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Quarta Domenica di Quaresima: la benedizione della Rosa d’oro

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Riporto dal recente blog Rerum Liturgicarum quest’interessante contributo di Francesco G. Tolloi sulla IV Domenica di Quaresima o Domenica Laetare o Domenica della Rosa e sulla benedizione della rosa d’oro (sulla benedizione della rosa d'oro si rinvia a Stefano Sanchirico, Storia di un antico simbolo del buon odore di Cristo. La rosa d’oro del Papa, in L’Osservatore Romano, 9.1.2011).

Giuseppe Gatteri, Il Doge  di Venezia Francesco Loredan riceve la Rosa d'oro dal Nunzio Apostolico in San Marco, 1759

Nel Medioevo il Papa, in questo giorno, andava alla stazione a Santa Croce in Gerusalemme tenendo in mano una rosa d’oro, di cui poi spiegava al popolo il mistico significato. Nel ritorno, ne faceva un presente al prefetto di Roma, da qui è nato l’uso ancor oggi vigente, che la rosa d’oro benedetta dal Pontefice venga inviata in dono a qualche principe cattolico.
In questa domenica, il popolo cristiano canterà meglio la sua gioia «Lætare» (Intr., Ep.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla croce a Gerusalemme, ed è lì anche sarà meglio evocato il ricordo della Gerusalemme celeste di cui la morte di Gesù ci ha riaperto le porte. Questo è il motivo per il quale si benedicevano un tempo in tale chiesa in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, poiché così lo ricordavano le formule della benedizione – uso consacrato dall’iconografia cristiana – è con un giardino fiorito che si rappresenta il cielo. Si impiegano per questa benedizione degli ornamenti rosacei ed anche tutti i sacerdoti possono celebrare oggi in paramenti di questo colore. Quest’uso è passato da lì alla III domenica di Avvento, che è la domenica Gaudete e che cade a metà dell’Avvento e ci fa gioire di una santa allegrezza e così ci consente di proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù.

Quarta Domenica di Quaresima: la benedizione della Rosa d’oro. Qualche appunto

Era anticamente buona ed utile regola identificare e denominare le domeniche utilizzando le prime parole dell’Introito proprio del giorno. Tale uso è rimasto ancora, perlomeno abbastanza diffuso, per quanto concerne la terza domenica d’Avvento (Gaudete) e la quarta domenica di Quaresima (Laetare), circa la quale intendo qui soffermarmi. Il Missale romanum indica la stazione alla Basilica della Santa Croce, la “sessoriana”.

Roma: Basilica di S. Croce in Gerusalemme (Sessoriana)

Stando all’opinione del beato Schuster, l’individuazione della Statio in tale basilica è da ricercarsi in un processo imitativo della costumanza orientale; nella Chiesa Greca vi è infatti una domenica della “Grande Quaresima” deputata in modo particolare a commemorare il vivificante legno della Croce; in Occidente – seppure con uno spostamento temporale, visto che il rito greco celebra tale mistero la terza domenica – si sarebbe scelta questa domenica con conseguente ubicazione della Stazione alla Sessoriana in considerazione dalla particolare importanza e preziosità delle reliquie della Passione ivi convenientemente serbate ma un altro motivo è sicuramente il riferimento chiaro dell’Introito, come vedremo, alla santa Gerusalemme di cui la basilica romana è immagine. Sempre secondo il Beato, questa particolare solennità che la Chiesa di Roma riserva e tributa alla quarta domenica di Quaresima, potrebbe ricondursi all’antico caput jejunii – di matrice appunto schiettamente romana – di tre settimane prima della Pasqua [1].
In ogni caso, stante la configurazione della Quaresima, anche un approccio superficiale e distratto potrebbe consentire di evincere con immediatezza le caratteristiche di letizia e di gioia, non fosse altro per l’uso – sebbene facoltativo - del colore rosaceo [2] in luogo del viola e per il festoso incipit dell’Introito le cui parole – mutuate dal profeta Isaia (66, 10-11) spronano a sentimenti di tripudio: Gerusalemme, e per trasposizione la Chiesa, deve rallegrarsi, deve saziarsi alle fonti della sua consolazione. All’invito di Isaia fa degna eco il versetto del Salmo 121 (1): Laetatus sum in his quae dicta sunt mihi, in domum Domini ibimus.
Se volessimo per un istante considerare gli antichi rigori quadragesimali ancora di più riusciremo a penetrare appieno nei sentimenti più autentici di questa domenica che permette un ristoro al penitente, in un periodo ormai prossimo alla contemplazione dei misteri principali della nostra redenzione e della nostra fede. Letizia dunque, ma anche sprone a compiere gli ultimi sforzi, è proprio in questo contesto - sapientemente definito dai segni liturgici - mi pare di poter inquadrare il singolare rito della benedizione della Rosa d’oro, compiuta dai Pontefici, che sembrerebbe voler alludere a un premio che nel contempo è un pegno a perseverare nelle virtù in considerazione delle quali si è fatti oggetto di tale altissimo riconoscimento.

Rosa d'oro offerta da papa Pio VII all'Imperatrice d'Austria Carolina Augusta
(Vienna, Kunsthistorisches Museum)

La costumanza di benedire la Rosa d’oro affonda le sue radici nell’alto Medioevo; se ne ha testimonianza durante il pontificato di papa Leone IX (+ 1054). Il Moroni [3] ci precisa che – in realtà – all’epoca del menzionato pontefice essa fosse già stata in vigore, nell’affermarlo egli poggia la sua opinione sul Catalano [4].
Mi è parso utile ed interessante riportare la descrizione che ne fa l’informatissimo Francesco Cancellieri nel XVIII secolo: proprio di questo Autore il citato Moroni si dichiara più volte discepolo.
Prima di lasciare lo spazio a questo illustre Testimone, desidero spendere qualche parola – anche se poi il Cancellieri fornirà la sua descrizione - circa questo manufatto: la Rosa d’oro, se inizialmente era concepita solo e semplicemente come un fiore, ha assunto nei secoli una certa quale ampiezza di forme. Nella sua foggia originaria essa era un fiore fabbricato col metallo prezioso, alle volte essa veniva colorata di rosso proprio per imitare il fiore. Più tardi la colorazione di rosso fu accantonata, preferendo incastonare un rubino. La forma più conosciuta parrebbe rimontare all’epoca successiva a Sisto IV (+1484) [5]: essa si compone di una fronda fiorita, con ramo spinoso e più boccioli, tutti realizzati in oro. Il fiore principale ha una piccola coppa con relativo coperchio o una semplice lamina forata: in essa – durante la benedizione – il Sommo Pontefice andrà a introdurre il balsamo ed il muschio evocanti la fragranza del fiore preso a modello per il manufatto. La realizzazione della Rosa d’oro è sempre stata affidata alle sapienti mani di artisti di altissimo livello, tra i tanti esempi che potrei portare citare ricorderò quella realizzata dal Bernini per conto di papa Alessandro VI [6].
Quanto a questa mia trascrizione del Cancellieri, preciso che ho rispettato l’uso delle maiuscole, abbreviazioni, corsivi e punteggiatura dell’Autore. Per comodità ho ridotto le note a piè di pagina del testo originario, con riferimenti bibliografici, inserendole nel corpo del testo e identificandole con delle parentesi. Alla fine del testo mi soffermerò su alcuni aspetti che ritengo utili.
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Capo VII.
Quarta Domenica di Quaresima.
Cappella Papale e Benedizione della Rosa d’oro. [7]

Questa mattina canta Messa un Cardinal Prete. L’Altare è ornato con otto Statue d’argento, se la Cappella si fa alla Sistina, e con tredici, se si fa alla Paolina al Quirinale. Tutto il S. Collegio viene in Sottana, Mozzetta, e Mantelletta di color Rosa secca, come nella terza Domenica dell’Avvento, colle Cappe violacee.
Il Papa ancora viene in Piviale di color rosaceo, consimile al colore del Trono, ed anche il Celebrante co’ sacri Ministri. Il Diacono porta la Dalmatica, e il Suddiacono la Tonicella, e non già le Pianete piegate. Poiché tutta la Messa di questo giorno eccita all’allegrezza, interponendosi dalla Chiesa questo giubilo spirituale, per ristorare i Fedeli dall’afflizione del digiuno.
Il Papa unge col Balsamo del Perù, e col muschio, e benedice la Rosa d’oro nella stanza de’ Paramenti, prima di venire in Cappella. Il Vaso col suo coperchio, in cui si contiene il Balsamo, è di argento. L’altro che serve pel muschio, è di avorio con piede, e coperchio simile, guarnito d’argento dorato, con un dente, o lingua serpentina impietrita nella Coppa.
Un picciolo Cucchiarino d’oro con uno Zaffiro in breccia incastrato nel mezzo serve per pigliare il Muschio, ed un altro di argento dorato per prendere il balsamo.
Varj sono stati i disegni, che si sono usati in diversi tempi, de’ vasi, o de’ piedi per questa Rosa. Presentemente ha un piede triangolare col suo balaustro, sopra di cui sorge un ramo spinoso con varie Rose, ed una in cima più grande, in cui v’ha una picciola Crate, o sia Lamina forata, dove il Papa nella benedizione pone il balsamo, e il Muschio. Tanto il piede, nelle cui tre facciate v’è lo stemma del Papa, quanto il Ramo, e le Rose, sono tutte d’oro.
Dopo che la Rosa è stata benedetta vien portata in Cappella da un Chierico di Camera in Cotta, e Rocchetto, che la consegna a mons. Sagrista, il quale la colloca sopra l’Altare sotto la Croce, d’onde la rileva, per farla riportare dal medesimo Chierico di Camera, dopo la Messa, nella stanza de’ Paramenti, in una picciola Mensa fra due Candelieri. Poi si ripone, e si conserva per regalarsi a qualche Personaggio, come ha fatto il Regnante Pontefice all’Arciduchessa di Austria Maria Cristina, ed alla di lei Sorella Arciduchessa Amalia.
L’Introito si canta in contrapunto. Sermoneggia il P. Procurator Generale de’Carmelitani. Il mottetto Cantemus Domino dopo l’Offertorio, è di Matteo Simonelli, con seconda parte. Il Deo gratias si canta.
Questa Domenica viene frequentemente chiamata Domenica Laetare, dall’Introito preso dalle parole d’Isaia (LXVI. 10). Dicesi ancora Dominica panum dall’Evangelio, in cui si narra la prodigiosa moltiplicazione de’ pani nel Deserto. Ma più communemente si appella Dominica RosaeRosarum, o de Rosa, dalla Rosa d’oro, che per antichissimo uso il Papa suol benedire in questo giorno.
Il P. Calmet (In Probatione Historica Lotharingiae Tom. I, col. 427) è stato il primo a scuoprire la vera origine del Rito, che ha dato questo nome alla presente Domenica. S. Leone IX ereditò fra’ suoi beni patrimoniali il Monastero di S. Croce in Alsazia, e vendicollo in libertà, assoggettandolo immediatamente alla S. Sede. E per eternare la memoria di questa esenzione, gl’impose il tributo annuo di una Rosa d’oro di due oncie, da portarsi in mano da lui, e da’ suoi successori nella quarta Domenica di Quaresima, celebrando nella Basilica di S. Croce di Gerusalemme. E così sotto il nome di Tributo, o Censo pagato da un Monastero posto in libertà, venivasi a simboleggiare la misteriosa allegrezza del Popolo d’Israello, liberato dalla schiavitù Babilonica, a cui si allude nel lieto uffizio di questo giorno.
Nel breve corso di un mezzo Secolo, questo semplice Tributo di un Monastero esente divenne regalo degno de’ Principi. Poiché si legge presso Dachery (T.X. Spicilegii p. 396), e Luca Olstenio (Colleg. Rom. P. 11. P. 222), che questo Fiore fu regalato nel 1096 da Urbano II, dopo la celebrazione del Concilio di Tours, a Fulcone Conte d’Angers, il quale grato di quest’onore fissò, che dovesse esser portato da sè, e da’ suoi successori nel giorno delle Palme.
Nel 1230 s’introdusse il costume di aggiungere a questa Rosa le qualità esterne del suo Fiore, tingendo l’oro di rosso, e spargendola di muschio; e di spiegarsi il mistero del colore, e dell’odore della Rosa naturale, dallo stesso Pontefice con un Sermone, per l’istruzione del Popolo, come ci attestano il Canonico Benedetto (In Ord. XI. num. 36), il Diploma di Alessandro III, che la regalò a Ludovico VII Re di Francia (T.X. Concil. p. 1360. E in T. IV. Hist. Francor. a pg. 768) e il Durando (Rational. lib. cap. 53 num. 10). Ma sopra tutto ce ne convince il Sermone d’Innocenzo III su questo argomento.
Sappiamo poi da Cencio Camerario (Ord. XII. num. 17), che nello stesso Secolo XII s’ incominciò ad aggiungere al muschio anche il balsamo. Sembra, che si cessasse di colorir l’oro, quando s’introdusse l’uso di collocare un Rubino in mezzo alla Rosa, per renderla più preziosa, senza alterarne le qualità, come poi si è sempre praticato, anche quando si è ridotta la semplice Rosa ad un Ramo di Rose vago, e fiorito, come or lo vediamo. Questa variazione dev’esser seguita prima di Sisto IV, che un anno in vece della Rosa, benedisse una Quercia d’oro, rappresentante il suo Stemma, che mandò in dono alla Cattedrale di Savona sua Patria. Pio II sermoneggiò sopra la Rosa, secondo l’antico costume, che però, come apparisce da Pietro Amelio (Ord. XV. num. 48), era già divenuto arbitrario, e poi andò affatto in disuso.
Ma benché si variassero le circostanze, che accompagnavano le qualità della Rosa, si conservò l’uso di mandarla in dono a qualche Principe, ovvero di regalarla a qualche nobile Personaggio, che si trovasse in quel dì presente alla Sacra Funzione. Questi per lo più era il Prefetto di Roma (Felix Contelorius de Praefecto Urbis. Romae 1631. 4. Gaet. Cenn del Prefetto di Roma a tempo de’Re, e della Repubblica, a tempo degli Augusti, e Re d’Italia, e sotto i Rom. Pontefici. nel T. I. delle sue Dissert. Postume p. 269), vestito di scarlatto, o di porpora, colle calze di color oro, che accompagnava a piedi il Papa, che cavalcando portava la Rosa in mano fino al Palazzo Lateranense, dove smontava, e ivi baciandogli i piedi, ricevea il dono della Rosa.
Convien però avvertire, che non tutti ebbero questa Rosa benedetta, come molti han creduto, quasi che sia tanto antica la Rosa d’oro, quanto la sua benedizione. Questa certamente non può attribuirsi né a Urbano V, né ad Innocenzo IV, a cui sia assegna dall’Autore della sua vita, a cui si assegna dall’Autore della sua vita, seguito dal Martene (De Rit. Ant. Diss. XIX num. XVII); ma è posteriore a Niccolò V, giacché niuna menzione di questa benedizione si fa negli Ordini da noi citati, e la prima volta che si nomina, è nel Cerimoniale di Cristofaro Marcello. Paolo III tolse l’uso, introdotto da Paride de Grassi sotto Giulio II, Leone X, e Clemente VII, di ungerla col Crisma; e il Rito prescritto dal suddetto Cerimoniale di ungerla col balsamo, di sovrapporvi il muschio, di benedirla, ed’ incensarla, è perseverato fino a’ nostri tempi. […]
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Qualche mio appunto...

