo Hexaemeron, Ambrogio aveva scritto: «Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un’opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo. Creò il cielo, e non leggo che si sia riposato; creò la terra, e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna e le stelle, e non leggo che si sia riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che, a questo punto, si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati». Finalmente Dio aveva trovato quello che voleva, un uomo da poter perdonare. «Da questo – scrive ancora il cardinal Biffi – non si può dedurre che si può peccare, anzi fare quanti più peccati possibile in modo da essere perdonati: al contrario, si deve dedurre la necessità di pentirsi, di fare tanti atti di pentimento in modo che la misericordia del Signore possa arrivare a toccarci. Siamo stati creati per mezzo di Cristo e per mezzo di Cristo siamo stati redenti».
Per questa necessità del pentimento, Ambrogio, quando ascoltava la confessione dei peccatori, versava tante lacrime che costringeva a piangere insieme con lui chi era venuto a confessare le proprie colpe. «Sembrava – scriveva il suo biografo Paolino – che egli stesso fosse caduto insieme con chi era venuto meno». Così pregava, a questo proposito, il grande Vescovo: «Ogni volta che si tratta del peccato di uno che è caduto, concedimi, o Dio, di provarne compassione e di non rimproverarlo altezzosamente, ma di gemere e piangere, così che mentre piango su un altro, io pianga su me stesso».
Alla cristianità postmoderna che ha smarrito il senso del peccato e pare comprendere solo il linguaggio evanescente di una indefinibile e fluttuante misericordia, Ambrogio di Milano ha molto da insegnare. Ma forse il messaggio più attuale del Santo Vescovo di Milano è dato dall’aver centrato perfettamente l’amore del prossimo, che oggi pare oscurare l’amore di Dio in nome di una sempre più stravagante misericordia. Il nostro “primo prossimo” è il Signore Gesù che non è lontano da nessun uomo, anzi è il più vicino perché è da Lui che riceviamo la misericordia.
«Egli – dice Ambrogio – è il prossimo, il prossimo di tutti: Lui che a tutti elargì misericordia togliendo il peccato del mondo. Gesù, se possiamo concederci una sdrammatizzatura, è il più prossimo. Perciò quando si parla del precetto dell’amore non bisogna mettere in contrasto l’amore per Cristo e l’amore per il prossimo perché in realtà anche l’amore per Cristo è l’amore per il prossimo. Perché Lui è prossimo prima e più di ogni altro. Siccome nessuno è maggiormente prossimo di Colui che guarì le nostre ferite, amiamolo sì come Signore, ma amiamolo anche come prossimo. Niente, infatti, è tanto prossimo quanto il Capo alle membra». È per amore di questo Capo che Ambrogio indusse misericordiosamente Teodosio a penitenza e lo riportò all’ovile dell’unico Pastore.

Fonte: Corrispondenza romana, 16.12.2015

4° Antifona: "O Clavis David"

Quegli errori sul Concilio (e sulla Chiesa nel mondo). A 10 anni dalla lezione di papa Benedetto

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Nella memoria di S. Domenico di Silos, abate, rilancio questo contributo di don Nicola Bux.


Bartolomé de Cárdenas Bermejo, S. Domenico di Silos in trono, 1474-77, museo del Prado, Madrid

Bartolomé de Cárdenas Bermejo - Martín Bernat, Ferdinando I di Castiglia accoglie S. Domenico di Silos, 1474-79, museo del Prado, Madrid

Quegli errori sul Concilio (e sulla Chiesa nel mondo). A 10 anni dalla lezione di papa Benedetto

di Nicola Bux

Il 22 dicembre 2005, Benedetto XVI rivolgeva uno storico discorso alla Curia Romana, nel quale offriva le “chiavi” della storia e della fede, per la corretta interpretazione del Concilio ecumenico Vaticano II. Cosa ha prodotto? Una parte della Chiesa cattolica lo ha condiviso, mentre l’altra ha continuato a percepire quell’avvenimento come una rottura con la Chiesa precedente. Il solco si è approfondito, quasi uno scisma di fatto. 

Per questa parte della Chiesa, viene da dire che in principio era il Verbo, ora è il Concilio, con la C maiuscola e senza specificazioni, mitizzato come un super-dogma, in rottura con la sacra Tradizione e in apertura al mondo. Il contenuto dei documenti è ridotto a slogan: profezia, segni dei tempi, dialogo, comunione, senza aggiungere “gerarchica”, spirito del Concilio contro la lettera. Nel suo discorso, Benedetto XVI si chiedeva: qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? E in ciò, cosa è stato buono e cosa sbagliato? Cosa resta da fare? Quindi, citava san Basilio a sostegno della percezione che si sia falsata per eccesso o per difetto la retta dottrina della fede. Perché è avvenuto questo? Il Concilio non è stato interpretato in modo univoco e si è sdoppiato in modo contrastante, causando per un verso confusione – quella più visibile – e per l’altro una promettente rinascita spirituale. 