Relativamente al luogo, si legge la benedizione avveniva – all’epoca dell’Autore - nella “stanza de’ Paramenti” (la c.d. Sala del Pappagallo); l’uso rimonta al periodo successivo la “cattività avignonese”, i Sommi Pontefici ritornando nell’Urbe e trovando le storiche chiese in mal partito introdussero l’uso delle celebrazioni nelle loro cappelle. La benedizione della Rosa d’oro avveniva anticamente alla basilica Sessoriana (statio del giorno). Qualora fosse presente in Roma l’Imperatore per ricevere l’incoronazione, la cerimonia avveniva nella basilica di S. Maria in Cosmedin[8].
Al principio del testo, riferendosi all’abito che gli eminentissimi signori Cardinali portano alla cappella di questo giorno, il Cancellieri riferisce l’utilizzo – per l’abito talare, la mantelletta e la mozzetta – del colore rosaceo, più precisamente del color rosa secca.

Veste talare cardinalizia color rosa secca

Esso è una variante dell’abito di penitenza di cui si serba il colore violaceo nella cappa. Sino al 1969 [9], i cardinali disponevano, tra gli altri, di un abito da portarsi (qui procedo con una semplificazione) nei tempi di penitenza e nelle circostanze luttuose. Detto abito è violaceo, o più precisamente paonazzo con fodere, orlature, bottoni e asole di color rubino o cremisi [10]. Sarà non di meno utile notare che – durante il pontificato di Papa Pio XI – il colore paonazzo viene definito con precisione ed è lo stesso anche per i Vescovi e i Prelati, ciò pose fine all’utilizzo delle tante varietà che erano proliferate e sussistevano [11]. Ripromettendomi di ritornare prima o poi sull’argomento, voglio precisare che la tonalità del paonazzo varia in base alla proporzione con cui vengono composti i due colori di base ossia il blu e il rosso. Dal XVI secolo sino al principio del XIX, notiamo che la nuance vira palesemente al bluastro, un tanto deriva dall’interazione di due coloranti ossia l’indaco naturale e la cocciniglia domestica; solo nel corso del XIX secolo, in cui si fa utilizzo di coloranti di natura sintetica, apre la strada verso un processo che porterà all’uniformizzazione del colore [12]. Quanto ai vestimenti di rosa secca usati dagli eminentissimi cardinali in questa domenica – e nella domenica Gaudete – va precisato che erano in seta marezzata [13]. Il loro uso iniziò a decadere verso la fine del pontificato del beato Pio IX, non essendoci stata un’abolizione, si ha contezza dell’utilizzo da parte di qualche Cardinale – limitatamente alla propria chiesa titolare e, come è ovvio alle due domeniche ricordate – sino all’epoca di Pio XI [14]. La citata Istruzione della Sacra Congregazione Ceremoniale (v. nt. 10) non fa menzione di questi abiti rosacei stante la desuetudine degli stessi.
Circa il rito di benedizione [15], l’Autore ci riporta l’uso, poi caduto, di ungere il manufatto col Crisma. Il Moroni sottolinea l’influsso su Giulio II, Leone X e Clemente IX del cerimoniere Cristoforo Marcello; la rimozione di tale uso – operata da papa Paolo III – muove dalla considerazione che l’Unzione col Crisma compete alle consacrazioni e non alle benedizioni [16].


Paolo VI infonde il balsamo nella Rosa d'oro destinato al Santuario brasiliano dell'Aparecida (1967)


Relativamente agli usi della Cappella papale sul sito del Collegium Divi Marci: ho già avuto modo di parlarne; ad esso rimando per approfondimenti e per riferimenti bibliografici.
Quanto ai conferimenti della Rosa d’oro, rispetto quanto già lumeggiato dal Cancellieri, ricordo che essa - inizialmente conferita al Prefetto di Roma o “l’uso di mandarla in dono a qualche Principe, ovvero di regalarla a qualche nobile Personaggio, che si trovasse in quel dì presente alla Sacra Funzione”, come di ricorda l’Autore - fu anche concessa a città, nazioni, chiese e santuari insigni. Il sempre ben informato monsignor François Xavier Barbier de Montault fa memoria del conferimento della Rosa d’oro da parte di Benedetto XIV (Prospero Lambertini) alla sede metropolitana di Bologna della quale fu Arcivescovo; Clemente XIV la conferì alla nazione lusitana verso la quale nutriva particolare benevolenza tanto da far meritare al Sovrano l’appellativo di “Sua Maestà Fedelissima” [17]. A titolo di curiosità ricordo che l’ultimo personaggio di alto lignaggio di sesso maschile che ebbe a ricevere questo “regalo degno de’ Principi” fu il cento sedicesimo doge della Serenissima Repubblica Francesco Loredan, insignito del prestigiosissimo riconoscimento nel 1759 da papa Clemente XIII. Il conferimento divenne più raro tra i secoli XIX e XX, purtuttavia in seno ai camerieri segreti partecipanti laici uno era particolarmente deputato come “Portatore della Rosa d’oro” (la carica figurava, peraltro, nell’Annuario Pontificio sino gli anni Sessanta del Novecento).

Il conte G. Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto e il principe don Luigi Massimo Lancellotti:
gli ultimi portatori della Rosa d'oro

È tra i conferimenti novecenteschi che mi sento di fare particolare memoria di quello riservato alla serva di Dio Elena Petrović-Njegoš del Montenegro, Regina d’Italia (+ 1952), insignita – in ragione della sua vita votata alla carità – da papa Pio XI nel 1937.

Serva di Dio Elena del Montenegro Regina d'Italia
Chiedo al benigno lettore che ha avuto la pazienza di leggermi fino a qua, di recitare un’ Ave Maria con l’intenzione di poter presto venerare fra i beati questa splendida figura di donna cristiana.

Laetare Jerusalem!

Francesco G. Tolloi
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Note:

[1] A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Notizie storiche e liturgiche sul Messale Romano, Torino – Roma, Marietti, 1933, vol. III, pp. 116 e ss.
[2] Sarà profittevole ricordare che il rosaceo è raccomandabile serbi una tonalità virante al violetto chiaro piuttosto che un “rosa puro”. Cfr.: G. BRAUN, I Paramenti Sacri. Loro uso storia e simbolismo, trad. Italiana G. Alliod, Torino, Marietti, 1914, p. 40. Il rosa – stando a mons. Gromier – esisteva a Roma già nel 1582, cfr.: L. GROMIER, Commentaire du Caeremoniale episcoporum, Paris, La Colombe, 1958, p. 348.
[3] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico – ecclesiastica, Venezia, Emiliana, vol. LIX, p. 115.
[4] J. CATALANO, Sacrarum Caeremoniarum sive Rituum Ecclesiasticorum Sanctae Romanae Ecclesiae, Romae, De Rubeis, 1750, tomus I, tit. 7, cap. 3 (pp. 265 e ss.).
[5] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico – ecclesiastica..., cit., p. 112.
[6] Per un sintetico approfondimento: B. BERTHOD – P. BLANCHARD, Trésors inconnus du Vatican. Cérémonial et Liturgie., Paris, L’amateur, 2011, pp. 299 e s.
[7] F. CANCELLIERI, Descrizione delle Cappelle Pontificie e Cardinalizie di tutto l’anno. Roma, Salvioni, 1790, pp. 247 e ss.
[8] N. DEL RE, Rosa d’oro, voce in Enciclopedia Cattolica, Roma, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, 1953, X, coll. 1344 e ss.
[9] Cfr.: SECRETARIA STATUS SEU PAPALIS, Instructio (Ut sive solliciti) 31 marzo 1969, in Acta Apostolicae Sedis, LXI, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1969, pp. 334 e ss.. Tale istruzione – a firma del cardinale Amleto Cicognani – riforma totalmente, in direzione di una massiccia semplificazione (che di fatto corrisponde ad uno smantellamento), la materia degli abiti dei Cardinali, Vescovi e Prelati.
[10] SACRA CONGREGAZIONE CEREMONIALE, Norme Ceremoniali per gli Eminentissimi Signori Cardinali, Roma, Poliglotta Vaticana, 1943, pp. 3 e ss.
[11] SACRA CONGREGATIO CAEREMONIALIS, Decretum (Sacrae huic Congregationi), 24 giugno 1933, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1933. Questo decreto – che qui cito nella edizione in mio possesso stampata singolarmente – riporta gli esempi della tonalità del paonazzo sia per il tessuto di seta che quello di lana.
[12] Cfr.: B. BERTHOD – P. BLANCHARD, Trésors inconnus du Vatican…, cit., p. 338.
[13] F. X. BARBIER DE MONTAULT, Le costume et les usages ecclésiastiques selon la tradition romaine, Paris, Letouzey et Ané, s.d. [1900], I, p. 275.
[14] Cfr.: B. BERTHOD – P. BLANCHARD, Trésors inconnus du Vatican…, cit., p. 299.
[15] Riporto integralmente la formula di benedizione. (V.) Adjutórium nóstrum in nómine Dómini. (R.) Qui fecit cælum et terram.(V.) Dóminus vobíscum. (R.) Et cum spíritu tuo. Orémus. Deus qui es lætítia et gáudium omnium fidélium, majestátem tuam supplíciter exorámus ut hanc Rosam odore visuque gratíssimam, quam hodiérna die in signum spiritúalis lætítiæ in mánibus gestámus, bene + dícere et sancti + ficáre tua pietáte dignéris, ut plebs tibi dicáta ex jugo Babilónicæ captivitátis edúcta, per Unigéniti Filii tui grátiam cæléstis Jerúsalem gáudium sincéris córdibus repræséntet. Et quia ad honórem nóminis tui Ecclésia tua hoc signo hodie exúltat et gáudet, tu ei, Dómine, verum et perféctum gáudium et grátiam tuam largiáris, ut per fructum boni óperis in odórem illíus floris tránseat qui de radíce Jesse prodúctus, flos campi, lílium convállium mystice prædicátur. Qui tecum vivit et regnat in unitate Spíritus Sancti Deus per omnia saécula saeculórum. (R.) Amen. Postea imponit incensum in thuribulo. Deinde Rosam ungit balsamo imponitque ei muscum: aspergit aqua benedicta et adolet incenso.
[16] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico – ecclesiastica..., cit., p. 117.

[17] F. X. BARBIER DE MONTAULT, Les stations et dimanches de Carême a Rome, Rome, Spithoever, 1865, pp. 91 e ss.


“Cumque in partu labórans doléret, ait illi quidam de custódibus: Quæ sic modo doles, quid fácies objécta béstiis? Cui illa: Modo ego pátior; illic autem álius erit in me, qui patiétur pro me, quia et ego pro illo passúra sum” (Lect. V – II Noct.) - Ss. PERPETUÆ et FELICITATIS, MARTYRUM

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Queste illustre eroine, che fanno parte di un gruppo comprendente quattro altri martiri, Revocato, Secondulo, Saturnino e Saturo (o Satiro), non appartenevano alla Chiesa di Roma poiché esse consumarono il loro martirio a Cartagine, il 7 marzo 202 o 203 (v. per approfondimenti, P. Silvio Gaston Moreno, Les persécutions et les martyrs en Tunisie, in blog Archeologie et Art Chrétien, 15 Fév. 2015). Tuttavia, la loro popolarità e la loro rinomanza, la diffusione dei loro Atti– redatti, sembra, da Tertulliano – e le relazioni continue che esistevano all’epoca tra la capitale dell’Africa Proconsolare e Roma, fecero sì che il natale di Vibia Perpetua e di Felicita il 7 marzo si trovasse già annotato nella lista romana dei Natalitia Martyrum, redatti verso il 336. Perpetua e Felicita sarebbero, dunque, con san Cipriano, l’oggetto delle prime feste di carattere non locale accolte da Roma nel suo Calendario del IV sec. Non desta meraviglia, perciò, se i dittici romani della messa contengano pur’essi i tre nomi di questi martiri africani.
Alla notorietà delle due martiri oggi celebrate, peraltro, ha contribuito anche Sant’Agostino, che dedicò alle Sante ben quattro suoi sermoni pronunciati in occasione dell’anniversario del loro martirio (il 7 marzo) di anni imprecisati (v. PL 38, coll. 1280-86, che ci tramanda tre sermoni, mentre i frammenti di un quarto ci è tramandato da un testo conservato a Erfurt).
La festa di questo giorno apparve ugualmente nel Sacramentario Gelasiano dell’epoca carolingia sebbene essa fosse cancellata dal Gregoriano ai tempi di Adriano I. Non è difficile, del resto, indovinare la causa di questa soppressione.
Mentre il fondo del Gelasiano evoca un periodo di libera fioritura liturgica e le feste cimiteriali dei martiri erano ancora celebrate con un grande concorso di popolo, il Gregoriano, al contrario, rappresenta una riforma posteriore, severa e generale della liturgia stazionale a Roma. La Quaresima, che non costituiva ancora, nel IV sec., un ciclo liturgico speciale, aveva acquistato, poco a poco, un’importanza particolare; il sacrificio eucaristico era offerto solennemente tutte le sere al calar del sole, al posto di essere offerto solo il mercoledì e la domenica, come ai tempi di san Leone Magno; pure verso l’epoca del pontificato di san Gregorio I, il digiuno e le stazioni quotidiane, per conseguenza naturale, escludevano tutte le altre stazioni delle feste ed, in particolare, le antiche Natalitia Martyrum dei secoli precedenti. Fu così che si eclissarono, non soltanto la festa delle sante Perpetua e Felicita, ma anche quella della Cattedra di san Pietro, di san Lucio, di san Caio e di molti altri insigni pontefici.
Tuttavia, il ricordo dei grandi martiri cartaginesi sopravvisse nella devozione popolare a questa esclusione liturgica; essa si conservò così fedelmente che la loro festa, con il rito di semplice commemorazione, fu associato, durante il basso Medioevo, a quella di san Tommaso d’Aquino, morto ugualmente il 7 marzo e che nel 1568 san Pio V aveva elevato al rango di festa doppia.
Nel XX sec., in occasione della riscoperta a Cartagine, tra le rovine della basilica Maiorum, in cui aveva predicato il grande sant’Agostino, dell’epigrafe sepolcrale di Perpetua, Felicita e dei loro compagni (il vescovo Vittore nel V sec. così indicava quella basilica: «... basilicam maiorum, ubi corpora sanctarum martyrum Perpetuæ atque Felicitatis sepulta sunt, ...»: Vittore Vitense, Historia pesecutionis Africanæ Provinciæ sub Geiserico et Hunirico regibus Wandalorum, lib. I, § 3, in MGH, Monumenta Germanie Historica, Scriptores antiquissimi, a cura di Karl FelixHalm, t. III, Berlino 1879, p. 3), san Pio X elevò il loro ufficio al rito doppio, fissando la loro festa alla vigilia del loro natale, a causa della solennità nel giorno seguente, anniversario della morte di san Tommaso d’Aquino.
Ecco il testo di questa importante epigrafe, l’unica reliquia che la Cartagine contemporanea conserva ancora del gruppo di martiri festeggiati oggi in tutta la Chiesa latina:

† HIC • SVNT • MARTYRES
† SATVRVS • SATVRNINVS
† REBOCATVS • SECVNDVLVS
† FELICIT • PERPET[V] • PAS • NON • MART
MAIVLVS


Un frammento di affresco nel cimitero di Callisto, appartenente come certi suppongono alla tomba dei martiri Marco e Marcellino, o, secondo altre opinioni, a quella dei martiri greci, dimostra a che punto gli Atti di santa Perpetua erano all’epoca popolari a Roma. Vi si vede in effetti due martiri che salgono verso il Cristo in mezzo ad una scala di cui un serpente, posto ai suoi piedi, cerca di impedirne l’accesso.
L’ispirazione dell’artista è evidente, come anche la sua dipendenza dalla celebre visione della martire cartaginese, narrata da lei con tanta freschezza e fede nell’autobiografia del suo martirio (Cfr. Passio Sanctarum Martyrum Perpetuæ et Felicitatis, 4, in PL 3, col. 25A-26A, nonché in Vita ex Ms. Casinensi eruta a Luca Holstenio, cap. I, Sanctorum captivitas. Perpetuæ baptismus, in carcerem detrusio. Visio prima, § 5, in Bollandisti, De Sanctis Martyribus Afris Perpetua, Felicitate, Saturo, Saturnino, Revocato, Secundolo, Carthagine aut Tuburbi, in Acta Sanctorum, Martii, vol. VII, Dies VII, Paris-Roma 1865, p. 632, oggi anche in traduzione italiana in Calogero Allegro (a cura di), Martirio di Policarpo, Passione di Perpetua e Felicita, con sermoni di Agostino, Roma 2001, p. 43), vero capolavoro dell’antica letteratura cristiana, che meritava di essere tra le mani di tutti i fedeli e di essere studiato a fondo.
Roma cristiana ha dedicato una chiesa, che è parrocchia, alle due sante martiri odierne nel 1969.
Nel 439 le reliquie di santa Perpetua, all'approssimarsi dell'invasione dei Vandali, furono trasferite a Roma, poi da lì, nell'843, dall'arcivescovo di Bourges, san Raoul, all'abbazia di Dèvres (o Deuvre), a Saint-Georges-sur-la-Prée. Dopo che quest'abbazia fu saccheggiata dai Normanni nel 903, furono trasferite a Vierzon, nel sito dell'attuale municipio. Da lì furono traslate nella chiesa di Notre Dame di Vierzon nel 1807, dove sono conservate finora. Perpetua è la patrona di Vierzon. Nel 1632 quella città fu gravemente colpita da un'epidemia di peste: gli abitanti allora fecero ricorso alla santa portandone in processione le reliquie, e fecero il voto che, se la peste fosse cessata, avrebbero incastonato la sua testa in un reliquiario d'argento. La peste effettivamente cessò (cfr. Paul Guérin, Les Petits Bollandistes - Vie des Saints, Parigi, Bloud et Barral editori, 1876, t. III, p. 230).
La messa è quella del Comune dei Martiri, Me exspectaverunt, di cui le collette, compresa quella dopo la comunione, che è propria, sono identiche a quelle assegnate già alla festa di questo giorno nel sacramentario Gelasiano.
Spesso la Croce ci spaventa, perché consideriamo solamente la sua amarezza, senza tenere conto di questa verità: e cioè quando soffriamo per Gesù Cristo, non siamo tanto noi che soffriamo in quel momento, ma è Gesù che soffre in noi. È così che Felicita, gemente nella sua prigione a causa dei dolori del parto, rispose con dignità ai pagani che le domandavano, schernendola, come farebbe a subire le pene del martirio, se si lamentava per il parto: «Ora sono io che soffro quello che soffro; ma là un altro soffrirà in me, giacché anch’io soffrirò per Lui» («Modo ego patior quod patior: illic autem alius erit in me, qui patietur pro me, quia et ego pro illo passura sum»: Passio, cit., 15, 7, in PL 3, ed. 1844 col. 47A; ed. 1886 col.48A, nonché in Vita, cit., cap. V, Mors S. Secunduli in carcere. Partus S. Felicitatis. Gesta omnium pridie martyrii,§ 16, in Bollandisti,op. cit., p. 635; in Calogero Allegro (a cura di), op. cit., p. 54).


Maestranze ravennate, SS. Anastasia, Giustina, Felicita, Perpetua e Vincenza, mosaico della Processione delle Martiri, VI sec., Basilica di S. Apollinare Nuovo, Ravenna

SS. Perpetua e Felicita, V sec., Cappella arcivescovile, Ravenna

Anonimo, S. Felicita, XIX sec., museo diocesano, Viterbo 

Anonimo, S. Perpetua, XIX sec., Chiesa di S. Cataldo Vescovo, Montenero Sabino


Felix Louis Leullier, Combattimento nell'Arena ovvero Martirio delle SS. Perpetua e Felicita, 1840, collezione privata

Urna marmorea di santa Perpetua, chiesa di Notre-Dame, Vierzon

Alcuni aforismi dal film "God's not Dead"

Il tradimento storico dei “cattolici”

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Nella festa di San Giovanni di Dio, rilancio questo contributo del prof. De Mattei, tradotto in inglese da Rorate caeli. Qualcosa del genere - peraltro - afferma anche Mons. Crepaldi, come ci riporta LNBQ, 22.2.2016.


Corrado Giaquinto, Trionfo di S. Giovanni di Dio, 1740, Museo del Prado, Madrid

Elías Martín Riesco, S. Giovanni di Dio conduce un infermo in braccio, 1864, Museo del Prado, Madrid

Il tradimento storico dei “cattolici”

di Roberto de Mattei

L’approvazione dello pseudo-matrimonio omosessuale, avvenuta al Senato il 25 febbraio 2016, con 173 sì, 71 no e 76 assenze è l’ultima tappa di un processo di dissoluzione della società italiana che parte dall’introduzione del divorzio (1970), passa per la legalizzazione dell’aborto (1978) e ha il suo prossimo, imminente passo, nella legalizzazione dell’eutanasia.
Si comprende bene, in questa prospettiva, l’esultazione della stampa laicista. «Nella lunga e tortuosa storia della liberazione sessuale dell’Italia – scrive Francesco Merlo su La Repubblica del 26 febbraio – questa legge ha lo stesso valore epocale della legge sul divorzio e di quella che regola l’aborto». Ciò che hanno in comune questi tre eventi è il tradimento consumato dagli uomini di governo cattolici. Il divorzio passò sotto un governo di centro-sinistra presieduto dal democristiano Emilio Colombo. L’aborto fu varato da un governo democristiano, presieduto da Giulio Andreotti.
La Democrazia Cristiana è caduta, ma i principali responsabili della nuova legge, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ed il Ministro dell’Interno Angelino Alfano, si definiscono, come Colombo e Andreotti, cattolici praticanti. Se il ministro Alfano avesse minacciato le dimissioni avrebbe reso impossibile, o almeno avrebbe procrastinato, il passaggio della legge, ma il politico siciliano ha preferito comportarsi come Andreotti, che il 21 gennaio 1977 annotava sul suo diario: «Seduta a Montecitorio per il voto sull’aborto. Passa con 310 a favore e 296 contro. Mi sono posto il problema della controfirma a questa legge (lo ha anche Leone per la firma) ma se mi rifiutassi non solo apriremmo una crisi appena (dopo aver?) cominciato a turare le falle, ma oltre a subire la legge sull’aborto la Dc perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave» (Diari 1976-1979. Gli anni della solidarietà, Rizzoli, Milano 1981, pp. 73). La perdita della presidenza di un governo veniva considerata più grave dell’omicidio, per legge, di milioni di innocenti.
Che cosa prevede il provvedimento che prende il nome dalla senatrice Monica Cirinnà? La legge sulle unioni civili, come ha spiegato il giurista Alberto Gambino suLibero del 26 gennaio, è un istituto para-matrimoniale, in cui sono previsti gli stessi diritti e doveri del matrimonio: assistenza morale e materiale, coabitazione, diritti patrimoniali, prerogative in materia di lavoro, previdenza, fisco, assegnazione degli alloggi, persino il nome comune e la comunione di beni.
L’unico diritto matrimoniale che non è riconosciuto è quello dell’adozione, ma la signora Cirinnà ha annunciato che «un disegno di legge sulle adozioni per le coppie omosessuali è quasi pronto. Verrà incardinato alla Camera, dove i numeri sono sicuri, in modo che arriverà al Senato blindato» (Il Fatto quotidiano, 26 febbraio). Se ciò non bastasse, ci penserà l’Europa. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha stabilito infatti che, una volta inserito nell’ordinamento un istituto sostanzialmente uguale al matrimonio, anche se lo si chiama “unione civile”, diventa obbligatorio introdurre le adozioni per evitare discriminazioni.
La legge Cirinnà, divenuta la legge Renzi-Alfano, malgrado lo stralcio delle adozioni omosessuali, è in sé iniqua e inaccettabile, non solo perché introduce uno pseudo-matrimonio gay, ma perché attribuisce diritti agli omosessuali in quanto tali. Secondo la dottrina cattolica, ma prima ancora la legge naturale, l’omosessualità, o sodomia, è un vizio dell’uomo che sovverte i princìpi dell’ordine morale. Ma Angelino Alfano ha dichiarato ad Agorà su Rai3: «Io non ho mai minacciato il governo sul caso delle adozioni per le famiglie omosessuali, farò di tutto per arrivare a un accordo. (…) Sul Ddl Cirinnà voto sì se si tolgono le adozioni per i gay. Io sono a favore dei diritti per le coppie anche omosessuali. Sono assolutamente aperto» (La Repubblica, 5 febbraio 2016).
Ha ragione Merlo dunque quando scrive che «comunque la si guardi, questa legge è dunque una nuova Porta Pia», perché «svaticanizza (ossia decristianizza) l’Italia» (La Repubblica, 26 febbraio 2016). Ma come ignorare le responsabilità delle gerarchie ecclesiastiche in questa decristianizzazione dell’Italia? Il vaticanista Giuseppe Rusconi osserva che «amarezza e rabbia», oltre che verso i politici cattolici, «si indirizzano contro un altro bersaglio: il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, il vescovo Nunzio Galantino» (Rossoporpora, 26 febbraio), esponente di punta di quella “Chiesa in uscita” che «al confronto aperto e anche duro preferisce – in particolare sui temi della famiglia e della vita – un dialogo imprecisato e a oltranza con il potere che si sviluppa tra corridoi e incontri conviviali».
C’è da aggiungere che nessuna parola è venuta da chi ricopre la carica di Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Sotto questo aspetto, la legge approvata in Senato è una pesante sconfitta per tutti i cattolici, compresi coloro che hanno definito “una vittoria” del Family Day, lo stralcio dell’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali (stepchild adoption). È stata proprio questa “vittoria” però a rendere possibile l’accordo Renzi-Alfano, che ha avuto come risultato una colossale disfatta per il mondo cattolico. Una manifestazione di piazza è sempre un messaggio forte che si invia a qualcuno e l’importanza del Family Day sta nel fatto che c’è stato.
Il mondo cattolico in Italia è sempre stato restio a grandi manifestazioni pubbliche perché ha sempre cercato di evitare lo scontro aperto con l’avversario, illudendosi di vincere attraverso il compromesso. Ma la rinuncia alla lotta è il presupposto della sconfitta. Bisogna dunque rallegrarsi per la manifestazione del 30 gennaio, perché ha espresso lo spirito militante di un popolo convenuto con sforzi e sacrifici da tutta Italia per far sentire la sua voce. Ma non bisogna confondere la base del Family Day con i rappresentanti del mondo cattolico.
Non bisogna confondere le intenzioni e i progetti degli organizzatori della manifestazione, con il messaggio forte che è venuto dalla piazza. Il popolo del Family Day è un popolo che ha perduto una battaglia, ma che intende proseguire la guerra. E lo fa anche mobilitandosi, fin da ora, per un referendum integralmente abrogativo della legge che introduce le unioni omosessuali in Italia. Il prossimo appuntamento è a Roma l’8 maggio per la Marcia per la Vita.

Fonte: Corrispondenza romana, 2.3.2016

Una fede battagliera in un aforisma del Beato Bartolo Longo

Mosca, capolavoro di arte liturgica. Mentre noi non riusciamo più a progettare chiese degne di tale nome

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Quando la fede è ancora viva, si offre a Dio il meglio e la bellezza e la stessa arte, che incanta, diventa davvero preghiera, orazione-pratica, anche per chi la realizza, giacché la realizza in ginocchio rendendo così servizio a Dio.
Quando la fede è morta, o prossima a morire, anche l’arte ne risente, diventando decadente, offrendosi a Dio non la parte migliore, ma quella peggiore e la bruttezza; non le primizie, ma l'autocelebrazione cervellotica dell'uomo, della sua superbia e della sua chiusura (o ri-chiusura) all'Eternità, non avendo alcun respiro d'Infinito, in grado di incantare e far pregare.
La Chiesa cattolica latina, per lo più, ormai ha abbandonato l’arte del bello, esaltando la bruttezza, il non-senso ed il vuoto in tutte le sue forme: architettoniche, pittoriche e musicali … . Se questa è stata l'apertura di Paolo VI agli artisti .... ed all'arte, forse era meglio una chiusura.
Per un .... confronto:



chiesa di S. Paolo, Foligno

MOSCA, CAPOLAVORO DI ARTE LITURGICA. MENTRE NOI NON RIUSCIAMO PIÙ A PROGETTARE CHIESE DEGNE DI TALE NOME

È stata consacrata lo scorso 27 dicembre dal patriarca Kirill la nuova chiesa della Protezione della Madre di Dio a sud ovest di Mosca. 
L’idea è nata nel 2001 nel monastero di Optina. Il luogo scelto è stato il distretto di Yasenevo, su una dolce collina, la parte più alta della città, a simboleggiare la presenza vigile della Vergine. 
Il progetto è stato affidato all’archimandrita Melchisidek (Pavel Artyukhin). Ci sono voluti sette anni per acquistare il terreno e ottenere i permessi governativi, dopo di che sono iniziati i lavori. 
Ne suo ricordare il sacrificio dei soldati russi, lungo i secoli, per la difesa di Mosca, la chiesa ha ricevuto numerose donazioni da parte dell’esercito. 
Quello che ne è uscito è un capolavoro di arte liturgica, che vale la pena ammirare più che descrivere.
Qui una carrellata di immagini
Qui la possibilità di compiere una visita virtuale della chiesa
Qui il discorso di Kirill il giorno della consacrazione.