La «ermeneutica della discontinuità e della rottura» si è avvalsa della simpatia dei mass-media e diparte della teologia moderna – questo è oggi evidente –; l’«ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato» - la frase-chiave del discorso - è invece guardata con sospetto ed emarginata. È certezza di fede che la Chiesa non cambia, cresce nel tempo, si sviluppa, rimanendo sempre lo stesso popolo in cammino. Tutti conoscono san Vincenzo di Lerins: quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditur, id est catholicum. Ma oggi si sostiene che la Chiesa cambia e deve cambiare: chi dice questo, propone un’eresia, in quanto la Chiesa è donata, scende dall’alto, è definita da Dio, per essere segno e strumento di salvezza del mondo. Gli uomini che le appartengono devono sempre convertirsi, ma essa è senza macchia né ruga, splendente di bellezza.

Dal post-Concilio, è proprio l’idea di Chiesa il perno della crisi cattolica: si tende a scinderla dal popolo di Dio, da cui pure è costituita; a sostituirla con altri enti mondani, allorché si devono affrontare i problemi della giustizia e della pace; attraverso il malinteso dialogo inter-religioso, la si vuol far diventare una Onu delle religioni, non un vessillo elevato tra le nazioni. Eppure la Chiesa è il corpo di Cristo, fondata su dodici uomini, chiamati a sé dal mondo per poi inviarli ad esso quale luce e sale, non certo per confondersi con esso: «Non abbiamo bisogno di una Chiesa che si muova col mondo», diceva Chesterton. «Abbiamo bisogno di una Chiesa che muova il mondo».

Nel discorso in oggetto, papa Benedetto, addita un paradosso: siamo arrivati a teorizzare – e praticare - la rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. In tal modo è stata fraintesa «in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituente deve servire. I padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno del resto poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso». Dunque, la discontinuità va contro la fedeltà dinamica che caratterizza la Tradizione.

Il Concilio Vaticano II, si noti, ideato e fatto da una Chiesa “pre-conciliare”, finirebbe per indurre la Chiesa odierna a non riconoscersi in continuità con quella; il Concilio costituirebbe lo spartiacque, come se la Chiesa nascesse ora. Finalmente si attua l’idea di Gioacchino da Fiore? Ne ha di sostenitori: una nuova Chiesa che propugna il primato del cosiddetto spirito del Concilio sulla lettera dei documenti, il Concilio dei media su quello dei padri. Lo dicono, forse, per superare l’imbarazzo: perché, leggendo i testi conciliari, molte delle estrosità che hanno trovato spazio nel post-Concilio, non si trovano. 

Invece, nel discorso alla Curia, Benedetto attribuisce a Giovanni XXIII e Paolo VI, l’interpretazione del Concilio come riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa perché – come afferma monsignor Agostino Marchetto nella sua storia del Concilio -, affermarono nelle allocuzioni di apertura e di chiusura, che la Chiesa: «vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamento»; e che il rispetto fedele e l’approfondimento della dottrina «certa e immutabile» non deve ignorare le esigenze contemporanee, ma senza travisarne il senso e la portata. Questa operazione però, non è intellettualistica o guidata da pruriti innovatori, ma dalla comprensione della verità e dal rapporto con la fede vissuta. 

Nel discorso, papa Benedetto accenna pure all’altra questione: il rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l’uomo ed il mondo di oggi - ovvero l’età moderna -, dall’altra, per il quale la discontinuità potrebbe sembrare convincente, se non fosse che l’età moderna ha cercato di eliminare Dio dall’orizzonte dell’uomo. Tuttavia, talune evoluzioni positive successive alla fase di contrapposizione tra Chiesa ed età moderna - come un tipo di Stato moderno, laico ma non neutro riguardo ai valori - avevano portato, in specie dopo la Seconda guerra mondiale, a reciproche aperture; per non parlare dell’apporto della dottrina sociale cattolica e dell’apertura delle scienze naturali a Dio. Pertanto, tre domande erano come dinanzi al Concilio e attendevano risposta: la relazione fra fede e scienze moderne, il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, in specie quanto al comportamento verso le religioni; il problema della tolleranza religiosa, che portava a ridefinire il rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo, e al suo interno quello tra Chiesa e fede di Israele. 