Fonte: Il Timone, 9.3.2016

Altro cardinale. Altro gesto di apostasia ....... in nome dell'indifferentismo religioso e dell'ecumenismo ecologista ed irenista

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Dopo un Ravasi, che ha elogiato la massoneria (v. Mauro Faverzani, Il card. Ravasi e i “Fratelli Massoni”, in Corrispondenza romana, 9.3.2016) e non aveva disdegnato di partecipare a riti in onore di divinità pagane (v. qui), ecco un altro porporato contagiato dal "virus Pacha mama".
Il "cardinale" (si fa per dire) Canizares, un tempo definito il "piccolo Ratzinger" (anche per la sua statura fisica) e secondo molti un "tradizionalista" (tanto da aver celebrato in San Pietro la messa del Pellegrinaggio Summorum Pontificum del 2012!!!), ha inaugurato giorni fa (cioè il 20 gennaio 2016, ma la notizia in Italia non è stata diffusa se non poco tempo fa ....), a Valencia, la “Cattedrale Interreligiosa nella Natura” (Catedral interreligiosa de la Natura), un “progetto religioso ecumenico” in sintonia con la Laudato si .... 
Ci asteniamo da qualsiasi commento - che sarebbe di riprovazione - e ci limitiamo a riportarne la notizia.

Com'era .....

Com'è oggi ....

Com'è oggi ....

Cardenal Cañizares bendice proyecto ecuménico “Catedral de la Natura”, in Aciprensa, 21 Ene. 2016

El cardenal Cañizares bendice la Catedral de la Natura y un monumento dedicado a la Laudato si’, in Zenit, 21 enero 2016

Cañizares inaugura la "Catedral de la Natura". Proyecto interreligioso y ecuménico impulsado por laicos, sacerdotes e inmigrantes subsaharianos, in Periodista Digital, 21 de enero 2016

La Catedral de la Natura de Vallada acoge los primeros domingos de mes oraciones interreligiosas, in www.archivalencia.org, domingo 06 de marzo de 2016

Messa solenne in rito antico presso l'altare di San Gregorio Magno, Basilica di S. Pietro, Roma in occasione della festa del Santo Pontefice e Dottore della Chiesa


Velazione delle immagini per il tempo di passione

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Secondo le prescrizioni del Messale di San Pio V, nella Domenica di Passione, o meglio dopo la Messa del Sabato della IV di Quaresima, si velano di viola tutte le immagini sacre, compreso il Crocifisso (per le origini storiche della velatura, v. Alessandro Scaccianoce, "Velatio" di croci e immagini nelle chiese. Teologia e tradizione di un rito antico, previsto ancora oggi, in MiL, 28.3.2012. Cfr. anche quiqui e qui). 


La Domenica delle Palme – II di Passione – si usa la Croce astile non velata per la processione; il Giovedì Santo le immagini restano velate ma di bianco (sebbene molti lasciavano quello viola apposto nella Domenica di Passione). Il velo è rimosso la notte di Pasqua al canto del Gloria, con un rito molto suggestivo.
Nel Novus Ordo, invece, la velazione è puramente facoltativa e non è, di regola, in viola, sebbene l’ordinamento del messale di papa Montini nulla specifichi circa il colore: «L’uso di velare le croci e le immagini della chiesa può essere osservato, se la Conferenza episcopale lo decide. Le croci rimangono coperte fino alla fine della Celebrazione della Passione del Signore il Venerdì Santo, ma le immagini rimangono coperte fino all’inizio della Veglia pasquale» (v. sul punto padre Edward McNamara, Il colore per la velatura della Croce, in Zenit, 22.3.2013. V. anche qui). In San Pietro, tuttavia, le immagini vengono velate di rosso.
Il Novus Ordo suggerisce che la velazione avvenga la V Domenica di Quaresima, sebbene, secondo il calendario moderno, essa sia ancora tempo di Quaresima e non già – come nel rito tradizionale – tempo di Passione. In effetti, è solo la Domenica delle Palme che è definita “In Passione Domini”, il cui colore liturgico è appunto il rosso. Per cui non è infrequente vedere, nella prassi, che la velatura delle immagini avvenga, sempre nel rito moderno, dopo i vespri della V Domenica di Quaresima.

Nella festa di S. Gregorio Magno - solenne incoronazione di S.S. Pio XII di v.m. - 12 marzo 1939

Riflessione dell'abate Caronti sul tempo quaresimale

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Mentre entriamo nel tempo di Passione, che è il nucleo quaresimale che più ci approssima alla Pasqua del Signore intravedendosi già la Croce del Golgota, un nostro autore e lettore assiduo ci ha mandato questa bella riflessione dell’abate Caronti su questo periodo penitenziale, che volentieri condividiamo su questo blog.

TEMPO DI QUARESIMA

Mater Dolorosa, Iglesia de la Vera Cruz,
Salamanca
Nei primi tempi del cristianesimo nacque un’osservanza preparatoria alla Pasqua, prima ancora dei canoni conciliari: essa però non seguiva dovunque una disciplina uniforme. Mentre da principio ad Alessandria, a Roma e nelle Gallie il digiuno durava un settimana, atre chiese si limitavano a consacrare all’astinenza solo i due ultimi giorni della Settimana Santa. Nel secolo III Roma prolunga già i suoi digiuni per tre settimane. È il Concilio di Nicea che stabilisce il numero di quaranta giorni, senza dubbio mosso dall’esempio del Salvatore che digiunò quaranta giorni nel deserto. Da questo tempo, i Padri non fanno che inculcarne l’osservanza, determinarne i riti, spiegarne i motivi e i vantaggi, così che sino ai secoli a noi vicini la santa Quaresima era il perno della disciplina cattolica, la Tregua di Dio, in cui tutta la società cristiana, messo da parte ogni altro negozio, chiusi i tribunali e i luoghi di divertimento, colla penitenza e coll’istruzione liturgica si rifaceva a nuovo, accumulando novelle energie per risorgere a vita divina col Cristo risorto e trionfante.
La primissima idea d’un tempo di preparazione alla Pasqua sembra essere sorta a riguardo specialmente dei catecumeni, che, col digiuno e colla preghiera, si preparavano a ricevere il battesimo alla notte che precedeva la Pasqua. Questo concetto del Baptismus poenitentiaeinforma ancora oggi tutta la liturgia quaresimale, ed è un elemento importante per comprendere la ricca fioritura di testi e di riti che in essa ricorrono. È un concetto dogmatico di prim’ordine: il battesimo della penitenza negli adulti, o, come lo chiama il Concilio di Trento, le disposizioni alla giustificazione, devono preparare il cuore a ricevere la grazia che conferisce il battesimo nell’acqua e nello Spirito Santo.
Un altro elemento che integra la concezione liturgica della Quaresima è la riconciliazione dei pubblici penitenti. Nel disegno dell’antichità cristiana la Pasqua segnava il risorgimento completo di tutti. Neppure quelli che avevano avuto la disgrazia di perdere la stola immacolata del battesimo erano esclusi dalla gioia comunè, a patto però che con una riparazione salutare fossero ritornati degni delle compiacenze divine. La penitenza, i digiuni, le umiliazioni e le moltiplicate preghiere della Quaresima fornivano loro l’occasione per disporsi a questa riabilitazione che avveniva con un rito solenne il giovedì santo.
A Roma la liturgia quaresimale ebbe un ordinamento organico sopra tutto per opera di S. Gregorio Magno. Noi ne ricorderemo le caratteristiche principali.
Non era lecito prendere cibo prima del tramonto del sole. Durante il giorno clero e popolo attendevano alle consuete occupazioni, ma verso l’ora di nona, da ogni parte della città era tre accorrere di fedeli verso la chiesa stazionale, così chiamata con vocabolo militare (Statio = adunata) perché indicava il luogo di convegno. Ordinariamente, l’adunata non si faceva proprio nella chiesa stazionale ma in un’altra basilica vicina ove si attendeva l’arrivo del Sommo Pontefice e degli altri ufficiali del palazzo lateranense, recanti i vessilli e le suppellettili preziose pel divin Sacrificio. Al canto devoto della Litania, il corteo moveva verso la chiesa stazionale ove si celebravano i santi misteri, che terminavano quando il sole volgeva al tramonto. Prima di sciogliere l’adunanza un suddiacono annunziava il luogo di convegno per l’indomani. Bellissima consuetudine certamente: era un’offerta vespertina di tutta la famiglia cristiana, al termine di una giornata operosa, santificata dalla preghiera e dalla mortificazione. Le sante gioie pasquali, al loro sopraggiungere, avevano così un significato pieno e profondo: i fedeli si erano preparati a vivere una vita tutta santa, che nella risurrezione di Cristo riceveva la sua perfezione, la sua corona.
Le generazioni contemporanee non comprendono più queste sublimi esigenze dello spirito cristiano, che dopo il naufragio del peccato, vuole, colla mortificazione del senso, concorrere coll’azione di Dio nel mistero della propria riabilitazione. Ma per i fedeli la liturgia quaresimale non ha perduto il carattere della sua viva attualità. Le anime che sono fuori della Chiesa attendono l’ora della misericordia, ed è nostro dovere anticipare colle nostre preghiere la loro conversione; le anime che vivono nell’indifferenza, nell’ignoranza e nel dubbio hanno bisogno di luce per raccogliere preziosamente gli avanzi della loro fede e della loro speranza, ed è loro dovere andare alla scuola della Chiesa, aperta durante la Quaresima, per ravvivare la loro credenza; le anime che hanno vergognosamente tradito i diritti della loro coscienza e che conservano ancora il desiderio della vita immortale, hanno Il dovete di entrare nel bagno salutare della penitenza, del digiuno, della mortificazione, per ritrovare la via perduta.
Per passare santamente la Quaresima secondo lo spirito della Chiesa i cristiani dunque devono: 1° attendere più dell’ordinario all’orazione e alle altre opere di pietà; 2° udire la parola di Dio che viene ogni giorno proposta; 3° frequentare spesso i santi sacramenti; 4° osservare il digiuno e sopra tutto mortificare le passioni.

(Abate Don Emanuele Caronti O.S.B., Messale festivo per i fedeli, edizioni L.I.C.E., Torino 1923, pp. 166-168)

Un paio di cose che non si dicono mai di Giordano Bruno, il mago

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Un interessante contributo per comprendere la figura oscura e sulfurea del XVI sec. di Giordano Bruno, che già la Chiesa aveva avuto modo di stigmatizzare con il magistero di Leone XIII nell’allocuzione Amplissimum collegiumdel 24 maggio 1889 e nell’enciclica Quod nuper del 30 giugno 1889, nel quale papa Pecci lo definiva «doppiamente apostata, convinto eretico».

Un paio di cose che non si dicono mai
di Giordano Bruno, il mago

di Giovanna Jacob

Osannato dalla pubblicistica laicista, fu occultista, misogino e antisemita. Ma oggi è esaltato per un’unica ragione: era contro la Chiesa cattolica


Caro direttore, sul numero di Repubblica dell’8 marzo 2016, oltre agli inevitabili e scontati articoli sul quanto mai generico tema “donna”, troviamo un lungo articolo su Giordano Bruno firmato da Corrado Augias (“Revival Bruno martire del pensiero”). C’è forse qualche legame fra il vecchio eretico cinquecentesco, cui i massoni dedicarono una statua in campo de’ Fiori a Roma, e il tema dei diritti delle donne? Più che altro, io credo che ci sia un legame di causa effetto fra la propaganda anti-cattolica, che esalta gente come Giordano Bruno, e il progressivo peggioramento della condizione della donna in Occidente. Mentre i giornali della sinistra al caviale rilanciano ininterrottamente tutte le leggende nere contro la Chiesa inventate dagli illuministi, le libere donne occidentali, in aree sempre più vaste d’Europa, cominciano ad avere paura ad uscire di casa. Infatti le strade sono piene di portatori di belle-culture-altre secondo cui le donne sono solo oggetti o meglio bestiame di proprietà degli uomini. Se perdiamo un gioiello in una strada affollata, sappiamo che non lo troveremo mai più: qualcuno lo avrà sicuramente trovato e se ne sarà sicuramente appropriato senza rischiare una denuncia per furto. Analogamente i portatori di belle-culture-altre pensano che, se trovano per strada una donna “incustodita”, possono approfittarsi di lei senza rischiare conseguenze legali (non sfugga che la polizia tedesca ha ammesso che non riuscirà mai ad identificare e punire gli autori degli stupri di Capodanno).
Le donne sono soggetti, non oggetti di proprietà, solo all’interno dell’Occidente. Storicamente, le donne hanno cominciato ad essere persone solo nel momento in cui quell’uomo in Palestina si fermò a parlare con una donna, irritando i suoi discepoli: «Si meravigliavano che stesse a parlare con una donna». Di sua madre si dice che è “Madre di Dio”, della sua Chiesa si dice che è sua “Sposa”. Da Cristo e dalla sua Sposa nacque la civiltà occidentale, che si è radicata in Europa, in America e da qualche altra parte. Ma poco più di due secoli fa, gli intellettuali occidentali hanno cominciato a calunniare la madre dell’Occidente, la loro madre. I libri di storia descrivono i cristiani dei secoli passati come un branco di ignoranti superstiziosi assetati di sangue (mentre descrivono i musulmani dei secoli passati come dei tolleranti e pacifici cultori della scienza e delle arti). Convinta che il cristianesimo sia dunque una religione orribile, la gente finisce per credere che qualunque altra religione debba per forza essere migliore di quella cristiana. E così permettono ai portatori di belle-religioni-altre e belle-culture-altre che degradano la donna ad oggetto (per tacere d’altro) di invadere l’Occidente senza colpo ferire.
Riepilogando, non si può esaltare l’emancipazione della donna ed allo stesso tempo esaltare Giordano Bruno ossia denigrare la Chiesa. Oltretutto, nel suo lungo articolo Corrado Augias avrebbe potuto anche riferire, tanto per restare in tema con l’8 marzo, che il vecchio eretico riteneva che le donne fossero delle creature inferiori, idiote e ripugnanti (e tuttavia il brav’uomo, che si era pure fatto domenicano e sacerdote, non disdegnava di prendersi piacere, con e senza compenso, con quante più idiote ripugnanti possibili). Dopo averci spiegato che in un’opera (De l’infinito universo e mondi) Bruno ipotizza che nell’universo ci siano innumerevoli pianeti come il nostro, Augias avrebbe potuto anche fare presente, per completezza, che in un’altra opera (De Vinculis) Bruno descrive una serie di pratiche magiche, da lui personalmente testate, che permetterebbero di piegare le persone alla propria volontà: «Ritmi e canti che racchiudono efficacia grandissima, vincoli magici che si realizzano con un sussurro segreto…»
Convinto di avere i poteri necessari per dominare le forze della natura, Bruno propagandava una religione magico-pagana di sua invenzione… Ma insomma, Augias e i quaranta autori dello studio di cui parla nel suo articolo (Giordano Bruno. Parole, concetti e immagini, Edizioni della Normale di Pisa) sono davvero sicuri che Bruno fosse quel precursore del moderno pensiero scientifico di cui ci parlano? Anche fingendo di ignorare le sue formule magiche, la tesi esposta in De l’infinito universo e mondi non è che sia poi tanto in linea con le scoperte della scienza moderna. Se Bruno credeva che l’universo avesse una estensione infinita e una durata infinita, invece la scienza moderna ha dimostrato che l’universo ha avuto un inizio (il Big Bang), avrà una fine ed ha pure una estensione precisa. Se la tesi dell’infinità e dell’eternità dell’universo (che peraltro Bruno prende da Averroè) esclude la creazione divina, invece il Big Bang, se non lo esclude, perlomeno mette in difficoltà l’ateismo sistematico.
E sono sicuri Augias e gli altri quaranta, come i ladroni, che Bruno non piaceva agli inquisitori perché era troppo avanti per i suoi tempi? Mah. Per farla breve, nel 1591 Bruno soggiornava a casa del nobile Mocenigo, a Venezia. Quando si accorse che quello strano domenicano esercitava oscure pratiche magiche in casa sua (e forse se la faceva pure con sua moglie), Mocenigo consegnò Bruno all’inquisizione di Venezia, che a sua volta lo consegnò all’inquisizione di Roma (il Sant’Uffizio), che lo mise subito sul banco degli imputati. Presieduto da Bellarmino, il processo a Bruno durò quasi dieci anni. Gli inquisitori erano dell’idea che, una volta terminato il processo, sarebbe bastato rinchiudere l’ex domenicano in un qualche sperduto convento domenicano per renderlo inoffensivo e indurlo al ravvedimento. Ma quando un compagno di cella del Bruno riferì loro qualche oscuro segreto che gli era stato confidato dal mago stesso, Bruno fu consegnato precipitosamente al “braccio secolare” (la giustizia civile), che gli inflisse la pena del fuoco.
Non sappiamo di quali sconvolgenti segreti fosse a conoscenza il compagno di cella di Bruno. Quello che sappiamo è che Bruno fantasticava da tempo di soggiogare il Papa con le sue formule magiche, prenderne il posto e sostituire la religione cristiana con la sua religione magico-pagana in tutti i territori della Chiesa. In effetti, egli faticava a nascondere il suo odio per Cristo (cui rivolgeva continuamente terribili bestemmie), per i cristiani e pure per gli ebrei (che in un’opera chiama «escrementi d’Egitto»). Probabilmente gli inquisitori pensavano che, se fosse stato lasciato libero di propagandare la sua strana religione, Bruno avrebbe potuto anche trovare dei seguaci e, con loro, svolgere delle attività sovversive contro la Chiesa. In un’epoca in cui i cattolici e i protestanti se la davano di santa ragione in tutta Europa, la priorità degli inquisitori era di spegnere tutti i focolai di nuove, possibili guerre di religione.
Bruno appariva particolarmente pericoloso agli inquisitori soprattutto perché aveva avuto dei contatti con Elisabetta d’Inghilterra, una tiranna spietata che nel suo regno aveva messo la fede cattolica fuori legge e perseguitava quanti volevano rimanere fedeli al Papa. Si dice che, se ne avesse avuto la possibilità, non avrebbe esitato ad organizzare una spedizione militare contro Roma.
Augias ovviamente evita di menzionare uno dei più importanti studi su Bruno apparsi negli ultimi decenni: Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata (Garzanti nel 1991) di John Bossy, grande storico britannico recentemente scomparso. Sbarcato a Londra il 7 aprile del 1583, il mago italiano riuscì ad entrare rapidamente nelle grazie della regina Elisabetta, grande appassionata di magia e di occultismo. Il 20 aprile del 1583 Sir Francis Walshingham, capo dei servizi segreti di sua maestà britannica, ricevette la prima di una serie di informative provenienti dalla casa dell’ambasciatore francese De Castelnau, che aiutava di nascosto alcuni cattolici inglesi a svolgere attività contro la regina. Guarda caso, calligrafia del misterioso autore delle informative appare identica alla calligrafia del Bruno. E guarda caso Bruno in quella casa svolgeva attività di sacerdote e confessore. Probabilmente, i dissidenti cattolici che bazzicavano per l’ambasciata si lasciavano sfuggire molti dettagli sulle loro attività sovversive nel confessionale, dove ad ascoltarli e prendere nota c’era un traditore. Dunque Bruno, prima di essere lui stesso tradito dal compagno di cella, aveva tradito molte persone, violando il segreto del confessionale. Per effetto delle delazioni del Bruno, il cattolico Francis Trockmorton fu arrestato, atrocemente torturato e condannato a morte, mentre e lo stesso ambasciatore De Castelnau fu espulso dall’Inghilterra e finì in rovina. Oltretutto, girava voce che in gioventù Bruno avesse commesso un omicidio. C’era proprio bisogno di innalzare un monumento ad un simile individuo, pace all’anima sua?
Se la poco edificante storia di Giordano Bruno ci insegna qualcosa, è che per avere buone possibilità di essere esaltati sui libri di storia non è necessario dare contributi fondamentali al progresso dell’umanità: basta essere contro la Chiesa. Dal momento che la Chiesa è madre della civiltà occidentale (tutti i valori occidentali coincidono con i valori cristiani), l’odio verso la Chiesa finisce per distruggere negli occidentali la volontà di difendere la loro civiltà dalla barbarie. A scuola ci insegnano che il cristianesimo è una religione maschilista e intanto le strade si riempiono molestatori e violentatori che professano un’altra religione. A scuola insegnano che i crociati erano dei criminali e intanto i tagliagole si avvicinano a Roma. Per questo bisogna combattere con ogni mezzo le leggende nere contro la Chiesa.
Il problema è che i cattolici non solo non combattono contro le leggende nere ma le credono vere. D’altra parte, sono intimoriti dalla continue richieste di scuse avanzate dagli anticattolici: “Dovete chiedere scusa, ve lo ordina il Papa!”. Ai pochi cattolici che smettono di chiedere scusa e cercano di dimostrare che non c’è molto di cui chiedere scusa, dicono: “Stai disobbedendo al Papa, stai peccando di orgoglio!” In realtà, chiedendo pubblicamente scusa per gli errori commessi dai cattolici nel corso della storia, papa Giovanni Paolo II non intendeva confermare le leggende nere contro la Chiesa, al contrario: invitava le persone a rendersi conto che i meriti della Chiesa sono molto più numerosi delle colpe dei singoli cattolici.
I cattolici devono capire che combattere contro le leggende nere non significa difendere il proprio orgoglio, ma salvare la verità. Continuare a chiedere scusa e a porgere l’altra guancia non è umiltà: è connivenza con le menzogne che tengono la gente lontana dalla fede. “Se la Chiesa ha compiuto tutti questi crimini”, pensa infatti la maggior parte della gente, “allora la Chiesa non può essere divina”. “Se il cristianesimo è tanto oscurantista”, pensa, “allora l’islam non può che essere migliore”.
Infine, le leggende nere allontanano i cattolici stessi dalla Chiesa. Convinti che, nei secoli passati, i cattolici non abbiano fatto altro che commettere crimini contro l’umanità, i cattolici di oggi distinguono fra Chiesa del presente e Chiesa del passato e chiedono alla prima di ripudiare la seconda, come se la prima e la seconda non fossero una. E cominciano a sognare una Chiesa senza passato, senza storia, senza cultura, senza tradizione, senza autorità, senza gerarchia che si tiene rigorosamente alla larga dal “fango” della politica, dell’economia e della storia. In sostanza, sognano una Chiesa senza corpo. Ma la Chiesa deve prendere corpo e camminare sulle fangose strade della storia umana. Cristo si è infatti incarnato e l’ha presa in sposa.

Fonte: Tempi, 13.3.2016

Viaggio alla scoperta dei riti della Settimana Santa in Puglia - Mercoledì santo 23.3.2016 in Conversano

In onore di S. Patrizio, vescovo, confessore ed illuminatore dell'Irlanda

San Giuseppe patrono della Chiesa

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Nell’approssimarci della festa di S. Giuseppe, rilancio volentieri quest’articolo di Cristina Siccardi.

San Giuseppe patrono della Chiesa

di Cristina Siccardi

San Giuseppe, che si festeggerà il 19 marzo, è il modello di padre ideale ed il Patrono della Chiesa. I Vangeli non riportano alcuna sua parola, tuttavia il suo ruolo è essenziale e non soltanto perché prese su di sé le responsabilità della Sacra Famiglia, provvedendo al sostentamento e alla difesa dei suoi membri, ma è essenziale anche per ciò che San Giuseppe rappresenta. I prologhi di San Matteo e di San Luca, comunemente chiamati «Vangeli dell’infanzia» hanno prima di tutto una portata dottrinale. Quello di Luca è costruito intorno a Maria Santissima e quello di Matteo intorno a San Giuseppe.
Nell’annunciazione a Maria Vergine è scritto che la fanciulla era «promessa sposa di un uomo chiamato Giuseppe, della famiglia di David» (Lc 1, 27). Ancor prima di presentare la genealogia di Gesù all’inizio del suo ministero, Luca afferma l’ascendenza davidica di colui che darà un padre e una famiglia al Figlio di Dio. Matteo si preoccupa di presentare l’origine divina e umana di Gesù, concepito in Maria Vergine grazie allo Spirito Santo.
Conformemente al diritto giudaico è attraverso suo padre che Gesù appartiene ad una stirpe e precisamente quella davidica. Anche se la Madonna fosse stata una discendente di David – fatto che i Vangeli non riportano – Gesù non sarebbe appartenuto a quella stirpe ed è per questa ragione che l’Angelo lo chiamò solennemente «Giuseppe, figlio di David!». La grandezza di Giuseppe, «uomo giusto», occupa lo spazio dei patriarchi e dei legittimi antenati del Messia: «Ultimo anello della catena e che sembra spezzarla, egli è in realtà colui che la riallaccia molto più profondamente, non più sul piano della sola discendenza carnale, ma su quello della fede» (J. Perron, Au fil de l’Evangile, Parigi 1980, p. 28).
Gesù risponde quindi all’attesa secolare d’Israele perché il Messia doveva essere «figlio di David», di una stirpe maestosa e messianica. Ma la genealogica di Luca risale più lontano ancora, fino alla prima origine: Gesù è «figlio di Adamo, figlio di Dio» (Lc 3, 28). È sì carpentiere e insegna il suo mestiere al Figlio divino, ma nel suo sangue scorre sangue regale. Gesù nasce sì in una mangiatoia, perché nessuno degli uomini è disposto a dare una degna dimora al suo arrivo nel mondo, ma Egli, oltre ad essere Figlio di Dio, ha un padre adottivo che discende da un Re.
È interessante constatare che non si trova nessuna menzione del culto a San Giuseppe nei calendari liturgici o nei martirologi prima del IX secolo in Occidente e del X in Oriente, anche se, fin dal VII secolo, si visitava la sua tomba a Gerusalemme, nella valle di Giosafat. In Occidente il culto appare nell’XI secolo: un oratorio gli viene dedicato presso la cattedrale di Parma nel 1074, mentre una chiesa viene costruita in suo onore a Bologna nel 1129. Nel 1140 diventa patrono secondario della chiesa dell’abbazia benedettina inglese di Alcester (Warwick). Nel 1254, il signore di Jonville, di ritorno dalla crociata, fa erigere una cappella nella chiesa di San Lorenzo a Jonville-sur-Marne e vi pone una reliquia di San Giuseppe. La devozione si diffonderà proprio grazie alle reliquie portate dalla Palestina: anelli, bastoni, cinture, mantelli appartenuti al Santo e dislocati un po’ in Italia, un po’ in Francia.
Nonostante la devozione privata da parte di molti fedeli, il culto pubblico inizia timidamente soltanto nel XIV secolo con gli ordini mendicanti: i serviti presero a festeggiare San Giuseppe il 19 marzo. E da questo secolo vengono poste sotto il suo patronato cappelle, chiese, associazioni, fondazioni. Mentre nessuno dei grandi predicatori dei primi secoli prese San Giuseppe come tema omiletico, nel XV secolo si prese a predicare molto su di lui. In Francia, nel 1414, si inizia a celebrare la festa del «fidanzamento di San Giuseppe», che sarà autorizzata anche nell’Impero e in Spagna alla fine del XVII secolo. Nella seconda metà del XIV secolo si divulga la festa del 19 marzo. Santa Teresa d’Avila propagherà con grande ardore la devozione verso San Giuseppe, consacrandogli la maggior parte delle sue fondazioni. Nel 1621 papa Gregorio XV fa del 19 marzo una festa di precetto.
Nel 1638, per la prima volta, viene fondata a Bordeaux una congregazione di Suore di San Giuseppe. Diversi sovrani pongono i loro territori sotto la sua protezione: Ferdinando III di Boemia (1655); Leopoldo I del Sacro Romano Impero (1675); Carlo II di Spagna (1679).
Nel XVIII secolo la devozione a San Giuseppe regredisce per conoscere una ripresa nel secolo successivo: nascono centri di pellegrinaggio, molte congregazioni religiose lo prendono per patrono, si fondano riviste per diffonderne il culto e, allo stesso tempo, prendono vita nuove pratiche religiose in suo onore.
Si giunge così all’8 dicembre 1870, festa dell’Immacolata, quando il Beato Pio IX, su richiesta del Concilio Vaticano I, proclama San Giuseppe patrono della Chiesa cattolica. Recita il decreto su colui che più vicino è ai moribondi e colui che viene definito nelle litanie «Terror dæmonum»: «Nella stessa maniera che Dio aveva costituito quel Giuseppe, procreato dal patriarca Giacobbe, soprintendente a tutta la terra d’Egitto, per serbare i frumenti al popolo, così, imminendo la pienezza dei tempi, essendo per mandare sulla terra il suo Figlio Unigenito Salvatore del mondo, scelse un altro Giuseppe, di cui quello era figura, e lo fece Signore e Principe della casa e possessione sua e lo elesse Custode dei precipui suoi tesori.
Di fatto, egli ebbe in sua sposa l’Immacolata Vergine Maria, dalla quale nacque di Spirito Santo il Signor Nostro Gesù Cristo che presso gli uomini degnossi di essere riputato figlio di Giuseppe, e gli fu soggetto. E Quegli, che tanti re e profeti bramarono vedere, Giuseppe non solo Lo vide, ma con Lui ha dimorato e con paterno affetto L’ha abbracciato e baciato; e per di più ha nutrito accuratissimamente Colui che il popolo fedele avrebbe mangiato come pane disceso dal cielo, per conseguire la vita eterna. Per questa sublime dignità, che Dio conferì a questo fedelissimo suo Servo, la Chiesa ebbe sempre in sommo onore e lodi il Beatissimo Giuseppe, dopo la Vergine Madre di Dio, sua sposa, e il suo intervento implorò nei momenti difficili. Ora, poiché in questi tempi tristissimi la stessa Chiesa, da ogni parte attaccata da nemici, è talmente oppressa dai più gravi mali, che uomini empi pensarono avere finalmente le porte dell’inferno prevalso contro di lei, perciò i Venerabili Eccellentissimi Vescovi dell’universo Orbe Cattolico inoltrarono al Sommo Pontefice le loro suppliche e quelle dei fedeli alla loro cura commessi chiedendo che si degnasse di costituire San Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica».
Il 7 Luglio 1871 il Decreto Inclytum Patriarcam riconobbe a San Giuseppe il diritto ad un culto superiore a quello degli altri Santi, compreso San Pietro. Con allocuzione del 28 marzo 1878 Pio IX pose il Pontificato sotto la protezione di San Leone XIII, nell’Enciclica Quamquam Pluries del 15 Agosto 1889, per la festa dell’Assunta, espose la dottrina su San Giuseppe e lo propose modello e avvocato di tutte le famiglie cristiane: «Giuseppe fu il custode, l’amministratore e il difensore legittimo e naturale della divina famiglia».
Mentre la teologia sulla Madonna, la Mariologia, ha avuto ampi sviluppi nel corso dei secoli, non così la teologia su San Giuseppe, la Giosefologia. Invece di soffermarsi sul deleterio ecumenismo, sarebbe molto più gradito a Dio e molto più vantaggioso per tutti, pregare, riflettere e studiare il Patrono della Chiesa, nonché il modello e l’avvocato delle famiglie, molte delle quali cristiane non sono più, ma con un suo intervento potrebbero ritornare ad esserlo. Joseph justissime, castissime, prudentissime, fortissime, domesticæ vitæ decus… ora pro nobis.