La discontinuità, comprensibile se applicata a situazioni mutevoli, non poteva assurgere a pretesa duratura, al punto da interrompere la continuità del soggetto Chiesa: «Così, ad esempio», continua Benedetto, «se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l’uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento». 

È un esempio di quanto non è stato o non si è voluto recepire della Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, mentre la Chiesa – sostiene Benedetto XVI - «in questa apparente discontinuità ha mantenuto e approfondito la sua intima natura e la sua vera identità». Questa, del resto, non può essere messa in contrasto con la missione di annunciare a tutti i popoli il vangelo, perché andrebbe contro la libertà della fede. Il dono della verità di Gesù Cristo è per tutti, senza distruggere identità e culture. Dunque: «La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi».

Benedetto non nasconde che “l’apertura verso il mondo” non ha trasformato tutto in pura armonia –per taluni, mettendo fine anche al sacro – sottovalutando le tensioni e le contraddizioni, come pure la fragilità dell’umana natura che costituisce la minaccia permanente per il cammino dell’uomo. Non c’è ancora tanta parte di mondo che si sottrae al Vangelo e che, invece, ha bisogno di essere raggiunto da esso? Ai nostri giorni, poi, i pericoli sono aumentati, in specie a motivo del potere della tecnica, divenuta quasi un nuovo idolo. E allora, la Chiesa si dovrebbe dissolvere nelle religioni del mondo, vecchie e nuove? Non si dovrebbe più predicare la conversione e il perdono dei peccati? Si è giunti a postulare per gli ebrei – trascurando che la gran parte di loro non è credente – una via parallela di salvezza, quasi che Cristo non sia più l’unico Salvatore. 

Si dimentica che, anche nel nostro tempo, la Chiesa resta “un segno di contraddizione”  ricorda Benedetto XVI, riandando al titolo degli esercizi spirituali predicati dal cardinale Wojtyla in Vaticano nel ‘76 – per tutti gli uomini indistintamente: «Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell’uomo». In conclusione, papa Benedetto è convinto che «il passo fatto dal Concilio verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme».

Joseph Ratzinger ha operato, da teologo e da Papa, in modo analogo al modo in cui Tommaso d’Aquino seppe mettere «la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo». Non a caso nella famosa lezione di Regensburg (Ratisbona), imposterà il confronto con l’islam in rapporto alla ragione, cosa che interpella anche gli ortodossi e i protestanti. Il rinnovamento della Chiesa - semper reformanda – deve essere guidato da questa giusta interpretazione, vincendo due debolezze: l’astuzia intellettuale, che impedisce il discernimento, e la viltà del cuore, che impedisce di scegliere amici e nemici; altrimenti la Chiesa si condanna all’insignificanza, che è più grave della falsità, perché quest’ultima, provoca il pensiero, costringe a prendere posizione, mentre la prima distrugge la Chiesa nella disaffezione.

Senonché da taluni cattolici, si sostiene questa tesi: finché i valori naturali sono stati patrimonio del sentire comune della maggioranza, l’insistenza della Chiesa su di essi poteva avere una sua ragionevolezza, ma nel momento in cui questo è venuto meno, la Chiesa corre il rischio di ritagliarsi il ruolo di colei che condanna le tendenze contro natura; pertanto, bisognerebbe cambiare paradigma: saper leggere la vita degli uomini di oggi (con le contraddizioni e le cose buone) e proporre l’unica cosa interessante: il Vangelo. Ma la Chiesa cosa ha fatto finora? E in che modo? San Luigi Maria Grignion de Montfort ricorda che essa ha unito la carità più compassionevole e l’intransigenza dottrinale più ferma, nell’ardore di un medesimo amore, che è lo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. La Chiesa sa di non poter fare il bene senza combattere il male, di non poter evangelizzare senza lottare contro l’eresia. 

Misericordia e dottrina – per dottrina s’intende la Rivelazione - non possono sussistere che unendosi: separate l’una dall’altra muoiono e non lasciano più che due cadaveri: il liberalismo umanitario con la sua falsa serenità e il fanatismo con il suo falso zelo. È stato detto che la Chiesa è intransigente per principio, perché crede; è tollerante nella pratica, perché ama. Invece, i nemici della Chiesa sono tolleranti per principio, perché non credono, e intransigenti nella pratica, perché non amano.

Situazione della Chiesa, crisi della Chiesa e speranza in un aforisma di Mons. Schneider

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