Fonte: Corrispondenza romana, 16.3.2016

Immagine per meditare e .... non dimenticare

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Per non dimenticare .... la fede cattolica in Irlanda perseguitata dagli eretici inglesi ... obbligava alla messa clandestina



Aloysius O'Kelly, Mass in a Connemara Cabin, 1883-84, National Gallery, Dublin

In onore dei Sette Dolori della Beatissima Vergine Maria

Circa il divieto per i cristiani di partecipare attivamente a "cene pasquali ebraiche"

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Con l’approssimarsi della Pasqua, è sempre più diffuso, in molte parrocchie “cattoliche”, l’uso di far precedere i giorni della celebrazione della Passione, Morte e Resurrezione di N. S. Gesù Cristo dalla celebrazione della Pesachebraica. Sovente, a questo rito, che, talora, al massimo del sacrilegio, si svolge nello stesso edificio sacro, sono invitati gruppi numerosi di ignari fedeli. Tale celebrazione è giustificata, a dire dei “pastori”, dall’asserita necessità di “comprendere il contesto nel quale Gesù ha inaugurato la nuova Pasqua”.
Nulla di più falso e certamente dannoso per la salvezza delle anime. Se la necessità, invero, fosse quella di far comprendere il “contesto”, sarebbe a ciò sufficiente - e forse più opportuna e meno spiritualmente dannosa - la visione di un semplice documentario. Viceversa, il fatto di rivivere personalmente ed attivamente, da parte di cattolici, la cena ebraica pasquale, scandita com’è da una precisa ritualità, da parole e da simboli ben determinati, costituisce un indubbio atto di apostasia dalla fede cristiana, giacché, come abbiamo ricordato l’anno passato nello studio che qui rievochiamo (v. qui e qui), nel quale abbiamo richiamato la dottrina del Dottore Angelico e dei sacri canoni dei Concili della Chiesa, i riti – tutti i riti! – ebraici, nati com’erano nella prospettiva e nell’attesa della venuta del Messia, vero Agnello, una volta giunto, hanno perso senso e significato, essendo morti, divenendo perciò, qualora fossero celebrati ancora dai cristiani, mortiferi, cioè arrecanti l’eterna dannazione. Per cui, è gravemente dannoso, da un punto di vista spirituale, per la salvezza delle anime, sotto le mentite spoglie della comprensione del contesto dell’ultima Cena, far vivere la cena ebraica, giacché, per un cattolico, esiste un’unica cena: quella alla Mensa Eucaristica durante la celebrazione della Santa Messa. Questo è l’unico banchetto in memoria del Signore. Egli, infatti, non dice di ripetere la cena ebraica, ma solo la Cena Eucaristica: «HOC facite in meam commemorationem», «fate QUESTO in mia memoria».
La partecipazione attiva ad cene “sacre” costituisce, perciò, un gravissimo peccato mortale, in quanto atto di apostasia, manifestando – pure esteriormente – la fede in un cristo ancora venturo ed il rinnegamento del Cristo venuto.

“In episcopátu injúrias multas et calamitátes, non secus ac beátus Athanásius, cui coævus erat, ab Arianórum factiónibus fídei causa perpéssus fuit. Hi enim ægre feréntes Cyríllum veheménter hærésibus obsístere, ipsum calúmniis aggrediúntur, et in conciliábulo depósitum e sua Sede detúrbant. Quorum furóri ut se subtráheret, Tarsum Cilíciæ aufúgit, et quoad vixit Constántius, exsílii rigórem pértulit. Post illíus mortem, Juliáno Apóstata ad impérium evécto, Hierosólymam redíre pótuit, ubi ardénti zelo gregi suo ab erróribus et a vítiis revocándo óperam navávit” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI CYRILLI EPISCOPI HIEROSOLYMITANI CONFESSORIS ET ECCLÉSIÆ DOCTORIS

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L’inizio dell’episcopato di questo Pontefice (+ 386?) fu segnato da Dio dal prodigio di una croce luminosa apparsa nel cielo di tutta Gerusalemme il 7 maggio 351. È lo stesso Santo vescovo, nella sua lettera all’imperatore Costanzo, a descriverci l’evento di cui fu testimone con i propri occhi: «Nam in his sanctis sanctae Pentecostes [seu post paschalis temporis] diebus, Nonis Maiis [7], circoter horam tertiam, crux permagna e luce constructa, in coelo super sanctum Golgotham et usque ad sanctum Olivarum montem expansa apparuit: non uni et alteri tantum conspecta, sed universae civitatis multitudini evidentissime ostensa. Neque, ut aliquis forte putaverit, celeriter in imagine praetervolavit; sed compluribus horis desuper terram oculorum visu conspecta est, solares radios coruscantibus fulgoribus exsuperans; alioqui illis oppressa infuscataque latuisset, nisi ipso sole valentiores conspicientium oculis emisisset fulgores. Ita ut universa civitatis multitudo illico in sanctam Ecclesiam confertim accurreret, immissae a Deo visionis metu cum laetitia conjuncto perculsa; juvenum simul ac seniorum turba, virorum ac mulierum, aetatisque omnis, ad ipsas usque in thalamis per domos reclusas puellas; indigenarum una atque exterorum; Christianorum ac Gentilium ex diversis partibus huc adventantium. Qui omnes unanimiter velut ex ore uno Christum Jesum Dominum nostrum, Filium Dei unigenitum, mirabilium effectorem laudibus celebrabant: re ipsa et experientia cognoscentes, Christianorum piissimum dogma, non in persuasoriis sapientiae verbis. sed in demonstratione Spiritus ac potentiae consistere: non ab hominibus solum adnuntiatum, sed e coelis Dei ipsius testimonio comprobatum»; «Nel periodo che precede il giorno della santa Pentecoste [che in quell’anno cadde il 19 maggio, ndr.], cioè nel periodo dopo Pasqua, alle none [ovvero il 7] di maggio, verso l’ora terza [ovvero le nove del mattino], un vasto corpo luminoso, in forma di croce, è apparso nel cielo, proprio sopra il Santo Golgota, giungendo fino al Santo Monte degli Ulivi [cioè, per quasi due miglia di lunghezza], visto non da una o due persone, ma in modo chiaro ed evidente da tutta la città. Ciò non è stato, come si potrebbe pensare, un fenomeno transitorio momentaneo: perché è continuato diverse ore visibile ai nostri occhi, e più splendente del sole, alla luce del quale si sarebbe eclissato, se questo non fosse stato più forte. L’intera città, colpita da un timore reverenziale temprato con gioia, corse subito alla Chiesa, giovani e vecchi, cristiani e pagani, cittadini e stranieri, tutti con una sola voce per lodare il Signore nostro Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio, l’operatore dei miracoli, confermando attraverso l’esperienza la verità della dottrina cristiana, che non consiste in discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza (1 Cor. 2, 4) né si fonda sul solo annuncio umano, ma a cui i cieli stessi di Dio danno testimonianza (cfr. Ebr. 2, 3-4)» (San Cirillo di Gerusalemme, Epistola ad Constantium piissimum imperatorem. De signo lucidae crucis Hierosolymis viso, quod in caelis apparuit, PG 33, 1165-1176, partic. 1169A-1170C).
Il nostro Santo conclude la sua lettera con l’augurio che l’imperatore possa sempre glorificare la santa e consustanziale Trinità.
Gli storici del tempo, ortodossi e non ortodossi, tra cui Sozomeno, Teofane, Eutichio, Giovanni di Nicea, Glycas, e altri citano san Cirillo riguardo a questo evento. Altri, come Socrate, Filostorgio, e l’anonima Cronaca di Alessandria danno un proprio racconto di questo fenomeno. Questo miracolo – che, in verità potrebbe, secondo taluni, descriversi come un fenomeno, sebbene molto raro, ma perfettamente naturale, conosciuto sotto il nome di “croce parelica”, descritto come un fenomeno ottico (cfr. Bertrand Cornet, La Fête de la Croix du 3 mai, in Revue belge de philologie et d’histoire, 1952, pp. 837-848, partic. p. 840, nt. 2) – fu considerato dai cristiani del tempo come la vittoria finale dell’Ortodossia cattolica sull’Arianesimo. Filostorgio e la Cronaca di Alessandria affermano che questa Croce di luce era circondata da un “grande arcobaleno”.
Ancora oggi gli orientali celebrano l’evento al 7 maggio, facendo Commemorazione del Segno della preziosa Croce che apparve nel cielo sopra Gerusalemme. La liturgia orientale, in effetti, nel Tropario canta: «Ha brillato in questo momento più luminosa del sole l’immagine della tua Croce, che hai estesa dal Santo Monte degli Ulivi al Calvario, e mostrando chiaramente la Tua forza che è in essa, o Salvatore, hai anche rafforzato in tal modo i fedeli» e nel Kontakion: «Facendo brillare i suoi raggi sopra il cielo, l’immacolata Croce è apparsa sulla terra, luminosa con splendore, per essa è stato aperto il Cielo, che un tempo era chiuso. Accordato il fulgore della sua opera divina, siamo con certezza guidati allo splendore senza tramonto. Nelle battaglie l’abbiamo quale vera arma della pace e trofeo invincibile».
La festa di san Cirillo, il quale era morto il 18 aprile 387, fu istituita nel 1882 da Leone XIII; essa è in relazione con l’opera di questo Pontefice per favorire il ritorno delle Chiese orientali all’unità della Comunione cattolica.
La messa è quella del Comune dei Dottori, come il 29 gennaio, salvo le seguenti particolarità: la prima colletta contiene un’allusione delicata all’opera dottrinale di Cirillo, che fu l’energico campione della divinità del Verbo contro gli Ariani. Per questo motivo, sotto gli imperatori Costanzo e Valente, il nostro Santo fu deposto dalla sua sede e costretto tre volte a condurre una vita difficile di esilio, che gli valse il merito e la gloria di confessore della fede.
La lezione dell’Epistola è tolta dall’Ecclesiastico (Sir. 39, 6-14), e si trova alla fine della Messa del Comune dei Dottori.
Il Vangelo, che noi ritroviamo per la festa di sant’Atanasio, si rapporta alle persecuzioni ed all’esilio inflitti a Cirillo dagli Ariani. Il Salvatore non vuole che gli Apostoli si espongano temerariamente alla morte o che esercitino un ministero inutile presso quelli che non hanno cura della loro opera.
Egli ordinò, dunque, ai suoi discepoli (Mt. 10, 23-28) perseguitati in una città di recarsi in un’altra, affinché la parola evangelica si diffonda e tutto il mondo possa veder brillare la fiaccola della Parola divina ricevendone la salvezza. Gli Apostoli, Paolo soprattutto, eseguirono esattamente quest’ordine che aveva loro dato il Salvatore e, rigettati dai Giudei, si portarono verso i Gentili del mondo greco-romano in seno del quale si reclutò di preferenza la Chiesa primitiva.
Il grande fuggitivo del IV sec., sant’Atanasio, alla persecuzione del quale, come dice la liturgia, aveva cospirato il mondo intero, ha scritto un libro (Apologia de Fuga sua) per dimostrare che la fuga in tempo di persecuzione, vale a dire nelle circostanze previste dal testo evangelico di questo giorno, è un atto di grande perfezione, non solamente perché è un precetto del Cristo, ma perché, in luogo di mettere fine alle sofferenze inerenti all’apostolato con una morte rapida, essa, al contrario, le prolunga, riservando il missionario a delle prove nuove e più dure.
Era certo a proposito che la messa in onore del glorioso autore delle Catechesi Mistagogiche di Gerusalemme s’ispirasse almeno ai preziosi scritti in cui Cirillo, con una chiarezza ed una concisione ammirabili, espone la dottrina della Chiesa relativamente ai sacramenti ed all’Eucaristia in particolare. Il concetto della colletta di azione di grazie, in cui si domanda che la santa Comunione, ci faccia partecipare alla società della natura divina, è tratta dagli scritti di Cirillo, il quale, a sua volta, si ispira alla II Lettera di san Pietro (1, 4).
Non c’è nulla di più nobile né di più misterioso della grazia che comunica certo all’anima, in un modo creato e proporzionato alla sua capacità, ma tuttavia sempre vera e reale, la vita divina. Creata e divina, diciamo; due termini che sembrano escludersi; e tuttavia l’elevazione dell’anima all’ordine soprannaturale esige precisamente il sostegno di quella vita superiore. La grazia, difatti, prepara l’anima alla gloria, tanto che non c’è da stupirsi se i teologi sembrano imbarazzarsi quando devono spiegare la sua natura intima, poiché, per comprenderla, ne bisognerebbe conoscere anche l’ultimo termine, che è la visione beatifica dell’essenza divina.


Ansano o Sano di Pietro, Morte di S. Girolamo ed apparizione di S. Girolamo a S. Cirillo di Gerusalemme, 1444, Musée du Louvre, Parigi

Jan Luyken, Il segno della Croce sopra Gerusalemme al tempo di Cirillo, 1649-1712, Musée du Louvre, Parigi

Francesco Solimena, S. Cirillo di Gerusalemme, XVII sec., museo diocesano, Napoli

Francesco Bartolozzi, S. Cirillo di Gerusalemme, XVIII-XIX sec.

San Giuseppe nella liturgia

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Nella festa di S. Giuseppe, che, secondo gli apocrifi, sarebbe morto alla veneranda età di 111 anni in una data equivalente – secondo il nostro calendario – al 2 agosto (Biagio Gamba, Le età di San Giuseppe, blog Biagiogamba, 14.3.2016), rilancio questo studio su S. Giuseppe nella liturgia.



FESTE E RICONOSCIMENTI LITURGICI

In Oriente


Francesco Polazzo, Morte di S. Giuseppe,
1738, Collegiata dei Santi Nazaro e Celso, Brescia
Dobbiamo ancora incominciare dall’Oriente. Il tenore liturgico dell’apocrifa Storia di Giuseppe il Falegname e la sua diffusione, dimostrata dalle varie traduzioni, ci inducono ad ammettere un culto molto antico, che risale alla Chiesa giudeo-cristiana, dalla quale si è diffuso nelle zone di influenza di detta “Storia”, con la istituzione di una festa presso i Copti monofisiti egiziani, che di fatto commemorano la morte (Transito) del Santo precisamente al 26 Abîb (= 20 luglio, equivalente oggi, nel calendario gregoriano iniziato nel 1582, al 2 agosto). La “Storia” contiene tratti che indicano la sincera stima dei suoi propagatori verso il Santo.
Nel Sinassario Mediceo della Chiesa copta di Alessandria, scritto verso il 1425, al giorno 26 del mese di Abîb si legge: “Requies (= morte) sancti senis iusti Josephi fabri lignarii, Deiparae Virginis Mariae sponsi, qui pater Christi vocari promeruit”. I calendari che menzionano la festa di san Giuseppe in Oriente sono del secolo X, compilati nel monastero palestinese di San Saba. Di tale epoca è appunto il Menologio di Basilio II, considerato come il primo testimonio certo del culto di san Giuseppe in Oriente. Esso fissa la commemorazione di san Giuseppe nello stesso giorno di Natale (i re Magi e San Giuseppe, sposo e protettore della Santa Vergine) e il ricordo della fuga in Egitto il giorno seguente. Altri Sinassari collocano al 26 dicembre una festa di Maria e di Giuseppe suo sposo; essi celebrano, inoltre, nella domenica precedente il Natale, la festa degli antenati di Gesù, “da Abramo a Giuseppe, sposo della Beatissima Madre di Dio” e nella domenica posta nell’ottava di Natale la festa di san Giuseppe assieme al re Davide e a Giacomo il Minore.
Benedetto Luti, Morte di S. Giuseppe,
XVIII sec., Parrocchia dei SS. Stefano e Giacomo,
Potenza Picena
Nella poesia religiosa bizantina è illustre il siciliano san Giuseppe l’Innografo († 883), il cui nome è legato al Canone delle lodi di quest’ultima festa (PG 105, 1273-4).
I libri liturgici dei Siri alludono a san Giuseppe a partire dal secolo XIII (Add. mss. 14698, conservato al British Museum).
Come appare dall’insieme, non si tratta sempre di feste esclusive di san Giuseppe; esse, tuttavia, si collocano tutte nella prossimità del Natale con l’intento di includerlo nel mistero al quale egli intimamente appartiene.
Anche gli Ucraini cattolici, volendo introdurre una nuova festa di san Giuseppe in ossequio all’enciclica Quamquam pluries, scelsero il giorno dopo Natale, onorando così san Giuseppe in “Sinassi” con la S.ma Theotócos. Più recentemente, in occasione della riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II, la gerarchia Caldea ha voluto parimenti considerare la domenica precedente il Natale come la domenica di san Giuseppe.

In Occidente

Sebastián Martínez, S. Giuseppe con Gesù Bambino,
1650, museo del Prado, Madrid
I documenti occidentali sono anteriori di almeno un secolo a quelli orientali. Il culto di san Giuseppe è attestato per la prima volta nel manoscritto Rh 30, 3 (sec. VIII), conservato nella Biblioteca cantonale di Zurigo: “XIII kal. Aprilis Joseph sponsus Mariae”. La commemorazione di san Giuseppe al 20 marzo, che incontriamo nel Calendario-martirologio di questo codice, è la più antica menzione esplicita del Santo vicina al 19 marzo; esso proviene (1862) dalla abbazia benedettina di Rheinau, antica cittadina del Canton Zurigo, ma se ne ignora il luogo primitivo di origine, da ricercarsi nella Francia settentrionale o nel Belgio, e il posto esatto nella tradizione martirologica.
Nei martirologi e calendari che vanno dal secolo IX (Fulda [Vat. Lat. 3809], Oengus, Reichenau) in poi (sec. X ovvero IX: (Irlanda) Tallaght, Reichenau, San Gallo, Fulda, Ratisbona – oggi a Verona, Biblioteca Capitolare, cod. 87 -, Messale di Robert de Jumièges; sec. XI: Winchester, Sherborne, Evesham, Wescester, Stavelot; sec. XII: Werden, Abbadia di Sta Maria e San Werburgh, martirologio metrico di O. Gorman, ecc.), la menzione di san Giuseppe compare al 19 marzo: “In Bethleem, sancti Ioseph” con la seguente apposizione: “nutritoris Domini”; permane, tuttavia, una certa confusione di date tra il 19 e il 20 marzo (per esempio, nei martirologi di San Remigio di Reims e di San Massimino di Treviri, dove si legge: Antiochia S. Ioseph Sponsi S. Mariae). Le spiegazioni che vengono date circa la scelta e lo scambio delle due date si fondano sopra supposizioni di omonimia relativa a due martiri, Giuseppe di Antiochia e Joserus, che sarebbero commemorati in tali giorni da antiche recensioni del “Martirologio Ieronimiano”.
Aggiungiamo, a titolo di informazione, che c’è chi collega la data del 1° marzo con l’antica festa di Minerva, dea degli operai e degli artigiani, e con quella di Giove e Giunone, divinità protettrici dello Stato, ugualmente al 1° marzo. G. Lefebvre riferisce che nella liturgia gallicana la festa di san Giuseppe si celebrava il 3 gennaio (Liturgia, a cura di R. Aigrain, Paris 1947, p. 637); l’Ordine di Cluny la celebrava il giovedì della terza settimana di Avvento (Breviarum Cluniacense, 1686 e 1779). A questo punto, poiché la missione eccezionale di san Giuseppe si trova meglio inquadrata nel periodo natalizio, come nelle liturgie più antiche, piuttosto che nella Quaresima, dove incontra ostacoli e subisce spostamenti, si affaccia la domanda circa l’opportunità o no di conservare ancora la data attuale, probabilmente solo casuale.
La prima menzione del nome di san Giuseppe si trova in un Messale del sec. XII (Biblioteca Vaticana, n. 4770); è collocato in uno schema di Litanie, da cantare durante la funzione del Sabato Santo, tra il nome di Simeone e quello dei SS. Innocenti.
Il primo Ufficio canonico completo, con note musicali, in onore di san Giuseppe, è del secolo XIII e proviene ancora da una abbazia benedettina, San Lorenzo, di Liegi; si ricorre, per la prima volta, al suo “patrocinium”. Nel monastero austriaco di San Floriano un messale della fine del secolo XIV elenca una messa votiva al padre nutrizio del Signore.
Nel secolo XIII il culto privato del Santo è attestato dal mistico Hermann di Steinfeld (+1241), monaco premonstratense, che ricevette il nome di Giuseppe in una visione della Madonna; è stato attestato, inoltre, da Margherita da Cortona († 1297) e da santa Gertrude († 1302).
Alla presenza dei Francescani, Domenicani e Carmelitani ad Agrigento è dovuta l’accettazione colà di un ufficio in onore di san Giuseppe, del secolo XIV, conservato nell’Archivio Capitolare del Duomo: “Officium Sanctissimi Joseph nutricii et patris adoptivi Domini nostri Jesu Christi”; esso dipende dalla Legenda aurea di Giacomo da Varazze († 1298). Si tratta, fino al presente per l’Italia, della più antica testimonianza liturgica sul culto di san Giuseppe. Questo ufficio contiene una chiara allusione alla santificazione di san Giuseppe, chiamato sanctorum sanctus; nell’antifona del Magnificat si legge: “O proles almifica / de Bethleem electa, / gemma nimis ardua / ab omni labe erepta”.
Il culto di san Giuseppe nell’Ordine Carmelitano era già introdotto nella seconda metà del secolo XV, come è comprovato da due breviari (Bruxelles 1480; Venezia 1490), che contengono un ufficio proprio di san Giuseppe. Appartiene al loro Ordine un ufficio del 1434 circa.
All’inizio del 1400 il nome di san Giuseppe viene elencato tra i santi del 19 marzo al primo posto.

La festa di San Giuseppe

L’abbazia benedettina di Winchester rivendica l’onore di essere stata la prima a celebrare la festa di san Giuseppe verso il 1030.
I Servi di Maria, come risulta dagli Atti del Capitolo tenuto a Orvieto nel 1324, furono i primi a celebrare solennemente la festa di san Giuseppe.
I francescani adottarono la festa nel Capitolo generale di Assisi nel 1399, usando come testo liturgico della Messa il “Commune Confessorum”. Tuttavia, Franc. Florentinus testimonierebbe una festa di san Giuseppe in vigore nell’Ordine fin dal secolo XIII (Vetustius occidentalis Ecclesiae Martyrologium D. Hieronymo tributum, Lucca 1668).
Gregorio XI (1371-78), avendo eretto la cappella in onore di san Giuseppe nella chiesa di Sant’Agricola ad Avignone, vi avrebbe stabilito anche la festa del 19 marzo.
A Milano la festa di san Giuseppe fu stabilita nel 1467 e si celebrava il 20 marzo, giorno dell’ascesa al potere di Galeazzo Maria Sforza; dal 1509 fu fissata al 19 marzo; san Carlo Borromeo (card. e arciv. dal 1560 al 1584) la trasferì al 12 dicembre, giorno adottato anche dalla diocesi di Sens (Missale Senon., 1715); nel 1897 ritornò al 19 marzo.
Il francescano Sisto IV concesse nel 1480 ai Frati Minori di celebrare con rito doppio maggiore la festa del 19 marzo, già presente nel calendario dei messali (1472) e dei breviari (1476) romani da loro usati.
Diffusasi la festa nelle diocesi e negli Ordini religiosi, Pio V la inserì con rito doppio nella riforma del breviario (1568) e del messale (1570). La festa fu istituita dai Domenicani nel Capitolo generale del 1508; fu elevata a più alto grado e fissata al 19 marzo nel 1513.
L’8 maggio 1621 Gregorio XV rese obbligatoria per tutta la Chiesa la festa di san Giuseppe; tale decreto, tuttavia, non trovò esecuzione ovunque e Urbano VIII il 13 settembre 1642 rinnovò l’ordine con la bolla “Universa per orbem”.
Su richiesta di Luigi XIV, l’assemblea del clero di Francia, nel 1661, istituisce la festa di san Giuseppe come festa di precetto.
Clemente X (6 dicembre 1670) elevò la festa al rito doppio di seconda classe, introducendo nel breviario (1671) i tre inni in onore di san Giuseppe (Te, Ioseph, celebrent – Caelitum, Ioseph, decus – Iste, quem laeti); autore di questi inni sarebbe il cistercense fogliante card. Giovanni Bona († 1674); altri indicano Johannes von der Empfängnis (+1700). Clemente XI il 4 febbraio 1714 concesse a san Giuseppe per il 19 marzo messa e ufficio propri. Pio IX l’8 dicembre 1870 eleva la festa del 19 marzo a rito doppio di prima classe.
Pio X (24 luglio 1911) conferma, designando la festa col titolo: Commemoratio Sollemnis S Joseph, Sponsi B.M.V., Confessoris, ma il 28 ottobre 1913 essa ritorna al rito doppio di seconda classe.
Benedetto XV il 12 dicembre 1917 la eleva nuovamente al rito doppio di prima classe.
Il Codice di Diritto Canonico (1917) la include tra le feste di precetto per tutta la Chiesa (can. 1247; cf. CJC 1983, can. 1246).
In Italia la festa di san Giuseppe non è più di precetto dal 1977, quando cessò di essere considerata festiva agli effetti civili (Comunicato C.E.I., 8 marzo 1977).

La festa dello Sposalizio

Mateo Gilarte, Sposalizio della Vergine con S. Giuseppe,
1651, museo del Prado, Madrid
È a Giovanni Gersone (+1429) che si deve la promozione della festa dello Sposalizio di Maria SS. con S. Giuseppe, sotto l’influsso di Henri Chicot (†1413), suo collega di canonicato a Chartres, dove da un État des offices fondés (1779) si ricava che Philippe le Bègue († 1450ca.), consigliere del parlamento di Parigi, vi aveva fondato la festa De Desponsatione, mentre quella De coniugio era stata fondata da H. Chicot e da un certo Jean de Harleville. Già presente nel 1517 tra le Suore dell’Annunciazione (Annunziate) di Giovanna di Valois (figlia del re Luigi XI), la festa dello Sposalizio fu adottata nel 1537 dai Francescani in onore della Madonna, seguiti dai Servi di Maria e da altri Ordini religiosi, ad esempio, i Cistercensi nel 1567. La data prescelta è il 23 gennaio.
Innocenzo XI concesse di celebrarla nei domíni dell’Imperatore Leopoldo I (1684), in riconoscenza della liberazione di Vienna, e ne estese il privilegio anche alla Spagna, che ottenne il permesso di trasferirla al 26 novembre. Altri scelgono una data diversa: i Minori il 7 marzo; i Servi di Maria l’8 marzo; i Domenicani il 6 marzo; in Francia il 22 gennaio, il 23 dicembre, il 18 luglio… Benedetto XIII nel 1725 introdusse la festa nello Stato Pontificio.
A Verona, san Gaspare Bertoni dedica l’altare maggiore della chiesa delle Stimmate ai SS. Sposi Maria e Giuseppe e vi celebra con solennità, dal 1823, la festa dello Sposalizio, tradizione sempre conservata dagli Stimmatini.
Sotto Giovanni XXIII, con l’Istruzione della Congregazione dei Riti del 14 febbraio 1961, tale festa fu soppressa, eccetto per i luoghi che hanno speciale motivo di celebrarla. Oggi questo “speciale motivo” non ce l’avrebbero tutti?

Proposte pastorali

Poiché il matrimonio è fondamentale rispetto alla “famiglia”, perché è da esso che questa scaturisce, ecco alcune “proposte pastorali” concrete:
I – La prima proposta più ovvia è che questo tema incominci finalmente a interessare la “scuola”. Esso deve essere inserito nella teologia del matrimonio, in modo che i futuri “maestri in Israele” si rendano conto che non si tratta di un semplice episodio devozionale, utile solo per illustrare la … vita di di Maria. Poiché siamo davanti ad un mistero salvifico, poco conosciuto perché ignorato dai “programmi scolastici”, è necessario che ne diventi oggetto come loro naturale complemento. Di proposito abbiamo inserito nel Sito, al numero 15, il tema: IL MATRIMONIO DI MARIA E GIUSEPPE.
II – Data la grande importanza pastorale della Liturgia, non deve mancare nei formulari della “Messa degli sposi” almeno un accenno al matrimonio di Maria e Giuseppe. Perché non inserirlo, allora, per esempio, nel “Prefazio”, là dove è detto: “Nell’alleanza tra l’uomo e la donna, rinnovata nell’unione sponsale e santa di Maria e Giuseppe, ci hai dato l’immagine viva dell’amore di Cristo per la sua Chiesa…”? È teologicamente facile rendersi conto che l’immagine dell’amore di Cristo per la sua Chiesa è piuttosto “sbiadita” “nell’alleanza tra l’uomo e la donna”, mentre è, invece, indubbiamente “viva e splendente” nell’amore sponsale e santa di Maria e Giuseppe. Perché, allora non proclamare chiaramente questo mistero salvifico?
III – Riconosciuta l’essenzialità del “dono” nel matrimonio, sarebbe logico, oltre che opportuno, che esso venisse maggiormente evidenziato non solo nella catechesi dei fidanzati, ma anche nel rito stesso del matrimonio. La recente sostituzione di “Io prendo te” con “Io accolgo te” è certamente un passo avanti, ma non esce dal “possesso”. Poiché si tratta di esprimere un “consenso”, che riguarda il dono reciproco, segno o sacramento dell’amore, “Io mi dono a te” rimane la formula più esplicita, che racchiude il rispetto per la dignità dell’altro ed evidenzia che i contraenti possono “appartenersi” solo “donandosi”.
IV – Ugualmente utile alla pastorale familiare sarebbe l’introduzione nelle “Litanie lauretane” di un’invocazione che lodi Maria come “sposa”, onorando “insieme” san Giuseppe, che Dio stesso le ha dato come vero e purissimo sposo, ad esempio: “Dilecta (vel Laeta) iusti Ioseph Sponsa”. Non si dimentichi che agli occhi del mondo è stato san Giuseppe come “sposo” ad onorare la divina maternità di Maria. L’invocazione andrebbe inserita prima di “Mater Christi”, per il semplice motivo che il titolo di “Cristo” deriva a Gesù proprio in forza del matrimonio di Maria e Giuseppe. Anche nelle “Litanie dei Santi” l’invocazione di san Giuseppe dovrebbe seguire immediatamente quella di Maria SS. sia per non separare ciò che Dio ha congiunto sia per la particolare santità di san Giuseppe.

La festa del Patrocinio

Il Diario Romano di Gaspare Pontani segnala una festa di san Giuseppe il 13 maggio 1478, che allora corrispondeva alla quarta domenica dopo Pasqua, nella piazza di San Celso, al centro del rione Ponte Sant’Angelo.
Ad Avignone, dal 1500 la Confraternita degli agonizzanti celebrava, la terza domenica dopo Pasqua, la festa del Patrocinio si san Giuseppe, presto diffusa in tutta la città con solenne processione.
Pio IX il 10 settembre 1847 estese alla Chiesa intera l’ufficio proprio e la messa del Patrocinio di San Giuseppe, fissando la festa alla terza domenica dopo Pasqua con il rito doppio di seconda classe.
Tale festa era già stata ottenuta da molti Ordini: i Carmelitani nel 1680, gli Agostiniani nel 1700, i Mercedari Scalzi nel 1702, i Caracciolini nel 1723, i Domenicani, i Barnabiti e i Servi di Maria nel 1725, i Frati Minori Conventuali nel 1727, i Camilliani nel 1728, i Minimi nel 1729, gli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona nel 1730, tutto l’Ordine dei Frati Minori e i Teatini nel 1733, tutto il Terz’Ordine di San Francesco e tutto l’Ordine dei Canonici Regolari del SS. Salvatore Lateranense nel 1735, gli Scolopi nel 1736.
Tra le diocesi che ottennero la concessione ricordiamo, in ordine di tempo, quella di Messico (1703), di Puebla de los Angeles (1704), la prelatura nulliusdi Altamura (Bari, 1713), Palermo (1719), La Plata (Argentina), Lipari, Messina e Catania (1721), Siracusa (1723), Monreale e Malaga (1725), Cartagena (1726), Cadice, Pavia e Siviglia (1727), Badajoz, Santiago di Cuba, Bari, Orihuela e Brescia (1728), Michoacan e Mazara del Vallo (1729), Lima e Malta (1731), Avellino e Frigento (1732), Vittorio Veneto (1733), Piacenza, San Severino, Freising, Ratisbona, Ascoli Satriano, Colonia, Münster, Paderborn, Hildesheim, Telese e Salerno (1734), Napoli, Orvieto e Narni (1735), Asti (1741), Acqui (1785); il clero secolare e i religiosi di Roma l’ottennero nel 1809.
Se consideriamo i territori, l’Etruria l’ottenne nel 1723; le Puglie, il regno di Valenza, gli stati e i domíni del re di Spagna nel 1729; la repubblica di Venezia nel 1730; il ducato di Modena nel 1733; il regno di Polonia e province nel 1735; lo stato del principe dell’Umbria nel 1736; lo stato di Urbino nel 1743; il regno e domíni del Portogallo nel 1744; i domíni del Palatinato nel 1753; il principato di Colonia nel 1783.
Il 28 ottobre 1913 Pio X stabilì che la festa del Patrocinio, divenuta dal 24 luglio la ”Solennità di San Giuseppe, sposo della B.V. Maria, Confessore e Patrono della Chiesa universale”, con rito doppio di prima classe o ottava, fosse celebrata nel terzo mercoledì dopo Pasqua. Il 24 aprile 1956 un decreto della Congregazione dei Riti aboliva la solennità di San Giuseppe, sostituendola con quella di San Giuseppe artigiano, con rito doppio di prima classe. Il titolo di San Giuseppe come Patrono della Chiesa universale fu aggiunto alla sua “festa principale” del 19 marzo. Solo i Carmelitani Scalzi hanno ottenuto nel 1957 l’indulto di recitare, con rito doppio di prima classe, l’ufficio speciale da essi introdotto nella Chiesa latina del 1680.
Nel Calendario promulgato da Paolo VI (1969) la festa del 19 marzo ha la massima categoria liturgica: S. Ioseph Sponsi B.M.V., Sollemnitas (I Cl.); il 1° maggio, invece, viene ridotto a “memoria ad libitum. La festa del 1° maggio: Sancti Ioseph opificis, Sponsi B.M.V., confessoris, era stata istituita il 1° maggio 1955 da Pio XII, il quale l’11 marzo 1958 compose anche una preghiera in onore di san Giuseppe lavoratore.

La festa della Santa Famiglia

Bartolomé González y Serrano, Riposo durante la fuga in Egitto,
1627, museo del Prado, Madrid
Il beato Francesco Laval, primo vescovo di Québec, il 4 novembre 1664 introduce la festa della Sacra Famiglia nella sua vasta diocesi, che allora si estendeva dal Canada al Golfo del Messico. I testi per l’Ufficio e la Messa, fatti da lui comporre, furono confermati, il 23 marzo 1865, da Pio IX, che aveva già approvato la festa, nel 1863, per l’Associazione di Lieja. Leone XIII, il 14 giugno 1893, stabilisce la festa dell Sacra Famiglia “pro aliquibus locis”; la celebrazione, con nuovi testi per l’Ufficio e la Messa, è assegnata alla terza domenica dopo Pasqua. Benedetto XV trasferisce la fesa al 19 febbraio e, in seguito, assecondando la petizione del superiore generale dei Figli della Sacra Famiglia, appoggiata da numerosi Vescovi, alla prima domenica dopo l’Epifania, iscrivendola nel calendario universale della Chiesa.
Giovanni Paolo II, nell’Esortazione apostolica “Redemptoris Custos” (1989) afferma chiaramente il fondamento teologico della festa della Santa Famiglia, la quale fa parte dei “Misteri della vita di Cristo”: “Inserita direttamente nel mistero dell’Incarnazione, la Famiglia di Nazaret costituisce essa stessa uno speciale mistero. È contenuta in ciò una conseguenza dell’unione ipostatica: umanità assunta nell’unità della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l’assunzione dell’umanità, in Cristo è anche ‘assunto’ tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra” (n. 21).

Altre feste

Secondo l’antico Messale Romano, in alcuni luoghi era celebrata il 17 febbraio la commemorazione della Fuga in Egitto; nello stesso Messale l’episodio della fuga in Egitto veniva assegnato alla vigilia dell’Epifania. Evidentemente il senso della fede vi scorgeva un mistero della vita di Cristo. I Copti ne fanno memoria in liturgia il 24 bashans, corrispondente al 19 maggio del calendario giuliano e al 1° giugno di quello gregoriano. Nel loro Sinassario dichiarano che ”questa è festa propria degli Egiziani”, segno della predilezione di Dio per la loro terra.
Nel Messico, il Servo di Dio P. José Maria Vilaseca aveva istituito la festa di San Giuseppe del Buon Consiglio (25 gennaio): i Misioneros Josefinos, da lui fondati, avevano ottenuto la festa di San Giuseppe della Missione (19 settembre), per invocare san Giuseppe come protettore dell’opera di evangelizzazione.

Prerogative di san Giuseppe

Queste continue oscillazioni liturgiche evidentemente non sono di aiuto alla teologia Giuseppina nella determinazione del fondamento della dignità e dei privilegi di san Giuseppe, indicato da alcuni nel matrimonio con Maria SS. e da altri nella paternità verso Gesù.
Le formule usate nei calendari e martirologi hanno sia Sposo della B.V.M., sia Padre Nutrizio di Gesù, sia solo Confessore.
Da uno studio di M. Garrido Bonaño risulta che fino al secolo XII incluso la denominazione di san Giuseppe “Sposo della Vergine Maria” è più accettata nel Nord- Est della Francia e in Inghilterra, mentre quella di “Padre nutrizio di Cristo” è preferita nel centro Europa; che la denominazione di “Confessore” comincia nel secolo XIV; che nel secolo XV i libri liturgici dei Carmelitani menzionano quasi sempre san Giuseppe col titolo di “Nutrizio del Signore”. Lo stesso Autore conclude che dalla enumerazione dei calendari e dei martirologi si può dedurre molto poco circa la preminenza di una delle prerogative di san Giuseppe. È certo che la qualità di Sposo di Maria appare per prima in un calendario occidentale ed è più ripetuta; è tuttavia antico anche il suo appellativo di “Nutrizio del Signore”, né sono pochi i manoscritti che lo riportano. È ancora certo che nella Chiesa occidentale ha prevalso la sua qualità di Sposo della Vergine Maria. Così è entrato nel Martirologio Romano e così ha continuato fino ai nostri giorni.
Se consideriamo la presenza di san Giuseppe nel Messale Romano, promulgato da Paolo VI, esso contiene tre Messe in onore di san Giuseppe, ossia la solennità del 19 marzo, la memoria del 1° maggio e la Messa votiva; a queste va aggiunta la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe (Domenica fra l’ottava di Natale).
Poiché anche la collocazione ha la sua importanza, perché rivela la considerazione nella quale il Santo è tenuto, notiamo che tanto la Messa votiva come anche il Prefazio proprio sono posti tra gli Angeli e gli Apostoli; anche nel Canone Romano il nome di san Giuseppe segue immediatamente quello della Vergine Maria (non così ancora nelle Litanie dei Santi).
Quanto alle preghiere, esse esaltano la dignità e la santità di san Giuseppe, riconoscendo in modo esplicito il ruolo da lui avuto nella storia della salvezza: nella pienezza dei tempi cooperò al grande mistero della redenzione; hai voluto affidare gli inizi della nostra redenzione alla custodia premurosa di san Giuseppe.
San Giuseppe è collocato coerentemente nel mistero di Cristo e della Chiesa:
 a) nei misteri di Cristo: servì Gesù con fedeltà e purezza di cuore; nel tuo disegno di salvezza hai scelto san Giuseppe come sposo di Maria, madre del tuo Figlio; lo hai posto a capo della tua famiglia per custodire come padre il tuo unico Figlio;
 b) nel mistero della Chiesa, della quale è considerato patrono: continui dal cielo la sua premurosa custodia per la santa Chiesa che lo venera come protettore, e alla quale viene proposto come modello di fedeltà e purezza di cuore, di fedeltà alle responsabilità che Dio ci affida, di testimonianza all’amore di Dio, per camminare nelle vie della santità e della giustizia e cooperare fedelmente al compimento dell’opera di salvezza. San Giuseppe, uomo giusto e fedele, è il tipo evangelico del servo saggio e fedele, che il Signore pone a capo della santa Famiglia.
Fra le Messe della Beata Vergine Maria (ed. 1987), nel Prefazio della Messa Santa Maria di Nazaret, Maria è celebrata “unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo sponsale e verginale”.

Altri interventi

Completiamo il quadro dei riconoscimenti liturgici con altri interventi che non potevano essere collegati con quelli già esposti.
Il 19 dicembre 1726 Benedetto XIII inserì il nome di san Giuseppe nella Litania dei Santi di tutti i libri liturgici, dopo quello di san Giovanni Battista.
Pio VII incluse il nome di san Giuseppe nella preghiera A cunctis, subito dopo quello della Vergine (1815).
Pio IX moltiplicò le prove della sua devozione verso san Giuseppe, accordando indulgenze a pie pratiche. Ricordiamo la preghiera “Vi ricordi, o purissimo sposo di M.V.” (1863), e le preghiere “O felicem virum” e “Virginum custos et pater”, da recitare prima e dopo la Santa Messa (1877).
Leone XIII approvò la recita dell’Ufficio votivo di san Giuseppe al mercoledì (1883); incluse l’invocazione di san Giuseppe nelle preghiere da recitarsi dopo la Messa (1884) e prescrisse una preghiera speciale a san Giuseppe (“A te, o beato Giuseppe”) da recitarsi durante il mese di ottobre dopo il santo Rosario: ”Pensiamo essere sommamente convenevole che il popolo cristiano si abitui a pregare con singolare devozione e animo fiducioso, ‘insieme alla Vergine Madre di Dio’, il suo castissimo sposo san Giuseppe; il che debba alla stessa Vergine tornare accetto e caro” (Enc. Quamquam pluries, 1889).
Pio X promulgò e indulgenziò le Litanie del Santo per l’uso pubblico (1909); tra i promotori si distinsero Dom Marie- Sébastien Wyart († 1904), abate generale dei Cistercensi Riformati, e il Card. Vives y Tutó; la formulazione è del Wyart.
Benedetto XV, il 9 aprile 1919, fece inserire nel Messale un prefazio proprio di san Giuseppe; suo autore è il passionista P. Luigi di S. Francesco di Paola (Luigi Besi). Lo stesso Pontefice, il 23 febbraio 1921, ne fece aggiungere l’invocazione nel “Dio sia benedetto”, a ricordo del 50° anniversario della sua proclamazione a patrono della Chiesa universale. Il 10 maggio 1921 concesse speciali indulgenze per la recita del Piccolo Ufficio di san Giuseppe.
Pio IX, il 9 agosto 1922, fece inserire nelle preghiere per i moribondi del Rituale Romano gli opportuni riferimenti a san Giuseppe.
Giovanni XXIII ordinò, il 13 novembre 1962, di inserire il nome di san Giuseppe nel Canone della Messa, al “Communicantes”; Giovanni Paolo II lo ricorda ben due volte nell’Esortazione apostolica Redemptoris custos (nn . 6 e 16), adducendone il motivo. Il 1° maggio 2o13, un decreto della Congregazione per il culto divino estende la menzione del nome di san Giuseppe anche alle preghiere eucaristiche II, III e IV del Messale Romano.
Tra le preghiere attualmente indulgenziate, l’Enchiridion Indulgentiarum (3ª ed., 1986) ne annovera alcune in onore di san Giuseppe, ossia: A te, o beato Giuseppe, Litanie di san Giuseppe, Piccolo Ufficio di san Giuseppe; e le tre invocazioni: Gesù, Giuseppe, Maria, vi dono il cuore e l’anima mia, ecc. Queste invocazioni erano già state indulgenziate da Pio VII il 22 maggio 1823.
Sugli Inni dedicati a san Giuseppe, cfr. T. STRAMARE, San Giuseppe negli Inni della Liturgia. Testo latino, traduzione e commento, in Omelie. Temi di predicazione, 98, Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2006.

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